I 1700 anni del concilio di Nicea: contesto storico, convocazione e principali decisioni
Nel mese di giugno dell’anno 325 ebbe inizio il primo Concilio ecumenico, quello di Nicea, voluto dall’imperatore Costantino. Tra i tanti temi trattati, che cercheremo di affrontare brevemente, due in particolare sono passati alla storia: il Credo che, con varie modifiche, divenne la professione di fede ufficiale di tutta la cristianità, e la decisione di unificare la data della celebrazione della Pasqua. Questa celebrazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea è diventata un’occasione per sviluppare nuovi filoni di studio.
Secondo la storiografia tradizionale, intorno all’anno 320 il presbitero Ario, in un incontro del clero alessandrino con il suo vescovo Alessandro, avrebbe negato la divinità del Figlio di Dio, sostenendo che egli era stato creato dal nulla prima dei tempi e dell’eternità, come la prima e la più eccelsa creatura di Dio; perciò era anche mutevole e avrebbe potuto peccare; tuttavia non era arrivato a questo, perché Dio gli aveva dato la grazia di non peccare, conoscendo in anticipo la sua fermezza e pietà[1]. Sembra che il contesto della disputa fosse costituito da un problema che esisteva da tempo nella Chiesa alessandrina, cioè il contrasto tra i filo-monarchiani, preoccupati a tal punto di non separare il Figlio dal Padre da non riuscire a esprimere la fede nella personalità propria del Figlio, cadendo in un monoteismo estremo, e certi teologi, fedeli alla tradizione di Origene, i quali sottolineavano la diversità tra le Persone divine, rischiando di cadere nel triteismo.
Si discusse su questo argomento, e il vescovo Alessandro chiese ad Ario di presentare la sua fede per iscritto. Ario redasse il proprio Credo in forma di lettera, che fece arrivare al vescovo[2]. Costui, con il sinodo dei vescovi egiziani, dopo il dovuto esame, scomunicò Ario e un gruppo di suoi sostenitori, tra cui due vescovi. Successivamente Alessandro informò i vescovi delle altre province di tale condanna[3], e Ario a sua volta scrisse ai suoi amici, tra cui Eusebio di Cesarea ed Eusebio di Nicomedia. La disputa, che all’inizio era di interesse locale, si diffuse poi in tutto il mondo, diventando così un problema globale. Per questo l’imperatore Costantino intervenne con una lettera indirizzata ad Alessandro e ad Ario[4], chiedendo che i due si riconciliassero tra loro. La lettera venne portata dal vescovo Ossio di Cordova, il quale, dal momento che i due non volevano far pace, tornò a Nicomedia, alla corte di Costantino. L’imperatore allora convocò il Concilio ecumenico per risolvere tale importante questione.
L’invito al Concilio e la pace religiosa
La disputa poteva veramente assumere questa forma, sebbene sembri eccessivo considerarla l’unica causa della convocazione del grande Concilio. L’imperatore poté scrivere la suddetta lettera solo dopo aver concluso la guerra con Licinio, suo ex-collega Augusto e cognato, lo stesso con il quale firmò il cosiddetto «Editto di Milano» nel 313, prima che le loro strade si separassero. Le divergenze tra loro riguardavano anche la religione, perché, mentre Costantino mirava alla pace religiosa nell’impero appoggiandosi alla Chiesa, Licinio invece perseguitava i cristiani. La vittoria di Costantino avvenne il 18 settembre 324, nella battaglia presso Crisopoli, in Bitinia, vicino a Calcedonia. Licinio fu sconfitto e poco dopo ucciso. Costantino si trasferì nel palazzo imperiale a Nicomedia, potendo godere della pace e del potere pieno di unico imperatore e festeggiare la vittoria. Egli era stato proclamato Augusto dall’esercito il 25 luglio 306. Così, nello stesso giorno del 325 cominciava l’anno giubilare, le vicennalia del suo dominio. In preparazione a questo evento, l’imperatore scrisse varie lettere sul ristabilimento della pace nella Chiesa, sulla fine delle persecuzioni e sui provvedimenti in favore dei beni ecclesiastici che erano stati sequestrati in passato. Ma non tutto era roseo, e nella Chiesa persistevano fenomeni che offuscavano l’atmosfera di pace. Scriveva Eusebio: «Ma proprio mentre [Costantino] si rallegrava di questi fatti, gli fu riferita la notizia che la Chiesa era lacerata da un turbamento non da poco, e quando il suo orecchio fu colpito dalla notizia, egli si mise a pensare a una cura contro questo male» (VC II, 61,2); «Alcuni nella stessa Alessandria disputavano come bambini a proposito degli argomenti più eccelsi, altri in tutto l’Egitto e l’alta Tebaide dissentivano su un’annosa questione che già da tempo si era presentata, e così le Chiese si trovavano ovunque divise» (VC II, 62).
