L'arte silenziosa del progredire “Più facciamo progressi interiori, più diminuisce il numero di coloro con cui possiamo comunicare.” Così scriveva Emil Cioran, il filosofo che amava passeggiare sul filo sottile che divide la disperazione dalla lucidità. Un pensiero che sembra duro, quasi una condanna. Eppure, se lo osserviamo con attenzione, ha la limpidezza di una verità che si rivela solo a chi ha avuto la pazienza – o la sfortuna – di guardarsi dentro con una certa serietà. Che cos’è, infatti, il “progresso interiore”? Non è un avanzamento misurabile in diplomi spirituali, né un accumulo di medaglie esistenziali. È piuttosto un processo silenzioso, spesso invisibile agli occhi degli altri, che ci conduce verso una maggiore comprensione di noi stessi e del mondo. Ci rende più sensibili, più consapevoli, ma anche più esigenti. Non con gli altri, come molti credono, ma soprattutto con noi stessi. E qui accade la frattura: più capiamo, meno parliamo. Più ci affiniamo interiormente, più ci accorgiamo che molte conversazioni non hanno più presa. Non per arroganza, ma per stanchezza. Ci si rende conto che certe chiacchiere sono come sabbia che scivola dalle dita: rumore, polvere, corridoi infiniti che non portano da nessuna parte. Allora si tace, o si sorride. Un sorriso non di superiorità, ma di compassione discreta. L’esperienza interiore ci toglie la voglia di “convincere”. Quando si è più giovani, ci si accende in interminabili discussioni: religione, politica, senso della vita. Poi, col tempo, si comprende che la comunicazione autentica non è mai una gara retorica, ma un incontro di vulnerabilità. E non tutti sono disposti ad aprire quella porta. Così, inevitabilmente, il cerchio dei dialoghi possibili si restringe. Non è però una perdita, bensì una metamorfosi. Si parla di meno, ma si ascolta di più. Si cercano interlocutori che non abbiano tutte le risposte, ma che siano disposti a sostenere i nostri silenzi. Ed è lì che il linguaggio cambia: non più fatto di argomenti, ma di sguardi, di pause, di piccole intese sottili. La comunicazione diventa meno numerosa, ma infinitamente più densa. Cioran, con la sua ironia corrosiva, sapeva bene che il prezzo della lucidità è la solitudine. Ma non è la solitudine amara di chi resta escluso: è quella scelta di chi, avanzando dentro di sé, non trova più interesse nel mercato delle parole vuote. È come se lo spirito affinato non riuscisse più a tollerare la banalità, non per superbia, ma per incompatibilità di frequenza. Eppure, non bisogna vedere in questa dinamica un destino tragico. Al contrario, il ridursi delle voci attorno a noi rende più chiaro il valore di quelle poche rimaste. È un po’ come con il buon vino: meno bottiglie, più qualità. Non serve un esercito di amici o un condominio di confidenze: bastano due, forse tre persone che sappiano capirci nel profondo. Gli altri? Li si incontra con leggerezza, si parla del tempo, di calcio, di ricette, e va bene così. Non tutto deve essere dramma cosmico. Il progresso interiore, quindi, non ci isola: ci seleziona. Ci libera da un sovraffollamento di parole per far spazio a una comunicazione più vera. È un’operazione di sottrazione, un po’ come togliere il superfluo da una stanza fino a far emergere l’essenziale. E chi resta, resta perché vibra sulla stessa nota. Gli altri, semplicemente, continuano la loro musica altrove. Certo, capita che la sera, dopo aver meditato, letto o semplicemente taciuto, ci venga voglia di ridere. Perché in fondo anche questa è una delle grandi ironie della vita: ci affanniamo a diventare più saggi e più profondi, e l’esito è che parliamo meno. Da fuori sembriamo quasi scorbutici, ma dentro c’è una festa silenziosa, una compagnia invisibile fatta di idee, intuizioni, esperienze. Non è isolamento, è un altro tipo di società: quella con noi stessi. Forse, il segreto sta proprio nell’accettare questa riduzione come una grazia. Se il numero delle persone con cui possiamo comunicare diminuisce, significa che stiamo imparando a parlare con ciò che conta davvero: la nostra anima, il nostro silenzio, e quelle poche voci autentiche che il cammino non ci ha tolto. E alla fine, anche Cioran, che tanto amava il pessimismo, ci lascia uno spunto di speranza nascosto tra le righe: meno parole, più verità. Meno rumore, più musica. Meno folla, più intimità. Il progresso interiore, insomma, non ci rende muti: ci rende selettivi. E questo, se lo guardiamo bene, è già un dono.
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