«L’uomo vuole lodarti»
Le Confessioni di sant’Agostino[sup]1[/sup] si aprono con un prologo (I 1-5), che potrebbe essere considerato una sorta di «principio e fondamento», per usare il linguaggio degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola[sup]2[/sup]. Cercheremo di rileggere questo testo agostiniano proprio alla luce del testo ignaziano, non per trovarvi corrispondenze forzate, ma per farne un commento spirituale, cioè nella prospettiva dell’esperienza di Dio proposta dall’itinerario degli Esercizi[sup]3[/sup].
Creato per la lode
Agostino inizia con alcune espressioni tratte dai Salmi, che inneggiano alla grandezza e alla sapienza di Dio: «Tu sei grande, Signore, e molto degno di lode (cfr Sal 47[48],2; 95[96],4; 144[145],3); grande è la tua potenza, e la tua sapienza non si può misurare (cfr Sal 146[147],5)». Mentre però il testo biblico usa la terza persona singolare («Grande è il Signore…»), Agostino pone la seconda, dove risuona il «tu» del dialogo e della preghiera. Siamo già introdotti in un clima orante, che sarà quello di tutte le Confessioni. Dio non è qui l’«essere immutabile» della speculazione astratta, ma il partner della lode dell’uomo, una lode che prende l’avvio dalla parola stessa di Dio.
L’uomo dunque sente in sé questa volontà di dare lode a Dio («l’uomo vuole lodarti»). Ma chi è l’uomo? «Una piccola parte della tua creazione, l’uomo, che porta con sé il suo destino di morte, che porta con sé la testimonianza del suo peccato e la testimonianza che tu ti opponi ai superbi (superbis resistis)» (I 1, 1). Agostino non si sofferma su una definizione filosofica dell’uomo, ma va diritto alla sua condizione esistenziale e teologale: davanti a se stesso, l’uomo non è che una piccolissima parte della creazione e un essere segnato dal proprio destino mortale; davanti a Dio, l’uomo è in una situazione di peccato, che consiste essenzialmente in una presuntuosa superbia, in quell’autoesaltazione che blocca la comunicazione della grazia divina (allusione a 1 Pt 5,5 e Gc 4,6: «Dio si oppone ai superbi [superbis resistit], ma dà la sua grazia agli umili»)[sup]4[/sup].
E tuttavia l’inclinazione sterile all’autoesaltazione non può cancellare il progetto originario di Dio, iscritto nell’essere stesso creaturale dell’uomo: un progetto che è essenzialmente apertura all’Altro, gioia di lodare l’Altro, di sapersi creato per l’Altro: «E tuttavia l’uomo, piccola parte della tua creazione, vuole lodarti. Tu lo risvegli (excitas)[sup]5[/sup], perché egli trovi la sua gioia nel lodarti. Sì, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in te» (I 1, 1)[sup]6[/sup].
Il richiamo di Dio viene dunque dal più profondo dell’essere umano; non è un elemento aggiuntivo, quasi un optional, di cui l’uomo potrebbe anche fare a meno. In quel cor inquietum c’è tutto il tormento esistenziale di chi vorrebbe realizzarsi senza Dio, ma non ci riesce perché non ci potrà mai riuscire. Se l’uomo è stato fatto per Dio, vuol dire che non una creatura, non il mondo intero, ma soltanto Dio è l’oggetto proporzionato del suo desiderio di felicità. Agostino qui invita non a fare speculazioni, ma un’esperienza, quella del passaggio dall’«inquietudine» — che l’uomo prova quando si getta sulle creature considerate come fine[sup]7[/sup] — alla «quiete» del cuore che ha trovato Dio. È l’esperienza di un godimento (delectatio) interiore, superiore a qualsiasi godimento di beni creati[sup]8[/sup].
