Giuseppe Brutti - Il capostazione di Amandola che salvò dai tedeschi una famiglia ebrea
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Un gruppo di esuli ebrei in fuga dai Balcani arriva in Italia proprio
nell’anno 1943 e, per una serie di circostanze dovute non si sa se al caso o a un
destino fortunato, capita in quel di Amandola, alle pendici dei monti Sibillini.
Qui i fuggiaschi trovano accoglienza, aiuto e una protezione ad oltranza non
solo per opera di una famiglia di quella cittadina, la famiglia Brutti, ma anche a
seguito di una vera e propria gara di solidarietà di tutta la comunità amandolese.
Giuseppe Brutti era dal 1939 capostazione in Amandola, capolinea della
ferrovia Adriatico-Appennino. Della sua famiglia facevano parte la moglie
Lucci Elvira e i figli Maria Luisa, Mario e Giancarlo. Maria Luisa era fidanzata
con Ferdinando Farina (Nando), suo compagno di scuola. Questi, nel 1943,
aiutava spesso il capostazione nel suo lavoro estremamente oneroso. Nel mese
di settembre del 1943 Nando stava facendo i conteggi degli incassi per i
biglietti viaggiatori e per trasporto merci quando il capostazione Brutti lo
avvertì che doveva salire al piano superiore della stazione perché nella sala
d’aspetto c’erano vecchi, donne e bambini. Si trattava di una donna anziana con
tre figlie, un genero e tre nipoti. Il senso d’ospitalità della famiglia Brutti non
fece difetto. A tutti i nuovi arrivati, che non sapevano se e come proseguire il
viaggio, fu offerta una cena e la possibilità di passare la note al riparo. Ricorda
Giancarlo Brutti, uno dei figli del capostazione: “La persona più anziana del
gruppo, nel ringraziare il Signore e i miei genitori, rivela che da tre mesi non
mangiavano un piatto caldo. A questo punto il gruppo capisce di trovarsi di
fronte a persone amiche e confidano le loro origini e le loro paure”.
Ed ecco il resoconto stilato in via ufficiale a firma di due delle giovani di
quel gruppo, le figlie Ena e Alisa Benarojo Almuli in occasione del
conferimento alla famiglia Brutti del titolo di “Giusti tra le nazioni” da parte
delle autorità israeliane nel 2004. E’ il titolo riconosciuto a coloro che in vari
modi si sono opposti al progetto di sterminio degli ebrei, che hanno salvato le
loro vite e protetto i perseguitati.
“La nostra famiglia scappò da Belgrado, in Jugoslavia, nel Novembre
1941. Dopo un lungo e pericoloso viaggio fummo trasportati in Italia e internati
in un villaggio chiamato Cison in Valmarino, in provincia di Treviso (nella
regione Veneto). Rimanemmo lì fino all’invasione tedesca, nel Settembre 1943.
Con falsi documenti lasciammo Cison diretti verso sud nella direzione delle
Forze Armate Alleate. La nostra famiglia era formata dalla più anziana, la
nonna Reuna Davico Almuli, nostro zio, Dottor Isak Eskenazi, sua moglie Ela
Almuli Eskenazi e la figlia Vera, la nostra altra zia Lea Almuli, nostra madre
Reli Benarojo Almuli e noi due, allora di 6 anni e mezzo e otto. Viaggiammo
per parecchi giorni usando vari mezzi di trasporto. L’ultimo di questi fu un
treno, verso sud, che si fermò in una città chiamata Amandola, in provincia di
Ascoli Piceno (nella regione delle Marche) dove, esausti, decidemmo di passare
la notte.
Il capostazione, il sig.Giuseppe Brutti, che viveva sopra la stazione con la
sua famiglia, notò il nostro arrivo, ci aiutò a sistemarci nella stazione, ci diede
informazioni sul treno successivo verso sud. Era sera quando il sig.Brutti se ne
andò per raggiungere la sua famiglia per la cena; ma poi tornò indietro
insistendo che noi tutti e otto raggiungessimo lui e la sua famiglia per dividere
insieme la cena. E’ proprio qui, in questa stazione, che la storia che vogliamo
dirvi comincia.
