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Una lettrice mi ha segnalato l’impennata della frequenza di “hate speech” nei mezzi di comunicazione dell’ultimo mese “in seguito soprattutto alle vicende che hanno coinvolto la senatrice Segre”. Ciò che l’espressione designa è tristemente antico. E anche questo virgolettarla dalla cultura statunitense non è nuovo, circola da una decina di anni, benché inizialmente si dicesse soprattutto in italiano, incitamento all’odio. La novità è che più passa il tempo più la nostra lingua scivola in secondo piano e retrocede, diventa la spiegazione da affiancare all’espressione inglese gridata nei titoli che inevitabilmente poi diventerà quella più in uso, tecnica, corretta e “insostituibile”.

Le radici dell’odio


In un articolo della Repubblica del 29 maggio 2013 (“Facebook, stop violenza alle donne: utenti e investitori contro il sessismo”), si poteva leggere che a Palo Alto avevano ammesso “di aver sottovalutato l’insidia del cosiddetto ‘hate speech’, ovvero ‘odio mediatico’, che nell’avversione alle donne trova uno degli esempi più diffusi e deprecabili.”

Tutto inizia ogni volta così, con qualche occasionalismo virgolettato affiancato da una spiegazione. Le schermaglie che precedono questa prima fase, di solito, sono espressioni del tipo: “Nella giurisprudenza statunitense esiste un’espressione per indicare l’incitamento all’odio…”; oppure: “Hate speech, come dicono con una bella locuzione gli americani…”.
Con il tempo l’anglicismo comincia a essere utilizzato sempre più in primo piano, la traduzione letterale o possibile viene solo affiancata, e non è mai evocativa o precisa come il dio inglese.
La terza fase è quella di far sparire ogni corrispondente. L’italiano che serviva da bastone si getta. C’è solo l’inglese, possibilmente da sbattere nei titoloni (cliccare per credere). La traduzione, se va bene, si trova all’interno dell’articolo, giusto per spiegare di che cosa si sta parlando ai subalterni che non capiscono, al rango inferiore della società reo di non padroneggiare l’idioma alto della cultura globale. E così nel 2018 l’espressione è stata annoverata tra i neologismi della Treccani, che riporta numerose citazioni dai giornali. Il prossimo passo saranno i dizionari e il radicamento nella nostra lingua?

Già mi prefiguro gli anglopuristi e i giornalisti che tra qualche tempo argomenteranno: hate speech non è proprio come le parole o i discorsi di odio… è qualcosa di più, qualcosa di intraducibile… E poi gli equivalenti italiani non sono in uso…
Questo ragionamento è frutto di una prospettiva malata! Sempre più spesso gli anglomani decidono di usare l’inglese invece dell’italiano, nella fase iniziale, e procedono con un martellamento in cui lo diffondono senza alternative. Fino a quando possono concludere che l’italiano non è più in uso… bella scoperta! Siete voi che avete scelto di non usarlo e di farlo ammuffire! Un bel circolo vizioso per creare l’alibi della necessità dell’itanglese.

In questo modo entrano migliaia di parole inglesi che alla fine ci vendono come “insostituibili”. Selfie? Non è certo la stessa cosa di autoscattoKnow how? Non è proprio come competenze… si legge sul sito della Crusca. Stalker è più preciso di persecutoremobbing non corrisponde esattamente a vessazione
– “Ma mobbing in inglese non si usa molto nel significato lavorativo che gli diamo noi!”
– “Non fa nulla, in italiano si è acclimatato a questo modo. Rassegnati, ormai è un tecnicismo e si deve dire così. È la stampa, bellezza!”

