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Jenny Erpenbeck. «Non c’è niente di meglio per una bambina che vivere alla fine del mondo»


Jenny Erpenbeck.
«Abbiamo imparato – senza imparare, semplicemente stando in questa città e vivendo questa vita – che le cose a portata di mano non erano tutto ciò che c’era. Che c’erano altri mondi che si affacciavano sulla terra su cui camminavamo e nel cielo dove le nuvole attraversavano indisturbate entrambi i lati della città, a est e a ovest. Quando ero bambina, uno spazio vuoto non mi sembrava la prova di una mancanza, era uno spazio che gli adulti avevano abbandonato o proibito, e quindi ora, almeno nella mia immaginazione, apparteneva interamente a me»[1].

Così scrive Jenny Erpenbeck, una delle voci più interessanti della letteratura tedesca contemporanea. Nata a Berlino Est nel 1967, figlia e nipote di intellettuali, di autori e registi teatrali[2], la scrittrice si è formata nel tempo della «guerra fredda» e in quella parte del territorio tedesco che fino al 3 ottobre del 1990 sulle cartine del mondo era chiamata «Repubblica Democratica Tedesca» (DDR) e apparteneva al blocco dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica.

Dopo aver completato la sua formazione superiore e universitaria nell’ambito del mondo teatrale secondo le tradizioni familiari, Jenny inizia a lavorare come produttrice e regista. A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, e poi in misura crescente, si dedica alla scrittura di testi in prosa e narrativa, divenendo via via più nota, sino a raggiungere fama internazionale, vincendo l’Independent Foreign Fiction Prize, nel 2015, con E non è subito sera; il Premio Strega Internazionale, nel 2017, con il romanzo Voci del verbo andare; e l’International Booker Prize, nel 2024, con Kairos, primo romanzo scritto in lingua tedesca a vincere questo prestigioso premio[3].

A partire dal primo romanzo, Storia della bambina che volle fermare il tempo, del 1999, la sua scrittura acquista sicurezza e varietà di toni, profondità di sguardo e capacità di cogliere le contraddizioni e le ferite della storia tedesca contemporanea, fino al più recente Kairos[4].

«Storia della bambina che volle fermare il tempo» e «Il libro delle parole»


Scrittrice impegnata e sensibile, Erpenbeck nei suoi romanzi affronta i grandi temi della storia e della politica contemporanee. Nel primo romanzo, Storia della bambina che volle fermare il tempo, racconta la storia di una ragazza quattordicenne che viene trovata di notte per strada senza memoria, con un secchio vuoto in mano. Portata in un orfanotrofio, inizia a frequentare la scuola, chiusa in sé stessa dal feroce intento di rendersi invisibile, occupando l’ultimo posto di ogni situazione[5] – quello a cui nessun altro ambirebbe –, e ci offre una situazione parabolica che si presta a molteplici letture: psicologica, politica e fantastica[6].

La svolta finale, che non riveliamo per non togliere il gusto della sorpresa al lettore, pone la questione della trasformazione, che costitui­sce un tema caro a Erpenbeck. Il discorso con cui la scrittrice accetterà nel 2017 il Premio Strega Internazionale sarà un fine commento del libro delle Metamorfosi di Ovidio[7]. In quell’occasione lei affermerà: «[Ovidio] ci mostra come tutte le cose, tutte le sostanze, tutte le creature, siano intrecciate le une con le altre»[8].

Con il secondo romanzo, Il libro delle parole, la scrittrice si cala nel contesto della dittatura militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1983. Erano gli anni in cui decine di migliaia di uomini e donne venivano arrestati, torturati e fatti scomparire dai militari, dando vita al tristissimo fenomeno dei desaparecidos. Lo sguardo è quello di una donna che dà voce a sé stessa bambina e, ricordando, recupera il senso delle parole più semplici della sua quotidianità di fanciulla – «mamma», «papà», «palla», «coltello», «corrente» – e della stortura manipolatrice che scopre di aver subìto nel tempo: «Ci sono molti modi per perdere quella che generalmente chiamiamo innocenza. Ma tutte queste scoperte hanno una cosa in comune: improvvisamente leggiamo il passato in modo diverso»[9].

