Di Antonio Zoppetti
Era il 1989 quando Natalia Ginzburg scriveva:
“Nella nostra società attuale è stato decretato l’ostracismo alla parola cieco e si dice invece non vedente. È stato decretato l’ostracismo alla parola sordo e si dice non udente. Le parole non vedente e non udente sono state coniate con l’idea che in questo modo i cechi e i sordi saranno più rispettati. […] La nostra società non offre ai ciechi e ai sordi nessuna specie di solidarietà o di sostegno, ma ha coniato per loro il falso rispetto di queste nuove parole. Per la stessa motivazione ipocrita, per lo stesso falso rispetto, i vecchi vengono chiamati gli anziani come se la parola vecchiaia fosse una parola infamante. In verità non si capisce perché la parola vecchiaia debba essere considerata infamante o oltraggiosa, indicando un’età dell’uomo a cui nessuno può sfuggire se vive. Oltraggioso è invece il modo come viene trattata, nella nostra società, la vecchiaia. Sempre per la stessa motivazione ipocrita, le donne di servizio vengono chiamate colf, collaboratrici domestiche, con un’abbreviazione che si reputa graziosa. Però noi tendiamo abitualmente a non collaborare affatto alle faccende domestiche o a collaborare molto poco e le cosiddette colf nelle nostre case fanno tutto loro. Sempre per le stesse motivazioni la società impone di non dire neri o negri ma dire invece ‘persone di colore’. E perché? di quale colore? Nella parola nero o negro c’è forse qualcosa di oltraggioso? […] Abbiamo tanta paura della realtà? Abbiamo tanta paura della malattia e della morte, da astenerci dal pronunciare la parola cancro e credere di dover dire sempre ‘un male incurabile’?”
[Natalia Ginzburg, “L’uso delle parole”, L’Unità, 28 maggio 1989, p. 2].
Chi decreta come dobbiamo parlare?
Dovremmo chiederci: chi ha coniato e diffuso “non vedente” al posto di “cieco”, e chi ha decretato che alcune parole comuni sono diventate oltraggiose? Chi ha diffuso (e diffonde) questo lessico dell’ipocrisia? Di certo non la gente, ma una generica “società” – intesa come una pressione censoria dall’alto – che opera incessantemente per il controllo della lingua, con lo scopo di imporla alle masse in nome di una morale discutibile che produce spesso esiti goffi. E infatti, rispetto agli anni in cui scriveva la Ginzburg, oggi definire il cancro un male “incurabile” invece caso di mai di “inguaribile” – ma già allora le cure esistevano e in qualche caso si guariva – è davvero imbarazzante, così come nel frattempo è stato stigmatizzato il parlare di persone “di colore”, e mentre una parola come “negro” è diventata un tabù impronunciabile, è stata attualmente sostituita con “nero” che è diventata la parola prescritta (i “mori” appartengono al passato). E così mentre ogni tanto “il Comune cambia il colore ai tranvai”, come cantava Paolo Conte, il destino di questo revisionismo linguistico è una corsa incessante per raggiungere un politicamente corretto che non si raggiungerà mai, perché il problema non sono le parole, ma la nostra testa – la discriminazione è lì – e qualunque riverniciatura lessicale in nome di una neutralità artificiale è destinata a divenire nuovamente discriminante in poco tempo, se non cambiamo mentalità. E infatti “handicappato”, mutuato dal gergo sportivo e introdotto nel linguaggio comune come più rispettoso di “minorato”, presto è diventato nuovamente dispregiativo, e dunque le stesse pressioni sociali che l’avevano introdotto a forza hanno cominciato a metterlo al bando in nome di “disabile” e poi “diversamente abile” in un vocabolario artificiale in cui lo spazzino diventa operatore ecologico, il bidello operatore scolastico e via dicendo.
In questo clima censorio, per riprendere le parole dell’articolo della Ginzburg:
“Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo. Cosi accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri.
Per docilità, per ubbidienza, la gente è spesso ubbidiente e docile, ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino. Sembra un problema insignificante ma non lo è.
Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà”.