Chi prende queste posizioni, chi afferma che gli anglicismi sono “intraducibili” e “necessari” dovrebbe dire come stanno le cose fino in fondo. Ciò vale solo per l’italietta degli anglomani fieri di essere coloni. Selfie non è “intraducibile” né in Francia né in Spagna, dove coniano nuove parole come “egoritratto” o ampliano il significato di quelle vecchie come “autoscatto”. Know how non si usa in francese, oppure è perfettamente tradotto in spagnolo, ed entrambi i Paesi non vedono la necessità e l’intraducibilità di stalker, perché usano la propria lingua, e invece di dire mobbing dicono meglio harcèlement moral o acoso laboral. Davanti all’espansione dell’inglese ci sono lingue che resistono ed evolvono autonomamente, e altre che soccombono.

E allora chi fa la lingua in Italia? Quali sono i nuovi centri di irradiazione dell’italiano?
Già negli anni Sessanta Pasolini (“Nuove questioni linguistiche”, Rinascita, 26 dicembre 1964) aveva capito che l’italiano basato sui testi letterari e sul toscano era finito e che il neoitaliano tecnologizzato arrivava dai centri industriali del Nord. Oggi Milano è la capitale dell’itanglese, e il lessico della tecno-scienza ci arriva direttamente dall’inglese globale, come la terminologia del lavoro. A fare la lingua spesso sono gli influenti della Rete, dunque siamo passati dal prestigio letterario di Manzoni a quello linguistico della coppia Ferragni-Fedez, un bel salto di modernità, non c’è che dire! E a fare la lingua sono soprattutto i mezzi di informazione, che un tempo hanno unificato l’italiano e oggi stanno unificando l’itanglese.

I giornali attingono il peggio da tutti questi settori e lo sbattono in prima pagina facendolo diventare il moderno italiano.

Le conseguenze dei picchi di stereotipia del giornalismo


L’ossessività con cui, nei giornali e nei telegiornali, le espressioni e le parole vengono spesso ripetute in modo martellante e senza mai ricorrere a sinonimi, come un tormentone mono-significato, è ben nota. Il concetto di “stereotipia” nei mezzi di informazione è stato ben evidenziato per esempio da Maurizio Dardano (Il linguaggio dei giornali italiani, Laterza, Bari-Roma 1986, p. 236). Ma si può citare anche Riccardo Gualdo:

La lingua dei giornali assorbe come una spugna gli usi nuovi, contribuisce potentemente a farli diventare di moda e, infine, anche a fissarli nell’uso ripetendoli in modo ossessivo” in una “riproduzione meccanica di associazione di (nome-aggettivo, intere frasi) o di traslati in origine brillanti ma a poco a poco resi stucchevoli per il troppo uso.
L’italiano dei giornali, Carocci Editore, Roma 2005, p. 85.


Il lessico della stereotipia coinvolge ormai soprattutto gli anglicismi e le espressioni mutuate dagli Stati Uniti. Come ha osservato nella sua tesi Gaia Castronovo:

L’assenza di sinonimi è dovuta molte volte “a lasciare a terzi il lavoro di traduzione per le notizie di politica estera direttamente dalle agenzie (es. ANSA). Spesso le bozze non subiscono una revisione dalla redazione, ma vengono pubblicate cosi come sono, a causa delle rapide tempistiche e, talvolta, mancanza di personale.”
Gaia Castronovo, “La semantica del linguaggio politico e il ruolo degli anglicismi”, tesi di laurea in Linguistica del Corso di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2015/2016, p. 48.


E così un’espressione come “fake news”, virgolettata direttamente dai discorsi di Trump, invece di essere tradotta con notizie false o bufale, si è radicata in un batter d’occhio nella nostra lingua al punto che oggi ci si chiede: “Ma come si potrebbe rendere in italiano?”
Ma come facevamo a parlare di queste cose sino a tre anni fa? Come facevamo a esprimerci nella nostra lingua prima che prendessero piede parole ormai “insostituibili” come location?

L’impatto che i picchi di anglicismi hanno sulla lingua si può misurare con molti esempi significativi.