A proposito del legame che unisce i primi due romanzi, Erpenbeck scrive: «Entrambi i libri hanno richiesto l’inclusione di queste due prospettive, quella dell’adulto e quella del bambino, e senza queste due prospettive non avrei mai scritto nessuno dei due libri. […] Ma la prospettiva del bambino può avere questo effetto solo quando viene considerata rispetto a tutto ciò che al bambino non è mai stato detto, cioè quando la prospettiva stessa può essere vista. In altre parole: quando la prospettiva del bambino è già stata persa»[10].

«Di passaggio» e «E non è subito sera»


Con i due romanzi successivi la scrittrice affronta i grandi rivolgimenti della storia che hanno coinvolto l’Europa, e in particolare il mondo austro-tedesco, nell’arco del XX secolo, usando blandamente memorie e personaggi della propria storia familiare, che ha nelle sue linee genealogiche anche un’ascendenza ebraica nei trisavoli paterni.

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Di passaggio ed E non è subito sera hanno una struttura in parte analoga. Con il primo romanzo[11], Erpenbeck racconta la storia di una casa di vacanza che si trova sulle rive di un lago di cui non viene mai detto il nome, ma che si intende relativamente vicino alla città di Berlino e che per molti anni fu il luogo di riposo della madre e della scrittrice bambina. Dall’acquisto del terreno e dalla costruzione della casa a opera di un architetto che regala l’immobile alla seconda moglie, vediamo svolgersi i decenni della storia tedesca: l’ascesa del partito nazionalsocialista, la guerra, l’arrivo delle truppe russe, la confisca nel nuovo assetto di proprietà collettiva con la nascita della Repubblica Democratica Tedesca e l’assegnazione a nuovi inquilini usufruttuari; infine, la nuova confisca degli anni Novanta per la restituzione della proprietà agli eredi dell’antica proprietaria, dopo la caduta del Muro di Berlino e la cancellazione del quarantennio comunista. Qui si inserisce, a un certo punto, anche la storia di una famiglia di vicini di casa, ebrei, con i quali Erpenbeck evoca l’ombra oscura dell’Olocausto.

Di passaggio è composto da 22 brevi capitoli. Si raccontano il punto di vista e la storia di 11 personaggi legati alla casa in 11 brevi episodi, quasi sospesi nel tempo, che hanno come protagonista il giardiniere. Nel variare dei proprietari e usufruttuari della casa, quest’uomo senza nome e noto solo per l’appellativo «giardiniere» rimane un punto fisso. Si prende cura del giardino, delle piante e dell’ambiente esterno alla casa. L’accento semplice e piano di queste sezioni rimanda a toni quasi biblici, nell’immagine dell’uomo che si prende cura del giardino, come presenza silenziosa e discreta. Ci piace cogliere in queste pagine l’eco dell’immagine di Dio al lavoro, come vediamo nella Contemplatio ad amorem degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio.

E non è subito sera[12], a nostro parere molto più maturo e complesso, costruisce l’affresco del tempo che passa in una struttura ancora più raffinata. In questo romanzoviene narrata una vita spezzata in cinque parti, che costituiscono nell’insieme un unico arco biografico, ma al tempo stesso rappresentano cinque vite distinte, essendo l’una trasformazione dell’altra. Protagonista è una donna – nella quale possiamo vedere i tratti della nonna paterna di Erpenbeck, la scrittrice Hedda Zinner – che alla fine di ogni capitolo muore. Così, alla fine del primo capitolo, Anna muore all’età di appena otto mesi per un malore notturno; alla fine del secondo, muore diciassettenne a Vienna per una pena d’amore; nel terzo, a Mosca, muore vittima delle purghe del partito comunista; nel quarto, nella Germania dell’Est, per un banale incidente domestico; infine, nel quinto, muore novantenne, amorevolmente accudita in una casa di riposo di Berlino, tre anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Nello spazio tra un capitolo e l’altro, un intermezzo dà voce al narratore onnisciente, che si chiede cosa sarebbe cambiato se piccoli dettagli della vita fossero mutati: una diversa strada imboccata a un bivio, un lieve ritardo, una piccola distrazione o, viceversa, un attimo di attenzione in più… E non è subito sera è un’opera di multiverso letterario.

Entrambi i romanzi sono sobri nel numero di pagine (poco più di 200 nelle traduzioni italiane). Non si tratta perciò di narrazioni fluviali. La maestria della scrittrice si rivela nella capacità di cogliere con pochi tratti le atmosfere delle epoche, adeguando anche lo stile della scrittura, che diventa mobile e plastica senza cadere nello sperimentalismo. Sono pagine che colgono dettagli di vita quotidiana e si intrecciano a sezioni di prosa lirica. La tecnica dei repentini cambi di punti di vista si compone con dialoghi senza pronomi, che solo il contesto permette di collocare. La prolessi e la ripetizione di interi periodi si affiancano all’accostamento vertiginoso dei piani temporali. Le intuizioni sapienziali emergono dalla pagina, nella quale gli spazi bianchi, gli a capo e le interruzioni contano forse anche più delle parti scritte.

