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di Antonio Zoppetti

Nell’ultima settimana il “dissing” ha occupato le pagine dei giornali in un tormentone straripato anche in tutte le trasmissioni televisive, dalle Iene a Crozza, e svariati lettori mi hanno scritto per segnalarmi questo nuovo anglicismo che a dire il vero non è così nuovo, né per il significato che veicola né per la sua data di apparizione.

La novità è un’altra: il termine ha fatto il salto, da voce gergale dei rappatori – in itanglese lo slang dei rapper – alla lingua comune rivolta a tutti. Gli artefici di questo allargamento, come il più delle volte, sono i giornalisti.

Credo sia utile spendere qualche riflessione sulla nuova parola e soprattutto sui meccanismi sottostanti e sulle conseguenze di questa nuova entrata nella lingua “italiana” (o forse di new entry nell’itanglese?).

Un concetto che c’è da sempre

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L’evento scatenante è stato lo scambio di invettive tra Fedez e un certo Tony Effe, in un teatrino in cui stanno intervenendo una serie di altri personaggi influenti che occupano il panorama culturale di un giornalismo dall’elettroencefalogramma sempre più piatto.

Il termine inglese deriverebbe dal verbo to disrespect cioè “mancare di rispetto’ (dunque è questo il significato portante), anche se da tempo si è diffuso negli ambienti musicali giovanili d’oltreoceano per indicare le invettive cantate tra gli autori del genere, di solito incentrate sugli insulti e le prese in giro. Il vezzo ha preso piede anche tra i rapper italiani, naturalmente, che hanno dato vita al gergale “dissare” per indicare l’invettiva cantata e lo sfottò in rima musicato. Questa pratica non è certo una novità e non è certo un fenomeno che si può racchiudere nell’ambiente del rap, visto che – tralasciando i precedenti della letteratura greca o latina – si ritrova già agli albori della lingua italiana, quando i poeti del variegato volgare del sì, ancora tutto da codificare, si scambiavano frecciatine e insulti in versi, come nella polemica tra Dante e Cecco Angiolieri di cui ci rimane un sonetto del 1303 che recita:

Dante Alighier, s’ ’i so’ bon begolardo [buffone], tu mi tien’ bene la lancia a le reni; s’eo desno con altrui, e tu vi ceni (…) Dante Alighier, i’ t’averò a stancare, ch’eo so’ lo pungiglion, e tu se’ ’l bue.

Gli echi di questa prassi antica si ritrovano in espressioni comuni come il “rispondere per le rime”, “gliele ho cantate” o “suonate di santa ragione”, anche se non comportano necessariamente il ricorso ai toni oltraggiosi o offensivi.

Tra i più celebri e veementi rappresentanti dell’invettiva in rima che ricorrevano al turpiloquio si può citare l’Aretino, che nei Sonetti lussuriosi si rivolgeva ai poeti suoi contemporanei del Cinquecento con toni anche più accesi di quelli dei rapper:

Questi vostri sonetti fatti a cazzi, / Sergenti de li culi e de le potte, / E che son fatti a culi, a cazzi, a potte, / S’assomigliano a voi, visi de cazzi.

Gli esempi che si potrebbero fare di simili scambi poetici sono infiniti, e si trovano in ogni epoca. Nell’Ottocento il poeta milanese Carlo Porta dedicò dodici sonetti irriverenti all’abate “Giavan”, una storpiatura del nome di Pietro Giordani, illustre rappresentante del classicismo avverso ai componimenti in vernacolo, e con lo stesso spirito inveì in versi anche contro un certo Gorelli, un senese che ricopriva l’incarico di cancelliere del tribunale di Milano che si era pronunciato in modo ostile sul rozzo dialetto milanese e su chi perdeva tempo a poetare in quella lingua. Porta gli aveva risposto con I paroll d’on lenguagg, car sur Gorell (“le parole di ogni lingua, caro signor Gorelli”) in cui i vocaboli erano paragonati ai colori di un pittore, che possono rendere un quadro bello o brutto a seconda di come sono usati e di che cosa si ha da dire:

“Tant l’è vera che in bocca de Usciuria (tanto è vero che nella bocca di vostra signoria)
el bellissem lenguagg di Sienes (il bellissimo linguaggio dei senesi)
l’è el lenguagg pù cojon che mai ghe sia” (è il linguaggio più coglione che ci sia).

