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L’Italia: un Paese satellite degli Usa, culturalmente e linguisticamente


Di Antonio Zoppetti

Nel libro Casa Bianca-Italia. La corruzione dell’informazione di uno stato satellite (PaperFIRST, Roma, 2025), il criticatissimo Alessandro Orsini denuncia la “corruzione del sistema dell’informazione in Italia” sui temi della politica internazionale, per esempio la “santificazione di Zelensky e la mostrificazione di Putin” che secondo l’autore fanno parte di una propaganda rivolta ai cittadini basata sulla disinformazione.

La disinformazione non si fonda solo sulla manipolazione o la ricostruzione forzata dei fatti, ma anche sull’omissione di ciò che non fa comodo, e in particolare l’autore punta il dito contro la mancanza di un dibattito pubblico sul fallimento della strategia della Nato in Ucraina che ci tocca tutti da molto vicino sia perché agli italiani costa miliardi di euro, sia perché ci sta esponendo a seri rischi che potrebbero sfociare in una terza guerra mondiale. “In una società libera, con un sistema dell’informazione sulla politica internazionale libero e sano” questo dibattito dovrebbe invece essere aperto e centrale, ma ciò non avviene perché siamo uno “stato Satellite degli Usa”, un po’ come la Bielorussia gravita solo attorno alla politica del Cremlino. Dunque Orsini riflette sulla libertà di uno Stato satellite, e anche se la comunità giornalistica italiana dichiara di essere libera di dire tutto ciò che vuole, avanza il “sospetto” che ciò non sia affatto vero e lo documenta con una serie di fatti e di episodi che lo portano a concludere che i mezzi di informazione disinformano i cittadini “per compiacere il potere politico”.

Personalmente non sono così convinto che i giornalisti facciano tutto ciò per compiacere il potere in modo consapevole e calcolato. A parte qualche caso eclatante, mi pare che siano semplicemente partigiani e schierati in modo tendenzioso ma sentito. Quando per esempio fanno cominciare la guerra in Ucraina con l’invasione russa, o la questione del “genocidio” palestinese con il massacro del 7 ottobre 2023, indubbiamente semplificano e distorcono la realtà, visto che questi episodi sono il culmine di interminabili conflitti che si trascinano da decenni, se non da secoli. Ma questa disinformazione è la conseguenza di una precisa visione politica ideologizzata, più che una ricostruzione funzionale a legittimare il sistema di potere. Certo, allinearsi alla visione dominante aiuta a far carriera, ma non c’è solo questo aspetto a determinare certe prese di posizione.

Il “metodo del sospetto” ripreso da Orsini è infatti un presupposto che – secondo il filosofo francese Paul Ricoeur – era alla base delle speculazioni di autori come Marx o Freud, i quali avevano messo in luce come sotto ogni presa di posizione – dietro le giustificazioni e le apparenze – ci sono sempre forze più profonde che regolano i comportamenti umani e sociali: per Marx erano le motivazioni economiche a determinare certi giudizi, per Freud c’erano delle pulsioni psicologiche non sempre consce. In questa prospettiva potremmo concludere che davanti alla propaganda giornalistica in tempi di guerra siano soprattutto le visioni politiche dominanti e filoamericane a governare l’interpretazione e la ricostruzione dei fatti.

Fatte queste premesse, vorrei provare a estendere queste considerazioni al di fuori dell’ambito politico per riflettere sugli aspetti culturali e linguistici che emergono dagli stessi presupposti. Perché anche su questo aspetto in Italia manca ogni dibattito, in modo ancora più eclatante di quanto non avvenga a proposito del fallimento delle strategie della Nato.

L’Italia non è solo uno Stato satellite, ma anche una cultura satellite

In una rissa televisiva sulla questione di Gaza, recentemente, uno degli ospiti si chiedeva: “Quando la Meloni riconoscerà la Palestina, come hanno già fatto oltre 150 Stati su circa 200?”. E concludeva: “Quando lo farà anche Trump, o quando gli americani le diranno di farlo.” La risposta, anche se può sembrare una battuta, è invece in linea con la realtà. Mentre Orsini si affanna a dimostrare, dati alla mano, che l’Italia è un Paese satellite degli Usa, per altri tutto ciò è semplicemente evidente e scontato, a livello politico, anche se manca un dibattito serio sulla questione.