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«Ti invoca la mia fede»
Agostino si chiede poi se si possa iniziare subito con la lode a Dio o se ci sia bisogno prima d’invocarlo. L’invocazione però suppone la conoscenza: «Come potrebbe invocarti chi non ti conosce? O forse non si deve piuttosto invocarti per conoscerti?» (I 1, 1). Il discorso sembra perdersi in un circolo vizioso, all’interno di una soggettività che non riesce a trovare un adeguato punto di partenza, un principium su cui appoggiarsi.
Il circolo si spezza solamente accogliendo la parola della fede, suscitata dall’annuncio, secondo il testo di Rm 10,14: «Come potranno invocarlo senza prima aver creduto in lui? E come potranno credere […] senza uno che l’annunci?» (I 1, 1). Bisogna dunque partire dall’annuncio, cioè dalla parola di Dio. Tutte le altre operazioni — cercare Dio, invocarlo, lodarlo — non sono che conseguenze della fede, quella giunta a noi attraverso l’incarnazione del Figlio di Dio: «Ti cercherò, Signore, invocandoti e ti invocherò credendo in te: infatti ci è giunta la buona notizia di te. ti invoca, Signore, la mia fede, quella che tu mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante il mistero di colui che ti ha fatto conoscere» (I 1, 1).
Agostino non esita a ricorrere al principio oggettivo dell’annuncio, che ha la sua origine nel Figlio di Dio fatto uomo. Così dalla predicazione viene il dono della fede, che è fede orante, invocante (invocat te fides mea); l’invocazione è ricerca, e chi cerca il Signore lo trova, e chi lo trova lo loda. L’uomo, fatto per la lode di Dio, non può raggiungere questo «Tu» che dà riposo al suo cuore inquieto, se non nella fede in Cristo, rivelatore e annunciatore del Padre. Questo riferimento cristologico è estremamente importante, perché Agostino sa che non vi può rinunciare, neanche con il pretesto (o illusione) di rendere la via a Dio più universale.
Immanenza e trascendenza
Ma che senso ha invocare Dio? Letteralmente «in-vocare» significa «chiamare» qualcuno a «venire», colmando così una distanza e un’assenza. Ora questa immagine spaziale si rivela inadeguata se riferita a Dio: «C’è un posto in me, — si chiede Agostino — dove possa venire in me il mio Dio?» (I 2, 1). La preposizione «in» indica uno spazio delimitato da un contenente. Ma esiste forse un luogo dove Dio non sia già presente e che sia in grado di contenerlo? Non è lui che ha «fatto il cielo e la terra»? Dio dunque è già in me, perché è in tutte le cose, le quali non esisterebbero se non fossero in Dio. Anche negli «inferi», cioè nel luogo dei morti secondo la concezione antica — lo sheòl della Bibbia — Dio è presente[sup]9[/sup]. Ecco allora che l’in me si rovescia nell’in te: «Io non esisterei, Dio mio, non sarei nulla, se tu non fossi in me: O meglio, non esisterei, se non fossi in te, poiché tutto è da te, tutto per te, tutto in te» (I 2, 2)[sup]10[/sup].
La lontananza da Dio è allora un’illusione? «Da dove dunque ti invoco, se sono in te? O da dove tu verresti in me?» (I 2, 2). Agostino cerca di scrutare il mistero dell’immanenza e della trascendenza divina. Dio «riempie», «contiene» il cielo e la terra, cioè tutto ciò che esiste, ma non come una sostanza materiale, racchiusa in un contenitore e divisibile in parti. Infatti Dio è «tutto dappertutto» (ubique totus) [= immanenza], eppure «nessuna cosa ti può contenere tutto (te totum capit) [= trascendenza]» (I 3, 2)[sup]11[/sup]. Questo è il paradosso. Perciò non è Dio che ha bisogno del mondo per essere contenuto, ma è il mondo che ha bisogno di Dio per essere riempito. «Non sono i contenitori (vasa), pieni di te, a renderti stabile, perché anche se si rompono, tu non vai versato. E quando tu ti versi su di noi, non sei tu che ti abbassi, ma innalzi noi, non tu ti disperdi, ma noi raccogli» (I 3, 1). È chiara qui l’allusione al mistero salvifico, cioè a quel legame d’amore che Dio ha voluto porre con la sua creatura e che si è manifestato nell’«abbassamento» dell’incarnazione e nella croce di Cristo (il sangue «versato» per noi). In questo reale abbassamento, Dio non ha perso qualcosa, non è caduto in un’alienazione, ma è la creatura che è stata elevata e risanata.