Passando dalla poesia alle canzonette, nel 1976 Francesco Guccini scrisse una canzone che intitolò l’Avvelenata, per esprimere (in italiano) il suo sfogo astioso in versi e, tra le tante ingiurie, spicca uno strale dedicato al critico musicale Riccardo Bertoncelli che aveva stroncato un suo album (“…tanto ci sarà sempre lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate …”). Ma anche Vasco Rossi, nel 1982, sfotteva il giornalista Nantas Salvalaggio, che lo aveva liquidato come un drogato più che un cantante, con il verso “Meglio rischiare, che diventare come quel tale, quel tale che scrive sul giornale”.

Niente di nuovo sotto il sole, dunque, anche se – fuori dal rap – sino a ieri non ci mancavano le parole per esprimere il concetto di “dissing”, e in una storia delle invettive letterarie che stavo leggendo proprio mentre esplodeva il caso, si trovano articoli come “Il discorso irato: elementi e modelli dell’invettiva”, “L’invettiva misogina: dal Corbaccio agli scritti libertini del ’600”, “Da Sterne a Guerrazzi: misure e contesti del furore”, “Tra politica e letteratura: le ‘pacate invettive’ di Benedetto Croce”, “L’invettiva nella poesia italiana del secondo Novecento”…

Ma da oggi, tutto ciò si può buttare via, e grazie alla potenza dell’inglese – lingua superiore e inarrivabile – abbiamo finalmente un nuova parola più precisa, solenne, moderna e internazionale da impiegare al posto di tante goffe e antiquate soluzioni.

Il dissing non è proprio come l’invettiva…

Chiarito che dissing non contiene nulla di nuovo, all’anglomane che deve giustificare il ricorso all’inglese non resta che la solita argomentazione cialtrona: il dissing, però, è legato a un preciso contesto musicale intrinseco all’hip hop, appartiene alla terminologia del linguaggio giovanile e non è certo come le invettive di Dante o degli altri poeti, è proprio un qualcosa di nuovo e di intraducibile, ha un significato più specifico di una parola generica come invettiva che può voler dire troppe cose…

È la solita solfa, la solita bufala che serve per creare la necessità dell’anglicismo.

Certo, non si può pretendere che un imitatore italiano di un genere musicale che ha le sue origini in un contesto afroamericano traduca dissing con invettiva – seguendo una tradizione poetica e musicale che probabilmente ignora – e non stupisce che si ancori a un contesto inglese che fa suo e ostenta con orgoglio, perché è a quello che fa riferimento. Ma fino a quando questa terminologia rimane confinata nel suo ambito gergale è in fondo giustificabile, quando invece esce dal suo dominio ed entra nella lingua comune si trasforma in un “prestito sterminatore” che si afferma sugli equivalenti italiani e soprattutto perde la sua specificità: un pezzo su la Repubblica, per esempio, ripropone un vecchio confronto tra Lucio Dalla e Francesco Guccini che viene chiamato “dissing” immotivatamente visto che i due cantautori si limitano a un pacato scambio di vedute senza ingiurie e senza cantare.

