Han Kang, premio Nobel per la letteratura 2024
Nel 2024 per la prima volta una donna asiatica, sudcoreana, è stata insignita del premio Nobel per la letteratura. Si tratta di Han Kang, classe 1970, figlia d’arte dello scrittore Han Seung-won. L’Accademia svedese le riconosce l’ambìto premio «per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana». «Han Kang – si legge nella motivazione – ha una consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, i vivi e i morti, e nel suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice nella prosa contemporanea».
La scelta ha destato sorpresa, perché si tratta di un’autrice relativamente giovane e con una produzione contenuta: appena una ventina di titoli, tra poesia, alcuni racconti, otto romanzi e un paio di saggi. D’altra parte, è una delle poche volte che il riconoscimento viene attribuito a una scrittrice che si esprime in una lingua che non appartiene all’occidente europeo. Prima di Han Kang bisogna risalire al cinese Mo Yan nel 2012, al giapponese Kenzaburo Oe nel 1994, all’egiziano Naghib Mahfuz nel 1988 e ancora al giapponese Yasunari Kawabata nel 1968.
Nata il 27 novembre 1970 nella città di Gwangju, Kang a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seul, dove studia letteratura coreana e ora da vari anni insegna scrittura creativa. Il Nobel è stato preceduto da altri prestigiosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Man Booker International Prize nel 2016 per La vegetariana, e il premio Malaparte nel 2017 per Atti umani.
Ad oggi i testi di Han disponibili in Italia sono cinque: Convalescenza[1], che raccoglie due novelle (la prima dà il titolo alla silloge, ma è la seconda – del 2000 – a essere più nota: Il frutto della mia donna). Seguono La vegetariana[2] (pubblicato in Corea nel 2007), L’ora di greco[3] (pubblicato in Corea nel 2011), Atti umani[4] (pubblicato in Corea nel 2014). Non dico addio[5] (pubblicato in Corea nel 2021) è uscito in Italia nel novembre 2024, circa un mese dopo l’assegnazione del Nobel. La lontananza culturale, oltre che geografica, è segnata anche dal fatto che i primi tre testi pubblicati per i tipi dell’italiana Adelphi (La vegetariana, Atti umani e Convalescenza) sono stati tradotti dall’inglese da Milena Zemira Ciccimarra, e solo gli ultimi due (Atti umani e Non dico addio) direttamente dal coreano da Lia Iovenitti, con la revisione di Ciccimarra. Rimane tutta da scoprire la produzione poetica della scrittrice coreana, che nel 1993 iniziò dalla poesia il percorso di ricerca letteraria che l’ha portata oggi al Nobel.
In questo articolo presenteremo i libri nell’ordine in cui sono stati scritti, non in quello in cui sono comparsi tradotti in italiano.
«Convalescenza»
La prima novella, Convalescenza[6], racconta di una giovane donna che si trova a doversi confrontare con la morte della sorella più grande. La protagonista si misura soprattutto con il radicale silenzio che a un certo punto delle loro vite è calato tra le due donne, per una scelta compiuta dalla maggiore (che non raccontiamo, per non togliere il piacere della scoperta al lettore), in cui la più piccola viene coinvolta, divenendone silenziosa testimone. Per questo viene punita, allontanata, tenuta sotto la cappa di un opprimente silenzio, perché «lei c’era e sa».
Dopo la morte della sorella, per la sopravvissuta si apre il tempo del senso di colpa e delle domande: avrebbe potuto agire diversamente, avrebbe potuto ribellarsi prima al silenzio imposto? La dura consapevolezza di scoprirsi altrettanto fredda e distante si cristallizza in una ferita alle caviglie che non vuole guarire e misteriosamente impiega tempi lunghissimi per sanarsi. La «convalescenza» del titolo è fisica e spirituale al tempo stesso; quella corporea diviene simbolica di una fatica a far pace con sé stessa e del rifiuto inconsapevole di sopravvivere alla sorella. Il finale, che pure è solo temporaneo, lo indica bene. Finale temporaneo, perché la scrittrice, con notevole sensibilità, apre lungo il racconto vari squarci sul futuro: «Non sai che fra due giorni», «non sai che più di un mese dopo», «non sai che un mattino freddo», «che un martedì pomeriggio», «che una domenica sera», «non sai che ti ostinerai».
