Grace Paley: un esercizio di ascolto
Vita e opere
«Grace Paley, per me, è una specie di santa laica. Chi è il santo? Un individuo particolarmente attento alle cose come sono e straordinariamente in grado di accettarle»[1]. Così scriveva George Saunders nel decennale della morte di Paley. Chi è la scrittrice che meritò un simile tributo? Grace Paley nasce a New York, Bronx, nel 1922. Figlia di due ebrei socialisti di origine ucraina, arrivati negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento in seguito alle persecuzioni antisemite nell’Europa dell’Est da parte delle autorità zariste[2], Paley cresce nella Grande Mela e lì vive per quasi tutta la sua vita, fino ai primi anni Novanta, quando decide di trasferirsi con il secondo marito nel Vermont, dove muore nel 2007.
L’importanza della figura della scrittrice è inversamente proporzionale all’ampiezza della sua produzione letteraria. Paley, infatti, scrisse appena tre antologie di racconti, vari saggi brevi, discorsi e testi di circostanza – quasi tutti riuniti in un unico volume –, varie raccolte di poesia. Poco rispetto alla lunghezza della vita, e ancor meno rispetto alla potente bellezza dei suoi racconti, grazie ai quali ha acquistato già in vita lo statuto di classico della letteratura nordamericana e internazionale.
Le tre raccolte si distribuiscono nell’arco di circa un quarto di secolo: Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974), Quello stesso giorno (1985). Undici racconti il primo testo, diciassette il secondo e altrettanti il terzo, per un totale di 45 storie, tutti ambientati a New York. Come altri scrittori – ad esempio, Alice Munro –, Paley ha trovato nel racconto breve la propria misura espressiva. Invitata a tentare le vie del romanzo, per la diffusa convinzione editoriale che solo questo costituisce la fonte della fama e dell’indispensabile riscontro economico, dopo un tentativo durato un paio di anni, abbandonò il progetto e coltivò unicamente la forma del racconto breve.
Cinque ragioni per amare Paley
Sono molteplici le ragioni che rendono la lettura di Paley un passaggio importante e necessario. Possiamo indicarne, in modo sintetico, cinque.
La prima è l’universalità dell’esperienza umana che la scrittrice rivela al lettore nella tenace fedeltà a un territorio ben delimitato. I suoi racconti hanno una fortissima connotazione geografica. Tutti hanno luogo a New York, e quasi tutti negli stessi quartieri. La fedeltà alla propria realtà locale, l’incarnazione in un luogo e nelle sue lingue, lungi dal soffocare la creatività della scrittrice, l’ha valorizzata e fatta espandere in termini universali. I personaggi dei racconti di Paley sono uomini e donne ordinari. Il contesto è urbano, e le vicende nelle quali li vediamo coinvolti sono il quotidiano di lavoro, fatica, piccoli impegni, grandi sacrifici e gioie semplici, amicizie e frustrazioni, tradimenti e illusioni. Storie di vita quotidiana sullo sfondo della Storia più ampia, che fa capolino di tanto in tanto nei commenti e nei ricordi dei personaggi. Paley stessa scrisse: «Quanto alla fortuna grande[3]: quella ha a che fare con i movimenti politici, con la Storia che ti capita mentre stai facendo i piatti, con le guerre che gli uomini progettano per i loro figli, i nostri figli»[4]. La straordinarietà dei racconti di Paley, infatti, è la loro densità. In poche pagine l’autrice riesce a sovrapporre in modo armonico pluralità di temi e questioni. La sua lingua vitale coglie la complessità della realtà e della vita, che si dà tutta insieme e non a pezzi e scomparti, così che non si può dire che la scrittrice parli solo della condizione femminile, o solo della politica, o delle relazioni familiari, o di quelle tra uomo e donna, o della condizione degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto[5], ma di tutto insieme, come avviene nella vita.
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La seconda ragione è l’autenticità del rispetto che Paley dimostra nei confronti della vita, che lei ascolta con attenzione e lascia libera di essere, valorizzandone la bellezza, accogliendone le contraddizioni, esplorandola come un mistero[6] da conoscere e sapendo di non poterlo esaurire, alimentando la speranza, e quindi accettando che nelle situazioni più difficili ci possa essere una possibilità non vista che si affaccerà nella vita dei suoi personaggi[7], guardando con la tenerezza dell’ironia[8], che è una forma più elevata di empatia. «Tutta l’opera di Grace Paley è contraddistinta da calore umano, precisione e attenzione per gli altri, e trabocca di vita reale e caotica, e delle sensazioni che la vita reale, vissuta davvero, ci dà: quelle di essere impotenti, circondati di amici, a corto di tempo, pieni di rimpianti, insopportabilmente felici o talmente innamorati da diventare scemi»[9].