Un’altra questione, che lo stesso Costantino segnala nella lettera ad Alessandro e ad Ario, riguarda il donatismo, lo scisma dei «puri», katharoi, i quali, dopo le persecuzioni dell’inizio del IV secolo, fondarono una Chiesa parallela a quella cattolica. L’imperatore scriveva così: «Infatti, quando si diffuse per tutta l’Africa un’inaccettabile follia a causa di quanti avevano osato, con leggerezza sconsiderata, scindere in sètte diverse i culti religiosi dei popoli, io, volendo arginare questa malattia, non riuscivo a trovare altro rimedio adatto alla circostanza se non, una volta distrutto il nemico comune dell’impero che aveva opposto ai vostri santi sinodi la sua empia dottrina, inviare alcuni di voi in soccorso per ristabilire la concordia tra le opposte fazioni» (VC II, 66).
Il donatismo esisteva già da tempo, e l’imperatore aveva convocato sinodi a Roma (313) e ad Arles (314) per cercare la riconciliazione, ma senza successo. Anche allora, cioè dopo la vittoria sul nemico, Costantino mandò i delegati per cercare una soluzione[5].
Per quanto riguarda la parte orientale dell’Impero, si manifestavano due problemi: il primo, considerato da Costantino poco serio – «da bambini», come egli scriveva –, era legato alle dispute inutili che si svolgevano ad Alessandria; il secondo, più serio, che interessava tutto l’Egitto e la Tebaide e che si protraeva già da anni, riguardava lo scisma meleziano. Il vescovo Melezio, in Egitto, all’inizio del IV secolo aveva fondato una Chiesa parallela a quella cattolica: una Chiesa di «puri», intransigente verso i «peccatori», specialmente verso coloro che durante le persecuzioni si erano mostrati deboli; una Chiesa simile a quella dei donatisti in Africa. Essa si era talmente diffusa durante il IV secolo da arrivare a costituire la metà delle Chiese egiziane[6]. Questo tema era così importante che il Concilio se ne dovette necessariamente occupare, dedicando a esso e agli altri «puri» (katharoi) il canone ottavo.
Agli occhi di Costantino, invece, la disputa alessandrina valeva al massimo un ammonimento, in quanto disturbo alla pace. Basta leggere alcune frasi della lettera, per rendersi conto di quanta poca importanza avesse per lui tale contesa: «Riflettiamo dunque su quanto è stato detto con maggior attenzione e con più acuta comprensione: se cioè sia opportuno che una contesa verbale banale e di poca importanza spinga i fratelli a opporsi ai fratelli e che a causa di un’empia discordia si divida la preziosa unità del sinodo, per colpa nostra, che litighiamo tra noi su questioni trascurabili e niente affatto necessarie. Un tale atteggiamento, oltretutto, risulta volgare e si addice a menti infantili piuttosto che essere adeguato all’intelligenza di sacerdoti e di uomini saggi» (VC II, 71,3). E ancora: «La causa che ha provocato tra voi questa disputa meschina, dal momento che non riguarda l’autorità della legge nel suo complesso, non susciti tra voi alcuna divisione o ribellione» (VC II, 71,5).
Iscriviti alla newsletter
Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.
Costantino considerava la controversia così poco seria, perché probabilmente era stato informato su di essa da Eusebio di Nicomedia, il quale difendeva Ario, sostenendo che la sentenza di condanna inflittagli da Alessandro era troppo severa e che per una questione di così poca importanza Ario non avrebbe dovuto essere espulso dalla Chiesa. Costantino credette facilmente a questa relazione, perché ai suoi occhi l’unità della religione non doveva basarsi sull’unità del pensiero, ma su quella del culto e della prassi religiosa. Le dispute teologiche non avevano grande rilevanza per lui: per una questione di così poca importanza sarebbe dovuto bastare un ammonimento e un’esortazione alla concordia.