La seconda novella, Il frutto della mia donna[sup][7][/sup], racconta la storia di una giovane donna che lentamente si trasforma in un albero. Si tratta di un racconto in prima persona singolare, dal punto di vista del marito, ma tutto femminile nella vibrante sensibilità. Protagonista è il corpo, quello della donna, che cambia lentamente, si irrigidisce, si trasforma in albero, nell’assenza di intimità fisica con il marito, nel distacco silenzioso e povero di familiarità che segna i rapporti tra i due. I personaggi maschili, non solo di questo racconto ma anche de La vegetariana, sono meschini e violenti. La scrittura di Han è anche denuncia di una società ancora fortemente maschilista, quasi sciovinista.
Quel che avviene a un certo punto sembra essere un’evoluzione, perché la trasformazione porta con sé il «contatto» con l’esistente, la capacità di «sentire» in modo profondo ciò che avviene intorno a lei a fronte dell’evidente grettezza del marito. «Sento spuntare boccioli e schiudersi petali in luoghi vicini e lontani, le larve uscire dal bozzolo, cani e gatti partorire i loro cuccioli, il tremulo altalenare del battito cardiaco del vecchio nel palazzo accanto, gli spinaci che sbollentano in una casseruola nella cucina al piano di sopra, un mazzo di crisantemi recisi che vengono messi in un vaso accanto al grammofono nell’appartamento di sotto»[8].
Un’interruzione sorprendente nel fluire del racconto si apre quando all’improvviso la voce della donna compare in prima persona singolare, ed è un dialogo con la madre, in un misto di ricordi fra nostalgia e lucidità, consapevolezze e rimpianti: «Mamma. Non sono più in grado di scriverti delle lettere. […] I raggi del sole che penetrarono nella mia carne nuda erano così simili al tuo profumo che mi inginocchiai lì e chiamai: Mamma, mamma. Nessun’altra parola»[9].
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Trasformarsi in albero è un gesto di ribellione gentile nei confronti del mondo? Eugenio Giannetta ha scritto: «Han Kang in quasi tutti i suoi testi mostra interesse per situazioni di vita estreme, raccontate attraverso uno stile metaforico, spesso poetico, scabro, essenziale ma carico di una sorta di fisicità, composta di frasi concise, periodi brevi, testi scolpiti nella precisione delle descrizioni, vive, originali, corporali nella capacità di creare una sorta di stimolazione sensoriale, anche e spesso di stati d’animo interiori collegati al malessere»[10].
«La vegetariana» e «L’ora di greco»
La vegetariana, che è il romanzo che ha dato fama internazionale a Han, fu scritto nel 2007. Tradotto in inglese nel 2016, in quell’anno fu il primo libro coreano a vincere il Man Booker International Prize. Il romanzo riprende l’intuizione e le immagini della novella precedente e si compone di tre sezioni, intitolate rispettivamente «La vegetariana», «La macchia mongolica», «Fiamme verdi». La protagonista Yeong-hye è presentata attraverso gli occhi delle persone che le stanno accanto: il marito Mr Cheong, il cognato e la sorella In-hye. Il marito la vede come una donna priva di qualsiasi attrattiva, fisica, intellettuale o di temperamento.
Lo sguardo misero, distaccato e superbo del consorte cambia quando la donna improvvisamente decide, da un giorno all’altro, di diventare vegetariana. La scelta di Yeong-hye suscita grande sorpresa, aperto sconcerto e netto rifiuto nell’ambiente familiare. Lungi dall’essere questa scelta in qualche modo ideologicamente o idealisticamente fondata, si scopre ben presto che la donna è tormentata da incubi nei quali sangue e violenza la scuotono profondamente. Sogna «una lunga canna di bambù da cui pendono enormi quarti di carne rosso sangue, ancora gocciolanti di sangue. Cerco di passare oltre ma la carne… non c’è fine alla carne, e nessuna via di uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle»[11]. I sogni si ripetono, diventano ancora più vividi: «Sogno un omicidio. Uccido qualcuno o vengo ammazzata… Le distinzioni sono confuse, i confini si erodono. […] Adesso i sogni vengono più volte di quanto non riesca a contare. Sogni sovrapposti ad altri sogni, un palinsesto dell’orrore. […] Omicida o vittima, un’esperienza troppo nitida per non essere reale»[12].