«Che cos’è dunque il mio Dio?»
Il mistero della trascendenza e immanenza di Dio va dunque considerato, per Agostino, non semplicemente secondo un a priori astratto, e quindi estremamente riduttivo, ma va riempito con i contenuti ricavati dalla rivelazione biblica. Ne esce una specie di «inno teologico», da leggersi non in chiave puramente filosofica, ma tenendo conto del retroterra biblico:
Che cosa è dunque il mio Dio?
Che cos’è, mi chiedo, se non il Signore Dio?
Chi infatti è il Signore se non il Signore?
O chi è Dio se non il nostro Dio?[sup]12[/sup]
Sommo, ottimo,
potentissimo, onnipotentissimo,
misericordiosissimo e giustissimo[sup]13[/sup],
lontanissimo e presentissimo[sup]14[/sup],
bellissimo e fortissimo,
stabile e inafferrabile,
immutabile che tutto muti[sup]15[/sup],
mai nuovo, mai vecchio;
tutto rinnovi[sup]16[/sup] e fai invecchiare i superbi senza che lo sappiano;[sup]17[/sup]
sempre attivo, sempre in riposo;
raccogli, ma non hai bisogno di nulla;
porti, riempi e proteggi [tutto],
crei, nutri e porti a compimento [ogni cosa];
chiedi, mentre nulla ti manca;
ami senza bruciare di passione,
sei geloso[sup]18[/sup] ma resti tranquillo,
ti dispiaci[sup]19[/sup]ma non provi dolore,
ti adiri[sup]20[/sup] ma rimani calmo,
cambi le opere ma non il progetto[sup]21[/sup],
riprendi ciò che trovi e mai perdesti[sup]22[/sup];
mai indigente, sei contento di guadagnare,
mai avaro, esigi gli interessi[sup]23[/sup];
accetti che si spenda di più per te, per poter rifondere[sup]24[/sup],
ma chi possiede qualcosa che non sia tuo?[sup]25[/sup]
Paghi i debiti senza dover nulla a nessuno[sup]26[/sup],
condoni i debiti[sup]27[/sup] senza perdere niente» (I 4, 1-2)[sup]28[/sup].
I superlativi, ma più ancora la congiunzione degli opposti attributi, esprime l’inesprimibile mistero di Dio. Tutto quello che diciamo di lui, per quanto ci sforziamo di usare tutte le risposte del linguaggio, rimane sempre inadeguato. La Scrittura stessa, con le sue molteplici e contrapposte immagini, lo attesta: «Che cosa ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? O che cosa dice uno, quando parla di te?» (I 4, 2). Non sarebbe allora il silenzio l’atteggiamento più adeguato? Agostino qui si pone appena la domanda e lascia intravedere la risposta. Sì, se il silenzio è suscitato e portato dalla parola; no, se è il silenzio muto, senza parola[sup]29[/sup]; «Guai a quelli che tacciono di te, se persino chi parla molto [di te] è come se fosse muto!» (I 4, 2)[sup]30[/sup].
L’incontro con Dio-Signore
Agostino ha considerato il mistero di Dio nella sua trascendenza e immanenza. Se Dio fosse solanto il trascendente, il totalmente altro, sarebbe assolutamente inaccessibile e non avrebbe senso invocarlo. Se, al contrario, egli fosse totalmente immanente, si confonderebbe con il mondo e con l’io, e il dialogo con lui sarebbe in realtà solo un parlare a se stessi[sup]31[/sup]. Perciò Agostino privilegia il «colloquio», dove non c’è fusione — o confusione —, ma spazio per un sempre nuovo incontro, fatto di rispetto e riverenza, ma insieme di familiarità: «Chi mi farà riposare in te? Chi farà sì che tu venga nel mio cuore a inebriarlo? Così dimenticherei i miei mali e abbraccerei te, il mio unico bene» (I 5, 1).
