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La fortuna di accorgersene

Viviamo in un’epoca in cui la parola fortuna ha perso il suo antico fascino mitologico per diventare un hashtag. Si parla di “fortuna” come di una moneta lanciata in aria, un evento casuale, una benevolenza del destino che piove su alcuni e ignora altri. Eppure, la vera fortuna non è quella che accade, ma quella che riconosci. Un paradosso tanto semplice quanto rivoluzionario. Ci sono persone che vincono alla lotteria e restano infelici, e altre che non vincono nulla ma si sentono comunque ricche. Forse perché la fortuna, come tutte le cose invisibili, vive nella percezione. È un fatto di sguardo. Di consapevolezza. Di capacità di dire “oggi mi è andata bene” anche quando il mondo sembra cospirare contro. Essere fortunati, in fondo, non è un talento. È un’arte. Un’arte che si coltiva nella quotidianità, nelle piccole cose: un caffè riuscito, un incontro inaspettato, un silenzio che non pesa. È un allenamento mentale: imparare a distinguere tra ciò che ci manca e ciò che già possediamo, ma non vediamo più. Il problema è che molti sono ciechi di fortuna. Non perché non ne abbiano, ma perché l’hanno data per scontata.
È come respirare: finché non manca l’aria, non ci pensiamo. Così accade con la serenità, con l’amore, con l’amicizia vera, con la salute, con il tempo che ci resta. Quando si spegne una di queste luci, ecco che il buio ci insegna quanto eravamo ricchi di luminosità. C’è anche chi confonde la fortuna con il merito, e viceversa. Chi si attribuisce il merito di ciò che il caso gli ha regalato, e chi si flagella per non avere ciò che altri hanno trovato per strada.
La verità è che la vita non distribuisce equamente, ma non è nemmeno un gioco crudele. È più simile a un mazzo di carte: non possiamo scegliere le prime, ma possiamo decidere come giocarle. E qui entra in scena l’elemento più sottovalutato di tutti: la coscienza della fortuna. Rendersi conto di essere fortunati è la vera forma di intelligenza emotiva. È la differenza tra vivere e sopravvivere, tra accumulare giorni e collezionare attimi. Chi sa riconoscere la propria fortuna non diventa arrogante, ma grato. E la gratitudine, si sa, è una calamita: attira altra fortuna, o meglio, la fa emergere da dove già c’era. A volte basta una pausa. Un momento di silenzio in cui guardare ciò che si ha senza la lente del desiderio. Scopriremmo che la vita, anche con le sue contraddizioni e ingiustizie, ci ha fatto più doni di quanto crediamo. Siamo sopravvissuti a noi stessi, alle nostre paure, ai nostri errori. Abbiamo ancora persone che ci cercano, occhi che ci ascoltano, un cielo sopra la testa.
Non è poco. Il problema è che la società non ci educa alla gratitudine, ma alla competizione. Ci fa credere che la fortuna sia un traguardo, non una condizione del cuore. Così corriamo, confrontiamo, invidiamo, e finiamo col sentirci perennemente sfortunati solo perché qualcun altro ha di più. Ma la fortuna, come l’acqua, non si misura in litri: si misura in sete. Chi ha meno desideri, paradossalmente, ha più fortuna. Essere fortunati, quindi, è come essere felici: non basta esserlo, bisogna accorgersene. Perché la consapevolezza trasforma l’evento in esperienza, la casualità in destino, la distrazione in stupore. E chi riesce a dire “sono fortunato” senza vergognarsi, senza paura di attirare la sfortuna, ha già compiuto un atto di coraggio controcorrente. C’è un che di eroico nel riconoscere la propria fortuna.
Perché significa ammettere che la vita, pur non essendo perfetta, ci ha comunque scelti come protagonisti di un film che vale la pena guardare fino ai titoli di coda. E magari, ogni tanto, sorridere anche delle scene più assurde. Forse, alla fine, la vera fortuna è proprio questa: sapere di essere vivi, coscienti, fallibili, ma ancora capaci di stupirci. E se ce ne rendiamo conto, allora sì — siamo davvero fortunati.