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L’anglocrazia e gli anglicismi (che schiavi degli Usa zio Sam ci creò)


Di Antonio Zoppetti

“Agosto, lingua mia non ti conosco”, si potrebbe concludere dopo il delirium anglicus con cui i mezzi di informazione ci hanno lavato il cervello. In latino non maccheronico si direbbe delirium anglicum, al neutro, ma chissenefrega, tanto il latino è stato dismesso da decenni come modello formativo e ormai c’è solo l’inglese. Il fenomeno non è però balneare, ma ormai strutturale: dopo la sciacquatura dei cenci in Arno per modernizzare la lingua ottocentesca, con buona pace del Manzoni nel nuovo millennio i nuovi ceti colti lavano i panni nell’Hudson River più che nel Tamigi.

Tra i titoli in itanglese puro della rassegna stampa che ho raccolto, mi ha colpito: “Malpensa, 26enne appicca il fuoco vicino al check in e prende a martellate i desk: evacuato il Terminal 1″.

Non poteva poi che impazzare l’overtourism, neanche a dirlo, visto che i giornalisti sembrano incapaci di esprimersi in italiano attraverso parole come sovraffollamento o sovraturismo.

Tra le chicche dell’estate, segnalo un pezzo che introduce il modernissimo, internazionalissimo e intraducibilissimo concetto di superager: “Ecco perché il cervello di alcuni ottantenni funziona come quello dei cinquantenni”, ma allo stesso tempo: ecco come il cervello di alcuni giornalisti italiani funziona come quello degli angloamericani di cui sono i collaborazionisti e la cassa di risonanza.

Che schiavi degli Usa zio Sam ci creò

L’anglocrazia, di cui il nostro apparato mediatico coloniale è l’espressione, non si limita a diffondere pappagallescamente in inglese – invece che in italiano – i concetti che si rubano dalla cultura superiore; si spinge a introdurre nella nostra società persino i neologismi introdotti dai dizionari inglesi, come quello di Cambridge che ha registrato una parola come “skibidi”, una scelta davanti alla quale – invece di reagire con un bel chissenefrega come avviene per i neologismi dei vocabolari francesi, spagnoli o tedeschi – i giornali la trasformano in una notizia eclatante da introdurre anche nel nostro lessico. Come se fossimo una provincia dell’anglosfera in cui ci si deve adeguare alle direttive della casa madre, in un ponderato progetto di anglificazione culturale dove gli anglicismi sono introdotti e diffusi per educarci alla lingua dei padroni e dello zio Sam.

E così nel Bresciano il cambiamento climatico (forse climate change sarebbe più appropriato, ma nessuno è perfetto) si combatte con il breeding, mentre il mais nano diviene smart corn che fa pendant (mi si perdoni il francesismo) con il popcorn (in cui forse si trasformerà una volta raccolto e lavorato), ma anche con lo smart working dell’era di smart city, smart card, smartphone, smart tv, smartwatch, smartglass… (ad libitum sfumando e sfogliando i dizionari dell’”italiano” moderno). Intanto i tour operator introducono il glamping accanto alle vacanze pet friendly, mentre sticker dopo aver soppiantato la parola adesivo si trasforma in cerottino “anti-brufoli” (da notare che il titolista mette le virgolette su anti-brufoli, mica su sticker).

Passando dalle idiozie che servono a riempire le pagine dei quotidiani in periodo di ombrelloni alle cose serie e alle notizie vere, spicca il fatto che ormai si parli solo di Gaza City, invece che di Gaza o della città di Gaza, come fosse una tipica denominazione araba. Sembra insomma che non basti radere al suolo la città con tank e raid (parole che fanno apparire tutto in modo più soft rispetto a carro-armati e bombardamenti), né sterminare la popolazione composta prevalentemente da minori in un ponderato progetto politico che però non si deve certo chiamare “genocidio”, perché le parole sono importanti (ma solo quando fa comodo)! E infatti – mentre anche la Cisgiordania rischia di diventare la West Bank occupata dagli israeliani in modo sempre più ufficiale – in attesa di trasformare la Striscia in un villaggio turistico pieno di resort per ricchi tycoon ripulito dagli abitanti-terroristi sopravvissuti alle bombe e alla carestia provocata da criminali con il distintivo, sarà bene cominciare almeno ad anglicizzare la toponomastica, sovrapponendo le denominazioni in inglese a quelle italiane (e anche a quelle autoctone arabe, ci mancherebbe altro!).