Poteva l’imperatore sospettare la disobbedienza da parte di sudditi dei quali si sentiva capo in quanto legittimo pontifex maximus, e quindi responsabile della pacifica coesistenza fra tutte le religioni dell’impero? Difficile crederlo. Ma anche se questo fosse stato vero, non avrebbe preoccupato troppo Costantino, visto lo scarso valore che la controversia aveva ai suoi occhi e la gravità degli scismi presenti in Africa e in Egitto, che egli considerava ben più seri. Ossio di Cordova, una volta conosciuta l’intransigenza di Alessandro, non avrebbe potuto informare la corte sull’accaduto, perché allora non c’era nessuna nave che potesse ricondurlo a Nicomedia, dal momento che durante la stagione invernale i porti restavano chiusi[7]. Atanasio, allora diacono ad Alessandria, scriverà più tardi che Ossio aveva partecipato a un sinodo ad Alessandria, svoltosi tra il 324 e il 325, dedicato allo scisma meleziano[8]. Per questo gli sarebbe rimasto tanto meno tempo per un suo trasferimento.
Poiché, come abbiamo detto, per Costantino l’idea della pace religiosa doveva fondarsi sull’unità di culto più che sull’uguaglianza delle credenze teologiche, possiamo affermare che il tema più importante per lui era la data della Pasqua, che fino a quel momento non era stata unificata nella Chiesa. Eusebio dedica l’intero capitolo quinto del libro III della Vita Constantini a questo problema. Costantino stesso, nella lettera destinata a tutti i vescovi dopo il Concilio[9], presenta la decisione sulla data della Pasqua come il frutto più importante del Concilio. Ricordiamo inoltre che l’imperatore già in precedenza aveva chiesto ai vescovi di Arles di fissare tale data[10], ma non aveva ottenuto in risposta altro che il desiderio di stabilirla.
Così, alla fine del 324, Costantino sperava di risolvere questi problemi tramite i delegati e le lettere. Si avvicinava però il giubileo, che doveva essere celebrato solennemente. A Roma, nel 315, si era solennizzata la ricorrenza dei decennali con la costruzione dell’Arco di Costantino. Il giubileo sarebbe stata una buona occasione per proclamare la vittoria di Costantino, la riconciliazione di tutti i dissidenti o scismatici e definire il calendario per i cristiani, come indicano alcune fonti.
La lettera di Costantino – conservata in siriaco – con l’invito al Concilio ha un paragrafo introduttivo in cui si legge che l’imperatore aveva invitato i vescovi per il 19 giugno, per celebrare il ventesimo anno del suo dominio (vicennalia)[11]. Eusebio lodò l’imperatore, che «fu il solo e l’unico imperatore di tutti i tempi che, intrecciata per Cristo una corona con i vincoli della pace, la offriva al suo Salvatore come un dono di ringraziamento davvero degno di Dio, realizzando nella nostra epoca un’immagine analoga a quella del consesso apostolico» (VC III, 7,2). Si può pensare, allora, che Costantino giudicasse opportuno invitare i vescovi e con loro dichiarare solennemente la pace universale dopo le sue vittorie, la riconciliazione di tutte le parti in contrasto, una sola fede e l’unica data della Pasqua per tutta la Chiesa. Questo sembra essere un motivo sufficiente per convocare tanti illustri ospiti, senza badare a spese. Infatti, per celebrare l’inizio del giubileo, fu imbandito, al termine del Concilio, un grande banchetto, al quale furono invitati tutti i partecipanti[12].
Ma se i lavori finirono il 25 luglio, con quale anticipo l’imperatore avrebbe dovuto invitare i vescovi al Concilio? Secondo lo storico Socrate[13], il Concilio sarebbe cominciato il 20 maggio; invece, la lettera di Costantino sopra menzionata parla del 19 giugno[14]. La prima data sembra da escludere, perché sarebbe soltanto un mese dopo la Pasqua (18 aprile), e quindi, per l’arrivo di tutti gli invitati, il tempo sarebbe stato troppo breve. Se l’invito fosse stato fatto nella primavera, il loro arrivo sarebbe avvenuto troppo tardi. Quindi, la lettera di invito sarà stata scritta, probabilmente, nello stesso periodo in cui l’imperatore inviava la sua lettera ad Alessandria, ossia a ottobre-novembre del 324. Così, quando, un secolo più tardi, Teodosio II inviterà al Concilio di Efeso per il 7 giugno 431, manderà le lettere il 19 novembre 430, e il vescovo di Cartagine scriverà di averla ricevuta soltanto nei giorni di Pasqua, e che quindi per lui non c’era più tempo per scegliere i delegati da mandare[15]. D’altra parte, i vescovi di Antiochia non riuscirono ad arrivare in tempo, e non vi riuscirono neppure i legati del vescovo di Roma. Ciò sembra dimostrare che Costantino non poteva aspettare l’esito della missione di Ossio, ma che aveva dovuto agire molto prima.