È proprio la mancanza di dibattito a caratterizzare il nuovo contesto storico del Duemila, perché questo dibattito c’è sempre stato, sino al Novecento, benché oggi sia stato nascosto sotto al tappeto. Come ho provato a riassumere nel libro Lo tsunami degli anglicismi. Gli effetti collaterali della globalizzazione linguistica – le controversie sulla nostra dipendenza dagli Usa hanno caratterizzato la nostra storia almeno dalla Liberazione sino al crollo del muro di Berlino, dell’Unione Sovietica, e alla fine della guerra fredda. Ma le polemiche tra “americanisti” e “anti-americanisti” si ritrovano ben prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, e già Gramsci (“Americanismo e Fordismo”, 1934) prendeva posizione in questo dibattito ritenendo che l’antiamericanismo a priori era “comico, prima di essere stupido”, anche se – come molti altri pensatori – fu al tempo stesso attratto e inorridito dalla società statunitense che tra le due guerre mondiali si stava imponendo all’attenzione di tutta l’Europa. L’atteggiamento sanamente e lucidamente critico nei confronti degli Usa non caratterizzava solo gli autori legati al comunismo, che vedevano in quel Paese l’incarnazione più aggressiva del capitalismo concepito come “il male”, era invece un sentimento trasversale. La chiesa cattolica già alla fine dell’Ottocento aveva duramente condannato l’individualismo, il materialismo e l’immoralità della società statunitense, e dopo la Liberazione De Gasperi era molto preoccupato e critico davanti all’invadenza della Casa Bianca con cui però la Democrazia cristiana si era dovuta alleare in funzione anticomunista. Ma anche a destra i fascisti e i post-fascisti denunciavano la trasformazione del nostro Paese in un satellite politico degli Usa manifestando la preoccupazione per l’invasione dei prodotti culturali americani che insidiavano la nostra cultura.
Accanto a simili prese di posizione critiche, in ogni schieramento c’era però allo stesso tempo il riconoscimento degli elementi positivi che arrivavano d’oltreoceano, e se la Dc si schierava con la Casa Bianca, anche la destra appoggiava il nostro inserimento nel patto atlantico in contrapposizione al blocco comunista, mentre a sinistra c’era chi vedeva negli Usa la patria della democrazia e della libertà che ci aveva liberati dal fascismo, nonostante la stigmatizzazione della caccia alle streghe del maccartismo, dell’appoggio alle dittature sudamericane e di moltissime altre nefandezze che andavano nella direzione contraria. Davanti al ruolo dominante degli Usa, in altre parole, in ogni schieramento prevaleva un atteggiamento critico, che ne accettava ed esaltava alcuni aspetti per respingerne altri. Il piano Marshall, per esempio, che oggi è invocato e salutato come una specie di “gesto filantropico” che ha determinato il “boom economico” e il “miracolo italiano”, ha dato vita a un dibattito enorme sulla sua funzione, e se Togliatti lo definì un “ricatto politico”, anche per molti intellettuali europei non comunisti costituiva “un vendere l’anima al diavolo” in cambio di una ricchezza immediata che ci avrebbe condotto a un’americanizzazione non solo politica, ma anche sociale e culturale (si pensi a De Gaulle che lo ha accettato per necessità ma con estrema diffidenza).

Oggi, questi questi dibattiti sono però stati sepolti e dimenticati. Negli anni Duemila la nostra americanizzazione è ormai data per scontata e nessuno sembra più riflettere sulle sue conseguenze negative. Con la fine della logica dei due blocchi e l’avvento di una globalizzazione che tende a coincidere con l’americanizzazione del mondo, dopo il “siamo tutti americani” che ha caratterizzato la svolta dell’11 settembre 2001, è venuto a mancare il fronte critico trasversale che in qualche modo si contrapponeva all’espansione dei modelli economici e culturali d’oltreoceano.