Se si analizza la frequenza della parola compound negli archivi del Corriere della Sera, si vede che tra il 2003 e il 2010 era trascurabile, ricorreva in un numero limitato di articoli (una media di 5 all’anno), e talvolta non indicava un edificio, ma un tipo di arco che si usa nelle competizioni sportive, perché il termine ha due significati. Nel 2011, improvvisamente gli articoli salgono a 41. In quell’anno, infatti, c’è stata sia la guerra con la Libia in cui Gheddafi era barricato nel suo compound, sia l’uccisione di Bin Laden scovato in un compound in Pakistan. In entrambi gli episodi, la parola ha avuto una vasta eco mediatica quasi senza alternative, dovuta probabilmente al riportare la notizia con le stesse parole delle fonti americane. Poi, passato il momento dell’ossessività, nel quinquennio fino al 2016, negli stessi archivi si può notare che la parola ricorre con una media di poco più di 20 articoli all’anno. In sintesi, dopo il picco della stereotipia, causato da eventi contingenti, la frequenza della parola si abbassa, ma è ormai diventata popolare rispetto a prima, e viene perciò usata normalmente 4 volte di più.
Antonio Zoppetti, Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nell lessicodell’Italia e incolla, Hoepli 2017, p. 124-125.


Ma questo fenomeno non è causato solo dallo scimmiottamento di ciò che arriva d’oltreoceano, siamo bravissimi a farci male da soli anche sul piano interno. Riporto una tabella tratta dalla citata tesi di Gaia Castronovo che ha analizzando la frequenza della parola job sul quotidiano La Repubblica dal 1984 al 2014. I picchi di stereotipia saltano all’occhio.
tabella gaia castronuovo JOBGaia Castronovo, “La semantica del linguaggio politico e il ruolo degli anglicismi”, tesi di laurea in Linguistica del Corso di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Padova, anno accademico 2015/2016, p. 52.
La parola, più che essere usata da sola, è quasi sempre associata ad altre in varie espressioni, e negli anni Ottanta le occorrenze erano sotto la decina.

“La media annuale si assesta poi su un ordine di grandezza in più (10-50). Il grafico mostra inoltre dei picchi che corrispondono alle ripetizioni ossessive a cui si riferisce Gualdo nella citazione sopra riportata. Negli anni Duemila era il momento di job rotation e job creation, nel 2014, invece, di job act.”
Gaia Castronovo, “La semantica del linguaggio politico e il ruolo degli anglicismi”, op. cit. p. 52.


Quello che è successo dopo lo sappiamo. L’iniziale job act si è attestato definitivamente con la s di jobs act, e oggi la frequenza sui giornali delle tante combinazioni di job è aumentata a dismisura. Un bell’anglicismo “produttivo” come dicono alcuni linguisti, ma più onestamente si potrebbe dire: infestante. In attesa che il mondo del lavoro diventi del job, come quello della ristorazione è ormai del food, mentre l’economia diventa economy, il verde green, e le tasse tax, ci sono ancora dei linguisti negazionisti che ci raccontano che non sta accadendo nulla. C’è anche chi preferirebbe mettere l’italiano in un museo – invece di praticarlo, difenderlo, farlo vivere ed evolvere – e afferma che l’anglicizzazione è solo “un’illusione ottica”. Infatti sarebbe circoscritta solo in alcuni ambiti, come l’informatica, e poi “sono soprattutto i mezzi di comunicazione e i politici” a usare le parole inglesi… Affermazioni come queste sono imbarazzanti, come se questi che vengono considerati “marginali” non fossero proprio i nuovi centri di irradiazione della lingua. Non rendersi conto dell’impatto che i mezzi di informazione hanno sull’italiano, oltre a essere antistorico, è soprattutto anti-attuale. Il linguaggio dei giornali è quello che viene poi inevitabilmente ripetuto dalla gente, e finisce così nei dizionari. Per questo capita che un vecchietto, che non hai mai avuto a che fare con uno spacciatore in vita sua, racconti scandalizzato che hanno arrestato un pusher proprio dietro casa sua. Perché l’ha letto sul giornale.
pusher e spacciatore googleCercando “pusher” e “spacciatore” sulle Notizie indicizzate da Google risulta chiaro come l’anglicismo sia preferito.
È significativa a questo proposito una ricerca del 1999 in cui Katalin Doró ha scandagliato le annate di Corriere della Sera, Il Messaggero, La Repubblica e L’Espresso. Tra i 416 anglicismi presenti nei titoli e nei sottotitoli, 89 non erano presenti nello Zingarelli del 1995. Ma cosa è successo dopo? Che 23 di questi sono stati registrati nel 2000 (5 anni dopo), e altri 12 nel 2002.