Con il passare del tempo, di libro in libro[13], matura e muta il carattere della protagonista. Cambia ed evolve anche l’esistenza degli altri personaggi ricorrenti della famiglia. Erpenbeck persegue e ottiene una condensazione notevolissima del tempo. Qui sembra che valga il principio fisico imparato dal padre ed enunciato dalla scrittrice in riferimento alla scrittura narrativa: «La trasformazione di una quantità [di vita vissuta] in una nuova qualità»[14].

Anche E non è subito sera fa i conti con i drammi della storia tedesca: la scomparsa dell’Impero austro-ungarico e la migrazione nel Nuovo Mondo, la crisi economica degli anni Trenta, l’Olocausto degli ebrei, la Seconda guerra mondiale, le purghe con le quote di arresti programmati all’interno del partito comunista a Mosca alla fine degli anni Trenta, il tempo della DDR, la riunificazione delle due Germanie. Nel romanzo c’è un atteggiamento di profonda meditazione sul tempo, punteggiato di tanto in tanto dall’immagine biblica del filo d’erba e dalla citazione del versetto 2 del Salmo 84: «Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti». Tutto questo in modo discreto dà al romanzo un respiro più ampio, potremmo dire religioso, sebbene la scrittrice si dichiari non credente.

«Voci del verbo andare» e «Kairos»


Con il romanzo successivo, Voci del verbo andare, Erpenbeck apre nuove finestre sull’attualità del suo Paese. Prendendo spunto da una vicenda reale – la protesta di un gruppo di immigrati nella Oranienplatz di Berlino, nel 2012, animata dallo slogan We become visible[15] –, la scrittrice compone un romanzo dal tono quasi giornalistico, con una prosa dallo stile più tradizionale, per raccontare la storia di Richard, un professore di filologia romanza, in pensione e vedovo da quattro anni, che decide di intervistare alcuni immigrati che sono stati trasferiti dalla piazza in una casa di riposo dismessa.

Ascoltando le storie di questi uomini, molti dei quali sono giovani appena maggiorenni, Richard scopre vite segnate da grandi dolori e profonde ferite. Gli stranieri vengono «resi visibili», escono dall’anonimato, assumono un volto, un nome: Rashid[16], Ithemba, Rufu, Karon, Osarobo e altri ancora. Questo cambiamento di prospettiva porta Richard a un coinvolgimento crescente, che gli permette di andare oltre i luoghi comuni e le frasi fatte che l’opinione pubblica ripete nelle conversazioni da salotto o nei commenti online dei social.

I riferimenti alla cultura classica, di cui per una vita Richard si è imbevuto, si confrontano con le esistenze reali di questi uomini. I primi acquistano spessore e contemporanea autenticità, le altre si illuminano e diventano eroiche. Le chiacchierate con gli amici di un tempo, con cui si è condivisa la vita a Berlino Est, rievocano il ricordo di altri muri e confini, di aspirazioni di giustizia e libertà. Nel discorso tenuto nel 2018 presso l’University of Oklahoma, Erpenbeck, riferendosi a questo romanzo, ha affermato che le vite degli immigrati sono «punti ciechi», angoli morti fuori dalla nostra visuale. «Ascoltare è un’arte – è un rischio –, perché quei punti ciechi nascondono la nostra colpa e impotenza». Le vite segnate dalle avversità suscitano paura ed evocano uno spettro: che la «disgrazia» in quanto tale non sia stata eliminata dal nostro perfetto universo occidentale e che sia persino contagiosa.

Queste storie rivelano, in un modo diverso da quello dei romanzi precedenti, la precarietà della vita e il fondo di imponderabile casualità che ci divide da coloro che vivono ad altre latitudini[17]. Il libro costituisce una delle testimonianze più forti e al tempo stesso delicate sul tema dell’immigrazione[18]. Mette a fuoco, nel modo della narrazione, cortocircuiti legali e sottili meccanismi burocratici. Il Trattato europeo Dublino II, che vorrebbe proteggere e promuovere l’accoglienza degli immigrati, di fatto viene usato, anche politicamente, per escludere e respingere.