L’anglocrazia, che la Treccani definisce la “posizione di predominio della lingua inglese in ambito internazionale”, a dire il vero da noi si ripercuote anche sul piano interno, e si vede anche da questi piccoli particolari linguistici, che non sempre sono consapevoli, perché in un contesto anglomane sempre più prepotente diventano degli automatismi istintivi. Le conseguenze dell’anglocrazia tutta italiana sono pesanti: se i giornali parlano solo di Gaza city in modo ossessivo e martellante che cosa possono fare i cittadini se non ripetere questa espressione che diventa una soluzione terminologica ufficiale?

Dalle italianizzazioni forzate del fascismo alla dittatura dell’inglese

Davanti alla decisione di Google Maps di affiancare la storica denominazione di Golfo del Messico a quella di Golfo d’America per compiacere i capricci trumpiani, torna in mente la politica del fascismo per italianizzare La Thuile in porta Littoria o Sauze d’Oulx in Salice d’Ulzio. Eppure gli intellettuali che con la bava alla bocca ridicolizzano la politica linguistica del fascismo facendola coincidere solo con la guerra i barbarismi (in una revisione della storia), davanti all’anglicizzazione di Gaza City e West Bank tacciono. A nessuno o quasi viene in mente di denunciare la dittatura dell’inglese, anzi, la nuova egemonia culturale sta anglicizzando ogni aspetto della nostra società in modo decisamente più ampio e profondo rispetto alle italianizzazioni di regime.

E così l’anglocrazia regna dalla Sicilia, che ha inaugurato la campagna di promozione turistica denominata See Sicily (tra i See Sicily Voucher e i Discover Messina), alla Lombardia dove a Milano i nuovi quartieri – divenuti district – sono denominati in inglese (da City Life al Nolo: North of Loreto). E il nostro presidente del Consiglio, che prima di esserlo firmava le proposte di legge contro gli anglicismi, non appena eletto si è presentato come un underdogche ha immediatamente creato il Ministero del Made in Italy, mica del prodotto italiano, ma allo stesso tempo ha scelto di definirsi “il” presidente, con il maschile inclusivo, il che è tutto lecito, ma aiuta a riflettere sul ruolo della politica e delle istituzioni nel dare un’impronta alla lingua, visto che in Italia circola leggenda che sia un processo spontaneo e ingovernabile.

L’italianizzazione forzata ai tempi del fascismo a suon di tasse e divieti fa ridere rispetto all’attuale anglicizzazione imposta dall’alto a partire dalle istituzioni, dai mezzi di informazione, dal gergo lavorativo, tecnico, scientifico e culturale e dalla nostra intelligentissima egemonia culturale che insegue la cultura e la terminologia che viaggia insieme all’espansione delle multinazionali d’oltreoceano. Se i sostitutivi della Reale Accademia d’Italia riguardavano meno di 2.000 parole (perlopiù francesi), gli attuali sostitutivi in inglese registrati nei dizionari sono almeno il doppio, e quelli non ufficiali che circolano sulla stampa sono di un ordine grandezza superiore.