La censura delle parole
L’avvento del politicamente corretto che ha preso piede negli anni Novanta, fatto di un revisionismo linguistico di facciata, invece di risolvere i problemi sociali li lascia intatti limitandosi a cancellare le parole, agendo sulla lingua per poi agire sulla realtà in modo manipolatorio, come avveniva con la Veterolingua sostituita dalla Novalingua in 1984 di Orwell. Ma gli intellettuali, invece di sgomberare le parole-cadavere, le hanno legittimate spesso in un clima da caccia alle streghe che si è rivelato altrettanto repressivo e fondamentalista del controllo linguistico di epoca fascista, che esortava alla bonifica dei barbarismi, all’eliminazione del “lei” in nome del “voi”, e persino all’abolizione della stretta di mano sostituita con il saluto romano. Invece delle leggi, dei divieti o delle multe fasciste, nel nuovo clima “democratico”, le purghe e i manganelli sono stati rimpiazzati da una stigmatizzazione sociale altrettanto oscurantista, e da una mistificazione della storia che non è altro che la “cultura della cancellazione”.
Se una parola come “negro” sino agli Novanta non aveva alcuna accezione negativa, da un giorno all’altro è diventata impronunciabile, una parola tabù, e da quel momento in poi chi la diceva diventava razzista in una cancellazione di secoli di storia. Così era avvenuto negli Usa a proposito dell’inglese, dove al contrario dell’italiano la valenza spregiativa di “negro” c’era, e dunque così doveva essere anche in Italia. Perciò è stata vietata di fatto senza alcuna legge, ma in modo così coercitivo che nel 2020, per fare un esempio recente, Fausto Leali è stato espulso dal Grande Fratello (quello televisivo questa volta, non quello di Orwell, ma il parallelismo è significativo) per averla pronunciata. Precedenti del genere, in tv, esistevano solo nel caso delle bestemmie, che però sono esplicitamente vietate e sanzionate dalla legge (art. 724).
Il lessico oscuro e anglicizzato con cui seppellire quello familiare
Intanto, rispetto agli anni Novanta, la ventata del politicamente corretto che arriva non a caso d’oltreoceano, e che ha preso piede soprattutto tra gli intellettuali, i giornalisti e coloro che hanno il ruolo – e il potere – di decidere le sorti della lingua, si è intrecciata con la diffusione e la moltiplicazione degli anglicismi. Le nuove parole-cadavere che puntano a riscrivere la storia e che si staccano dalla lingua della gente sono sempre più in inglese, mentre è l’italiano che si trasforma nel “linguaggio clandestino” del popolo che parla di negozi, cibo, andare a correre, animali domestici… mentre sui mezzi di informazione e sulle piattaforme informatiche si legge solo shop e store, food, running, pet… in una dicotomia sempre più forte tra il linguaggio storico e della gente e quello mediatico e persino istituzionale.
Natalia Ginzburg, con il suo Lessico famigliare che recuperava appunto le parole colloquiali e persino gli idioletti della propria famiglia, aveva vissuto in prima persona le imposizioni del fascismo, anche linguistiche, e nel suo romanzo si trovano riflessioni preziose sia su questo aspetto sia sulla delusione davanti alla nuova realtà post-fascista:
“Finita la guerra, l’iniziale euforia lascia il posto ad una nuova, faticosa, ricerca stilistica, in ragione del mutamento avvenuto nella realtà. […] Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano ritrovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; […] Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere che aveva, nella generale ubriachezza, dimenticato. E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all’ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla.”
In questo nuovo scenario postbellico che ci ha “inclusi” attraverso il Piano Marshall nella sfera americana dal punto di vista economico, politico, sociale e dunque linguistico, il post-sbronza della Ginzburg si chiama ormai hangover, e la moltiplicazioni di parole inglesi “prive di radici” si è radicata scalzando il nostro lessico familiare – ma anche letterario – sostituito da una lingua sempre più elitaria e oscura ai più veicolata proprio a partire dalle istituzioni, oltre che dai mezzi di informazione.
Il tema del lessico e della lingua, fu ripreso dalla scrittrice vent’anni dopo in un intervento pronunciato alla Camera a favore della trasparenza con queste parole:
“Le leggi dovrebbero essere fatte dello stesso linguaggio che si adopera per parlare dell’acqua e del pane: ma, d’altronde, l’oscurità, la tortuosità del linguaggio l’incontriamo spesso oggi non soltanto nei decreti-legge, ma anche nei romanzi e nei giornali. È sempre un linguaggio ricattatorio, intimidatorio, è il linguaggio che tacitamente dice al prossimo: «se non mi capisci, è perché sei imbecille»! E ancora tacitamente aggiunge: «Io sono più forte di te, sono in una sfera superiore alla tua, fra me e te corrono distanze incommensurabili. Io ho in mano il tuo destino e la tua vita, io sono tutto e tu non sei nulla»! […] Ma i giornali, i giornali dovrebbero essere chiari: la gente li compra e legge ogni giorno per sapere e capire che cosa succede, e devono essere chiari. E il linguaggio dei politici dovrebbe essere chiaro, accessibile a tutti, immediatamente intelligibile, limpido come uno specchio perché la gente vi si possa specchiare! I decreti-legge devono essere chiari. Fra le molte battaglie da combattere, una è certamente questa: la battaglia per un linguaggio chiaro, concreto, intelligibile a tutti, in rapporto diretto con le cose. Io credo che la vita del nostro paese diventerebbe migliore e più limpida se ognuno di noi si studiasse di vincere, almeno, intanto, l’oscurità del linguaggio, se si studiasse di indirizzarsi al prossimo con ogni parola, di non perdere mai di vista la realtà del prossimo, di non irriderlo, non truffarlo, non umiliarlo, non calpestarlo mai.”