La conclusione è nitida, dolorosamente limpida. Tutti noi siamo portatori di una carica di violenza che cerchiamo di mascherare. «Comincia a sembrarmi tutto insolito, quasi mi fossi accostata al rovescio di qualcosa. Chiusa dentro una porta senza maniglia. Forse solo ora mi ritrovo faccia a faccia con qualcosa che è sempre stato qui. È buio»[13]. La violenza non è solo nei sogni, ma anche intorno a lei, nelle relazioni fondamentali: il marito con i suoi giudizi impietosi e lo sguardo di un uomo che misura tutto in base al proprio tornaconto; la famiglia e i genitori. La scena del pranzo di famiglia è disturbante per la violenza con cui il padre, ex soldato nella guerra in Vietnam, agisce sulla figlia, per costringerla a mangiare contro la sua volontà.
La seconda parte – «La macchia mongolica» – avviene due anni dopo. La donna ha ricevuto le carte del divorzio dal marito, in una forma moderna di ripudio con libello, di biblica memoria. Lo sguardo sulla donna è ora affidato al cognato della donna, un videoartista che vive alle spalle della moglie In-hye, la sorella più grande di Yeong-hye. Ancora una volta un sogno è il motore che muove la vicenda. L’uomo sogna due corpi nudi, un uomo e una donna, con la pelle ricoperta da disegni di fiori e piante. Decide di coinvolgere la cognata e senza troppi ostacoli la convince a realizzare un’opera video.
La donna vive ora una condizione di crescente distacco dal mondo, fermamente ancorata al suo vegetarianismo. La sua figura evoca la postura delle vestali, così tranquilla da mettere a disagio le persone intorno a sé. Tutto è disposta a compiere per far cessare i sogni che ancora la tormentano[14]. Usando alcune immagini bibliche, estranee al linguaggio della scrittrice ma facilmente evocabili per un lettore occidentale, la condizione della donna esprime il desiderio di regressione o ritorno al tempo paradisiaco, al giardino primordiale, dove non c’è violenza, né vergogna dei propri corpi. Anche ne «La macchia mongolica» l’elemento della corporeità è centrale, e a un certo punto viene definito «sacro», fusione dell’elemento umano e animale e vegetale, «manifestazione del tempo primigenio», «dell’eternità».
La terza parte, infine, si colloca un anno dopo ancora. Scoperto dalla moglie, il marito è fuggito, lasciandola sola a occuparsi del figlio. Yeong-hye ha un ulteriore crollo psicotico. Il precario equilibrio fino a quel punto mantenuto viene meno e la donna viene chiusa in una clinica, da cui a un certo punto fugge, per essere ritrovata nel folto di un bosco, dove persegue il folle intento di diventare un albero. La sua condizione è drammatica, perché dalla scelta di un rigido vegetarianismo è passata a una forma conclamata di suicida anoressia nervosa, rifiutando qualsiasi tipo di nutrimento.
La terza sezione si svolge nell’arco temporale dell’ultima visita di In-hye alla sorella Yeong-hye, per convincerla a riprendere a mangiare, prima che la sua ostinazione la porti a una definitiva e irreversibile ospedalizzazione in terapia intensiva. Il racconto ha toni disperati. Le radici della scelta del vegetarianismo si approfondiscono ancora. È una sezione che sconvolge per la descrizione della lotta di Yeong-hye contro i tentativi di alimentarla; il senso di oppressione che avvolge le due sorelle è molto forte, e ciò che nella novella Il frutto della mia donna aveva un tono quieto e pacifico, ne La vegetariana è angoscioso.
Andrea De Benedettis scrive: «Han Kang ha reso protagonista della sua narrativa il corpo, principalmente quello delle donne, dimenticato quando non mortificato da una società goffamente maschilista. E, attraverso il corpo, ha fatto passare questioni di più ampia portata, dalla violenza domestica alle claustrofobiche dinamiche sociali»[15].