Del 2021 è il romanzo Kairos, di cui abbiamo già parlato in questa rivista[19]. Per una serie di banali coincidenze, un uomo cinquantenne e una giovane ragazza si incontrano, nel luglio del 1986, in un autobus a Berlino Est. È il loro kairos, «tempo opportuno». Kairos è il dio greco capriccioso, che segna la vita degli uomini con eventi determinanti. Ne nasce una relazione clandestina e tormentata. L’uomo è sposato, e la differenza di età di oltre trent’anni fra i due amanti segna il ritmo e i modi degli incontri.

Questi sono anche gli ultimi anni della DDR; il clima politico internazionale è mutato, e quando, il 9 novembre del 1989, cade il Muro che divide la città di Berlino, il cambiamento coglie tutti di sorpresa. La Repubblica Democratica Tedesca, che viveva una vita autonoma da quarant’anni, si sfalda nel giro di pochi mesi e cessa di esistere, implodendo su sé stessa.

Nella parte finale del libro, colpiscono le descrizioni della perdita di valore degli oggetti quotidiani[20], delle svendite nei negozi di Berlino Est, delle modalità di licenziamento anonime e brutali nelle grandi strutture economiche, industriali e amministrative[21], dell’annessione giuridica da parte della Germania dell’Ovest[22], fondendo due Paesi con un tratto di penna – la promessa di una nuova Costituzione viene smentita nei fatti, e quella della Germania occidentale automaticamente viene estesa a quella orientale – e il racconto della scoperta del mondo consumistico, che però presto rivelerà il suo aspetto vacuo[23].

Da molti critici Kairos è considerato uno dei romanzi più interessanti e capaci di cogliere e di raccontare questo fondamentale passaggio storico. Lo fa usando una storia d’amore che, dopo un primo periodo di esaltazione e pieno coinvolgimento, si ammala, diviene dolorosa, cupa, inquisitoria, e infine si sfalda sotto il peso delle proprie tortuosità e involuzioni. Come un Giano bifronte, il romanzo può essere letto nel senso che la relazione tra i due amanti è lo specchio della vicenda che avviene nella Grande Storia; oppure, inversamente, si possono leggere la caduta del Muro e la fine dello Stato come amplificazione della fine della storia d’amore.

Alcune piste di indagine


L’opera di Erpenbeck, come si può facilmente intuire dalle brevi presentazioni che abbiamo fatto dei suoi romanzi, è complessa, articolata, potente, offre molteplici spunti di riflessione e genera diverse tracce di indagine. Un semplice elenco può dare l’idea dello spettro e dei livelli di lettura: i temi del tempo, dell’identità e dei confini.

Sebbene non ne abbiamo ancora parlato in questo articolo, il ruolo della musica nell’opera di Erpenbeck è fondamentale. Per la scrittrice, la musica è «tempo ed aria». Ci sembra che essa fornisca una chiave di lettura dello stile di scrittura della sua prosa. Vi sono poi i temi del silenzio e di ciò che non appare, e i temi delle trasformazioni. Nell’arco di un articolo che necessariamente può cogliere solo alcuni aspetti tralasciandone molti altri, evidenziamo, con brevi cenni, le riflessioni della scrittrice che forniscono alcune chiavi interessanti per rileggere la caduta del Muro e la riunificazione tedesca.

La perdita del senso della precarietà


La caduta del Muro e la riunificazione tedesca è un tema che ha risvolti personali sottili e profondi e che nella produzione letteraria di Erpenbeck acquista spazio e consapevolezza crescenti e un’elaborazione più focalizzata. La scrittrice dà una rappresentazione del periodo della riunificazione sia in Di passaggio sia in E non è subito sera, quando dedica gli ultimi capitoli di queste due opere alla descrizione del tempo post-caduta, cogliendo il clima e gli effetti di quell’evento. In parte esso viene tematizzato anche in Voci del verbo andare, quando il protagonista Richard si confronta con il gruppo degli amici di sempre su quanto sia cambiata la loro esistenza dopo la caduta del Muro: essi, intellettuali di Berlino Est, nell’oggi di una Germania capitalista che ha vinto e profondamente cambiato i paradigmi valoriali nei quali erano cresciuti.