Come ha evidenziato Andrea Zhok in articolo su “La sovranità italiana in una prospettiva storica” (L’antidiplomatico.it, 7 giugno 2021), da tempo ci siamo lasciati alle spalle le denunce sulle ingerenze americane esplicite o su quelle occulte perpetrate dai servizi segreti o dalla Cia, “ma ne siamo lontani semplicemente perché ciò che spontaneamente si agita nella politica italiana è già totalmente asservito, e non richiede una manipolazione troppo robusta. Facciamo una politica estera che ci viene dettata nei dettagli dagli Usa, abbaiando obbedienti ai loro avversari. Facciamo una politica interna innocua e perfettamente inconcludente, e una politica economica apprezzata dagli Usa.” Oltre a questa sudditanza politica, una parte significativa della classe dirigente del nostro Paese sta riducendo l’Italia “a una colonia culturale. Ciò avviene in mille modi, dall’adozione di modelli formativi di ispirazione americana, all’assorbimento passivo illimitato della filmografia americana (e dei suoi temi, che siamo indotti a immaginare siano i nostri), alla resa incondizionata a tonnellate di imprestiti linguistici da parvenu (ci muoveremo grazie al Green pass, canteremo le lodi del Recovery fund, che ci permetterà di ribadire il Jobs act, dopo essere finalmente usciti dal Lockdown, in attesa che vadano al governo quelli della Flat tax al posto di quelli del Gender fluid, e ci dedicheremo allo Smart working, rivitalizzando i settori del Food e del Wedding, mentre lotteremo impavidi contro le Fake news).”

E per tornare al “metodo del sospetto”, ciò che per Orsini produce la disinformazione politica fa parte di una più ampia analoga “disinformazione” culturale e linguistica. Ormai privi di una nostra identità che ci distingue, inglobati in un Occidente guidato dagli Usa, abbiamo accettato tutto ciò e siamo passati all’orgoglioso “collaborazionismo”, tutto interno, nei confronti di una pressione esterna che è fortissima, e che invece di arginare agevoliamo compiaciuti fin nelle ricadute lessicali che celano, sotto la superficialità dell’itanglese, una nostra trasformazione ben più profonda.

L’itanglese: la nuova lingua satellite dell’angloamericano

Prendiamo un articolo di giornale, tra i mille, che abbandonano l’italiano per rivolgersi ai cittadini in una lingua ibrida in cui l’inglese e l’italiano sono mescolati.

Perché il titolo del Corriere che parla di AirBnB è etichettato con la frase in inglese “whatever it takes” (“a tutti i costi”)? Perché l’espressione è diventata uno “slogan” dopo essere stata pronunciata da Mario Draghi nel 2012, quando era direttore della Banca Centrale Europea, per ribadire che avrebbe fatto “tutto il necessario” per evitare speculazioni sulla nostra moneta. Ma è anche il titolo di un film e di una canzonetta che ne rafforzano la circolazione. Il ricorso all’inglese, e la scelta di usare una locuzione che non è affatto trasparente per la maggior parte dei cittadini, è la conseguenza del fatto che l’inglese è spacciato come più solenne e prestigioso dai giornalisti e dalla nostra classe dirigente, dunque l’italiano retrocede a una lingua satellite che si impiega per spiegare ciò che si esprime nella lingua superiore e che possiede una precisa gerarchia: al vertice c’è la concettualizzazione in inglese, poco importa che sia “whatever it takes”, o di volta in volta il body shaming al posto della derisione fisica, l’underdog e l’outsider invece dello sfavorito o il fact checking invece della verifica dei fatti. Allo stesso modo, fa accapponare la pelle leggere che la figura dell’host costituirebbe un nuovo “ceto sociale”, ma in un Paese satellite come l’Italia questo lessico dipende dal fatto che le multinazionali esportano la propria terminologia nella propria lingua, e i giornalisti, invece di tradurla, la ripetono e la rafforzano educando tutti alla newlingua che prende corpo nella loro testa. Tutto nasce dal fatto che AirBnB, in un Paese-colonia come il nostro, ha introdotto la figura dell’“host” al posto di ricorrere alla parola italiana “locatore”, mentre ai francesi o agli spagnoli il programma si rivolge con le parole autoctone (hôte e anfitrión), esattamente come Google in Italia propone il servizio denominato in inglese AI mode, che in Francia e Spagna è invece tradotto con Mode IA e Modo IA.