La terza ragione per apprezzare la scrittrice newyorchese è la postura etica che imprime alla sua scrittura: Paley è responsabile delle vite che mostra, e avverte profondamente la responsabilità di impegnarsi per migliorare il mondo. Lo ha testimoniato con una vita di impegno politico a favore di iniziative di pace[10]; lo ha perseguito anche con la scrittura, che per lei è uno strumento per migliorare il mondo, recuperando dalla tradizione ebraica l’idea del Tikkun ‘Olan, che significa «riparare e aggiustare» il mondo[11].
La quarta ragione è la potenza della sua lingua, che non descrive un mondo pre-pensato e sistemato, ma lo mostra, lasciando che emerga dalla pagina attraverso la voce delle parole. Il mondo descritto e raccontato da Paley è il mondo del Bronx di New York e di pochi altri quartieri della grande città. È un mondo di voci e di suoni che si intrecciano, e ciò che colpisce è la capacità della scrittrice di evocarlo, portandolo davanti al lettore. Un linguaggio fatto di modi di dire, di intonazioni, un mondo che va ascoltato. E l’ascolto rappresenta una delle attitudini principali di Paley e ciò che lei chiede al lettore. Questa peculiare caratteristica permane persino nei racconti tradotti. I racconti di Paley sono racconti sonori, almeno in due modi: il primo, quando raccolgono le voci delle persone che abitano a New York; il secondo, quando lei li scrive. C’è chi ha sostenuto che i racconti di Paley dovrebbero essere letti ad alta voce. Di sé stessa la scrittrice afferma: «Nel ’54 o ’55 decisi di scrivere un racconto. Avevo scritto qualche bel paragrafo con dentro alcune frasi di prima qualità, ma non ero riuscita a far entrare le donne e gli uomini in carne e ossa nella lingua, né a trovare la storia in quei passaggi di prosa. […] Scrivere i racconti gli aveva permesso [qui Paley fa riferimento al proprio orecchio] – all’improvviso – di fare il suo lavoro, di ricordare la lingua della strada e la lingua di casa con i suoi accenti russi e yiddish, una lingua che i miei primi personaggi conoscono bene, l’unica che io parlassi. Due orecchi, uno per la letteratura e uno per la casa, a una scrittrice servono»[12].
La quinta ragione del valore dei racconti di Paley è il modo in cui lei dà spazio alla voce delle donne, madri e mogli[13]. Fulminante è l’incipit del racconto Faith sull’albero: «Proprio quando più avevo bisogno di conversazioni importanti, di un refolo del vasto mondo mascolino, insomma, di almeno un compagno dotato di cervello che potesse tradurre la mia lingua di amica nel suo idioma d’imperituro amore carnale, mi ritrovai costretta a oziare nel parchetto del quartiere, circondata da bambini»[14].
Paley trascende la scrittura di genere, perché rappresenta la condizione femminile con una trasparenza particolare, usando una serie di personaggi ricorrenti, tra i quali in primis vi è Faith Darwin, suo alter ego letterario, personaggio sempre più ricorrente, e le sue amiche Ruth, Susan e Kitty. Nella prima raccolta, il personaggio di Faith compare due volte; nella seconda antologia, sei volte; e nell’ultima, nove volte. Il personaggio è una sorta di alter ego di Paley, che gli regala una serie di elementi tratti dalla propria biografia: il suo essere ebrea di origine ucraina e il contesto urbano newyorchese nel quale è cresciuta. Al tempo stesso Faith è un personaggio letterario autonomo, che la scrittrice varia e modifica in alcuni tratti: a volte lei ha due figli, a volte tre; a volte è casalinga, altre volte lavora, altre volte ancora è scrittrice[15].
Un racconto: «Il pomeriggio di Faith»
Il racconto che prendiamo in considerazione per mostrare in concreto le caratteristiche della scrittura di Paley è intitolato «Il pomeriggio di Faith», presente nella seconda raccolta Enormi cambiamenti all’ultimo minuto (1974).