In Kairos,la caduta del Muro e la scomparsa della DDR vengono focalizzate in modo chiarissimo, perché costituiscono l’oggetto materiale della narrazione. Katharina, la protagonista del romanzo, reagisce così all’unificazione della città: «Le ci sono volute tre settimane per mettere piede in quella parte della città, che dalla sera alla mattina ha fatto la sua comparsa accanto ai quartieri a lei familiari. L’elemento estraneo nel corpo della propria città, lo stesso nome, la stessa lingua, simili persino le case, e tuttavia una città straniera. Un secondo cuore, il doppio battito del cuore, uno di troppo»[24].

Erpenbeck scrive: «Nella società in cui sono nata […] avevo imparato a sperare, a convivere con la provvisorietà delle cose, a conoscere meglio e ad aspettare»[25]. Dopo aver a lungo atteso la libertà, essa arriva, ma suscita domande inattese: la libertà di viaggiare («Ma potremo permettercelo?»), la libertà di opinione («E se a nessuno interessa la mia opinione?»), la libertà di comprare («Ma cosa succede quando abbiamo finito di fare shopping?»). La libertà attesa giunge, ma la scrittrice scopre che «la libertà non è stata data gratuitamente, ha avuto un prezzo, e il prezzo è stato tutta la mia vita fino a quel momento»[26].

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Erpenbeck testimonia il senso dello smarrimento provato quando scopre, nei racconti del «mondo occidentale», che la vita quotidiana vissuta da lei fino a quel momento non era più «vita quotidiana», ma un’avventura alla quale tutti i berlinesi erano sopravvissuti; che le abitudini banali di una vita all’improvviso venivano trasformate in attrazione turistica. Con dolente stupore constata che, «da quel momento, la mia infanzia apparteneva a un museo»[27].

Il segno più evidente del cambiamento è stata la profonda trasformazione urbanistica avvenuta nella parte orientale della città di Berlino. Essa ha comportato la distruzione di palazzi, scuole, magazzini, case e negozi. Erpenbeck parla di azzeramento di luoghi nei quali lei era cresciuta e mostra come tutto questo abbia fatto nascere il senso del lutto per ciò che era stato e ora non è più. La scrittrice reclama il diritto a essere triste e nostalgica[28].

La riflessione diventa più profonda quando Erpenbeck evoca la cancellazione del senso di precarietà come componente dell’esperienza umana. Il «nuovo» paradossalmente è un minus, perché comporta la cancellazione delle cose incomplete o rotte come tali. La rimozione di quelle parti della città che per le vicende della storia recente – la Seconda guerra mondiale e la costruzione del Muro – erano rimaste visibilmente «interrotte», non incorporate nell’intero è la perdita di umanità e di umiltà: «Nei luoghi dove l’erba semplicemente cresce, dove la spazzatura si accumula, l’ordine è messo in prospettiva. E considerando che ciascuno di noi è mortale, non è mai una cattiva cosa tenere questa prospettiva a mente»[29].

Per la scrittrice, questa dimensione è importante. La ritroviamo in pagine bellissime e struggenti di E non è subito sera, nelle quali viene citata l’immagine salmica della vita dell’uomo come un filo d’erba[30]. Il Muro è caduto, ma in qualche modo rimane ancora. Di un personaggio di E non è subito sera Erpenbeck scrive: «Nel frattempo il confine, che una volta lo separava dall’Ovest, da un pezzo è stato abbattuto, ma per lui non è scomparso, bensì – questa almeno la sua impressione – scivolato verso l’interno, e adesso separa ciò che lui era da ciò che dovrebbe o potrebbe essere»[31]. In Kairos si esprime così: «E anche l’imperfezione, che è cara a Katharina forse perché più di tutto si avvicina alla verità. In sua vece subentrerà quanto prima la perfezione, destinata a cancellare o a incorporare ciò che non è alla sua altezza: dai vestiti fatti in casa fino agli edifici ammalorati nel quartiere di Prenzlauer Berg, dal selciato pieno di buche fino alle parole che indicano cose di cui nessuno avrà più bisogno. Le superfici lisce e impeccabili renderanno obsoleti i pensieri relativi a tutto ciò che è transitorio»[32].

La quotidianità di un tempo diventa oggetto da museo


In vari discorsi della scrittrice emerge chiaramente la difficoltà complessiva di rielaborare la memoria di un tempo. Gli anni passati prima della caduta del Muro sono carichi di pregiudizi negativi: «In realtà, però, Berlino Est probabilmente non era poi così più grigia dell’Ovest, almeno questa è la mia impressione ora che conosco l’Ovest, le uniche cose che mancavano nell’Est erano i manifesti pubblicitari e le insegne al neon che decoravano i muri bucherellati o nascondevano i lotti bombardati»[33].