Rispetto all’immaginario biblico, al termine della lettura di questo romanzo, che ad oggi costituisce ancora il testo più noto della scrittrice coreana, ci siamo chiesti se sia possibile avvicinare la figura di Yeong-hye a quella di alcuni grandi profeti biblici. L’intento comunicativo è chiaramente distinto, eppure qualcosa che costringe all’autocritica sui temi fondamentali della giustizia e della conversione a un’umanità meno violenta permane. Il rifiuto radicale di nutrirsi di carne può essere avvicinato ad alcuni gesti-azioni profetici? L’Antico Testamento ne riporta 32, alcuni dei quali sono molto noti: in 1 Re 19,19-21, Elia getta il mantello su Eliseo per esprimere la sua investitura; in Osea 3,1-5, il profeta sposa una donna adultera e vive separato da lei, senza rapporti sessuali, come Israele sarà privato del governo e del culto, per poi tornare a cercare il suo Dio; in Isaia 20,1-6, il profeta vive tre anni acconciato come un prigioniero di guerra per simboleggiare il destino in cui incorreranno l’Egitto e l’Etiopia. Ma i più famosi sono i gesti di Geremia: la cintura di lino nascosta nella roccia presso l’Eufrate (cfr Ger 13,1-11); il celibato; il non avere figli; il partecipare ad atti di cordoglio ed evitare banchetti (cfr Ger 16,2-4.5-7.8-9); la brocca spezzata (cfr Ger 19,1-2.10-11); il giogo sulle spalle (cfr Ger 27,1-3) e l’acquisto di un terreno da parte del cugino (cfr Ger 32,1.7-15). Il gesto più estremo è quello di Ezechiele, che deve stare sdraiato sul fianco sinistro per 390 giorni per esprimere la colpa d’Israele, e poi 40 giorni sul fianco destro per espiare le colpe di Giuda[16].
La scelta di Yeong-hye non ha ragioni estetiche o ideologiche: è la scelta istintiva e necessaria che la coscienza le impone per prendere una netta posizione contro la violenza, che è presente non solo nella sua biografia, ma anche nella storia e, potremmo dire, allargando ancor più lo sguardo, nella condizione umana uscita da una situazione originaria di innocenza edenica. Yeong-hye è un quasi-profeta, che pone la domanda fortissima se sia possibile uscire dalla spirale della violenza. Eugenio Giannetta parla di un «percorso di trascendenza distruttiva ed estatica dissoluzione»[17].
Il romanzo successivo è L’ora di greco. Secondo Gennaro Serio è «quello che più di tutti lavora a essere con il suo lettore una relazione ambigua […], il romanzo più “letterario” di Han Kang, e il più sfuggente, incentrato su una serie, simbolica e concreta di questioni semantiche, che lavorano a costruire un ponte fragile»[18].
Si tratta di un romanzo con un nucleo poetico molto intenso, costruito per capitoli alternati, in cui ascoltiamo la voce, in prima persona singolare, di un uomo e il punto di vista, in terza persona singolare, di una donna, accomunati da una condizione fisica che li separa dal mondo esterno, come una spada separa di notte una donna e un uomo, secondo una leggenda medievale[19]. L’uomo, infatti, soffre di una malattia che lo sta portando alla cecità, mentre la donna è stata colpita da una forma di afasia estrema che non solo le ha tolto la voce, ma in modo più radicale l’accesso alle parole, persino per pensare.
Ritorna in questo romanzo la scelta di Han Kang per situazioni esistenziali estreme, che nella loro radicalità divengono metafora di situazioni umane generali: in questo caso, di solitudine ed estraniamento, di dolore e fatica. L’uomo e la donna si conoscono nell’aula di un corso di greco: lui è l’insegnante, lei una degli allievi. Il greco, lingua morta ed estrema a sua volta per la lontananza dal mondo culturale coreano, è il corrispettivo della condizione di estraneità dell’uomo, cresciuto in Germania e, ora che è tornato in patria, della sua solitudine in una società di pari tra i quali la sua origine asiatica non spicca più. Per la donna è la porta di un possibile recupero della parola, affinché ciò che la blocca nel profondo si apra nuovamente, come nella sua adolescenza un’analoga condizione di mutismo temporaneo era terminata con la scoperta della parola francese bibliothèque,dal sapore consapevolmente borgesiano, con la citazione del quale si apre il romanzo: «C’era una spada tra noi»[20].
Due elementi caratterizzano e segnano il romanzo. Il primo è il greco, con la sua complessità grammaticale che permette a ogni parola di esistere in modo autosussistente, di stare con la sua pienezza di significato senza bisogno di relazione. Esso sembra esprimere quel desiderio di autosufficienza che, in modi diversi, entrambi i personaggi perseguono. Lui dice: «Tuttavia, era proprio il suo sistema grammaticale complesso – e il fatto che fosse una lingua morta da secoli – a farmela sentire come una stanza tranquilla e rassicurante. […] Fu in quel periodo che gli scritti di Platone cominciarono ad attraversarmi come una calamita. […] Proprio come in precedenza ero rimasto ammaliato dal buddhismo, che recide di netto il legame con la realtà dei sensi. E cioè, perché ero destinato a perdere il mondo visibile?»[21].