La disinformazione giornalistica che, seguendo Orsini, fa del nostro Paese uno Stato satellite dal punto di vista politico, agisce nello stesso modo anche dal punto di vista linguistico, e più in generale culturale. Per fare un altro esempio, mi ha colpito un articolo di un linguista intitolato “Estensione dello «switch» nella lingua incassata. Alcune osservazioni sul Matrix Language Frame” che ricorre a una terminologia “coloniale” dove i concetti – per l’ennesima volta – sono espressi in inglese, dunque si parla come fosse la cosa più normale di code mixing, system morphemes, codici embedded, insertions, bare forms, discourse marker… in una trasposizione che non fa altro che ripetere pappagallescamente le concettualizzazioni di autori anglofoni con la loto terminologia in inglese che diventa intoccabile e tecnica (talvolta solo affiancata tra parentesi da una sommaria indicazione di cosa significa in italiano). Negli articoli dei linguisti, sino al Novecento, la terminologia era praticamente quasi solo in italiano, ma in un Paese satellite degli Usa tutto quanto si srotola con una rapidità preoccupante. E se questa sottomissione ai modelli anglofoni sta prendendo piede persino tra i linguisti, negli altri settori è anche peggio.

La lingua, per tornare a Freud, è la spia dell’inconscio, e per comprendere il perché dell’esplosione incontrollata degli anglicismi e più in generale di un riversamento dell’inglese sempre più incontenibile, dovremmo cominciare a riflettere sul fatto che siamo un Paese satellite degli Usa non solo dal punto di vista politico o economico, ma anche sociale e culturale.

Eppure il dibattito manca e sulla questione tutto tace. Persino tra chi denuncia il nostro gravitare attorno alla politica della Casa Bianca con delle sacrosante riflessioni che andrebbero però estese a un contesto più ampio: se la libertà di stampa è minata da un sistema di informazione omologato sul pensiero politico dominante che ci proviene d’oltreoceano – e spesso chiamato non a caso mainstream – ciò non vale solo per la narrazione della guerra o della politica internazionale, ma coinvolge la nostra intera visione e del mondo e della cultura, che invece di produrre un pensiero autonomo si riduce a ripetere ciò che proviene dall’anglosfera. In questo processo anche le nostre parole vengono dismesse e sostituite dalle categorie espresse in inglese, perché il fenomeno fa parte dello stesso pacchetto.

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Sulla parola “genocidio” e sui genocidi linguistici


Di Antonio Zoppetti

Dietro certe parole non c’è la semplice descrizione della realtà, bensì la sua costruzione e la sua interpretazione, che non è mai neutra, è sempre un atto politico. Anche se non è vero che ne uccide più la lingua (o la penna) che la spada, fuor di metafora ci sono parole che possiedono una connotazione e una capacità evocativa dirompenti. “Genocidio”, per esempio, si carica di una valenza così insopportabile da apparire più importante dei crimini e delle atrocità che descrive, dunque, di fronte a quanto sta succedendo a Gaza è in corso un acceso dibattito per stabilire se tanta inumanità possa essere definita “genocidio” o un “semplice” crimine di guerra, un “normale” sterminio ponderato dei civili come tanti altri.

Alcuni personaggi, per esempio Paolo Mieli (“Mi rifiuto di parlare di genocidio”), Italo Bocchino (“bisogna stare attenti a usare la parola genocidio”, “è una parola sbagliata”) e tanti altri dimostrano una certa ossessione nel negare, e reagiscono ogni volta con veemenza, mentre sul fronte opposto genocidio viene di solito sbandierato e messo in risalto in una polemica senza soluzioni davanti alla quale ogni presentatore televisivo tende ormai a evitare di ricorrere a una parola impronunciabile e divisiva, per non aprire “quella porta” e passare ai fatti.

Davanti ai massacri, davanti alla sistematica distruzione di case, ospedali e infrastrutture, davanti alla strategia di ridurre la popolazione alla fame e di provocare una pianificata carestia con tanto di tiro al piccione per uccidere chi è in fila per un tozzo di pane distribuito a singhiozzo e controllato dagli israeliani… la questione ha assunto dunque un’enorme rilevanza.