Katalin Doró, “Elementi inglesi e angloamericani nella stampa italiana” in Nuova Corvina, Rivista di italianistica, num. 12, 2002, Istituto Italiano di Cultura Olasz Kultùrinézet, Budapest, pp. 78-91.


Ancor più significativo è uno studio di Antonio Taglialatela del 2012 sulle prime pagine di Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa per rintracciare gli anglicismi più usati, con lo scopo di dimostrare che “riescono a penetrare nel lessico per il loro uso ‘popolare’, dovuto in gran parte ai media e al linguaggio politico, trasformandosi in vere e proprie voci di dizionario”. Se nel 2012 solo 4 di essi non erano presenti nei vocabolari (bailout, downgrade, fiscal compact e stress test), controllando sull’edizione del Devoto-Oli 2017 si vede che adesso sono stati annoverati anche questi.

Antonio Taglialatela, “Le interferenze dell’inglese nella lingua italiana tra protezionismo e descrittivismo linguistico: il caso del lessico della crisi”, in Linguæ &, Rivista di lingue e culture moderne, Vol. 10, Num. 2, 2011., p. 78 e tabella 3 p. 88.


La conclusione è che il 100% degli anglicismi più utilizzati dalla stampa finisce inevitabilmente nei dizionari e nella lingua, è solo questione di tempo.

Sono i giornali che portano alla diffusione delle parole che poi i dizionari non possono che registrare, come si fa a non capirlo? Alla faccia di chi pensa che siano un fenomeno circoscritto e marginale o passeggero e caratterizzato da rapida obsolescenza.

In Diciamolo in italiano (p. 96-97) ho confrontato le parole inglesi annoverate nel Devoto Oli 1990 con quelle del 2017 (nessuno lo aveva mai fatto) e il risultato è che da circa 1.600 anglicismi siamo arrivati a 3.500, e quelli che invece sono usciti “falciati dalla scure del tempo” che qualcuno sbandiera, non si capisce su quali basi, sono 67! Ma di quale obsolescenza si sta parlando? I picchi di stereotipia giornalistici possono anche essere passeggeri e possono anche regredire. Ma quello che ogni “tsunami anglicus” (cito Tullio De Mauro) ci lascia dopo ogni ondata è la distruzione della nostra lingua.

Per questo è importante che davanti al monolinguismo anglicizzato dei mezzi di informazione (in generale, non solo nel caso di hate speech che si appoggia a sua volta a hater che grazie ai giornali ha la meglio su odiatore) si facciano circolare le nostre alternative che vanno difese da chi – il suo odio – lo riversa solo contro la lingua italiana. Purtroppo questo tipo di odio sembra non suscitare alcuno scandalo. I giornali, invece di deprecarlo, lo alimentano.

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Il 5 gennaio di due anni fa ci ha lasciato uno dei più importanti linguisti italiani.
Lo voglio ricordare ricostruendo le sue posizioni sugli anglicismi, anzi sugli anglismi.