Il secondo elemento è il filosofo Platone, con la filosofia delle idee che esprimono condizioni di pienezza, di bellezza e di eternità: è possibile una vita che si muova su questi parametri? Che escluda l’imperfezione? «La morte e la dissoluzione divergono apriori dalle Idee. Il nevischio che si scioglie trasformandosi in fanghiglia non può corrispondere a un’Idea. […] È necessario che ci sia la luce, per quanto fievole. […] Anche per il bello e il sublime più infinitesimali, deve esserci per forza una luce di segno positivo. Come fai a parlare di un’Idea della morte e della dissoluzione? È come parlare di triangoli rotondi!»[22].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Il finale sembrerebbe smentire la ricerca di purezza di entrambi, e il limite doloroso, di cui entrambi sono segno, non li porta a una chiusura di morte, come ne La vegetariana avviene per Yeong-hye, ma ad aprirsi l’uno all’altra nella forma di cui ciascuno è portatore. Come afferma la scrittrice, L’ora di greco ha il finale positivo che manca al romanzo precedente, e il racconto che nasce come prosa narrativa fluente diventa via via sempre più lirica e poetica, arrivando nel finale a «sfarinarsi» in frammenti di pensieri e ricordi, e infine in singole parole poetiche, oppure in frammenti che hanno colore e vita solo dentro un caleidoscopio[23]. Anche ne L’ora di greco l’elemento onirico ha un ruolo importante, come quello corporeo, che è dimensione cara a Han: «Constato semplicemente con calma che non c’è altro mondo al di fuori del sogno dove potrei fuggire di nuovo»[24].
«Atti umani» e «Non dico addio»
Dopo aver esplorato la condizione umana del limite, con una delicatezza e una profondità peculiari, avendo anche usato la potenza significativa della corporeità, Han si apre alla Storia, e ciò che prima costituiva lo sfondo, ora occupa il primo piano, diviene l’oggetto della sua indagine narrativa. Ci troviamo concordi con Eugenio Giannetta quando scrive: «Un’altra caratteristica fondamentale dell’autrice è quella di muoversi tra immagini inquietanti, oniriche e un’inclinazione naturale alla letteratura testimoniale, al perseguimento della verità»[25].
Nel segno di una consapevolezza sociale e storica matura, Han narra due episodi della storia coreana. Il primo è la cosiddetta «rivolta di Gwangju», avvenuta nel 1980 e raccontata in Atti umani. Il secondo è la decimazione di migliaia di abitanti dell’isola di Jeju tra la fine del 1948 e il 1949[26], nell’immediato dopoguerra, per il sospetto che fossero simpatizzanti delle idee comuniste. In entrambi i romanzi l’intento «testimoniale» è evidente, e il desiderio di verità appare essere l’intento primo della scrittrice. Atti umani ha suscitato scalpore in ampie fasce della società coreana, e la scrittrice ha subìto forme di esclusione che forse l’assegnazione del premio Nobel ora cancellerà.
Atti umani assume il punto di vista di un ragazzo di 15 anni, Dong-ho, di cui Han, come scrive nell’epilogo, vuole difendere la memoria: patrocinio di innocenza che non vale solo per il singolo, ma per tutti coloro che dalla violenza militare in quel contesto furono brutalmente schiacciati. Afferma Lia Iovenitti: «Nella postfazione l’autrice rivela che si è sentita chiamata a scrivere il libro dopo aver visto le foto delle vittime inermi»[27]. Han scrive infatti: «Ricordo ancora il momento in cui il mio sguardo si posò sul volto sfigurato di una giovane donna, con i tratti massacrati da una baionetta. In silenzio, senza rumore, qualcosa di tenero nel profondo di me si ruppe. Qualcosa che fino ad allora non mi ero nemmeno resa conto ci fosse»[28].
L’episodio a cui la scrittrice fa riferimento sono le manifestazioni democratiche che ebbero luogo nella città di Gwangju il 18 maggio 1980: studenti universitari e molti cittadini scesero in piazza per chiedere al regime militare, che all’epoca governava la Corea del Sud, una serie di riforme democratiche. La repressione fu cruenta e le vittime furono centinaia; secondo alcune stime, la somma totale giunse a contarne 2.000.