Genocidio: sì o no? Il tormentone non è né nuovo né meramente linguistico

Colpisce che in questo animato dibattito i linguisti rimangano in disparte, mediamente, e che per esempio tra le consulenze della Crusca che rispondono ai quesiti dei lettori e ragionano sull’appropriatezza delle parole e sul loro uso, non ci sia una presa di posizione in merito, al contrario di ciò che avviene per altre questioni spinose e tutte politiche, prima che linguistiche, dalla legittimazione di certi anglicismi alle prese di posizione ufficiali sulla femminilizzazione delle cariche.

C’è poi un altro fatto che stupisce. Sembra che nessuno si accorga che le polemiche sulla legittimità di un’etichetta infamante come “genocidio” non sia affatto una novità che emerge oggi a proposito di Israele, ma è un tormentone che riaffiora ogni volta che simili crimini si manifestano.

Anche se certi personaggi dalla memoria di un pesce rosso fanno finta di non ricordarselo, basta scorrere gli archivi storici dei giornali per constatarlo: e già ai tempi del massacro dei Tutsi sulle pagine dei giornali si dibatteva sulla questione e uscivano articoli intitolati “Non chiamatelo genocidio” come predicava il democratico Bill Clinton arrampicandosi sui vetri come fanno oggi Mieli, Bocchino e gli altri.

L’unica cosa certa è come andata a finire: oggi questi massacri sono stati riconosciuti ufficialmente dalla Corte internazionale di giustizia come genocidi – con buona pace dei negazionisti – esattamente come sta accadendo con Gaza: la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite ha concluso che Israele ha commesso ben quattro violazioni della Convenzione sul genocidio.

In queste diatribe è però indispensabile fare un distinguo tra l’accezione tecnica, giuridica e in fondo terminologica di “genocidio” e la sua portata in senso lato che circola nella lingua comune, visto che la lingua è metafora. E ripercorrere la storia della parola aiuta a comprendere come stanno veramente le cose.

Genocidio: etimo e significato

“Genocidio” è un concetto proposto dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, nel 1944, davanti ai crimini del nazismo, ma in seguito dichiarò che l’idea di coniare quella parola nasceva dallo sterminio degli armeni da parte dell’Impero Ottomano avvenuto all’inizio del secolo. In un articolo del 1945 spiegava che gli orrori dell’olocausto erano in fine dei conti l’incarnazione organizzata più eclatante – nelle modalità di attuazione – di qualcosa di più ampio del contesto storico di allora. E precisava:

“Il crimine del Reich nello sterminare volutamente e deliberatamente interi popoli non è del tutto nuovo nel mondo. È nuovo solo nel mondo civilizzato che siamo giunti a concepire (…). È per questo motivo che mi sono preso la libertà d’inventare la parola ‘genocidio’. Questo termine deriva dalla parola greca ghénos, che significa tribù o razza, e dal latino caedo, che significa uccidere. Il genocidio deve tragicamente trovare posto nel dizionario del futuro accanto ad altre parole tragiche come omicidio e infanticidio. Come suggerito da Von Rundstedt, il termine non significa necessariamente uccisione di massa, ma questa può essere una delle sue accezioni. Più spesso, si riferisce a un piano coordinato volto alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, affinché tali gruppi avvizziscano e muoiano come piante colpite dalla ruggine.”

Il genocidio nel diritto internazionale

La parola è stata così accolta e ripresa nel 1946 durante il processo di Norimberga contro i crimini del nazismo e due anni dopo l’Onu ha dichiarato il genocidio un reato. Anche se per condannare qualcuno per un crimine è necessario avere parametri oggettivi con cui valutarlo, la definizione giuridica di genocidio dell’Onu del 1948 si presta comunque a diverse interpretazioni, dunque il riconoscimento ufficiale del genocidio è avvenuto per esempio nel caso dello sterminio degli Armeni o, in tempi più recenti, nei massacri etnici avvenuti in Ruanda negli anni Novanta. Ma non tutti sono concordi nel riconoscere certe sentenze, e ancora oggi la Turchia nega il genocidio armeno, non solo per motivi etici e di immagine, ma soprattutto perché sotto la questione legale si celano enormi interessi economici, a partire dalla restituzione dei beni espropriati agli armeni che rappresenta una voce enorme per l’economia turca.

