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Così Marx nel “Capitale” svelò le leggi dell’età delle macchine

L’estensione dei mercati su scala globale, le frequenti crisi che li colpiscono, i conflitti sociali che vi avvampano, le conseguenze dei processi di automazione della produzione, il processo di finanziarizzazione dei capitali e la concentrazione degli stessi in poche mani. Sono tutti temi che oggi, quasi alla metà degli anni Venti del nuovo secolo, suonano familiari. E non per riflesso incondizionato di eventi storici passati ma perché rivelano problemi che ancora informano dinamiche delle attuali società. A farsene carico, centosettant’anni fa, è stata una delle figure di spicco della filosofia e della politica mondiali, che, a partire dall’Ottocento, ha acceso speranze e infiammato gli animi di milioni di persone oltre ad aver influenzato buona parte del pensiero a lui successivo. Oggi il suo nome pare fuori moda. Negli anni del neoliberismo trionfante, in cui la ricerca del profitto detta legge e la crescita imperterrita pare una panacea, egli è associato esclusivamente a illusioni politiche del Novecento e alle loro nefande conseguenze. Così la sua figura è stata lasciata in ghiacciaia, come fosse da maneggiare con cura, all’epoca delle presunte democrazie liberali pienamente realizzate. Se si scorrono le pubblicazioni in lingua italiana degli ultimi anni, ci si imbatte nella riedizione di alcuni suoi testi e in classici della letteratura secondaria. Per il resto poca cosa se si esclude qualche eccezione.

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