Per Tullio De Mauro si dice anglismi e non anglicismi


Tullio tullio de mauroDe Mauro si è sempre battuto per chiamarli anglismi, perché è la derivazione corretta dalla radice anglo: l’inserimento di ci è una forma che sarebbe a sua volta un inglesismo (da anglicism).
Questa argomentazione non teneva conto del fatto che non c’è nulla di male a prendere dall’inglese, quando lo si adatta, e non teneva conto dell’affermazione storica della parola “anglicismo”, attestata sin dal Settecento persino da un purista come Giuseppe Baretti che con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue si scagliava contro le maleparole dalle pagine della sua rivista la Frusta letteraria. Comunque la pensiate, va detto che nonostante la maggiore frequenza storica di anglicismi, in seguito alle considerazioni di De Mauro, negli ultimi anni la variante anglismi si sta diffondendo sempre più soprattutto tra i linguisti, come variante “colta”.

De Mauro, il falsificatore del “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani


Tullio De Mauro è sempre stato un noto “negazionista”, per quasi tutta la vita non ha mai creduto che l’interferenza dell’inglese rappresentasse un problema per la lingua italiana, ed è celebre in proposito la sua polemica con il neopurista Arrigo Castellani. Quest’ultimo, in un articolo del 1987 che sarebbe passato alla storia, il “Morbus anglicus” (in Studi linguistici italiani, n. 13, Salerno Editrice, Roma, pp. 137-153), aveva denunciato l’invasione sempre più consistente delle parole inglesi che come un virus stavano intaccando la nostra lingua italiana. A suo vedere, bisognava in qualche modo intervenire per curare lo stato di salute dell’italiano, altrimenti il rischio sarebbe stato che i tessuti vitali ne venissero intaccati.
Tullio De Mauro si oppose a questo allarmismo, che confutò statistiche alla mano. La sua posizione si rivelò perciò vincente, tra i linguisti, e divenne quella del pensiero dominante che solo di recente si è incrinata e sta andando ormai in frantumi.
Tutto ebbe forse inizio nel 1980…

1980: il Vocabolario di base della lingua italiana senza anglicismi


De Mauro compì vari studi statistici senza precedenti nell’italiano. Nel 1980 pubblicò il primo Vocabolario di base della nostra lingua, che includeva le circa 7.000 parole che si usano più di frequente.
Queste, a loro volta si possono distinguere in 2.000 parole fondamentali, quelle che da sole costituiscono il 90% dei discorsi e dei testi (e, di, perché, essere, avere…), altre 2.300 definite ad alta disponibilità, che tutti conoscono (per cui sono disponibili nella nostra testa), ma che si usano poco, per esempio forchetta, che non compare spesso nei libri né nei discorsi, anche se è di base. E poi altre 2.750 ad alto uso, e cioè che si usano moltissimo, ma non come le prime, e che comunque sono molto più frequenti delle ulteriori 40.000 parole che formano il linguaggio comune, cioè quelle che tutti conoscono, anche se non è detto che le usino attivamente.
Da questa classificazione è emerso perciò un modello e una mappatura della lingua italiana “a strati” molto interessante: al centro ci sono le parole più frequenti, attorniate da quelle comuni, e attorno a queste sono rappresentate tutte le altre che appartengono a linguaggi tecnici e settoriali, e non sono comprensibili a tutti: l’avvocato conosce i suoi tecnicismi ma non quelli del medico, che a sua volte non condivide quelli dell’avvocato e così via.
vocabolario di baseUna rappresentazione del modello “a strati” del lessico della lingua secondo De Mauro.
In questo schema interpretativo, che sin dal suo apparire registrò anche pesanti critiche e perplessità, De Mauro mostrò come, negli anni Ottanta, gli anglicismi fossero confinati nella parte esterna, e non intaccassero affatto il nucleo centrale dell’italiano. Inoltre, dalle statistiche basate sui lemmi dei dizionari, allora i vocaboli inglesi costituivano ancora percentuali bassissime, intorno all’1% delle parole e anche meno. Dunque l’allarmismo di Castellani appariva ingiustificato, e non era il caso di preoccuparsi…