In questo racconto di 19 pagine, Paley racconta la visita di Faith ai due genitori, che hanno deciso di ritirarsi in una casa di riposo dal significativo nome «Figli di Gerusalemme». È l’occasione per aggiornarsi reciprocamente sulla vita fuori e dentro il ricovero. Con Paley, il racconto diventa una meditazione sulla precarietà delle relazioni affettive e dell’esistenza, con note relative alla Storia – con la «S» maiuscola – come parte ordinaria della quotidianità. Con qualche nota di passaggio, Paley colloca saldamente Faith nell’alveo della religione e della cultura ebraica, con un tono di benevola ironia, che serve a stemperare memorie ben altrimenti faticose. L’incipit ricorda il tono solenne di Whitman ed è al tempo stesso un calco ironico di alcuni atteggiamenti new age di recupero del passato ancestrale: «Quanto a te, compagno libero pensatore del blocco occidentale, se hai qualcosa di sensato da dire, non aspettare. Gridalo forte in questo istante. Tra vent’anni, primavera più primavera meno, i tuoi nipotini si ritroveranno stesi nei parchi giochi di tutto il mondo, orecchio a terra, a cercar di captare segnali del lontano passato»[16].
A lei spetta un passato est-europeo: «A mezzanotte di quasi tutti i giorni feriali Faith tiene la testa sotto il cuscino, madida di sogni, e ha il mal di mare per il rombo dell’oceano, il vento che stride incastrato nella coda rampante dell’alta marea. Questo perché suo nonno, solcando mari salati, pattinava per chilometri lungo le spiagge ghiacciate del Baltico, con un’aringa congelata in tasca. E lei, tutta orecchi, è nata a Coney Island»[17].
In realtà, gli antenati sono appena due, mamma e papà, e il suo ambiente è costituito da un fratello e una sorella dal nome significativo «Hope», «speranza». La scelta dei genitori di ritirarsi appena sessantenni in una casa di riposo di ebrei che parlano yiddish desta lo sconcerto dei figli; la figlia Hope rimprovera la madre di andare in mezzo a persone che non parlano inglese, e la madre risponde: «In vita mia d’inglese ne ho parlato anche troppo»[18]; il figlio rimprovera ai genitori il fatto che non decidano di trasferirsi in Israele, argomentando: «“La gente lo capirebbe di più”. “Lasciandovi tutti qui?”, aveva detto lei, con gli occhi lucidi al pensiero dei figli tutti soli, a sfasciarsi la vita sulle secche di ogni giorno, in assenza del suo sguardo lacrimoso»[19].
La mamma di Faith, la signora Darwin, ha risolto la questione identitaria in un modo ferreo, determinato, e Paley lo descrive con l’acutezza di un’immagine che dice la concretezza delle parole, il loro gusto e il carattere della donna: «Sua madre al contrario se n’è fregata alla grande e, una volta al sicuro tra i propri simili a Coney Island, ha imparato lo yiddish come si deve, ha aiutato il marito che per le lingue non era troppo portato, e non appena raccolti sotto il palato tutti i verbi e i sostantivi necessari, ha fatto voto di lagnarsi in yiddish e dolersi in yiddish, e vi ha mantenuto fede fino a oggi»[20]. Le parole sono raccolte sotto il palato, perché vanno assaporate e gustate.
Faith «è andata a trovare i genitori una volta soltanto, da quando ha iniziato a capire che a causa di Ricardo per un certo periodo le sarebbe toccato essere infelice. Faith è americana per davvero, e come tutti è stata allevata con la felicità come presupposto tangibile. Dubbi non ce ne sono, da qualunque parte la si guardi ora è infelicissima. E davanti ai suoi se ne vergogna»[21]. L’infelicità è come un’influenza o una sorte che bisogna sopportare, e il suo essere americana non consente che viva altrimenti che felice. I genitori sono intellettuali impegnati; perciò sono coinvolti nei dibattiti di quegli anni: «Per la testa hanno una serie di fatti. Gerusalemme divisa; la seconda guerra mondiale che seguita a occupare le loro discussioni; l’uso pacifico dell’energia atomica (è davvero necessaria?): le nuove ondate di antisemitismo che lambiscono le spiagge placide delle loro conquiste»[22].