Certo, anglicismi governativi come stepchild adoption, ticket, caregiver, jobs act, cashback e tutti gli altri sono presentati come “scelte” libere degli italiani, ma l’ipocrisia celata sotto questa insopportabile tiritera è quella di far credere che l’evoluzione della lingua sia un processo “democratico” che arriva dal basso. Si tratta di una balla insostenibile da acchiappagonzi, visto che basta studiare un po’ di storia (non solo della lingua) per rendersi conto che al contrario deriva dall’alto, dalle classi dirigenti che vengono prese poi come modello che si propaga nelle masse. E questa lingua classista ha poco a che vedere con la democrazia e con il modo di esprimersi del popolo.

Lo avevano capito e spiegato perfettamente intellettuali come Gramsci o Pasolini, che forse proprio perché non erano linguisti in senso stretto riuscivano a vedere un po’ più in là di una categoria che pensa con arroganza di possedere l’esclusiva sull’argomento senza riuscire a produrre riflessioni in grado di spiccare e incidere sulla società, a parte casi sporadici. Anche un non linguista come George Orwell aveva perfettamente compreso che l’affermazione di una lingua non è affatto un processo democratico, ma avviene “grazie all’azione consapevole di una minoranza”. Nel suo 1984, immaginava proprio come il Grande Fratello cercasse di imporre la Novalingua sulla Veterolingua, perché la lingua è potere, e il suo controllo è strategico.

Se ai tempi del purismo e poi del fascismo circolava il motto di Machiavelli “a ognuno puzza questo barbaro dominio”, oggi pare che sia l’italiano a emanare un certo afrore tra la classe dirigente anglomane. Dunque, se negli anni Venti del secolo scorso la mobilitazione dell’intellighenzia e dei linguisti di regime in nome dell’italianità riuscì a creare un certo consenso nelle masse, negli anni Venti del nuovo millennio i nuovi intellettuali del nuovo regime anglocratico hanno gli occhi puntati solo sull’anglosfera. E la loro newlingua orwelliana finisce per instaurare un analogo (benché antitetico) clima culturale totalitario dove tutto ciò che è nuovo si esprime in inglese.

In questo compiaciuto suicidio linguistico, a proposito di governance sul sito della Crusca si legge che se una parola di origine straniera è ormai divenuta italiana non si pone il problema del suo uso istituzionale, e tra gli esempi di questo “italiano” spicca anche quello di computer, come se l’italianità di simili voci dipendesse dalla loro diffusione e accettazione e non dalla loro pronuncia e della loro ortografia che è fuori dall’italiano (dove la “u” non si legge “iu” e “nans” non si scrive “nance”). Un simile giudizio – che fa accapponare la pelle – si basa sulle frequenze d’uso, non certo sul fatto che vocaboli del genere siano compatibili con il nostro sistema linguistico. Una volta ho letto persino la riflessione di un bizzarro personaggio che si chiedeva dopo quanto tempo una parola inglese diventasse “italiana”, come se il punto non fosse la sua pronuncia, il suo suono o l’adattamento al sistema linguistico in cui viene inserita, bensì una sorta di traguardo che si ottiene mettendosi in lista di attesa, come per le case popolari.

Forse certi linguisti dovrebbero ripassare la lezione settecentesca di Alessandro Verri che, nella sua Rinunzia al Vocabolario della Crusca dalle pagine del Caffè, si rivolgeva contro l’arcaicità e lo strapotere dell’Accademia gridando a squarciagola che avrebbe utilizzato persino le parole arabe, turche o sclavone se “italianizzandole” avessero portato nuovi e utili contributi.
Ma oggi, i discendenti dei puristi di cui un tempo la Crusca rappresentava il baluardo, si sono modernizzati, e chissà, forse darebbero del purista anche a Verri, visto nell’articolo succitato sulla governance la possibilità di italianizzare con governanza è respinta come una soluzione antiquata, invece di essere auspicata. Dunque si legittima la forma straniera in un’imbarazzante confusione tra italiano e inglese, come fossero la stessa cosa, facendo appunto di tutta l’erba un fascio.