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Il dissing si trasforma allora in una parola comune usata in senso lato al posto di polemica, controversia, dissapore, sfottimento o sfottò, e di volta in volta può sostituire invettiva, contrasto, ingiuria, oltraggio, critica irrispettosa (offensiva o irriverente), insulto, improperio, vituperio, derisione, irrisione, presa in giro, sbeffeggiamento… anche una semplice presa per i fondelli (o per il culo). E in questi casi può perdere anche l’accezione legata al rap, ai versi e alla musica (il rispondere per le rime, il canzonare in versi, lo sbeffeggiar cantando, il dileggio musicato), dunque gli argomenti dei “non-è-propristi” perdono di senso, fuor dal tecnicismo.

Il fatto che i giornali diffondano l’anglicismo invece di ricorrere alle risorse dell’italiano non è solo patologico, ha delle conseguenze ciclopiche nel cambiare la lingua e riscrivere la storia, come si evince dall’ultimo monologo di Crozza.

Crozza e il dissing tra i politici

Venerdì scorso, nel suo spettacolo comico, Crozza scherzava sull’improvvisa esplosione del “dissing” sulla stampa: “Ma che cazzo è il dissing?”
Dopo aver escluso che si trattasse di un esame alla prostata, come in un primo tempo aveva ipotizzato, ha chiesto scusa per le sue domande da “boomer” e ha abbozzato una riflessione sulle nuove parole che “ci insegnano” per esempio lockdown, deep fake o Pnrr

Tra parentesi: Crozza, ma nei tuoi spettacoli comici non ti viene in mente che il fatto che le nuove parole che “ci insegnano” siano solo inglesi, o sigle, meriti una riflessione e qualche battuta? Va tutto bene secondo te?

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Chiusa la parentesi, va detto che – al contrario di qualche linguista che ci vorrebbe far credere che la lingua arrivi dal basso – almeno Crozza è consapevole che questa terminologia che “ci insegnano” arriva invece dall’alto e dai giornali. Sono loro a scegliere e riproporre le parole “dal basso” che poi propagano facendole uscire dal loro ambito gergale per insegnarle a tutti. E spesso lo fanno in modo pasticciato, come nell’articolo del Corriere che riprende il divertente pezzo del comico con queste parole: “Crozza scatenato, i dissing con insulti Grillo-Conte e Boccia-Sangiuliano”.

I “dissing con insulti”? Ma il dissing non era appunto un’invettiva piena di insulti e sfottò? Allora c’è anche il dissing senza insulti?

No, è che senza la precisazione degli insulti nessuno avrebbe capito niente, e allora per diffondere la parola si ricorre alla tautologia, un po’ come dire il food che si mangia o gli store e gli shop dove si compra, almeno tutto è più chiaro.

Non solo dissing: anatomia dei trapianti linguistici dall’inglese

Mentre dissing sta facendo il salto da tecnicismo a parola comune usata in senso lato, vale la pena di rimarcare un paio di precisazioni importanti.

La prima è che questo anglicismo potrebbe anche essere passeggero e regredire dalla lingua, passata l’ondata e il picco di stereotipia dei giornali, per rimanere solo nella sua accezione gergale. Oppure, come tutto lascia presagire, potrebbe radicarsi e allargarsi, e dopo la fase uno che l’ha fatto conoscere a tutti non mi stupirei se in futuro il dissing uscisse dall’ambito musicale per essere utilizzato per designare un qualsiasi battibecco acceso o una qualunque polemica, per assurgere a parola-ombrello polivalente e per tutte le stagioni come location, restyling, outfit, nomination e via dicendo.

La seconda considerazione, ben più saliente, è che il problema non sta nella parola dissing, che presa da sola ha ben poca importanza. Il problema sta nella strategia che porta al diffondersi degli anglicismi con gli stessi meccanismi, una strategia che si estende a migliaia di parole che penetrano con la stessa modalità e che, tutte insieme, stanno trasformando l’italiano in itanglese.