Già presente in tutte le cose come Creatore — e qui non c’è scelta, perché l’alternativa sarebbe il nulla —, Dio può essere ancora invocato e desiderato dall’uomo per un incontro di grazia, liberamente scelto e desiderato da entrambe le parti[sup]32[/sup]. In effetti, non soltanto l’uomo cerca Dio, ma, prima ancora, Dio cerca l’uomo: «Che cosa sei per me? […] E che cosa sono io per te? Tu esigi di essere amato da me, e se non lo faccio ti adiri con me e minacci gravi sventure, come se il non amarti non fosse già la sventura più grave di tutte!» (I 5, 1).
Dio ha già fatto la sua scelta, ora tocca all’uomo trovare in Dio «l’unico bene», pena il suo stesso fallimento, la sua stessa «perdizione». Agostino è consapevole che questo passo non può essere fatto senza la grazia (miseratio) di Dio stesso, senza che egli si riveli come «Salvatore», cioè come «salvezza» o, più letteralmente, «salute» di un’anima malata: «Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, che cosa sei per me. Di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza (Sal 34,3). Dillo in modo che io senta! Ecco le orecchie del mio cuore sono davanti a te, Signore: àprile, e di’ all’anima mia: sono io la tua salvezza. Correrò dietro questa voce e ti raggiungerò. Non nascondermi il tuo volto[sup]33[/sup]: possa io morire per non morire, e così vederlo!» (I 5, 1)[sup]34[/sup].
Quando una persona umana, risvegliata dalla grazia, fa la scelta di Dio come fine e senso della propria esistenza, riscopre tutte le sue potenzialità naturali di amore, desiderio, unione. Riscopre se stessa, ma nello stesso tempo si accorge che questa «struttura» naturale — il suo cuore, la sua casa — è mal ridotta. La preghiera allora diventa un «consegnare le chiavi», un darsi nelle mani di colui che, avendo creato, può ri-creare e restaurare: «Stretta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: dilatala. Cade in rovina: restaurala. Contiene alcune cose che offendono i tuoi occhi, lo confesso e lo so. Ma chi potrà purificarla? A chi altri griderò, se non a te?» (I 5, 2).
Invitare Dio nella propria casa — nel proprio cuore — significa accettare di fare la verità («Tu sei la Verità») e di non mentire più a se stessi. Il peccato infatti cerca sempre di giustificarsi con la menzogna (ne mentiatur iniquitas mea sibi), anche davanti a Dio: di questa pseudo-religione, Agostino non vuole più saperne, perché è ancora un camuffamento dell’io superbo. «Quindi non disputo con te in giudizio» (I 5, 2). Se Agostino prende la parola davanti a Dio non è più per giustificarsi, ma per accusare se stesso dei propri peccati. Fatta davanti alla misericordia divina, questa autoaccusa nella verità — ridicola agli occhi umani — conduce invece all’assoluzione: «E tu hai assolto l’empietà del mio cuore» (I 5, 2).
Podcast | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
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Conclusione
Il prologo delle Confessioni ci pone subito davanti al mistero di Dio e al mistero dell’uomo, come a due facce di un unico mistero: chi sei tu Signore? E chi sono io? L’uomo si riconosce creatura mortale, ma fatto per Dio; per cui nessuna creatura, ma solamente Dio è il fine che può appagare il desiderio infinito che c’è nell’essere umano. Come Creatore, certamente Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. L’uomo però ha la singolare vocazione e capacità di poter scegliere Dio come senso e fine della propria vita, come quel Bene al quale congiungersi inseparabilmente e così trovare la salvezza.