Questo descrittivismo estremizzato, nel proclamare “italiane” le voci angloamericane, non può che trasformarsi in un anarchismo metodologico dove tutto va bene (anything goes, per gli anglomani che faticano a praticare la lingua di Dante). Seguendo questa prospettiva, se un giorno finiremo per parlare direttamente in inglese come hanno deciso di fare in certi atenei universitari, per usare l’italiano come fosse un dialetto nei contesti informali, si potrà sempre dire che in realtà parleremo ancora in italiano, se “italiano” è ciò che sgorga dalle bocche e dalle penne di chi abita nello Stivale indipendentemente da tutto il resto.

I linguisti da barzelletta – o da nuovo regime – che bollano come “purista” o “fascista” chi pone la questione della salvaguardia dell’italiano schiacciato dall’inglese come fosse una questione di principio, invece che di numeri e di dati oggettivi, non sono solo tendenziosi e scorretti, ma soprattutto miopi.

Davanti all’attuale dittatura dell’inglese, non resta che prendere atto che siamo in un nuovo regime dove l’inglese e l’itanglese rappresentano la nuova lingua di classe che viene imposta al popolo. Rispetto al fascismo, l’attuale anglocrazia dominante in epoca di democrazie a dire il vero sempre più traballanti è in fondo molto più subdola, perché non è esplicitata e dichiarata a viso aperto, ma di fatto impone a tutti espressioni come Gaza city, overtourism, lockdown e tutte le altre cancellazioni dell’italiano non più con le multe e i divieti, ma sposando un’anglomania compulsiva che punta alla sostituzione del lessico italiano con un inglese venduto come qualcosa di volta in volta più moderno, solenne o internazionale.

Legittimare e accettare questo sistema, invece di denunciarlo e stigmatizzarlo, non rende certi linguisti “descrittivi” o neutrali, ma complici e collaborazionisti di un nuovo colonialismo linguistico planetario che rischia di fare tabula rasa di ogni altra cultura in nome del pensiero e della lingua unica dei popoli dominanti.

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Dall’unificazione dell’italiano al suo sfaldamento: l’itanglese e le sue cause


Di Antonio Zoppetti

Alla proclamazione dell’unità d’Italia, nel 1861, stando ai dati dei censimenti gli analfabeti rappresentavano il 78% della popolazione ed erano distribuiti in modo poco uniforme: fuori dai centri urbani, in alcune zone rurali del mezzogiorno toccavano il 90% della popolazione, e sfioravano il 100% nel caso delle donne. Queste masse si esprimevano quasi solo nel proprio dialetto. L’italiano era una lingua letteraria che si utilizzava da secoli nella scrittura, ma persino i ceti colti erano dialettofoni e non lo utilizzavano come lingua naturale delle conversazioni.

Come era già avvenuto ben prima nelle grandi monarchie dell’Europa, anche nel nostro Paese l’unità politica ha portato all’unificazione linguistica. Il linguaggio dell’amministrazione, delle leggi e soprattutto i programmi di scolarizzazione, inizialmente piuttosto scalcinati, in breve hanno cominciato a dare i primi frutti: nel 1901 la percentuale degli analfabeti era calata dal 78% al 56%, per scendere al 35,8% nel 1921 e al 20,9% nel 1931. Il che significa che ogni nuova generazione compiva un grande salto rispetto alla precedente nell’imparare a leggere e a scrivere, ma anche nell’italianizzarsi.

Gli anni Trenta

Mentre la scolarizzazione si diffondeva generazione dopo generazione, l’avvento del sonoro ha contribuito ad affermare la lingua unitaria con un’intensità di ordini di grandezza superiori rispetto alla letteratura o alla pubblicistica che si propagavano per via scritta. Radio, cinema e poi televisione hanno avuto un effetto “pedagogico” enorme nel fare la lingua, difondendo la sua comprensione in modo in un primo tempo passivo ma poi sempre più attivo. Ma ancora agli inizi degli anni Trenta del Novecento questo modello di italiano apparteneva solo alle cerchie ristrette: “Tra la classe colta e il popolo c’è una grande distanza” scriveva Gramsci dalla cella del carcere dove il regime l’aveva rinchiuso. “La lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che è in gran parte il dialetto tradotto meccanicamente.”

