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Al cospetto di Eos, gigantesca nube molecolare



Se si manifestasse nel cielo buio in tutta la sua magnificenza, Eos, nube molecolare scoperta da un gruppo di ricercatori guidati da Blakesley Burkhart e Thavisha Dharmawardena, sovrasterebbe buona parte dello skyline di New York, come ci racconta questa immagine. Che vuol rendere l’idea della vastità di questa struttura che sovrasta le nostre inconsapevoli teste.


Rappresentazione artistica della nube molecolare Eos sui cieli di New York. La nube è invisibile ai nostri occhi perché emette luce nel lontano ultravioletto. Crediti: NatureLifePhoto/Flickr (New York City Skyline), Burkhart et al. 2025

Inconsapevoli perché, differentemente da quella delle stelle che punteggiano le notti terrestri, la luce prodotta da Eos è invisibile ai nostri occhi. E in verità anche a quelli di molti strumenti. Tant’è che solo ora gli scienziati ne scoprono l’esistenza, benché si tratti a tutti gli effetti di una nostra dirimpettaia cosmica. Solo trecento anni luce separano infatti Eos dalla Terra. Eppure egregia è stata nascondersi, fino a che i ricercatori non l’hanno guardata con gli occhi giusti. Occhi sensibili all’ultravioletto lontano, come quelli dello spettrografo Fims-Spear, a bordo del satellite coreano Stsat-1. Che hanno visto, per la prima volta, l’emissione delle molecole di idrogeno che compongono la nube.

La scoperta ha ricevuto anche l’attenzione del New York Times ed è stata pubblicata su Nature Astronomy alla fine di aprile. «Questa è la prima nube molecolare in assoluto scoperta osservando direttamente l’emissione nel lontano ultravioletto dell’idrogeno molecolare», dice Burkhart, professoressa associata presso la School of Arts and Sciences della Rutgers University nel New Jersey, Stati Uniti. «I dati hanno mostrato molecole di idrogeno luminose rilevate tramite fluorescenza nell’ultravioletto lontano. Questa nube sta letteralmente brillando nel buio». Non a caso i suoi scopritori le hanno attribuito il nome della dea greca dell’aurora. Eos apre nuovi, inaspettati scenari nello studio delle nubi molecolari.

È un fatto inedito, quello di stanare una nube molecolare in virtù della sua radiazione ultravioletta. Le nubi molecolari, dense strutture di gas freddo, costituiscono la materia prima per generare le stelle. Il loro ingrediente principale è l’idrogeno molecolare, seguito, in misura molto minore, da altre molecole come il monossido di carbonio (in formula chimica, CO). E proprio quest’ultimo, visibile da terra con relativa facilità utilizzando strumenti operanti nel radio e alle lunghezze d’onda millimetriche – uno fra tutti, l’interferometro Alma –, viene da anni utilizzato come tracciante di queste importanti regioni, culle di nuove stelle e sistemi planetari.


Esempio di una nube molecolare (in questo caso M16) vista dal telescopio Hubble. Crediti: Nasa, Esa, StScI, J. Hester e P. Scowen (Arizona State University)

Esistono delle “ricette” che gli scienziati utilizzano per convertire la luce emessa dal monossido di carbonio nella massa di idrogeno molecolare della nube, che come si diceva è il costituente che fa da padrone in queste regioni. Si ricorre a questi metodi un po’ tortuosi per stabilire quanto idrogeno molecolare è presente in quanto osservare direttamente questa componente del mezzo interstellare è opera decisamente ardua. Per questo lo studio di Burkhart e collaboratori fa notizia, perché anziché “fare il giro” del monossido di carbonio, gli scienziati sono andati a guardare dritta in viso l’emissione delle molecole di idrogeno. Aprendo nuove strade per lo studio delle nubi molecolari.

«L’uso della tecnica di emissione di fluorescenza nell’ultravioletto lontano potrebbe riscrivere la nostra comprensione del mezzo interstellare, svelando nubi nascoste nella [nostra] galassia e persino fino ai limiti più lontani rilevabili all’alba cosmica», spiega Dharmawardena, fellow del programma Nasa Hubble presso la New York University, co-prima autrice dello studio.

Anche volendo, il monossido di carbonio in questa nube proprio non si vede. CO-dark, vengono dette le nubi che contengono poco monossido di carbonio e che eludono dunque le tecniche convenzionali per rivelarle. Questo spiega perché Eos sia stata scoperta solo adesso, nonostante la sua prossimità al Sistema solare. Si tratta infatti di una delle strutture più vicine al nostro sistema planetario ed è situata al bordo della Bolla Locale, una cavità del mezzo interstellare che ci accoglie al suo interno. Gli astronomi hanno stimato per Eos una massa pari a 3400 volte quella del Sole, e un’estensione della nube sul piano del cielo larga quanto quaranta lune piene.


Rappresentazione artistica della Bolla Locale, una cavità svuotata di gas all’interno della quale giace il Sistema solare. Crediti: Leah Hustak (StScI)/Cfa

Il gruppo di ricercatori spera di rivelare nuove nubi molecolari come Eos, che sfuggono alle tecniche canoniche. E di svelarne a distanze decisamente più remote, che tracciano epoche prossime al Big Bang. Studiare il gas molecolare è fondamentale per comprendere i processi che portano alla formazione delle stelle e dei sistemi planetari nel corso della vita dell’universo. Utilizzando il James Webb Space Telescope (Jwst), Burkhart assieme ad altri scienziati potrebbe aver rivelato l’emissione di idrogeno molecolare più lontana mai osservata. «Utilizzando Jwst, potremmo aver trovato le molecole di idrogeno più lontane dal Sole. Quindi, abbiamo trovato sia alcune delle molecole più vicine sia alcune di quelle più lontane, utilizzando l’emissione nel lontano ultravioletto», conclude la scienziata.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A nearby dark molecular cloud in the Local Bubble revealed via H2 fluorescence” di Blakesley Burkhart, Thavisha E. Dharmawardena, Shmuel Bialy, Thomas J. Haworth, Fernando Cruz Aguirre, Young-Soo Jo, B-G Andersson, Haeun Chung, Jerry Edelstein, Isabelle Grenier, Erika T. Hamden, Wonyong Han, Keri Hoadley, Min-Young Lee, Kyoung-Wook Min, Thomas Müller, Kate Pattle, J. E. G. Peek, Geoff Pleiss, David Schiminovich, Kwang-Il Seon, Andrew Gordon Wilson e Catherine Zucker