Di fronte a questi orizzonti di impegno e di sviluppo, per i genitori l’infelicità è questione troppo personale e banale per meritare attenzione; sembra di avvertire sospesa nell’aria una domanda: come si può essere infelici in America? Paley lo sottolinea in modo magistrale: «Faith e la sua ridicola posizione nel bel mezzo di tempi prosperi non possono che disgustarli. La sua cocciuta infelicità li fa vergognare»[23]. Che finezza Paley dimostra nel tratteggiare la difficoltà degli anziani genitori ad avere a che fare con l’infelicità della figlia e la loro umanissima proiezione su altri dei propri tratti caratteriali, per cui è l’infelicità di Faith a essere cocciuta, non la loro posizione intransigente!
Segue la presentazione del primo marito di Faith, Ricardo, che la scrittrice dipinge in questo modo: «Quel Ricardo, il primo marito di Faith, era un uomo raffinato. Era orgoglioso e felice perché gli altri uomini lo ammiravano. E infatti, diceva, io sono un maschio vero. E come tutti i maschi veri, correva dietro alle donne. […] A ognuna dava un nomignolo, che di norma era collegato a un difetto fisico»[24]. E così ci sono Pelatina, Ciccetta, Pidocchietta. In tre righe Paley presenta l’uomo con il carico dei limiti e dei difetti, dicendo che è «raffinato»: in realtà, è vanesio, superficiale e preoccupato solo di quel che pensano altri uomini. Con questo cammeo, inoltre, Paley descrive il tono delle relazioni uomo-donna di un certo periodo storico, e così, senza troppo darlo a vedere, evoca il contesto sociale nel quale l’uomo che denigra la donna pensa di essere spiritoso.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
La comunicazione fatta da Faith alla madre, che il matrimonio con Ricardo è in crisi, è una vera pennellata. Faith dice alla madre: «Io e Ricardo non staremo più tanto insieme come prima»[25]. È il tentativo di dire e non dire, simulando, velando, mistificando, per attenuare l’impatto della dura realtà: non stare più tanto insieme come prima… La risposta della madre è stupefacente: «“Faithy!”, le aveva detto la madre. “Tu hai un caratteraccio. No, senti, ascolta. È già successo a tante nella vita. Un paio di giorni e vedrai che torna. Alla fin fine, i figli… digli che ti dispiace e basta. È una bazzecola. Una sciocchezza. M’era parso molto migliorato, quand’è stato qui un paio di mesi fa. Non ci pensare. Pulisci casa, metti su una bistecca. Di’ ai bambini di stare un po’ tranquilli, mandali dalla vicina a vedere la televisione. Prima che te ne renda conto, tornerà. Non farci caso. Vai a farti una messa in piega, papà sarebbe più contento di darti qualcosina da spendere. […] Non preoccuparti. Domani torna. Anzi, adesso vai a casa e lo trovi che accende il giradischi”. “Mamma, Ricardo è stonato”. “Oy, Faithy, tu devi vivere un po’ meglio di così”»[26].
La risposta della signora Darwin alla figlia è un quadro di vita intera che comunica una molteplicità di sentimenti e di idee: nella brevità delle frasi si avverte il panico della madre. L’affanno nel respiro per negare e ridurre, per trovare le colpe e le responsabilità (che sono della figlia) e i mezzi per recuperare la situazione, in un misto di ingiunzioni – «Non ci pensare», «non farci caso» –, e l’invito piuttosto a sistemare casa e sé stessa, per rendere nuovamente gradevole l’ambiente, per favorire il ritorno del marito. Tutto nasce dalla convinzione che la donna debba sopportare, che la donna senza un uomo non possa vivere, che la figlia debba vivere meglio di così, ossia senza un marito accanto. È un capolavoro di negazione della realtà e, al tempo stesso, di silenziosa comprensione intergenerazionale femminile.
In quel momento entra nella stanza, su una sedia a rotelle, una vicina molto più anziana (e più disillusa), la signora Gittel Hegel-Shtein, che si meraviglia di trovare la figlia dell’amica in visita. «Aspetta, non dirmi niente, questa qui è Faith. Ma tu pensa Faith? Hope la conosco, ma questa è proprio Faith. Ma allora ce l’hai un momentino per venire a trovare la tua mamma… Che fortuna per lei, che tu non sia impegnata in eterno»[27]. La madre prende subito le difese della figlia: «“Dai, Gittel, ti prego, fa’ la brava”, disse mortificata la madre di Faith. “Davvero, ti prego. Faith viene quando può. È una mamma. Ha due bambini piccoli. Lavora. Te lo sei scordato, Gittel, com’era a quei tempi, quando sono ancora piccolini? Chi viene prima? I bambini… i bambini piccoli, vengono prima loro”»[28]. La madre chiede comprensione per la figlia, evocando la comune condizione femminile che anche Gittel ha vissuto e non può aver dimenticato.