Gramsci aveva perfettamente compreso che la lingua non arriva dal basso – questo era “uno sproposito madornale” – perché una lingua comune prende forma grazie ai “focolai di irradiazione” che portano all’unificazione linguistica in un territorio, e cioè la scuola, i giornali, gli scrittori, il teatro, il cinema, la radio, le riunioni pubbliche civili, politiche o religiose… Una lingua unitaria prende forma in questi ambienti per poi irradiarsi nel popolo solo perché esiste un ceto dirigente che la impiega facendola diventare un modello riconosciuto e seguito. Dunque, ogni volta che riaffiora la questione della lingua è perché è in atto una riorganizzazione dell’egemonia culturale, dove emerge un ricambio della classe dirigente che si porta con sé anche un modello linguistico da far prevalere: ogni “grammatica normativa scritta è quindi sempre una ‘scelta’, un indirizzo culturale, e cioè sempre un atto di politica culturale-nazionale.”

Gli anni Sessanta

Trent’anni dopo – dunque nell’arco di una sola generazione (teniamolo a mente) – la situazione era completamente cambiata. Se negli anni Trenta Gramsci lamentava la mancanza di una lingua unitaria e l’enorme frattura tra la lingua del popolo legata al dialetto e quella aulica degli intellettuali, in un articolo su Rinascita del 1964 Pasolini – “con qualche titubanza, e non senza emozione” – riconosceva finalmente l’avvento dell’italiano come lingua nazionale di tutti.

Il fenomeno era recente, si era manifestato con “la completa industrializzazione dell’Italia del Nord” che aveva dato vita a una nuova classe dirigente “realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra società” anche dal punto di vista linguistico. Dopo secoli e secoli di controversie letterarie su una questione della lingua che apparteneva solo ai gruppi ristretti dei ceti colti e dei letterati, negli anni Sessanta si era realizzata una convergenza di tutte le parti sociali e geografiche che tendeva a uno stesso idioma non solo nella scrittura, ma anche nel parlare. E se tutti, da Palermo a Milano, parlavano di “frigorifero” era perché il nuovo italiano esprimeva il linguaggio della nuova classe egemone figlia dell’industrializzazione. Questa “borghesia capitalista” esercitava da noi la stessa influenza unificatrice che in passato le monarchie aristocratiche avevano portato alla formazione delle grandi lingue europee.
L’avvento del nuovo italiano unitario si configurava però in modo diverso dal canone letterario toscaneggiante del passato, accoglieva gli influssi soprattutto del modo di parlare del nord, che era diventato il nuovo principale centro di irradiazione della lingua.
I nuovi “centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio” non erano più gli scrittori né le università, ma le aziende, in un mondo dove al centro della nuova lingua c’erano i prodotti di consumo e tecnologici. Il centro più vivo e innovativo dell’italiano contemporaneo si era spostato nelle zone industriali del settentrione, dove si era formata una nuova lingua tecnologica, industriale e capitalista, invece che umanista. Erano ormai gli imprenditori, gli scienziati e i giornalisti (nella loro accezione anche televisiva) coloro che avevano sempre più il potere di decidere della sorte della nostra lingua:

“È il Nord industriale che possiede quel patrimonio linguistico che tende a sostituire i dialetti, ossia quei linguaggi tecnici che abbiamo visto omologare e strumentalizzare l’italiano come nuovo spirito unitario e nazionale.”