La vicenda di quei giorni è raccontata nel primo dei sei capitoli. Il protagonista è Dong-ho, giovanissimo studente delle medie, che viene «seguito», nelle ore cruciali precedenti l’arrivo dell’esercito, da una voce narrante alla seconda persona singolare. Essa infonde un tono struggente e partecipato. Fin dalle prime righe la scrittura di Han si carica di toni lirici e pietosi: «Apri gli occhi, in modo che vi penetri solo un sottile spiraglio di luce, e osservi gli alberi di ginko di fronte all’Ufficio provinciale. Come se lì, in mezzo a quei rami, il vento stesse quasi per assumere una forma visibile. […] Quando apri bene gli occhi, i contorni degli alberi si fanno indistinti e sfocati. Presto avrai bisogno degli occhiali»[29].
Alla prima seguono altre cinque sezioni. I protagonisti sono altri giovani, ragazzi e ragazze appena ventenni. Dando voce di volta in volta a uno o a una di loro, Han giunge fino al 2002. Si assiste così all’evoluzione della società coreana. L’ultima parola è lasciata alla madre di Dong-ho, nel 2010. Se nei romanzi precedenti il corpo esprimeva la profondità del disagio e l’anelito all’innocenza, qui i corpi sono visti nella brutalità delle ferite, nella rigidità dei cadaveri, nella feroce decomposizione che sfigura. Sono corpi feriti, torturati, piegati e piagati. Quando le ferite fisiche guariscono, permangono le ferite emotive e relazionali. Il prigioniero alla fine giunge al suicidio, l’operaia si chiude in un distaccato silenzio, l’unico che le permette di continuare a vivere. L’incapacità di svolgere qualsiasi attività di concentrazione mentale compromette la ripresa degli studi; l’incapacità di avere relazioni intime impedisce di costruire una famiglia; persino il bisogno basilare di tornare a dormire viene negato dagli incubi ricorrenti; il bisogno di dimenticare non si realizza. Tutto questo è anche lo strascico di quei giorni, insieme all’ostracismo sociale subìto per molti anni da chi rimase coinvolto, anche casualmente, nelle proteste di quei giorni. Atti umani è un libro intenso, vibrante, di memoria prima che di condanna. La lettura è sufficiente per stupirsi, per provare pietà, per indignarsi, per soffrire. E per pensare.
Grazie alla distribuzione in sei parti distinte, ciascuna temporalmente collocata e affidata a punti di vista diversi – alcuni in seconda persona singolare, altri in prima singolare, altri in terza singolare –, la scrittrice ottiene un effetto prismatico e avvince, perché coinvolge con la sua scrittura che sa porsi con una «postura» di mente e di cuore rispettosa, precisa, attenta al dettaglio, umana.
Nella scia del romanzo storico è anche l’ultimo romanzo Non dico addio. Il titolo è programmatico, perché esprime l’intenzione di non dimenticare, di non lasciare che l’oblio cada sulle decine di migliaia di morti che ci furono nell’isola di Jeju tra la fine del 1948 e i primi mesi del 1949, quando alcune brigate militari di esuli nord-coreani della destra nazionalista furono incaricate di combattere contro alcuni presunti simpatizzanti comunisti. Ne risultò una carneficina di pescatori e povera gente, di molte donne e bambini; famiglie e villaggi interi spazzati via. Han vuole dare un nome alle cose per capire meglio e più in profondità, «per rileggere la storia e le sue atrocità in una dimensione etica, proponendo in modo innovativo uno dei grandi temi del Novecento, ovvero quello del dolore e del male, oltre alla perdita di umanità che caratterizza tutte le dittature»[30].
Non dico addio è perciò (soprattutto) una storia di violenza e di delitti. È una storia femminile, perché le protagoniste sono due giovani donne, e sullo sfondo vi è l’anziana madre di una di loro. Nella voce narrante di Gyeong-ha la scrittrice, fin dalle prime pagine, dissimula sé stessa. Ci sembra compia questa scelta per un gesto di responsabilità più che per intenti autobiografici. Come a far intendere che la voce che sentiremo nel corso del romanzo è la sua, e non quella di altri, e che la finzione narrativa è funzionale alla vicenda, un velo appena. La protagonista è infatti una giornalista che ha scritto un libro sui fatti avvenuti a G[31] e ora vive un momento di difficoltà personale.