È un tempo entrato nei musei, una vita quotidiana trasformata in «sfida» e «avventura», è un mondo dipinto di grigio; in realtà, per chi l’ha vissuto, è solo un tempo di vita e nient’altro: «Vista dall’esterno, la nostra vita quotidiana sotto il socialismo poteva sembrare esotica, ma noi non eravamo una meraviglia o un orrore a noi stessi, eravamo il mondo quotidiano, e in quel mondo quotidiano noi eravamo tra di noi»[34].

Erpenbeck arriva a dire che la caduta del Muro ha trasformato gli abitanti dell’ex DDR in cittadini di serie B della nuova Germania[35]. Il simbolo della divisione per eccellenza, il Muro, per la scrittrice bambina non possedeva il significato drammatico che molti gli hanno attribuito. Nella sua memoria esso non rappresentava una ferita nella città, ma piuttosto un limite fisico che dava alla parte da lei abitata il clima tranquillo del paese di provincia. Per una bambina, lei scrive, «non c’è niente di meglio che crescere alla fine del mondo»[36]. Nella citazione con cui abbiamo aperto l’articolo, per Erpenbeck il Muro era segno tangibile che ciò che si vede non è tutto ciò che esiste, che l’irraggiungibile al di là del Muro era lo spazio posseduto dalla sua fantasia di bambina, non una mancanza. Lo spazio vuoto, il luogo delle domande, non delle risposte. Tutto questo ora non c’è più. Ci sono oggetti da consumare.

Il senso della perdita della semplicità imperfetta, della sottrazione subita ci sembra emerga nella narrazione in tutti quei punti in cui l’attenzione è rivolta agli oggetti. La fisicità degli oggetti di uso quotidiano è infatti un tema ricorrente, quasi un topos letterario di Erpenbeck. Lo si intuisce fin dal 2001, quando la scrittrice compone i racconti raccolti nell’antologia Tand,che in italiano si potrebbe tradurre Cianfrusaglie[37]. Di oggetti che costituiscono il filo rosso delle vite dei personaggi si ha una chiara evidenza in E non è subito sera. In Di passaggio sono addirittura tutta la casa e il mobilio a costituire il testimone che passa di generazione in generazione, di personaggio in personaggio, fino alla conclusione, quando la casa viene demolita, metafora di un mondo-che-fu, e non rimangono nemmeno le macerie. In Kairos, la narrazione prende spunto dall’incontro tra due scatoloni e due valigie che si affiancano, piene di lettere e diari, ma anche di ricordi del passato, che possono anche essere intesi come i detriti di un naufragio: «Un giorno, a inizio novembre, si siede sul pavimento e comincia a esaminare, foglio dopo foglio, cartellina dopo cartellina, il contenuto del primo scatolone e poi quello del secondo. Non è altro che un cumulo di macerie. I reperti più vecchi risalgono al 1986, i più recenti al 1992 […]. Anche lei ha una valigia piena di lettere, copie di lettere su carta carbone e souvenir vari […]. Molto tempo prima le carte, quelle nello scatolone di lui e quelle nella valigia di lei, avevano dialogato fra loro. Adesso dialogano con il tempo»[38].

L’esigenza di scrivere per trovare le parole


La caduta del Muro ha comportato anche lo svuotamento di senso delle parole[39]. Quando l’esperienza a cui le parole si riferiscono è diversa tra chi è vissuto nell’Est e chi nell’Ovest, pur parlando la stessa lingua tedesca, come si può pensare di riferirsi alla stessa realtà? «Le persone che pensano di parlare la stessa lingua che parlo io, cioè il tedesco, risponderanno a queste frasi, queste frasi saranno attaccate, messe in dubbio, discusse. Ma non si può discutere di esperienze e sensazioni. Esse hanno una morale propria, del tutto individuale, e si collocano al di là della conoscenza che acquisiamo in seguito. Sono semplicemente lì»[40]. Erpenbeck usa l’immagine dell’iceberg: la punta che emerge sopra il livello del mare è la parola; la parte sommersa, più grande, segreta, invisibile, è l’esperienza[41].