In quegli anni sono spuntate le prime generazioni italofone di nascita anche fuori dalle regioni centrali, dove da sempre la lingua naturale delle conversazioni era molto vicina alla lingua della scrittura. Questo emergere di un italiano finalmente unitario ha finito per far decadere ancor di più l’uso del dialetto, che in molte aree del Paese è in via di estinzione, anche se in altre resiste come lingua domestica accanto a quella nazionale. Ma nel frattempo i nuovi centri di irradiazione della lingua si sono spostati fuori dall’Italia, e mentre la nostra società si è americanizzata sempre di più dal punto di vista politico, economico, sociale e culturale, è iniziata la nostra anglicizzazione anche linguistica.

Gli anni Novanta

Nell’arco di una sola generazione, nell’epoca della globalizzazione e dell’avvento di internet, l’italiano ha cessato di confrontarsi con i dialetti, ormai decaduti a codici marginali, per misurarsi con l’espansione del l’inglese planetario, il globalese o globish. I nuovi modelli linguistici anglicizzati arrivavano nella lingua di tutti non più solo attraverso il cinema o la musica come fino agli anni Sessanta, ma anche attraverso la televisione che negli anni Ottanta è diventata una vetrina soprattutto dei prodotti d’oltreoceano che esportano la propria lingua, la propria visione e la propria cultura. L’espansione delle multinazionali e dell’angloamericano globalizzato si è imposto come lingua prevalente nella scienza, nel lavoro e in sempre più settori, inclusa l’Ue che lo diffonde nonostante non esista alcuna carta che ne sancisca l’ufficialità. E il ruolo dominante di questa lingua ha cominciato a riverbarsi con intensità mai vista nei linguaggi specialistici, dove gli anglicismi hanno colonizzato la terminologia dell’informatica, della tecnologia o dell’economia al punto che le parole italiane per esprimere questi domini non ci sono più.

Gli anni Venti del Duemila

Oggi l’inglese è compreso e parlato da meno del 20% dell’umanità, da una minoranza degli europei e anche da una minoranza degli italiani. Non è dunque la lingua delle masse, ma – come sempre nella storia – quella delle nuove élite. E nel disegno politico delle nuove classi dirigenti c’è proprio l’idea di formare in tutta Europa le nuove generazioni bilingui a base inglese, per cui si è introdotto l’inglese nelle scuole a partire dalle elementari per renderlo un requisito culturale obbligatorio e non una scelta culturale. E sempre più atenei puntano ad abbandonare l’insegnamento in italiano per farlo direttamente in inglese. Ancora una volta, l’imposizione della lingua avviene dall’alto seguendo precisi modelli politici, non certo in modo “democratico”.

Sembra quasi che di fronte all’unità linguistica che si è realizzata con tanta fatica solo dopo un secolo dalla proclamazione dell’Italia, la nuova classe dirigente punti sull’inglese proprio per elevarsi rispetto alle masse, inseguendo e ripristinando l’antica e storica diglossia italiana: se tra il Trecento e il Cinquecento il volgare toscaneggiante si è imposto sugli altri volgari che sono regrediti alla status di dialetti – lingue di rango inferiore, senza la loro università e il loro esercito – prima di allora era il latino a essere la lingua superiore della cultura, contro quella del popolino. Nella nuova diglossia che vede l’inglese come l’idioma superiore, l’italiano unitario regredisce e si avvia verso una strada che rischia di trasformare le lingue nazionali nei dialetti di un’Europa e di un “occidente” che si fa coincidere con l’anglosfera. L’inglese è la nuova lingua dei padroni, e la nostra intellighenzia lo ha preso come modello.

Gli anglicismi come effetto collaterale del globalese

L’angloamericano viene oggi vissuto dalle nuove classi dirigenti come lingua “internazionale”, anche se non è affatto l’esperanto – una lingua artificiale pensata proprio per essere lingua della comunicazione internazionale – è la lingua naturale dei popoli dominanti che la esportano a tutti gli altri.