E qui la pennellata ulteriore di Paley, che restituisce alla signora in carrozzella la parola: «Ma certo, certo, prima, so tutto sul venire prima. Archie non è forse venuto prima? Che grande onore. Mi hanno mandato una cartolina dalla Florida, il signore e la signora Prima»[29]. Ecco la sorgente dell’astio e del rimprovero: la solitudine che prova la donna. Nelle assenze di Faith quel Gittel ritrova il senso di abbandono che lei stessa prova perché il figlio lontano e la cognata non la vengono a trovare e le mandano appena una cartolina dalla Florida. A questo punto, la signora Hegel-Shtein tira fuori matasse di lana da riavvolgere in gomitoli, e le tre donne in questo gesto così quotidiano e ordinario ritrovano uno spazio di concordia e d’intesa: «“Altra lana, altra lana”, disse la signora Darwin infilando un gomitolo finito in una busta della spesa. Erano industriose come api in un muliebre mormorio di vita e di vite. Lavoravano. Si scambiavano informazioni essenziali e parevano il ritratto di un Kibbutz»[30].
In questo spazio di armonia recuperata, la figlia chiede: «Bè, mamma, che si dice nel quartiere?” […]. Forse potevano trascorrere qualche istante di allegria prima che l’ombra incombente di Ricardo le cacciasse un dito in un occhio»[31]. Faith ha il cuore pieno di tristezza, e la memoria dell’uomo che ha sposato incombe come il pianto a fior di palpebra, un dito nell’occhio romperebbe le dighe delle lacrime.
Dietro insistenza di Gittel, la madre di Faith è spinta a parlare di alcune amiche della figlia, superando la ritrosia che vorrebbe tener segreto quel che sa di varie situazioni familiari. L’amica Tess Slovinsky, alla quale anni prima era nato un bambino «che era un mostro. Un vero mostro. Non lo vide nessuno. Lo misero in un istituto. Bene. Poi il secondo. Sono ripartiti subito e ci hanno riprovato e ne hanno avuto un secondo. Quest’altro è nato pieno di allergie. Il succo di arancia gli dava l’eritema. Si strozzava con il latte. Lo portavano in campagna e gli si gonfiavano gli occhi. Bene. Poi a suo marito, Arnold Lever, davvero un caro ragazzo, gli è venuto un cancro. […] Gli hanno tagliato un dito. È peggiorato. Gli hanno amputato la mano. Non è servito. Fine di quel caro giovanotto adorabile»[32]. In quel «bene» che scandisce l’elenco delle disgrazie, quanta forza di accettazione, o forse è solo la contabilità della rassegnazione!
Poi c’è la storia di June Braun, che insieme al marito ha subìto un tracollo finanziario. Per lei Faith non prova simpatia. Hanno voluto vivere come «gentili», dimenticando le loro radici ebree; non suscitano simpatia. Poi c’è la vicenda di Anita Franklin, sposata a un ebreo sefardita, professore universitario. L’amica d’infanzia è stata abbandonata dal marito, che ha messo incinta un’alunna. Paley a questo punto trova un’immagine straordinaria per esprimere il coinvolgimento di Faith, che sino a quel momento ha accolto le notizie con contegno, ma che nella vicenda dell’amica ritrova la propria condizione di moglie abbandonata: «Proprio in quell’attimo l’ombra incombente di Ricardo le ficcò nell’occhio il dito sinistro, svelando al mondo la superficialità della sua faglia idrica. In quel preciso momento sulle terrazze della sua carne si sarebbe potuto piantare del riso, che forte e bellissimo sarebbe germogliato nelle fiumane che la travolsero da quell’istante e per il resto del pomeriggio. Per sé e per Anita Franklin, Faith chinò il capo e pianse»[33]. L’immagine delle terrazze colme d’acqua per coltivare il riso sta a significare la quantità di lacrime che Faith versa; esse inondano il corpo, che vediamo scosso e grosso, perché fornisce addirittura terrazze d’acqua. E poi silenzio.