[Camera dei Deputati. Assemblea, Resoconto stenografico. IX legislatura, 124° seduta, 7 aprile 1984, pp. 11767-11773).
Nel frattempo, la mancata chiarezza che calpesta, irride, umilia e truffa la gente, invece di rispecchiarne il linguaggio, non è svanita, ma si è evoluta, e avviene attraverso l’inglese.
Gli anglicismi e le parole-zombie
Oggi la comunicazione politica e giornalistica ha cambiato pelle rispetto agli anni Ottanta, ma invece di abbandonare l’oscurità e la prepotenza in nome di una lingua chiara, continua a perseguire e diffondere una nuova antilingua attraverso gli anglicismi e l’anglicizzazione: ticket sanitario, jobs act, cashback, flat tax, lockdown, smart working, spending review, caregiver, spoils system, whistleblowing… questa è la nuova lingua artificiale, questo è il nuovo lessico delle parole-cadaveri che però si vogliono far vivere e sostituire alla lingua storica, naturale e familiare come nell’incubo orwelliano. Dunque più che parole-cadaveri sono diventate parole-zombie, che si prescrivono e si fanno camminare a forza per affermarle dall’alto in modo artificiale fino a che non diventeranno per forza di cose naturali. L’itanglese prende vita in questo modo artificioso e lontano dal sentire e dal parlare della gente comune, che spesso viene esclusa da questa newlingua che discrimina larghe fasce della popolazione proprio mentre – in nome dell’inclusività e della lotta alla discriminazione – si mettono al bando parole storiche che si proclamano offensive, si farnetica sul maschile generico dichiarandolo sessista e prescrivendo lo scevà in una reintroduzione del neutro, facile e naturale per gli anglofoni, ma distruttivo del sistema linguistico di tutte le lingue neolatine. Questo strano modo di non discriminare è solo l’imposizione del pensiero unico di matrice angloamericana, che discrimina tutte le altre lingue e culture, e cancella il plurilinguismo per affermare il globalese.
Davanti a tutto ciò ci sono alcuni linguisti che si dichiarano “descrittivisti” che invece di comprendere ciò che è evidente, e che la Ginzburg aveva perfettamente colto e raccontato, ci vorrebbero fare credere che la lingua arriverebbe dal basso. Come se fossero incapaci di cogliere le differenze tra le parole strutturalmente italiane e quelle strutturalmente inglesi, questi signori sono pronti a dichiarare “italiane” le parole inglesi e a legittimare – senza preoccuparsi di quanti siano – migliaia di anglicismi sulla base delle loro frequenze giornalistiche e non certo in virtù della loro ben diversa struttura grammaticale che al contrario snatura la nostra. Per costoro – mi domando – se gli italiani cominciassero da un giorno all’altro a parlar tedesco, non ci sarebbe forse alcun problema? Correrebbero a proclamar italiane le parole tedesche? Non credo…
La verità è che sono soggiogati e compiaciuti servi dell’imperante anglomania linguistica figlia del nostro assoggettamento politico, culturale e sociale che avviene con le stesse logiche dei soggiogamenti coloniali, seppur con altre modalità che sostituiscono le conquiste militari con quelle culturali attraverso il potere morbido (detto appunto in inglese: soft power). L’attuale revisionismo linguistico viene fatto in nome dell’anglicizzazione e del politicamente corretto, che sono le due facce della stessa medaglia. Questo revisionismo, lontano dal parlare della gente, è una scelta politica che vuole educare la gente e imporre un ben preciso stilema linguistico calato dall’alto dai nuovi centri di potere.