La scrittrice afferma che è stata proprio questa esperienza di scarto (come differenza e distanza) ad averla spinta a scrivere: «Se la lingua che sapete parlare non è sufficiente, questo è un ottimo motivo per iniziare a scrivere. Per quanto paradossale possa essere: l’impossibilità di esprimere a parole ciò che ci accade è ciò che ci spinge verso la scrittura»[42]. E aggiunge che ogni volta che non è stata capace di capire qualcosa, che non è stata capace di metterlo in parole, è allora che ha iniziato a scrivere, perché la letteratura è simile a un «afferrare» qualcosa che sta in un campo aperto, non totalmente sfuggente, non totalmente maneggiabile: «Quindi è uno stato intermedio tra la consapevolezza che qualcosa c’è e l’ignoranza di cosa sia questo qualcosa»[43].

Erpenbeck scrive anche: «Da allora esiste un confine tra le due metà della mia vita: un confine fatto di tempo, tra la prima metà della mia vita, che è stata trasformata in Storia dalla caduta del Muro e dal crollo dello Stato tedesco orientale, e la seconda metà, che è iniziata nello stesso momento. Senza questa esperienza di transizione, da un mondo a un altro, probabilmente non avrei mai iniziato a scrivere, questo mi è chiaro oggi. La mia scrittura è iniziata con riflessioni sui confini, riflessioni su come cambiamo nel corso della nostra vita, volontariamente o meno, riflessioni su cosa sia l’identità, e su quanto possiamo perdere senza perdere noi stessi»[44].

Conclusione


Erpenbeck è una scrittrice importante nell’attuale contesto letterario. Cresciuta e formatasi nella Germania dell’Est, ha vissuto in prima persona la profonda trasformazione avvenuta con la caduta del Muro di Berlino e della riunificazione delle due Germanie. La scoperta dell’incapacità di esprimere a parole il senso profondo di quel passaggio l’ha spinta a dedicarsi alla narrativa, rivelando nel tempo una capacità straordinaria di raccontare il tempo e il suo passaggio nella vita delle persone.

Dalla storia del XX secolo, attraverso figure letterarie ispirate alla propria famiglia, è giunta a raccontare la contemporaneità, con impegno civile e grande sensibilità letteraria, che l’ha resa capace di aprire delle finestre sul mistero della vita e, ci sembra, anche sul mistero di ciò che ci trascende, di Dio e della relazione che lega l’uomo e la donna di fede a Dio, pur essendo lei non credente. La sua opera ci sembra testimoniare come la letteratura sia capace – quando «condensa» l’umano in parole che nascono dall’ascolto rispettoso e delicato – di aperture sul mistero della vita, nella sua precarietà e bellezza.

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[1] J. Erpenbeck, Not a Novel. Collected Writings and Reflections, London, Granta Book, 2021, 33 s. Tutte le citazioni di questo libro riportate nell’articolo sono tradotte da noi.

[2] La madre era Doris Kilias, apprezzata traduttrice dall’arabo; ha tradotto in tedesco l’opera del Premio Nobel Nagib Mahfuz. Il padre è John Erpenbeck, fisico, filosofo e scrittore. I nonni paterni sono Fritz Erpenbeck (scrittore, pubblicista e attore) e Hedda Zinner (scrittrice, attrice, giornalista, regista), che ricevette premi importanti nella Repubblica Democratica Tedesca. La storia familiare costituisce un bacino di riferimenti, ricordi e spunti di racconto almeno in due romanzi importanti di Erpenbeck: Di passaggio, del 2008; E non è subito sera, del 2012.

[3] I Premi vinti dall’autrice sono molto più numerosi. Molteplici quelli che le sono stati assegnati per l’opera intera, come ad esempio il Premio Hans Fallada nel 2014 o il Premio Thomas Mann del 2016.

[4] Ad oggi i testi tradotti in italiano sono: Storia della bambina che volle fermare il tempo, del 1999 (Sellerio, 2020); Il libro delle parole, del 2004 (Sellerio, 2022); Di passaggio, del 2008 (Sellerio, 2019); E non è subito sera, del 2012 (Zandonai-Feltrinelli, 2013); Voci del verbo andare, del 2015 (Sellerio, 2018); Kairos, del 2021 (Sellerio, 2024). La traduttrice di tutte le opere di Erpenbeck in Italia è Ada Vigliani.