Questo fu l’inizio di una relazione durevole con la famiglia davvero
speciale di Elvira e Giuseppe Brutti, che in molti altri modi dimostrava di avere
le stesse virtù di molte altre famiglie della città di Amandola. E’ la loro umanità,
generosità, altruismo a scapito della loro salvezza che vogliamo ufficialmente
riconoscere. Dopo che fummo nutriti, ci furono date delle brandine, materassi e
coperte per dormire. Il mattino dopo, capendo che eravamo incerti se continuare
il viaggio verso sud, il sig.Brutti organizzò una riunione con alcune persone
fidate della città, Monsignor Eugenio Verdini e il Dottor Cesare Apolloni. Fu
detta loro la nostra storia di ebrei che scappavano dai nazisti e allora,
pienamente consapevoli della nostra situazione, incluse le nostre magre risorse
finanziarie, fu raggiunta la decisione che la nostra famiglia poteva rimanere al
sicuro in Amandola. Il sig.Brutti, Monsignor Verdini e il dottor Apolloni
velocemente ci trovarono un alloggio. Essi organizzarono pure un ‘comitato’ di
interscambio e le persone della città ci fornirono miracolosamente di tutte le
cose di base per la nostra sopravvivenza in Amandola. Alcuni comprarono cibo,
altri letti e coperte e lenzuola. Altri raccolsero vestiti, pentole e padelle, piatti,
argenteria, sapone fatto a casa, etc.
Nessun compenso materiale fu mai richiesto o pagato e noi continuammo
ad approfittare della loro generosità e di quella di altre persone per tutto il
tempo in cui ne avemmo bisogno.
Amandola era sotto l’occupazione tedesca durante questo periodo. Se i
tedeschi avessero scoperto che i Brutti così come altri avevano dato riparo e si
erano presi cura di una famiglia di ebrei rifugiati con false identità, le
conseguenze sarebbero state estremamente severe: prigionia, tortura o
esecuzione (essi si erano assicurati che tutti nella città fossero consapevoli di
questo con la tortura pubblica e l’esecuzione di un uomo innocente, tale
Biondi). Mentre potremmo nominare numerosi individui che vennero in nostro
aiuto, i Brutti furono i primi e rimasero coinvolti in modo considerevole con le
nostre vite mentre eravamo in Amandola.
Accadde che un collaboratore, un calzolaio di Genova, denunciò la nostra
presenza ai tedeschi. Prima che fossero in grado di venire a prenderci, i nostri
salvatori, mettendo ulteriormente a rischio le loro stesse vite, organizzarono la
nostra veloce e sicura fuga a San Cristoforo, un piccolo paese nelle colline
vicine. Lì stemmo nascosti per ancora un po’ di tempo, finché le Forze armate
alleate liberarono la città di Amandola. Le motivazioni dei nostri salvatori, per
quanto accertabili, furono amicizia, altruismo, credo religioso, spirito
umanitario e altro. Crediamo che i forti principi umanitari sostenuti da una pari
fede religiosa furono i principali fattori motivanti. Non abbiamo altra prova che
la nostra stessa esperienza e la sopravvivenza della nostra famiglia. Se i Brutti e
altri nella città non si fossero presi la responsabilità di accoglierci, di metterci al
sicuro, di darci un riparo a rischio stesso delle loro vite, noi non saremmo
sopravvissuti alla guerra. Come abbiamo sottolineato sopra, molti individui
vennero in nostro aiuto, tutti degni del riconoscimento che Voi patrocinate. Più
o meno tutti i nostri salvatori sono morti. Noi ci siamo tenuti in contatto con i
figli dei Brutti che crebbero con noi. Sono diventati la nostra famiglia estesa.
Abbiamo indicato i Brutti come gli autori più rilevanti della nostra salvezza.
Essi furono i primi a darci riparo e cibo, essi furono coloro che coinvolsero gli
altri in Amandola per metterci al sicuro e salvarci in quell’anno.
Il Settembre scorso passammo una settimana in Amandola con i nostri
cari amici Brutti. Ricordammo insieme i tragici eventi e l’indiscutibile
generosità dei cittadini di Amandola. Abbiamo capito che siamo in ritardo di 55
anni nel riconoscere il merito dei nostri salvatori.”
E’ una bella storia di solidarietà che fa onore non solo a tutta la famiglia
Brutti, ma all’intera comunità dei cittadini amandolesi, che assicurarono una
protezione unanime alla sfortunata famiglia di esuli ebrei nonostante il clima di
paura che la presenza in città di un presidio tedesco aveva ormai imposto.