1989: gli anglicismi sono il 2% del Vocabolario elettronico della lingua italiana (Veli)


Nel 1989 vide la luce il Veli, il Vocabolario elettronico della lingua italiana, un lavoro immenso basato sulla statistica e sull’uso del calcolatore – De Mauro all’epoca non usava la parola computer – che lo studioso curò in collaborazione con IBM partendo dallo spoglio di alcuni testi giornalistici (ANSA, Il Mondo, Europeo e Domenica del corriere) pubblicati tra il 1985 e il 1987. Per quell’epoca in cui i testi non erano disponibili in digitale fu una rivoluzione; il lavoro analizzò circa 26 milioni di parole, che vennero lemmatizzate, cioè ricondotte dalle loro flessioni al lemma (per esempio vanno era ricondotto ad andare) con sistemi automatici poi raffinati manualmente. Successivamente furono scelti i 10.000 lemmi più frequenti e significativi e ne nacque un prototipo di dizionario pubblicato su due dischetti (all’epoca erano i cosiddetti floppy disc rigidi).
veli vocabolario elettronico dell alingua italiana di ibm e de mauro 2Il Veli, curato da De Mauro, consisteva in un volume introduttivo che riportava anche gli indici lessicali e due dischetti con il primo prototipo di dizionario elettronico basato sulle 10.000 parole più frequenti.
Tra queste 10.000 parole più utilizzate nella stampa, gli anglicismi costituivano circa il 2%, una percentuale decisamente più alta di quella dei dizionari, che era invece della metà, e anche di quella che veniva attribuita all’uso degli anglicismi nell’italiano in generale.

In altre parole, passando dai dizionari allo studio delle frequenze giornalistiche le cose cambiavano sensibilmente. De Mauro, ancora una volta non se ne preoccupò: il 2% era ancora una percentuale fisiologicamente sopportabile, che non rappresentava di certo un pericolo per la nostra lingua. Ma negli anni Novanta le cose erano destinate a cambiare…

1999-2007: il Gradit e l’aumento degli anglicismi


Curato da De Mauro, nel 1999 uscì il Gradit, cioè il Grande dizionario italiano dell’uso in 6 volumi, che raccoglie circa 260.000 parole (più del doppio di quelle dei vocabolari monovolume), classificate attraverso i criteri di frequenza già adottati nel Vocabolario di base del 1980 (parole di base, comuni e settoriali) e da altre marche che ne identificavano i settori (economia, informatica…). Gli anglicismi non adattati erano 4.300, quindi rappresentavano solo l’1,6% dei lemmi. Stavano aumentando, certo, ma ancora una volta niente di troppo preoccupante, in fin dei conti.

Nel 2007, la nuova edizione del Gradit, però, ne registrava ben 6.000 e la loro percentuale saltava al 2,3% (un incremento del 39,5%, 1.700 in più in soli 8 anni).

patole straniere nella lingua italiana de mauro manciniLa cosa si stava facendo imbarazzante e preoccupante, per il più importante sostenitore delle tesi negazioniste. Ma, a onor del vero, l’aumento così eccessivo non dipendeva tanto da una reale entrata di nuovi anglicismi in questo breve lasso di tempo, bensì da una ristrutturazione interna del dizionario. Nella nuova edizione erano infatti confluiti i risultati di un lavoro specialistico sui forestierismi: Parole straniere nella lingua italiana (Tullio De Mauro e Marco Mancini, Garzanti, Milano 2001, e seconda edizione ampliata del 2003) che aveva raccolto oltre 10.000 parole da più di 60 lingue (dall’albanese al vietnamita, passando per il russo, il giapponese, il tedesco fino al francese e all’inglese). E queste sono poi state immesse nella nuova edizione del Gradit 2007, che è passato così da 7.000 a 10.000 forestierismi, e si è arricchito soprattutto da questo punto di vista.