E così la disputa, altra tradizione filosofica, dialettica e retorica secolare, oggi è riproposta nelle scuole con il suo nome in inglese, il debate, come se questo concetto nascesse negli Usa di oggi, con buona pace di tutta la filosofia greca, mentre i monologhi come quelli di Crozza sono chiamati stand up comedy, e un premio Nobel come Dario Fo che negli anni Settanta faceva i suoi monologhi dalla palazzina Liberty di Milano rischia di essere interpretato come un “precursore” del “nuovo” genere (che nuovo non è affatto) che si esprime in inglese. In questo curioso suicidio culturale che ribalta le cose, non conta chi ha inventato qualcosa, tutto viene azzerato da un punto di vista anglomane. Se con la Novalingua orwelliana si riscriveva la storia cancellando la Veterolingua, allo stesso modo il Poema a fumetti di Dino Buzzati del 1962, per esempio, viene reinterpretato come l’anticipazione delle graphic novel (come riportato sulla Wikipedia: “L’opera sperimentale è considerata uno dei primi graphic novel mai pubblicati”). Buzzati, poverino, non aveva ancora la giusta parola per definire la sua opera… e dunque ha provato a esprimersi in italiano, anche se finalmente possiamo ridefinire il suo lavoro con i giusti termini!
In sintesi la nuova “cultura” coloniale basata sull’ignoranza della storia e delle nostre radici presuppone che tutto arrivi dagli Stati Uniti, e in questo revisionismo non sono gli “americani” a copiare, riprendere o reinventare ciò che c’è da sempre… tutto il contrario, sono i loro predecessori ad avere anticipato o abbozzato il genere in una sorta di plagio ante litteram

Come aveva denunciato già negli anni Sessanta un artista come Lucio Fontana, autore non solo dei famosi tagli nelle tele, ma anche di innovative opere d’arte luminose realizzate con i neon, tutta la cultura viene stravolta e riscritta non come qualcosa di autonomo, ma come un sottoprodotto della (successiva) cultura americana:

Ma tu vedi, però, adesso a cosa siamo ridotti? Che tutto il prodotto, ormai, è suggerito dagli americani. Se io dico che ho fatto i neon, questo signore che sta facendo i neon adesso, se io faccio i neon, dice che io sono un sottoprodotto degli americani. E loro non accetteranno mai che tu hai fatto i neon vent’anni fa
(da un’intervista in Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato Editore, Bari, 1969).

Passando dall’arte alla lingua, una parola come dissing viene così impiegata per ri-concettualizzare non solo il presente, ma anche per riscrivere la storia. Dando per scontato che ci sia solo il dissing e che tutto arrivi dagli Usa, secoli di invettive in versi vengono cancellate, appiattite e reinterpretate alla luce dell’anglocentrismo: chi ha fatto qualcosa di analogo in passato viene letto e definito come precursore e anticipatore di un fenomeno che finalmente si è delineato in modo compiuto grazie al rap, come si può leggere in questi grandi pezzi espressione della nuova cultura coloniale con una storia del dissing che con il rap non ha nulla a che fare:

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E questo non vale solo per il dissing. Con le stesse modalità, la quarantena veneziana imposta alle navi provenienti da terre lontane e potenzialmente foriere di epidemie è stata sostituita dal moderno concetto di lockdown, mentre i comportamenti persecutori diventano stalking, le vessazioni sul lavoro mobbing (pseudoanglicismo), l’arte del riciclo upciclyng, l’ecologico green, il pappagallismo catcalling, lo Stato sociale welfare, la lottizzazione spoils system, gli assassini killer, un allarme alert, il cicchetto shottino, il correre running e le scarpe da ginnastica sneaker, i codici di accesso password, la revisione editoriale editing, la scelta del carattere lettering, i laboratori workshop e i saloni espositivi showroom, gli autoscatti selfie, i calcolatori computer… In questo modo l’italiano diventa vecchiume, si cristallizza nei suoi significati storici e perde la sua elasticità che gli consente di evolversi con le proprie risorse: l’invettiva è quella di una volta, da oggi tutto ciò si chiama dissing!

diciamoloinitaliano.wordpress.…

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