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«Sirât», un’odissea spirituale


Una scena del film Sirât di Óliver Laxe.
Chi decide di intraprendere la visione di Sirât deve prepararsi a un’autentica «discesa agli inferi»: un’esperienza cinematografica intensa, a tratti dolorosa, capace di toccare corde profonde. Fin dalle parole iniziali, il film di Óliver Laxe (Spagna, Francia, 2025) mette in guardia lo spettatore: «Sirât è il ponte tra paradiso e inferno, sottile come un capello e affilato come una lama». È l’inizio di un viaggio allucinato e poetico, che ci trascina nel cuore del deserto marocchino, dove si snoda la storia drammatica di un padre e di un figlio alla ricerca della figlia-sorella scomparsa da mesi. In un contesto surreale e incandescente, i due protagonisti si imbattono in una carovana nomade di ravers, pellegrini della techno, che si spostano di festa in festa. Con loro, padre e figlio intraprendono un’odissea che attraversa lande arse dal sole, tra momenti di trance techno e allucinazioni sonore.

La regia è firmata da Óliver Laxe (1982), cineasta franco-spagnolo, già noto nei circuiti festivalieri per il suo cinema dal taglio poetico e contemplativo, denso di suggestioni spirituali e sensoriali. In un’intervista di qualche anno fa, egli dichiarava: «Appartengo a una generazione di persone che sono libere di confrontarsi con la religione e la spiritualità senza alcun timore. Siamo a nostro agio. Ma non abbiamo fiducia in questo mondo. Per me la religione, la spiritualità, la fede sono la stessa cosa: l’arte»[1].

Tra i nomi più promettenti del panorama internazionale, Laxe ha ottenuto importanti riconoscimenti, in particolare al Festival di Cannes, dove ha esordito nel 2010 con You All Are Captains (Todos vós sodes capitáns), Premio FIPRESCI, per poi affermarsi con Mimosas (Grand Prix Nespresso – Semaine de la Critique, 2016) e O que arde (Fire Will Come, 2019), favola ecologica selezionata nella sezione Un Certain Regard.

Con Sirât, il suo quarto lungometraggio, presentato in concorso a Cannes 2025 e vincitore del Premio della Giuria, Laxe conferma il suo stile personale e ardito, premiato per la forza espressiva e l’audacia artistico-narrativa.

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Un viaggio impossibile


Dalle prime inquadrature emergono con forza due degli elementi centrali del film: la controcultura techno-rave e il deserto. La macchina da presa segue la preparazione rituale degli altoparlanti in uno scenario aspro e roccioso. Le casse, disposte con simmetria quasi sacra, disegnano un’architettura effimera che contrasta con la maestosità del paesaggio naturale. Poi, la techno irrompe con forza martellante: il rave inizia, la musica invade lo spazio, e i corpi in trance danzano come posseduti.

Tra i sei ravers presentati dai titoli di testa, spiccano due figure fuori posto: Luis, padre dall’aspetto piccolo-borghese e dal passo incerto, e il piccolo Esteban, figlio al seguito con tanto di cagnolino. Animati da molta speranza e da non troppa convinzione, essi sono alla ricerca della figlia, una raver scomparsa alcuni mesi prima. Portano con sé una foto della giovane, ma nessuno pare conoscerla. Nonostante i silenzi, i due proseguono nella speranza di trovarla a un altro rave, forse in un altro punto del deserto.

Quando un gruppo di militari interrompe la festa a causa dello scoppio di un grave conflitto dai contorni vaghi e imprecisi, i ravers europei sono costretti a rientrare nei rispettivi paesi. Alcuni irriducibili techno-lovers riescono però a sfuggire al controllo e si dirigono verso un nuovo rave. Padre, figlio e cane decidono di seguirli. Senza troppe esitazioni, si uniscono alla carovana in fuga, intraprendendo un’avventura che sfida la logica e il buon senso. E inizia un viaggio impossibile.

Verso dove?


Il film sfugge a una classificazione univoca: pur partendo dal racconto tipico del road movie, mescola abilmente elementi del film d’azione, del dramma, del giallo, del thriller e persino del western. La musica, protagonista quanto i personaggi, e l’ambiente naturale, insieme a una trama che devia spesso in direzioni inattese, rendono impossibile ridurre l’opera a un’unica etichetta. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un corale e folgorante cammino di formazione collettivo, che coinvolge profondamente anche lo spettatore, trascinandolo in un’esperienza tanto fisica quanto spirituale, spesso destabilizzante.