Tuttavia, qualcosa si stava incrinando nelle tesi negazioniste: mentre l’incremento dei francesismi era contenuto, da 4.982 (sommando quelli adattati e quelli “crudi” come abat-jour) si passava a 5.345 (372 in più e un incremento del 7,4%), gli anglicismi erano “impazziti”: sommando quelli adattati e non adattati sono passati da circa 6.300 a circa 8.400 (un incremento del 33,3%, 2.100 in più, cioè una media di circa 262 all’anno). Scorporando i dati, quelli non adattati sono passati da 4.300 a 6.000 (un incremento del 39,5%, 1.700 in più) e quelli adattati da 2.000 a 2.400 (incremento del 20%, 400 in più). Ho provato a ricostruire questo aumento con un grafico.
aumento anglicismi nel graditFonte: Diciamolo in italiano, Hoepli 2017, p. 88.
La cosa più preoccupante, per De Mauro, fu che complessivamente nel nuovo Millennio l’interferenza dell’inglese sulla nostra lingua aveva, in pochissimo tempo, superato il ruolo dei substrati plurisecolari del francese. Ciononostante, intorno al 2010 lo studioso era ancora serafico e poco preoccupato, perché nonostante l’aumento del numero delle parole inglesi nei dizionari, la loro frequenza era ancora poco diffusa, secondo le sue marche. In un’intervista che in Rete è diventata una sorta di manifesto del negazionismo, “Gli anglicismi? No problem my dear”, ribadiva perciò le sue posizione storiche.

Ma pochi anni dopo la situazione mutò…

2015: il vento è cambiato


storia lingusitica de mauroNel 2014, a p. 136 della Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni (Laterza, Bari 2014), De Mauro sembra assumere una posizione diversa e più preoccupata sulla questione dell’inglese, quando scrive:

“Il confronto con i dati registrati nella prima edizione del Gradit mostra che negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi, come più oltre vedremo, anche nel vocabolario fondamentale”.


Lo studioso, dunque, non solo stava elaborando l’aumento degli anglicismi del Gradit, ma stava anche lavorando sulle marche delle parole, in via di revisione e di aggiornamento. Gli anglicismi, anticipava in questo passo, sono sempre meno tecnicismi o di bassa frequenza e stanno penetrando nel nucleo della nostra lingua. Davanti a questi nuovi fatti, sembra proprio che De Mauro in questo periodo stesse abbandonando la sua storica indifferenza verso gli anglicismi.

Intanto, anche il panorama del pensiero dominante cominciava a cambiare.
Il 2015 fu un anno cruciale. Uscì una pubblicazione frutto di un convegno presso l’Accademia della Crusca con la collaborazione dell’associazione Coscienza Svizzera e della Società Dante Alighieri (La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi) in cui molti linguisti cominciarono a esprimere le proprie preoccupazioni, da Claudio Marazzini a Claudio Giovanardi (già autore nel 2003 insieme ad Alessandra Coco e Riccardo Gualdo di un preoccupato Inglese-italiano 1 a 1: tradurre o non tradurre le parole inglesi? Ediz. Manni).
Il linguista Luca Serianni, che nel “Morbus anglicus” era citato da Arrigo Castellani tra i “negazionisti” non preoccupati, aveva cambiato idea sul proliferare degli anglicismi.
Quello stesso anno, la petizione di Annamaria Testa “Dillo in italiano” aveva creato un caso mediatico e l’accademia della Crusca aveva dato vita al Gruppo Incipit per monitorare i forestierismi incipienti e arginarli con sostituivi italiani, almeno negli intenti.
Insomma, qualcosa nell’aria stava cambiando. E anche Tullio De Mauro stava rivedendo le sue posizioni.