Ma che cosa diciamo quando parliamo di Dio? Agostino è come smarrito di fronte alla inadeguatezza del linguaggio umano — anche quello ispirato delle Scritture —, chiamato a esprimere qualcosa che non può «comprendere», perché lo trascende[sup]35[/sup]. L’uomo dunque dovrebbe doppiamente tacere davanti a Dio: primo perché è creatura, secondo perché è peccatore. E tuttavia, proprio il riconoscere l’una e l’altra realtà rivela il volto di Dio, che è misericordia[sup]36[/sup].
La parola perde così, almeno in parte, la sua inadeguatezza, perché è suscitata dalla fede: «Credo, e perciò anche parlo (cfr Sal 115[116],10; 2 Cor 4,13)» (I 5, 2). È una parola che è passata, mediante la fede, sotto il giogo di Cristo, la «via» attraverso cui Dio si è «abbassato», è venuto a noi e attraverso la quale anche noi, abbassando il nostro orgoglio, possiamo andare a lui. Sembra «stretta» questa via, ma è quella che sconvolge i pensieri dell’uomo su Dio, è quella che «salva» l’uomo, liberandolo dalla menzogna del peccato e liberando in lui il canto della lode.
Il clima orante nel quale Agostino immerge tutte queste riflessioni fa sì che le pagine introduttive delle Confessioni possano essere utilmente proposte, a nostro avviso, all’inizio di un cammino di «esercizi spirituali», come una sorta di «principio e fondamento», che si apre naturalmente sui grandi temi della «Prima settimana» (peccato e misericordia)[sup]37[/sup]. Il grande vescovo di Ippona ha il pregio, raro ai nostri tempi, di saper congiungere il rigore del pensiero con una intensa spiritualità affettiva[sup]38[/sup]. Non sono forse queste le qualità che ritroviamo negli Esercizi spirituali di Ignazio?
***
1 Cfr S. AGOSTINO, Le Confessioni, testo latino dell’edizione di M. SKUTELLA, riveduto da M. PELLEGRINO, traduzione e note di C. CARENA, Roma, Città Nuova, 19753. Qui seguiremo una nostra traduzione.
2 S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali [23]: «Principio e fondamento. L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e per salvare, in questo modo, la propria anima; e le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscono. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati» (in M. GIOIA [ed.], Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino, UTET, 1977, 100 s). Per un commento a questo testo, con il suo implicito cristocentrismo, cfr S. RENDINA, «Principio e fondamento», in Appunti di spiritualità, n. 24, suppl. a Notizie dei Gesuiti d’Italia 22 (1989) 5-20.
3 Già altri si sono cimentati, con profondità ed erudizione, nel commento di Confessioni I 1-5. Cfr in particolare R. GUARDINI, L’inizio. Un commento ai primi cinque capitoli delle «Confessioni» di Agostino, Milano, Jaca Book, 19752; L. F. PIZZOLATO, Un primo libro delle «Confessiones» di Agostino: ai primordi della «confessio», in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento ai libri I-II delle Confessioni di Agostino d’Ippona, Palermo, Augustinus, 1984, 9-30.
4 Agostino vedrà sempre in questa «superbia» il maggiore ostacolo alla conversione. Il richiamo a 1 Pt 5,5 = Gc 4,6 è frequente nelle Confessioni: cfr III 5, 9; IV 3, 5; 15, 26; VII 9, 13; X 36, 59.
5 Penso che si possa conservare qui al verbo excitare il significato di «risvegliare». Per Agostino l’uomo non toccato dalla grazia è tutto proiettato «fuori», all’esterno, così che «l’uomo interiore» è come addormentato. Soltanto la potenza della grazia può risvegliare i «sensi spirituali», come si legge nel famoso passo «sero te amavi» di Confessioni X 27, 38: «Tu chiamasti e gridasti, e rompesti la mia sordità», quella cioè dell’uomo interiore. Cfr E. CATTANEO, «“Tardi ti ho amato”. L’esperienza spirituale di s. Agostino in Confessioni 10, 27, 38», in M. GIOIA (ed.), Teologia spirituale. Temi e problemi, in dialogo con Ch. A. Bernard, Roma, AVE, 1991, 53-61, ripreso in E. CATTANEO, Evangelo, Chiesa e carità nei Padri, ivi, 1995, 99-107.