Il viaggio, elemento centrale della narrazione, è enfatizzato da alcune inquadrature che interrompono brevemente l’azione per mostrarci strade, carreggiate e binari in movimento: frammenti sospesi che suggeriscono un percorso anche interiore, dai toni quasi metafisici.
Il deserto – magnificamente filmato, con echi visivi che ricordano Zabriskie Point, di Michelangelo Antonioni – e la musica, particolarmente invasiva e potente nella prima parte del film, contribuiscono a rendere l’esperienza sensoriale intensa. Ed è proprio qui che risiede la forza del film: trasformare un viaggio concreto, fatto di corpi e paesaggi, in un percorso spirituale.

Il cuore del racconto è l’incontro tra due mondi apparentemente inconciliabili: da un lato, un gruppo di ravers, ai margini della società e appartenenti a un universo profondamente controculturale; dall’altro, un nucleo familiare tradizionale, rappresentato dalla relazione padre-figlio. Due realtà inizialmente parallele, ma entrambe tratteggiate con autenticità, attraverso rapide ma incisive pennellate emotive. Il loro cammino – e la reciproca trasformazione – prende forma in modo graduale.

Il film colpisce anche per l’affresco vivido e realistico della scena rave. Non si tratta di una rappresentazione idealizzata: lo sguardo del regista non giudica, ma non nasconde nemmeno gli aspetti più problematici, come l’uso di sostanze stupefacenti. Tuttavia emerge con forza anche la dimensione comunitaria di solidarietà e di condivisione, che i protagonisti, Luis ed Esteban, imparano a riconoscere e accogliere.

Il coinvolgimento emotivo è rafforzato dalla scelta del cast. A eccezione del protagonista Luis – interpretato con grande intensità da Sergi López –, il regista Laxe si affida ad attori non professionisti, provenienti da vere comunità rave. Questo contribuisce a una carica espressiva genuina, che rende ancora più potente il ritratto offerto. Particolarmente toccante è la presenza di alcuni interpreti privi di un arto, feriti nel corpo, ma vitali nella danza, in un’espressione di resilienza che colpisce. Queste mutilazioni, se da un lato suggeriscono ferite interiori legate a una difficile integrazione sociale, dall’altro mostrano la forza di chi, attraverso la danza e la comunità, trova una via per esistere. Una vulnerabilità esibita, che non limita ma rivela, una ricerca autentica di senso, un desiderio profondo che merita ascolto.

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Paradiso o inferno?


Il percorso fisico e spirituale del nuovo gruppo prende direzioni inaspettate e sconvolgenti. Viene da chiedersi se si tratti davvero di un cammino verso la salvezza, o piuttosto di una discesa verso la dannazione.

La profonda ricerca spirituale personale del regista, che si confronta con la religione islamica, e il potente concetto metafisico evocato dal titolo spalancano molteplici orizzonti di riflessione. Sirât è il ponte dell’escatologia islamica che collega l’inferno al paradiso e che ogni anima deve attraversare dopo la morte. Questo riferimento apre alla possibilità di leggere il film come un viaggio di purificazione.

Senza incasellare l’opera in un’unica interpretazione ma rispettando la coerenza narrativa e stilistica, lo spettatore può accostarsi al film con uno sguardo teologico, dialogando con riferimenti simbolici provenienti da varie tradizioni religiose. In questa ottica, le immagini e la narrazione si prestano a essere lette attraverso lenti bibliche, arricchendo l’esperienza visiva con risonanze letterarie profonde. D’altronde, in termini generali, sono numerosi i riferimenti alla Bibbia che, entrati ormai nella cultura collettiva, evocano dimensioni universali dell’esperienza umana.

In relazione al film, colpisce nei primi minuti un’inquadratura particolarmente suggestiva: su una parete rocciosa, nel buio della notte, delle luci proiettano una scala gigante che sembra unire cielo e terra. L’immagine, potentemente evocativa, renderebbe forse superfluo ogni commento, ma agli occhi di un lettore biblico può richiamare simboli noti: la Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9)? La scala di Giacobbe (cfr Gen 28,11-19)? Entrambi i riferimenti alludono al desiderio umano di entrare in contatto con il divino, e i relativi testi biblici aprono a interpretazioni ricche e stratificate sui rischi e le promesse di questo anelito spirituale. Il film di Laxe può divenire così testimone, con il suo racconto profondamente sensoriale e incarnato, di questa ricerca eterna, da parte dell’uomo, di una realtà altra, metafisica. Il dialogo incrociato tra simboli religiosi, letterari e immagini cinematografiche genera un fecondo scambio di significati.