L’apertura del Concilio
Per avere un’idea dell’importanza dell’assemblea conciliare, leggiamo ciò che scrive Eusebio: «Vi si riunì insieme il fiore dei ministri di Dio di tutte le Chiese che si trovavano nell’Europa intera, in Libia e in Asia. Un unico luogo di preghiera, come ampliatosi per opera divina, accoglieva al suo interno e in una medesima sede i Siri e i Cilici, i Fenici, gli Arabi e i Palestinesi e, oltre a costoro, anche gli Egiziani e i Tebani, i Libici e quanti si erano messi in viaggio dalla Mesopotamia. Partecipava al sinodo un vescovo persiano, né mancava all’appello quello della Scizia; anche il Ponto e la Galazia, la Cappadocia e l’Asia, la Frigia e la Panfilia inviarono i loro uomini più illustri. Si presentarono anche i Traci e i Macedoni, i Greci e gli Epiroti, e tra questi pure coloro che abitavano più lontano» (VC III, 7,1).
Con tanta varietà geografica, culturale e di tradizioni, ci si può giustamente domandare in che modo e in che misura l’imperatore sia riuscito a realizzare il suo scopo. Sullo svolgimento dei lavori purtroppo abbiamo una documentazione molto scarsa e parziale. Sappiamo che, all’apertura del sinodo, uno dei vescovi salutò ufficialmente l’imperatore. Secondo Sozomeno, questo vescovo sarebbe stato Eusebio di Cesarea[16]; secondo Teodoreto di Ciro, invece, Eustazio di Antiochia[17], ma la questione rimane incerta.
Dopo le parole del vescovo, l’imperatore espresse la sua gratitudine a Dio ed esortò i vescovi a sospendere tutte le controversie[18]. Costantino chiamava i vescovi «sacerdoti di Cristo» e parlava in latino, che veniva tradotto simultaneamente in greco, perché quelli che comprendevano il latino erano in netta minoranza. Questo fatto sembra strano, perché, come afferma Eusebio, durante le discussioni «Costantino si esprimeva in greco, perché non ignorava affatto questa lingua» (VC III, 13,2). Si potrebbe ipotizzare che il suo discorso fosse da comprendere come un intervento ufficiale, in qualità di pontifex maximus, rivolto al collegio sacerdotale. Ogni culto aveva il proprio collegio sacerdotale, ma il cristianesimo ufficialmente non lo aveva ancora, così come non aveva ancora un calendario liturgico stabilito. Il pontifex maximus avrebbe parlato nella lingua ufficiale, istituendo i vescovi come «collegio sacerdotale» del cristianesimo, con l’intenzione di proclamare il calendario e la formula di fede. In precedenza, i vescovi e i presbiteri raramente venivano designati come sacerdoti. Questo avveniva quando un omileta interpretava i testi anticotestamentari sul sacerdozio e cercava di attualizzarli, come per esempio faceva Origene quando spiegava il libro del Levitico[19]. Il cristianesimo era stato già riconosciuto ufficialmente come religio licita nel 313; adesso i vescovi venivano equiparati ai collegi sacerdotali delle religioni, quindi potevano aspettarsi di ricevere gli stessi privilegi.
La formulazione del «Credo» e la decisione sulla data della Pasqua
Sembra che Costantino avesse previsto che i vescovi volessero trattare varie questioni importanti per loro, e forse per questo li aveva invitati con un mese di anticipo rispetto all’inizio del giubileo. In effetti fu così, ma risulta che essi hanno esagerato nel proporre le questioni: le petizioni, infatti, furono così numerose che alla fine l’imperatore ordinò di raccoglierle e di bruciarle tutte[20]. Eusebio di Cesarea si dimostra più contenuto e, anche se ricorda il gran numero di petizioni e le contese avvenute tra i vescovi, sottolinea la calma e l’attenzione prestata da Costantino a tutti[21]. Poi passa a parlare dell’accordo raggiunto circa il Credo e il calendario. Ci informa anche delle (almeno) due fazioni o schieramenti che si stabilirono tra i vescovi[22].