6 Si cerca di rendere in italiano il gioco di parole latino: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te. Cfr G. CERIOTTI, Inquietum cor (Confessioni I 1, 1), in L. F. PIZZOLATO – G. CERIOTTI – F. DE CAPITANI, Commento…, cit., 78-88.
7E allora le creature, che pure sono in Dio, diventano un ostacolo, non per colpa loro (esse sono «belle»), ma per colpa dell’uomo, che le usa in modo sbagliato, cioè assolutizzandole. Cfr E. CATTANEO, Evangelo…, cit., 103 s.
8 Tuttavia nel tempo presente tale esperienza è solo incipiente e troverà la sua perfezione soltanto nel «riposo» dell’eternità immutabile (cfr Confessioni XIII 36, 51).
9 Agostino cita appunto Sal 138,8: «Anche se scendo negli inferi, là tu sei». Tutto questo Salmo (139, secondo la numerazione ebraica) potrebbe fare da contrappunto alla meditazione agostiniana, soprattutto con il v. 7: «Dove andare lontano dal tuo spirito, / dove fuggire dalla tua presenza?».
10 Cfr 1 Cor 8,6; Rm 11,36
11 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Non sei formato di membra alcune più grandi e altre più piccole, ma sei tutto dappertutto (ubique totus) e nessun luogo Ti contiene».
12 Sal 17,32.
13 Questi due attributi (misericordia e giustizia) sono sempre stati considerati dai Padri come inseparabili. Cfr E. CATTANEO, «Dio Padre buono nella polemica antignostica del II secolo», in O. F. PIAZZA (ed.), Padre, liberaci dal male, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1999.
14 Cfr Confessioni VI 3, 4: «Tu, altissimo e vicinissimo, lontanissimo e presentissimo».
15 Cfr Nm 23,19; Mal 3,6; Dn 2,21.
16 Cfr Sap 7,27.
17 Cfr Gb 9,5 (LXX). Il testo greco dice: «Fai invecchiare i monti senza che lo sappiano». Evidentemente, nell’interpretazione allegorica, i «monti» sono il simbolo dei «superbi».
18 La «gelosia» di Dio è uno dei più forti antropomorfismi biblici (cfr Dt 4,24).
19 Cfr Gn 6,6; Gio 3,10.
20 Anche l’«ira» di Dio è un altro antropomorfismo biblico molto audace: cfr Nm 11,1; Rm 1,18.
21 Cfr Dn 2,21; Eb 6,17.
22 Allusione alle parabole della «misericordia» di Lc 15 (pecora smarrita, moneta perduta, figlio perduto e ritrovato). Cfr R. GUARDINI, L’inizio…, cit., 57.
23 Cfr Mt 25,21.27 (parabola dei talenti).
24 Cfr Lc 10,35 (parabola del buon samaritano).
25 Cfr 1 Cor 4,7.
26 Cfr Mt 20, 1-16.
27Cfr Mt 18,32.
28 Per un’analisi stilistico-tematica di questo «inno», cfr G. BOUISSOU, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, Bar le Duc, DDB, 1962, 652-657.
29 Cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between Affirmation and Negation According to Augustine», in J. T. LIENHARD – E. C. MULLER – R. J. TESKE (edd.), Augustine: Presbyter Factus Sum, New York, Lang, 1993, 73-97.
30 Et vae tacentibus de te, quoniam loquaces muti sunt. Queste ultime parole sono variamente interpretate: «poiché sono muti ciarlieri» (C. Carena); «dal momento che anche chi è muto ne parla» (L. F. Pizzolato); «puisque, bavards, ils sont muets» (Tréhorel-Bouissou); «perché nella loro loquacità sono muti» (Guardini).