I risvolti economici, per Israele, sono anche maggiori. C’è il disegno di radere al suolo Gaza per ricostruirla come un lussuoso villaggio turistico che prevede una sorta di sostituzione etnica con incentivi (ti pago e te ne vai via dalla tua terra). C’è l’appropriazione di terre ricchissime di risorse da sfruttare e c’è anche la questione dei territori occupati illegalmente nella Cisgiordania. Trasformare il genocidio in una semplice guerra che basta vincere in qualche modo (anche se gli israeliani non hanno alcun esercito contro cui combattere, e a parte qualche sporadica incursione di Hamas stanno operando contro i civili e le loro abitazioni) è fondamentale per questo progetto. Ed è poi essenziale anche dal punto di vista del diritto internazionale, sia per evitare l’arresto di Netanyau per il suo crimine (ma il problema non è solo Netanyau, c’è un intero sistema che lo sostiene) sia per non coinvolgere l’Occidente suo alleato – Europa e Italia inclusi – che invece di applicare sanzioni come nel caso di Putin, si limita a condannarlo a parole – come un “camerata che sbaglia” si potrebbe parafrasare provocatoriamente – e con cui non si smette di fare affari soprattutto nella compravendita di armamenti.

Mentre su piano giuridico e in un certo senso terminologico saranno la storia e le sentenze a decretare se tutto ciò sia o meno genocidio, se si passa alla lingua comune le cose sono più semplici, ed è più difficile negare.

Il genocidio nella lingua comune

Sono stati effettuati vari sondaggi in cui si chiedeva agli italiani – dunque al popolo e alle masse – se consideravano genocidio il massacro dei palestinesi, e per la maggioranza la risposta è stata sì, una convinzione che aumenta di giorno in giorno davanti ai fatti sotto gli occhi di tutti. Visto che certi linguisti e lessicografi che si pongono come “descrittivisti” si riempiono la bocca di sciocchezze per cui la lingua arriverebbe dal basso, seguendo il loro criterio si dovrebbe affermare che Israele si sta macchiando di genocidio, se è l’uso che fa la lingua. Ma si sa che questa presunta “democrazia linguistica” viene invocata solo quando fa comodo; in altri casi si cambia casacca e si può sempre dire, come fanno i negazionisti, che la gente non sa che cosa significhi questa parola, dunque parla a vanvera e non fa testo.

Se però si analizza la letteratura alla ricerca dell’uso della parola genocidio fuor da Gaza, le cose cambiano. Questo vocabolo è frequente per descrivere per esempio lo sterminio dei Catari e degli Albigesi agli inizi del Duecento attraverso una campagna militare durata vent’anni orchestrata dal Re di Francia e da papa Innocenzo III che li aveva bollati come eretici. Si ritrova nel caso del genocidio dei nativi americani, numericamente più consistente di quello dell’olocausto. In questo caso lo sterminio delle popolazioni non è avvenuto solo intenzionalmente attraverso i massacri e il confinamento dei nativi nelle “riserve” che di anno in anno si rimpicciolivano fino a soffocarli. Il numero maggiore di morti è stato causato involontariamente attraverso le malattie che gli europei hanno portato, e che risultavano mortali in quelle popolazioni senza anticorpi davanti alle nostre epidemie. Eppure nessuno si sogna, in casi del genere, di mettere in discussione la parola, nessuno è interessato a cavillare per concludere che quello dei nativi americani o dei catari non era proprio un genocidio ma qualcos’altro. Perché fuori dai tecnicismi giuridici che tagliano fuori i non addetti ai lavori “incompetenti” la parola genocidio coniata da Lemkin è entrata nella lingua comune e nei vocabolari – come da lui auspicato – per esprimere un concetto intuitivo e macroscopico che non ha alcun bisogno di basarsi sulle definizioni giuridiche (peraltro controverse).

