Quando Strasburgo guarda indietro: sulla PMA e i diritti dei bambini ha ragione la Corte costituzionale italiana
La CEDU nel caso X c. Italia ha negato la violazione dell’articolo 8, ignorando la svolta della Corte costituzionale italiana che ha riconosciuto il diritto dei bambini nati da PMA a essere figli di entrambe le madri
La sentenza X c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo segna un punto critico nel dialogo tra Strasburgo e Roma.
Con sei voti contro uno, la CEDU ha stabilito che non vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione nel caso di un bambino nato in Italia da procreazione medicalmente assistita (PMA) praticata all’estero da una coppia di donne, ritenendo che la mancata iscrizione della madre intenzionale nell’atto di nascita non ledesse la vita privata e familiare del minore.
È una decisione che ignora la svolta costituzionale italiana.
La sentenza n. 68/2025 della Corte costituzionale ha infatti dichiarato illegittimo il divieto di riconoscimento della madre intenzionale, affermando che ogni bambino ha diritto, fin dalla nascita, a una filiazione stabile con entrambe le madri che hanno condiviso il progetto genitoriale.
La Consulta ha posto al centro il diritto del minore all’identità personale e alla parità di trattamento, restituendo certezza e dignità a una realtà familiare già viva nella società.
La Corte di Strasburgo, invece, si è fermata al quadro normativo precedente, scegliendo un approccio di pura legalità formale. Ha valutato i fatti come se la pronuncia costituzionale non fosse mai intervenuta, preferendo il criterio cronologico a quello sostanziale. In nome del “margine di apprezzamento” nazionale, ha considerato sufficiente il rimedio dell’“adozione in casi particolari” – un istituto che la stessa Corte costituzionale in Italia ha giudicato inadeguato e privo di effettività, perché non assicura al bambino una piena stabilità giuridica e identitaria.
Così facendo, Strasburgo ha rinunciato alla sua funzione evolutiva, quella di guida nella protezione dei diritti umani. Lo ricorda con forza la giudice Anna Adamska-Gallant nella sua opinione dissenziente: il lungo periodo di incertezza e l’errore delle autorità hanno inciso sull’identità del minore e lo Stato aveva il dovere di intervenire tempestivamente. È un richiamo al cuore stesso dell’articolo 8 CEDU: la tutela concreta della persona, non la salvaguardia delle procedure.
Non sarebbe la prima volta che la Grande Camera corregge una simile miopia. Nel caso S.H. e altri c. Austria, la Corte europea ribaltò la precedente condanna a Vienna, riconoscendo la legittimità della normativa nazionale dopo il confronto con la Corte costituzionale austriaca.
Oggi lo stesso può accadere: la Grande Camera ha l’occasione di ristabilire il dialogo tra Strasburgo e Roma, allineando la giurisprudenza europea al progresso costituzionale italiano.
Perché, in fondo, il tema è semplice e universale: ogni bambino ha diritto, fin dalla nascita, a essere riconosciuto figlio di entrambi i genitori che hanno scelto di amarlo e crescerlo.
Nessuna Corte può dimenticarlo, se davvero vuole parlare il linguaggio dei diritti.
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