31 Va però riconosciuto che una delle attività dello spirito è anche «parlare con se stessi», cioè ragionare tra sé e sé, e Agostino amava farlo, come attestano i Soliloqui, scritti alla vigilia del suo battesimo nel 387. Lì egli dialoga con la propria «ragione», la quale, essendo «a immagine e somiglianza di Dio», distingue bene Dio da se stessa, e invita anzitutto a rivolgersi a lui: da qui la preghiera di Soliloqui I 1, 2-6, «una delle più belle dell’antichità cristiana» (P. DE LABRIOLLE, in «Bibliothèque Augustinienne», n. 5, Bruges, DDB, 1948, 401).
32 L’opposizione lontano/vicino, dentro/fuori è spesso usata da Agostino per esprimere lontano da te. Tu eri in me più dentro della mia parte più intima (intimior intimo meo) e più alto della mia parte più alta (superior summo meo) (III 6, 11). «E io dov’ero, quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me (a me discesseram) e non trovavo me stesso. Tanto meno trovavo te!» (V 2, 2). «Io ti cercavo fuori di me (foris a me) e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore (Sal 72,26)» (VI 1, 1). Finalmente però la lontananza viene percepita: «Mi scoprii lontano da te, nella regione della dissomiglianza (dissimilitudinis)» (VII 10, 16). La scoperta amorosa di Dio coincide con il ritrovamento della propria identità-interiorità perduta, una vera rinascita: cfr X 27, 38 e più sopra, nota 5.
33 Le allusioni al Cantico dei cantici (Vulgata) sono abbastanza evidenti: «Correremo dietro a te (post te curremus) (Ct 1,3); «mostrami il tuo volto, risuoni la tua voce nelle mie orecchie (ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis)» (Ct 2,14); «ti raggiungerò e ti porterò nella mia casa (adprehendam te, et ducam in domum)» (Ct 8,2). Notiamo inoltre che in questo prologo l’esperienza di Dio viene espressa in termini di «sensi spirituali», come cosa già abituale per Agostino: l’udito («le orecchie del mio cuore… àprile… correndo dietro a questa voce…»); la vista («non nascondermi il tuo volto… per vederti»); il tatto («abbraccerei te, unico mio bene»); il gusto («dolcezza mia santa»). Manca qui l’odorato, ma tale assenza indica che questo tipo di linguaggio è usato da Agostino in modo spontaneo, non artificioso.
34 Moriar, ne moriar, ut eam videam. L’interpretazione di A. Solignac («sia che muoia, sia che non muoia, purché lo veda») ci sembra banalizzare un po’ il testo (cfr «Bibliothèque Augustinienne», n. 13, 282-283). Il senso più accettabile ci pare quello ripreso da F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29: «C’è in quel primo moriar il senso della morte mystica (morire in Cristo al peccato), che vince la morte naturale e la morte del peccato».il cercarsi tra l’uomo e Dio: «Tu dov’eri, e quanto lontano da me? Ero io che vagavo
35 Tuttavia Agostino non è d’accordo con l’apofatismo estremo di Plotino, per il quale ogni affermazione su Dio risulta priva di senso, perché allora dietro il termine «Dio» uno ci potrebbe mettere qualsiasi cosa. Il linguaggio su Dio rimane sempre inadeguato, ma non vuoto di senso (cfr T. J. VAN BAVEL, «God in between…», cit., 84 s).
36 Cfr Sermo Denis II 5: «Non puoi comprendere il nome della mia essenza (nomen substantiae); comprendi il nome della mia misericordia (nomen misericordiae)» («Miscell. August.», I 16-17). Quindi «parlare» di Dio significa «confessare» Dio, nel duplice significato di confessio — anche se il termine non compare in questo prologo —: «l’esperienza del peccato (confessio peccatorum) si trasfigura in materia di lode (confessio laudis)» (L. F. PIZZOLATO, Commento…, cit., 29).
37 Cfr S. IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, cit, [45]-[72].
38 L’originalità della spiritualità agostiniana è stata bene messa in rilievo da CH. A. BERNARD, Il Dio dei misteri. I: Le vie dell’interiorità, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 1996, 189-222.
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