La nuova censura linguistica
In un recente saggio di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, il Manifesto del libero pensiero (La Nave di Teseo, 2022) alcuni di questi aspetti sono ben smascherati e denunciati:
“La parola magica oggi è proprio inclusività, accompagnata sempre più spesso da sostenibilità, che si tratti di un concerto, di un’azienda e persino di un semplice vestito. Tuttavia è evidente che questa non è la strada per insegnare il rispetto delle ‘diversità’, tanto caro ai progressisti. Il rispetto si impara se si viene educati, da quando si nasce in famiglia. Senza bisogno di cancellare nulla del passato, che ci aiuta invece a pensare. Altro che cancel culture!”
Come si legge nella presentazione del libro:
“La censura autoritaria di un tempo si è trasformata in un follemente corretto che piega la lingua alle mode del momento, tra parole innocenti messe sotto accusa e surreali neologismi ‘inclusivi’, e in una cultura della cancellazione che rilegge il passato con lo sguardo di oggi. Così, nella giungla di internet e della gogna globale che ha bandito l’ironia e il dialogo, dilaga un clima inquisitorio e intimidatorio imposto da autoproclamati custodi del Bene. (…) In un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra. Ma è un errore in entrambi i casi. Le idee e gli atteggiamenti che non ci piacciono si combattono con altre idee e modi di essere, non impedendo agli altri di esprimersi.”
Insomma, se un tempo la censura era considerata “di destra” e la libertà di espressione “di sinistra”, poiché la cultura dominante era considerata autoritaria e conservatrice “essere progressisti significa oggi anche diventare ‘legislatori del linguaggio’, cioè dettare le norme nell’uso delle parole.”
Secondo gli autori “siamo giunti nella inedita era della suscettibilità. Un esempio recente su tutti: l’OMS ha deciso di non chiamare le varianti Covid col nome del Paese in cui sono state individuate (Cina, India…), perché sarebbe ‘stigmatizzante e discriminatorio’. Meglio usare una lettera dell’alfabeto greco. E se i greci si offendessero?”
In questo “linguaggio imbavagliato” che si cela sotto il politicamente corretto (ma vorrei aggiungere: anche sotto l’inglese, benché gli autori forse non colgano come si tratti dello stesso fenomeno), a dare una mano alla nuova censura c’è anche l’informatica (che allo stesso tempo dà una mano agli anglicismi che impone e richiede): “Si installano persino nuovi strumenti di censura tecnologica fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare tutto ciò che può apparire lesivo di qualche sensibilità giudicata degna di protezione, naturalmente secondo la visione del mondo dominante.”
Per riallacciare anche queste riflessioni a quelle della Ginzburg da cui eravamo partiti, invece di mettere al bando una parola come cieco – considerata discriminante dai vedenti ipocriti, visto che l’unione ciechi la usa senza porsi questo problema – o invece di dissertare su quale etichetta appiccicare ai disabili, bisognerebbe eliminare seriamente le barriere architettoniche cittadine, per esempio; e invece di voler convincere a forza le donne che preferiscono definirsi “notaio” e “avvocato” che si devono femminilizzare linguisticamente, bisognerebbe che le donne avessero pari opportunità sociali, di stipendio e lavorative. Invece di criticare un presidente del Consiglio donna che non vuole essere chiamata “la presidente” – che andrebbe invece criticata per il suo operato politico molto discutibile – sarebbe più importante e meno ipocrita fare in modo che ci siano sempre più ministri, sindaci e presidenti donna, e se preferiscono il maschile generico chissenefrega. E forse sarebbe ora di interrogarsi se sia più discriminate cieco, spazzino o bidello, e ogni tipo di parolaccia, o le parole inglesi che prendono il sopravvento quasi ovunque. Ma i fanatici del politicamente corretto e allo stesso tempo degli anglicismi sembrano più interessati a condannare il body shaming o il whitewashing introducendo l’inglese invece di rivolgersi agli italiani nella loro lingua denunciando in modo chiaro e comprensibile a tutti la derisione fisica o il razzismo dei film hollywoodiani che sostituiscono con attori bianchi e fighetti i ruoli che nella storia dovrebbero essere interpretati da chi è di una diversa etnia o razza. Ma anche la parola razza viene attualmente messa al bando, come se fosse questo il modo di nascondere sotto al tappeto (linguistico) il razzismo, e come se il “senza distinzione di sesso e di razza” presente nella nostra Costituzione e nelle principali dichiarazioni internazionali dei diritti dell’uomo fosse discriminatorio, invece di sancire la parità di tutti.
diciamoloinitaliano.wordpress.…
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