Sulla stessa linea si inserisce un altro topos biblico e universale: l’attraversamento del fiume. Nelle prime sequenze, Luis ed Esteban si trovano ad affrontare un guado. Per i mezzi potenti dei ravers l’ostacolo è facilmente superabile, ma per la loro vecchia auto l’impresa si rivela impossibile. La traversata sarà possibile solo grazie al ritorno delle carovane rave, che li aiuteranno a proseguire, rafforzati, nel loro cammino. Impossibile non pensare all’archetipo dell’attraversamento come momento iniziatico, così centrale nella Bibbia. È il caso del passaggio del Mar Rosso (cfr Es 14, ripreso anche dal Corano), simbolo per eccellenza di liberazione dalla schiavitù, e dell’attraversamento del Giordano (cfr Gs 3), preludio alla terra promessa. Entrambi nella tradizione cristiana sono stati letti come prefigurazioni del battesimo, del passaggio dalla vecchia alla nuova vita, dall’oscurità alla luce.

In questo contesto, risaltano i vaghi accenni del film a un possibile terzo conflitto mondiale appena esploso. Se il mondo lasciato alle spalle sembra incapace di costruire vie di pace, dove può vagare l’essere umano per cercare senso? Quali sentieri intraprendere? Se la fuga dalla realtà e dalle sue regole appare come una possibile risposta – in sintonia con la controcultura rave –, l’ultima scena del film sembra suggerire un’alternativa: un gruppo di persone provenienti da culture diverse si ritrova unito in un silenzio corale – in netto contrasto con il sound intenso dell’inizio –, in cammino verso un nuovo orizzonte.

Il cammino di evoluzione narrativa coinvolge anche uno dei protagonisti invisibili del film: la musica. Se all’inizio essa è invasiva, quasi dissonante, col procedere della narrazione si fa più delicata, intima, risonante. Questa evoluzione sonora accompagna lo spettatore in un viaggio che non è solo geografico, ma interiore. In questo cammino, spicca una scena apparentemente marginale, ma densa di significato: una raver entra in una tenda nel cuore del deserto. In modo quasi surreale, vi trova un tavolino e una televisione accesa. Sullo schermo scorrono immagini di pellegrini che girano attorno alla Mecca: un movimento armonioso, ritmico, che evoca un ordine superiore e un’unità spirituale. È una danza sacra, un rito che supera l’individuo e si apre verso il trascendente.

* * *


Sirât resta un film affascinante, un’intensa esperienza sensoriale ed emotiva, ma anche profondamente spirituale. E non va sottovalutato lo sforzo – sincero e consapevole – di restituire con autenticità l’universo rave, con le sue contraddizioni, le sue energie e le sue aspirazioni.

Si potrebbero criticare l’inverosimiglianza di alcune scelte narrative – un padre con un figlio piccolo nel cuore di un rave party –, o la dispersione di una trama che sembra talvolta vagare senza direzione precisa, tralasciando di approfondire temi importanti come il rapporto padre-figlio o il confronto tra universi culturali. Eppure, Sirât riesce a coinvolgere, a scuotere, a interrogare profondamente. Attraverso un vero e proprio «racconto sensoriale» – in cui il dolore di una storia impossibile prende forma nel deserto bruciato dal sole e nella musica destabilizzante – il film trascina lo spettatore in un viaggio che sfiora gli inferi, ma in cui affiora anche una luce. È proprio grazie a questa intensità percettiva che ciò che normalmente resta invisibile comincia a delinearsi. In fondo, «chi impara realmente a vedere, si avvicina all’invisibile»[2].

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[1] N. Rapold, «Cannes Interview: Oliver Laxe», in Film Comment (filmcomment.com/blog/cannes-in…), 5 luglio 2016.

[2] P. Celan, Microliti, Milano, Mondadori, 2020, 101, citato in Francesco, Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione, 17 luglio 2024.

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