2016: la svolta di De Mauro e l’ammissione dello “tsunami anglicus”


La svolta, del tutto inaspettata, arrivò nel 2016, quando lo studioso scrisse la prefazione a Italiano Urgente di Gabriele Valle (Reverdito editore, 2016), una raccolta di 500 anglicismi che venivano spiegati e affiancati da possibili sostituzioni basate sul modello della lingua spagnola. L’opera si apriva con una citazione tratta proprio dal “Morbus anglicus” di Arrigo Castellani e De Mauro sembrava essersi reso conto della profonda differenza tra l’anglicizzazione arginata dello spagnolo e quella abissale dell’italiano che definiva esplicitamente come uno tsunami:

“è indubbio: quel che altrove appare o è uno tsunami appare invece ed è una fronteggiabile ondata sui lidi ispanici (…). È indubbio che lo tsunami anglicizzante va quasi guadagnando terreno nell’uso italiano: non si segnala tanto per il numero di lessemi analizzanti registrabili in un grande dizionario (…) ma per altri due aspetti: l’uso in locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, spending review e via governando) e la penetrazione degli anglismi nel vocabolario fondamentale e d’alto uso, dove prima c’erano solo pochi esemplari, bar, film, sport, tram, e oggi si affolla un più folto manipolo…” (p. 17)


Sembra incredibile che queste parole siano state scritte dal massimo esponente del “negazionismo”, eppure sono state ribadite e approfondite in un articolo sul sito Internazionale poco meno di un mese dopo: “È irresistibile l’ascesa degli anglismi?”, dove persino il giudizio sull’avversario Arrigo Castellani sembra rivisto, davanti alla dimensione internazionale dell’espansione dell’inglese:

“Non è un fatto nuovo: da alcuni decenni impetuose ondate di anglismi si riversano nell’uso di chi parla e scrive le più varie lingue del mondo. Trent’anni fa e più un valoroso filologo, Arrigo Castellani, nel diffondersi di anglismi nell’uso italiano vide e diagnosticò un morbus anglicus, un virus capace di infettare e corrompere la lingua italiana. Ma del fenomeno ormai bisogna dire di più. (…) L’afflusso di parole inglesi dagli anni Ottanta ai nostri ha assunto dimensioni crescenti, uno tsunami anglicus. Le ondate somigliano ormai infatti a un susseguirsi di tsunami…”.


Il 23 dicembre 2016 il Nuovo vocabolario di base di Tullio De Mauro venne pubblicato in Rete sul sito Internazionale, e dal confronto con quello del 1980 spicca subito che l’inglese è penetrato anche qui: gli anglicismi sono decuplicati.

Nel 1980, alla lettera B era presente solo bar, mentre nel 2016 gli anglicismi sono 13: baby, babydoll, band, bar, basket, bikini, bit, blog, boss, box, boxer, brand, business. E in tutto il vocabolario di base, se nel 1980 gli anglicismi non adattati erano poco più di una decina, nel 2016 sono 129 su meno di 7.500 parole, cioè almeno l’1,7% (se non me ne è scappato qualcuno e senza conteggiare parole macedonia come salvaslip).

Le parole con cui, pochi mesi prima, De Mauro chiudeva l’anticipazione in Rete di questi risultati sono queste:

“L’accentuata frequenza di anglismi è certamente uno dei tratti in cui si sedimenta la storia linguistica italiana degli ultimi decenni.
A voler bandire l’uso degli anglismi dalle lingue del mondo e dall’italiano c’è lavoro, se non gloria, per tutti.”


Poco dopo la pubblicazione del Nuovo vocabolario di base, il 5 gennaio del 2017, Tullio De Mauro se n’è andato.

nuovo vocabolario di nase de mauro

Anche se ne ho più volte criticato le posizioni e anche se ho provato a confutare molte delle sue argomentazioni passate, lo voglio oggi ricordare, rendendogli onore per l’onestà intellettuale di aver saputo rivedere, davanti ai fatti, le convinzioni di una vita. Una cosa che tanti piccoli linguisti ancora non hanno saputo fare.

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