La trama è molto semplice: l’amica Inseon, un tempo fotografa e a lungo collega, è in ospedale a Seoul e le chiede di andare a trovarla quanto prima. Gyeong-ha accorre e si trova di fronte a una richiesta inaspettata: prendere immediatamente un aereo per raggiungere in giornata la casa che un tempo era appartenuta alla madre sull’isola di Jeju, per dare dell’acqua al piccolo pappagallo Ama, che Inseon ha lasciato incustodito, dopo essersi gravemente ferita a una mano ed essere stata portata a Seoul. Con un certo sconcerto del lettore, Gyeong-ha accetta, e dopo poche ore si trova nell’isola, colpita da una violenta tempesta di neve, impreparata a raggiungere la casa che si trova al centro di Jeju, in mezzo alla tormenta che monta, con poche ore di luce a disposizione.
In realtà tra le due donne esiste un progetto artistico e fotografico che le lega profondamente da vari anni. Imprevisti e casualità hanno impedito la realizzazione di quest’opera, che consiste nel piantare 99 alberi e filmarli mentre a poco a poco vengono coperti dalla neve. Gyeong-ha ha abbandonato il progetto, stremata dal lavoro. Invece Inseon l’ha segretamente perseguito e, alla rivelazione che tutto il materiale è pronto per la realizzazione, per la responsabilità che sente di avere nei confronti dell’amica ferita mentre era al lavoro, non pensa di poter rifiutare l’aiuto che le viene chiesto.
La prima metà del romanzo serve solo per raccontare il viaggio. Quando la donna sembra essersi perduta ed essere destinata alla morte per assideramento (la descrizione della tormenta di neve e dell’oscurità incipiente a tratti si fa angosciosa), giunge alla casa, e da questo momento la prosa di Han si apre all’impossibile, fantastico rivelatore della verità. Tra il sogno e la fantasia, Inseon appare davanti all’amica, e il realismo della fatica per trovare luce e calore nell’abitazione di campagna si accompagna alla paradossale naturalezza con cui le due donne iniziano a parlare e a ricordare.
Il romanzo si apre con un sogno. Mentre cade la neve dal cielo in riva al mare le onde crescono e lambiscono pezzi di legno, forse lapidi, con forza e velocità crescente. È la marea che cresce. All’improvviso, la consapevolezza che l’acqua potrebbe distruggere e portare via con sé i cadaveri sepolti si fa angoscia e urgenza perché ciò non avvenga. Ancora una volta la dimensione onirica nei romanzi di Han rappresenta il punto di partenza della vicenda. Non colpisce perciò che la mediazione della storia familiare di Inseon e della madre sia affidata al tono onirico. È nella cornice di questa confessione che la figura dell’anziana donna, una vecchietta gentile ma in fondo insignificante, si rivela sotto una luce ben diversa.
Alcune linee conclusive
Abbiamo scelto di presentare le opere di Han Kang tradotte in italiano secondo l’ordine di creazione, non secondo quello di pubblicazione. Questa scelta ci sembra che abbia permesso di recuperare la dimensione evolutiva della ricerca narrativa della scrittrice, che a poco a poco passa dalla scrittura più intima al respiro ampio delle grandi vicende della storia, rimanendo fedele ad alcuni elementi che emergono dalla nostra presentazione, che riconosciamo semplice e forse inadeguata per i cultori della scrittrice coreana.
Il primo elemento è la consapevolezza della colpa e dell’impossibilità di dirsi innocenti. La violenza è fin da Convalescenza presente nelle trame dei lavori di Han Kang, in modo ben tematizzato da La vegetariana in poi. Se la prima risposta trovata dalla scrittrice è intima, espressa nella forma di un gesto personale di rivolta, poi prende coraggio e si fa memoria e racconto, denuncia, da un lato, ma anche via di riconciliazione, dall’altro.
Un altro dato ricorrente è la presenza dell’elemento vegetale e arboreo. Han ha dichiarato anni fa di essere rimasta profondamente colpita, negli anni della gioventù, dal verso del poeta Yi Sang: «Io credo che gli umani dovrebbero essere piante». E piante ambiscono a diventare le protagoniste femminili de Il frutto della mia donna e La vegetariana. Agli alberi è affidato il compito memoriale dei defunti di Jeju in Non dico addio. Pur semplice, non può essere ignorata la ricorrenza di alcuni elementi naturali: la luce come fonte di vita, soprattutto nelle prime opere; la neve come fonte di silenzio, di raccoglimento ma anche di pericolo e di oblio in altre opere, come L’ora di greco, e continuamente presente in Non dico addio.