Genocidi culturali e linguistici

Ogni genocidio non comporta solo il tentativo di cancellare gli individui di una popolazione, ma coinvolge inevitabilmente la loro stessa cultura e dunque spesso anche la loro lingua. Il genocidio di Albigesi e Catari protetti dai signori della Provenza, per esempio, ha determinato anche la fine della poesia provenzale nella lingua d’oc. Questi poeti sono fuggiti in una diaspora che li ha portati in Spagna, in Italia e altrove, mentre l’annessione del territorio alla Francia ha introdotto ufficialmente l’antico francese – la lingua d’oïl – anche lì.

Uno dei primi a utilizzate la parola in senso lato e a legarla alle questioni linguistiche parlando esplicitamente di “genocidio culturale” o “linguistico”, è stato Pasolini, che negli anni Sessanta, davanti alla compiuta unificazione dell’italiano, notava che il prezzo era un certo “genocidio culturale, dove tutti parlano e consumano allo stesso modo, un genocidio che coinvolge anche i dialetti che vengono rinnegati e ridotti a ‘codici residuali’ marginali”. E su questo uso metaforico di genocidio era tornato anche nel 1974 nell’ultimo suo intervento pubblico prima di venire assassinato. Ma il riferimento al genocidio linguistico si trova in tantissimi autori, soprattutto a proposito dell’estinzione delle lingue in Africa – denunciata con preoccupazione anche dall’Unesco – e il linguista tunisino Claude Hagège rilevava come la distruzione delle culture può avvenire attraverso un genocidio fisico ma anche in altre forme che non prevedono il massacro di una popolazione. Tra i fattori determinanti di questo enorme genocidio linguistico riconosceva all’espansione dell’inglese globale un “ruolo di primo piano” (Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità, Feltrinelli, Milano 2002, p. 99). Ma anche la ricercatrice finlandese Tove Skutnabb-Kangas tacciava l’Occidente di “linguicismo”: come il razzismo e l’etnicismo discriminano sulla base delle differenze biologiche oppure etnico-culturali, il linguicismo discrimina in base alla lingua madre e determina giudizi sulla competenza o non competenza dei cittadini nelle lingue ufficiali o internazionali, mentre il monolinguismo a base inglese era per lei un “cancro” a cui andrebbe contrapposto il riconoscimento dei diritti linguistici e del pluralismo, se non vogliamo essere complici del genocidio linguistico e culturale nel mondo (“I diritti umani e le ingiustizie linguistiche. Un futuro per la diversità? Teorie, esperienze e strumenti”, in Come si e ristretto il mondo, a cura di Francesco Susi, Amando Editore, Roma 1999, p. 99).

Un effetto collaterale del genocidio palestinese è proprio quello di consolidare e di allargare l’espansione dell’inglese globale, che nessuno in questo momento denuncia, di certo perché ci sono da denunciare cose ben più gravi, ma anche perché in Italia (e non solo da noi) non c’è alcuna sensibilità sulla questione. Quale lingua si parlerà in una futura Gaza ricostruita e concepita come un resort da cui i palestinesi sembrano esclusi? Perché sulla stampa la città di Gaza è diventata Gaza city? Perché c’è chi preferisce parlare di West Bank invece che di Cisgiordania? Come mai sui giornali italiani ricorre solo la sigla Idf (cioè Israel Defense Forces pronunciato in tv all’inglese “AI-DI-EF”) mentre su quelli francesi e spagnoli si usa prevalentemente la propria lingua e si parla della difesa israeliana senza ricorrere all’inglese?

Mentre si consumano le baruffe sull’opportunità di parlare di genocidio palestinese, davanti al genocidio culturale e linguistico provocato dal globalese in tutto il mondo non c’è alcuna preoccupazione. Eppure, se dietro certe parole non c’è la semplice descrizione della realtà, bensì la sua costruzione e la sua interpretazione, anche le scelte lessicali che si appoggiano all’inglese non sono neutrali. Sono anche queste un atto politico e non dovremmo dimenticarcene: l’inglese è la lingua di classe dei popoli dominanti che la stanno imponendo a quelli sottomessi, anche se su questo caso nessuno sembra intenzionato a fare la resistenza. Nemmeno i cosiddetti “propal” che nelle piazze gridano “fri palestàin” come se l’inglese (di Trump e di Netanyau) fosse la lingua di tutti. Invece, per non essere complici dell’attuale genocidio linguistico farebbero meglio a gridare “Palestina libera” in tutte le lingue del mondo.

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