In un articolo di qualche settimana fa, il giornalista Rampini piangeva disperato davanti alla decisione della Cina di rompere con l’inglese. E invece di comprendere che ai cinesi – che sono numericamente ben di più degli anglofoni – non conviene affatto investire sull’inglese, si strappava i capelli perché in questo modo si verrebbe a spezzare la lingua comune internazionale in via di espansione, a suo dire, come se l’unica soluzione per risolvere i problemi della comunicazione tra i popoli sia quella di americanizzarsi.

La nuova classe dirigente italiana, insomma, è l’espressione di una mentalità figlia di un imperialismo americano che ha ormai interiorizzato e dà per scontato in modo acritico. E anche se la denuncia di questo imperialismo non è più di moda – dopo l’epoca della guerra fredda e la logica dei due blocchi – il fenomeno non è scomparso, si è al contrario accentuato nel silenzio della nostra classe politica. E in questi giorni sta emergendo nei recenti e pericolosi vaniloqui di Trump che vorrebbe annettere il Canada, la Groenlandia e il canale di Panama in una cancellazione del Golfo del Messico che dovrebbe diventare il Golfo d’America.

Se la lingua di questo impero diventa quella internazionale inseguita dai nuovi ceti dirigenti, dunque lingua alta, inevitabilmente l’italiano cesserà di essere una lingua di cultura, e allo stesso tempo sempre più anglicismi si diffonderanno nelle lingue locali come gli effetti collaterali di questo fenomeno.

Nell’attuale riorganizzazione dell’egemonia culturale e nel nuovo ricambio della classe dirigente è perciò l’inglese a costituire il nuovo modello linguistico che fa regredire l’italiano.

Perché un titolo di giornale parla di “bird stike” per indicare l’impatto degli uccelli che causa incidenti aerei?

Perché la lingua dell’aviazione è l’inglese, e il giornalista – esponente della nuova oligarchia culturale – si compiace nel riprendere il tecnicismo in inglese invece di usare l’italiano, perché gli pare più solenne e moderno e dunque lo dà in pasto al pubblico e lo impone, per educare tutti alla newlingua, che è quella che ha in mente lui e quelli come lui, non certo gli italiani intesi come le masse.

E così escono pezzi che parlano del burnout natalizio delle mamme, in un’anglicizzazione compulsiva in parte derivata dall’espansione delle multinazionali che si riverbera in articoli che parlano per esempio degli Amazon echo con speaker wireless e display smart, in un abbandono dell’italiano per diffondere la terminologia in inglese. E sul fronte interno le amministrazioni che regolano gli affitti brevi si occupano di keybox e di check-in

Sempre più spesso questo inglese viene diffuso dal linguaggio istituzionale, che un tempo – come i mezzi di informazione – ha invece spinto a unificare la nostra lingua. E più i generale tutti i nuovi centri di irradiazione della lingua diffondono ormai il modello dell’itanglese, non solo quelli storici individuati da Gramsci, ma anche quelli nuovi che includono le pubblicità, la lingua del web o quella dei cosiddetti “influencer”. Rispetto all’epoca di Pasolini la lingua tecnologica non arriva più dal nord, ma direttamente dall’anglosfera senza più traduzione.

La questione, dunque, più che linguistica è politica e culturale, oltre che sociale. E dovremmo chiederci quale sarà l’italiano della prossima generazione, vista la velocità dell’espansione del fenomeno. L’italiano che va per questa strada è destinato a sfaldarsi, se non si cambia rotta, perché non segue più l’ortografia e la pronuncia che hanno caratterizzato l’italiano storico per secoli, ma si sta trasformando in una lingua ibrida che si può ormai definire itanglese. Siamo di fronte a un cambio di paradigma e a una discontinuità che fa dell’itanglese un nuovo modello linguistico di prestigio. Ma questo modello appare ormai come nuova lingua invece che un’evoluzione dell’italiano storico per come lo abbiamo conosciuto.

Per chi è interessato, domenica 12 gennaio, ne parlerò brevemente con Paolo di Paolo a La lingua batte(su radio3 Rai, dalle 10,45) nel dodicesimo compleanno della trasmissione.

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