L’ultimo elemento ricorrente che non possiamo non citare è il corpo. Questo elemento ricorre moltissime volte, è il protagonista silenzioso di tutte le storie. È un corpo che ricorda, che esprime quanto la mente non ha portato ancora a consapevolezza, che si ribella, che testimonia, che si trasforma, imperfetto e limitato, ma è anche un corpo oltraggiato, ferito, dilaniato, tormentato, nullificato. E dopo la lettura de La vegetariana o di Atti umani, l’occhio cristiano, abitato dalla fede, non può non interrogarsi sul mistero della sua dignità incoercibile. Il corpo è tempio dello Spirito, ma soprattutto è incarnato. Il dogma dell’incarnazione è il mistero di Gesù Cristo che si è svuotato, che non ha avuto paura di spogliarsi della sua uguaglianza con Dio per divenire simile agli uomini, per farsi obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,6-8).
Il corpo, che dopo l’evento di Gesù Cristo è luogo di rivelazione, cosa dice a noi quando è maltrattato? Siamo consapevoli di ciò che compiamo quando lo ignoriamo o addirittura lo schiacciamo? Risuona la parabola del giudizio finale di Matteo (cfr Mt 25,31-46), vero criterio ermeneutico, morale e conoscitivo. Il Signore chiede sempre: «Quando mi hai dato da bere? Quando mi hai vestito? Quando mi hai nutrito? Quando mi hai curato?». La scrittura di Han pone l’altra faccia della domanda: dove erano la nostra coscienza e Cristo quando abbiamo schiacciato, non ascoltato, ferito il corpo altrui?
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[1]. Cfr K. Han, Convalescenza, Milano, Adelphi, 2019.
[2]. Cfr Id., La vegetariana, ivi, 2016.
[3]. Cfr Id., L’ora di greco, ivi, 2023.
[4]. Cfr Id., Atti umani, ivi, 2017.
[5]. Cfr Id., Non dico addio, ivi, 2023.
[6]. Cfr Id., «Convalescenza», in Convalescenza, cit., 11-41.
[7]. Cfr Id., «Il frutto della mia donna», in Convalescenza, cit., 43-86.
[8]. Ivi, 77.
[9]. Ivi, 74 s.
[10]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», in Avvenire, 11 ottobre 2024, 19.
[11]. K. Han, La vegetariana, cit., 21.
[12]. Ivi, 36.
[13]. Ivi.
[14]. Sono molti i punti di contatto tra questa sezione e la seconda novella di Convalescenza: la macchia sulla pelle come condizione di partenza, il distacco emotivo, l’elemento vegetale, il ruolo della luce come elemento di vita, il bisogno della donna di ritornare a una condizione adamitica per assorbire il calore solare, come una pianta che si nutre di aria e sole.
[15]. A. De Benedettis, «Da Gwangju a Seul violenze penetrate nell’inchiostro», in il manifesto, 11 ottobre 2024, 12.
[16]. Cfr D. Garrone, «Le azioni simboliche dei profeti», in letterepaoline.net/2012/09/18/…
[17]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», cit., 19.
[18]. G. Serio, «Tra il corpo e il dolore con grazia ossessiva», in il manifesto, 11 ottobre 2024, 12.
[19]. Il riferimento dell’autrice sembra essere alle figure di Tristano e Isotta e di Lancillotto e Ginevra di Chrétien de Troyes.
[20]. K. Han, L’ora di greco, cit., 11.
[21]. Ivi, 106 s.
[22]. Ivi, 104.
[23]. Cfr ivi, 89 s.
[24]. Ivi, 96.
[25]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», cit., 19.
[26]. Secondo alcune stime, in pochi mesi vennero uccise 30.000 persone e molte furono incarcerate e torturate.
[27]. F. Musolino, «Vince Han Kang, la voce discreta della fragilità», in Il Messaggero, 11 ottobre 2024, 22.
[28]. K. Han, Atti umani, cit., 189.
[29]. Ivi, 11.
[30]. E. Giannetta, «Scrittura di connessioni», cit., 19.
[31]. Così nel testo del romanzo.
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