[5] Nello scritto How I write, del novembre del 2006, Erpenbeck rivela come il romanzo sia nato anche da una ricerca sul campo. Volendo guardare al mondo dei ragazzi con gli occhi dell’adulto, con l’aiuto e la collaborazione di un dirigente scolastico informato, la scrittrice, molti anni prima, trascorse tre settimane in un liceo, spacciandosi per diciassettenne, libera di osservare e partecipare alla vita scolastica. All’epoca lei aveva 27 anni, ma l’aspetto giovanile le permise di passare inosservata. Dopo tre settimane, avendo raccolto materiale sufficiente, smise di frequentare la scuola e le lezioni. Cfr J. Erpenbeck, Not a Novel…, cit., 62 s.

[6] Cfr ivi, 72 s.

[7] Troviamo un riferimento esplicito a Ovidio anche nel romanzo Voci del verbo andare, quando il protagonista Richard ricorda l’elaborato sul testo delle Metamorfosi scritto da una giovane studentessa. Cfr Id., Voci del verbo andare, Palermo, Sellerio, 2018, 17.

[8] Id., Not a Novel…, cit., 155.

[9] Ivi, 104.

[10] Ivi, 102.

[11] Il titolo originario in tedesco è Heimsuchung. Questa parola si compone di due termini: Heim e suchen, letteralmente «casa» e «cercare». Una rozza ma evocativa traduzione potrebbe essere: «Alla ricerca della casa», «Cercando una casa». Con Heimsuchung si indica in tedesco anche la visita di Maria a Elisabetta nel Vangelo di Luca.

[12] Tra gli altri riconoscimenti, questo romanzo ha ricevuto nel 2013 anche il Premio Evangelische Buchpreis, assegnato dall’Associazione tedesca delle biblioteche protestanti. Una nuova edizione del libro, per i tipi di Sellerio, è prevista nei prossimi mesi.

[13] E non è subito sera è diviso in libri, non in capitoli.

[14] Id., Not a Novel…, cit., 74.

[15] Cfr Id., Voci del verbo andare, cit., 31.

[16] Anche in questo romanzo la scrittrice prende spunto dal personale coinvolgimento nella vicenda reale. Il personaggio di Rashid è ispirato dalla figura dell’immigrato nigeriano Bashir Zakaryau, personalità di riferimento nella protesta di Oranienplatz, morto nell’ottobre del 2016, dopo tante battaglie civili, per un attacco di cuore. La scrittrice pronunciò il discorso di commiato ai suoi funerali. Cfr Id., Not a Novel…, cit., 169-172.

[17] Cfr ivi, 179.

[18] Tra i molti scrittori italiani che hanno dato voce a storie di immigrazione, possiamo ricordare Giuseppe Catozzella, autore di Non dirmi che hai paura, del 2014, con cui vinse quell’anno il Premio Strega Giovani, e Melania Mazzucco, autrice di Io sono con te. Storia di Brigitte, del 2016.

[19] Cfr D. Mattei, «Kairos», in Civ. Catt. 2025 I 356-358.

[20] Cfr J. Erpenbeck, Kairos, cit., 364.

[21] Cfr ivi, 370-374.

[22] Cfr ivi, 352-356; 360 s.

[23] Cfr ivi, 362 s.

[24] Ivi, 345.

[25] Id., Not a Novel…, cit., 22.

[26] Ivi.

[27] Ivi.

[28] Trasposizione narrativa di questo processo di demolizione è l’epilogo del romanzo Di passaggio. Cfr Id., Di passaggio, Palermo, Sellerio, 2019, 212-214.

[29] Id., Not a Novel…, cit., 27.

[30] Cfr Id., E non è subito sera, Milano, Zandonai Feltrinelli, 2013, 153; 170; 181.

[31] Ivi, 248.

[32] Id., Kairos, cit., 350.

[33] Id., Not a Novel…, cit., 36.

[34] Ivi, 36.

[35] Cfr ivi, 181.

[36] Ivi, 3.

[37] Questo testo è ad oggi l’unica opera di prosa non ancora tradotta in italiano.

[38] Id., Kairos, cit., 11.

[39] Nel romanzo Il libro delle parole vi sono diverse pagine dedicate al valore nominale delle parole. Esse indicano oggetti, ma non sono gli oggetti. Erpenbeck dà a questo proposito una bella rilettura della creazione da parte di Dio, quando dice che le cose sono «cresciute» dentro le parole pronunciate da Dio.

[40] Id., Not a Novel…, cit., 78.

[41] Cfr ivi.

[42] Ivi, 79.

[43] Ivi, 80.

[44] Ivi, 174.

The post Jenny Erpenbeck. «Non c’è niente di meglio per una bambina che vivere alla fine del mondo» first appeared on La Civiltà Cattolica.