Il racconto prosegue con il dialogo con il padre, che è entrato nella stanza e al quale Faith nasconde di aver pianto. Riaccompagnando la figlia alla metro per tornare a casa, il padre attraversa le sale della residenza, dove «erano in corso tremendi alterchi politici sugli ebrei in Russia oggi»[34], e il cancello di ferro «sopra il quale, in uno sconcertante corsivo metallico, un saldatore aveva scritto Figli di Gerusalemme»[35]. Con appena un tratto Paley continua a evocare la temperie del dibattito di quegli anni, e persino l’ombra del recente passato dei campi di concentramento tedeschi. A un certo punto, durante la chiacchierata, il padre, vecchio socialista che ha trascorso una vita nei sindacati, commenta: «Be’… sai com’è, potrei anche lasciar perdere tutta questa storia della politica, se davvero ti piace. Sono un po’ spaesato, negli ultimi tempi. È una transizione. Non ridere, Faithy. Un giorno dovrai sopravvivere anche tu a eventi come questi. Impara dalla vita, la mia. Io volevo sindacalizzare il personale di servizio. I custodi, i lift, hai presente? Quasi sempre gente di colore. Avrai notato che ora si stanno facendo strada. E malgrado tutte le speranze, non avrei mai creduto che succedesse mentre ero ancora vivo. È stata la guerra, mi sa. Tu che ne pensi, Faith? La guerra ha reso gli ebrei americani e i negri ebrei»[36]. In questo passaggio Paley riesce a comunicare le inquietudini e le profonde trasformazioni sociali che attraversano la società statunitense a partire dagli anni Cinquanta (la questione razziale in primis) e il senso della scalata sociale che alcune delle sue componenti vissero. È quello che si diceva nella prima parte dell’articolo: ci troviamo di fronte a una piccola storia – la visita a una coppia di genitori anziani –, che intercetta la grande Storia e la fa trasparire nelle parole dei suoi personaggi.
E poi c’è il finale aperto, ambiguo. Torna l’ombra della condizione familiare: «“Lo so com’è quando sono piccoli, Faith, si è sempre legati. Noi non ci siamo potuti muovere per anni. Io andavo solo alle riunioni, nient’altro. Non mi piaceva andare al cinema a divertirmi senza tua madre. E a quei tempi non c’erano le baby-sitter. Splendida invenzione le baby-sitter. Grazie a loro, due coniugi potrebbero rimanere amanti per sempre. Oh, scusa!”, ansimò, “tesoro mio…”. Faith rimase sorpresa dalla sua esclamazione, perché le erano venute le lacrime agli occhi prima ancora di sentire il dolore»[37]. Di nuovo troviamo espressi insieme il ricordo di una vita di impegno sociale, la difficoltà a crescere i bambini e a ritagliarsi uno spazio come coppia, la pennellata delle lacrime che arrivano prima del dolore. Sul limitare della scala che conduce alla metro, il padre chiede alla figlia di tornare presto a trovarli: «“Faith”, la chiamò lui, “puoi tornare presto?”. “Oh, papà”, disse lei alzando lo sguardo da quattro gradini sotto di lui, “non posso tornare finché non sono un pochino felice”»[38]. E il dialogo prosegue brevemente tra l’insistenza del vecchio genitore e la resistenza della figlia, finché lei accetta di portare i bambini dal nonno.
A questo punto – siamo alle ultime righe –, Paley «inventa», nel senso che «trova», un gesto paterno che rende il saluto tra i due indimenticabile: «Il signor Darwin allungò una mano da dietro la ringhiera per prenderle le dita. Gliele strinse e gliele portò alle guance umide. Poi disse: “Aaah…”, un’esplosione di nausea, di assoluto disgusto digestivo. E prima che lei potesse distogliere lo sguardo dalla vecchiezza del suo viso offeso e correre a casa giù per le scale della metro, lui le aveva lasciato scivolare via la mano sudata dalla propria e si era girato dall’altra parte»[39].
Il gesto e l’esplosione del padre segnano una radicale ambiguità: è il gesto dell’anziano che è consapevole che non rivedrà la figlia per molto tempo? È il gesto di dolore nei confronti della vita? È il giudizio di disgusto di sé che lo ha colto di fronte a quel momento di emotività? È la vergogna che lo colpisce, quella che Faith denuncia all’inizio del racconto? È un finale ambiguo, certo non di pacificazione riconciliante, come l’happy ending di molti film hollywoodiani, ma è l’umanissimo riconoscimento che la vita è anche questo. Al tempo stesso, il carattere aperto del racconto garantisce una possibilità di speranza: Faith tornerà a essere felice, tornerà a visitare i genitori senza dover nascondere le lacrime; i due anziani vivranno e vedranno i nipoti crescere.
Conclusione
Paley costruisce una «superficie verbale scintillante»[40], che non vuole restituire la linearità del mondo (che non esiste), ma evoca il suo scintillio, come di caleidoscopio che rifrange la luce in immagini e cristalli di colore sempre nuovi, usando il materiale povero che qualsiasi cassetto potrebbe contenere. Con la sua incredibile capacità di ascolto empatico, la scrittrice compie un gesto ben più profondo: ci ricorda che il mondo «ha bisogno piuttosto di essere amato di più. O forse, siamo noi che abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi di amarlo e ci faccia vedere come: perché a volte, occupati come siamo a sopravvivere, l’amore per il mondo ci sfugge di mente»[41].
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[1] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», in G. Paley, Tutti i racconti, Roma, SUR, 2018, 7.
[2] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, Roma, Donzelli, 2012, XVII.
[3] Per Paley, la fortuna «piccola» fu di incontrare a metà degli anni Cinquanta Ken McCormick, l’editore che la spinse a scrivere altri racconti, oltre ai tre che aveva letto su invito della moglie, amica di Paley.
[4] G. Paley, Tutti i racconti, cit., 25.
[5] Su questo punto, cfr G. Paley, «Come tutte le altre nazioni», in Id., L’importanza di non capire tutto, Torino, Einaudi, 2007, 43-51.
[6] Cfr ivi, 170-175.
[7] Cfr il racconto «Una conversazione con mio padre», in G. Paley, Tutti i racconti, cit., 320-327.
[8] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 99-101.
[9] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», cit., 15.
[10] Paley fu più volte arrestata, nella sua vita, per aver partecipato a sit-in e manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam. Nel crogiuolo degli anni Sessanta matura anche la prima sensibilità ecologista e di tutela della natura, oltre alla grande rivoluzione dei costumi, che porta a ripensare profondamente la figura e il ruolo della donna nella società. Qui va ricordato che la storica sentenza della Corte Suprema, che dichiarava incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole, è solo del 1954. Paley scrive, partecipa a dibattiti e si impegna per portare avanti le posizioni pacifiste, antinucleari, antimilitariste e di tutela democratica; viaggia molto e in tutto il mondo: in Cina, in Vietnam del Nord, in Russia, in vari Paesi del Centroamerica.
[11] Cfr G. Paley, Tutti i racconti, cit., 129 s.
[12] Ivi, 23 s.
[13] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 66-88. Sul tema della maternità come ruolo e responsabilità sociale condivisa, cfr G. Paley, «Altre madri», in Id., L’importanza di non capire tutto, cit., 30-35. Cfr anche il racconto «Parchi giochi nordest»,inId., Tutti i racconti, cit., 308-311. Si veda anche il finale del racconto «Il momento costoso», nel quale Faith Darwin e una donna in visita dalla Cina si confrontano su come educare i figli e scoprono nell’esperienza della maternità una condizione, trasversale a ogni frontiera e ideologia politica, che le accomuna (cfr Id., Tutti i racconti, cit., 504).
[14] Id., Tutti i racconti, cit., 247.
[15] Cfr A. Accardo, L’arte di ascoltare…, cit., 6-8.
[16] G. Paley, Tutti i racconti, cit., 211.
[17] Ivi.
[18] Ivi, 212.
[19] Ivi.
[20] Ivi, 213.
[21] Ivi.
[22] Ivi, 213 s.
[23] Ivi.
[24] Ivi, 214.
[25] Ivi, 216.
[26] Ivi.
[27] Ivi, 217.
[28] Ivi.
[29] Ivi.
[30] Ivi, 218.
[31] Ivi, 219.
[32] Ivi, 221.
[33] Ivi, 225.
[34] Ivi, 226.
[35] Ivi.
[36] Ivi, 227.
[37] Ivi, 228.
[38] Ivi.
[39] Ivi, 229.
[40] G. Saunders, «La santa patrona del vedere», cit., 8.
[41] Ivi.
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