La scarsità delle fonti potrebbe indurci in errore circa l’andamento del Concilio. Abbiamo già accennato alla lettera di Costantino inviata a tutti i vescovi e distribuita ai partecipanti alla fine dell’assemblea, dalla quale risulta che si era certamente discusso sull’unità della fede, ma che il tema principale era la data della Pasqua. A questo tema, infatti, l’imperatore dedicò gran parte del suo scritto. Conserviamo anche la lettera che Eusebio di Cesarea inviò alla sua Chiesa dopo il Concilio, per giustificare il suo operato all’interno dell’assemblea, cioè il suo consenso al nuovo Credo lì elaborato[23]. Egli scrive solo di questo argomento, per cui potremmo pensare che il tema principale del Concilio fosse la composizione del Credo, mentre l’imperatore nella sua lettera sembra liquidare questo tema con poche frasi: «Ogni aspetto del culto è stato sottoposto a un’indagine adeguata, finché non è stata portata alla luce la conclusione gradita al Dio che tutto presiede, nella direzione di un accordo unitario, a tal punto che non è rimasto più alcun margine per le divergenze di opinione e le dispute sulla fede» (VC III, 17,2).
Secondo la lettera di Eusebio, fu lui a presentare la bozza del Credo, che fu accettata dall’imperatore, ma criticata dagli altri. Si giunse a una formula concordata con le precisazioni fornite dallo stesso Costantino, il quale avrebbe suggerito il termine homoousios, «consostanziale», attribuito al Figlio nei riguardi del Padre. Può essere stato così, perché l’imperatore non era a conoscenza del passato «eretico» di tale termine, che non era stato ancora usato da nessuno dei Padri da noi conosciuti. Infatti, ci vollero vari anni perché, grazie alle spiegazioni date negli anni 350-380 soprattutto da Atanasio, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa, il termine potesse essere accolto. Forse l’imperatore fu così conciso perché era convinto che, con la sua lettera, tutti i vescovi avrebbero portato a casa anche il testo del Credo e i canoni, che dovevano bastare per chiarire la questione. Sulla data della Pasqua, invece, li avrebbe voluti informare personalmente, perché per lui essa era molto più importante.
Sembra che il Credo universale servisse più all’imperatore che ai vescovi. In quel tempo, in ogni Chiesa veniva proclamato un proprio Credo trinitario, usato nel catecumenato e nell’amministrazione del battesimo, e nessun vescovo sentiva il bisogno di uniformarlo. La data della Pasqua interessava le Chiese, ma, dopo le discussioni del II secolo, e dopo tanti sinodi in cui era stato trattato l’argomento[24], sembrava che tutti si fossero adeguati alla situazione, accettando la soluzione data da Ireneo, che cioè la tradizione degli apostoli permetteva di servirsi ugualmente del calendario giudaico come degli altri calendari. Questo problema riguardava piuttosto l’imperatore, il quale, in quanto pontifex maximus, si sentiva obbligato a unificare il calendario e la formula di fede.
Podcast | SIRIA. «LA SITUAZIONE ECONOMICA È CATASTROFICA»
Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.
Non sappiamo nulla sulle discussioni in proposito. Solo Costantino ci informa, nella lettera postsinodale, che «quando fu affrontata la questione inerente alla data della santissima Pasqua, con decisione unanime, sembrò opportuno che tutti in ogni luogo la celebrassero nello stesso giorno» (VC II, 18,1), perché non c’era più nessuna consuetudine in comune con i giudei e perché era più ragionevole e conveniente seguire «la regola che è rispettata con unica e concorde disposizione d’animo» (VC II, 19,1) nella maggior parte delle Chiese.
I canoni conciliari
Il Concilio formulò 20 canoni di indubbia genuinità, nessuno dei quali menziona né la Pasqua né il Credo [25]. Senza dubbio essi rispecchiano l’andamento del dibattito, perché i canoni non venivano formulati mai senza qualche discussione previa. Essi possono indicarci il contesto ecclesiale, cioè i problemi che la Chiesa viveva e che l’imperatore voleva risolvere, meglio che le lettere monotematiche. Abbiamo già notato come tante proposte o richieste presentate dai vescovi fossero state accantonate e persino bruciate. Possiamo quindi supporre che quelle rimaste fossero le più importanti per vaste aree della Chiesa, e come tali considerate dall’imperatore.
Daremo ora un breve sguardo ai canoni approvati. Nei primi si stabilisce che quelli che si evirano non devono essere ammessi tra il clero (canone 1); lo stesso vale per i neofiti (canone 2), e si proibisce ai chierici di «avere con sé una donna, a meno che non si tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di una persona che sia al di sopra di ogni sospetto» (canone 3). Dato che qui si tratta di tutti i membri del clero, anche di quello inferiore, che poteva sposarsi – cioè, ostiari, lettori e accoliti –, sembra che abitare con la moglie non fosse vietato. I cristiani potevano essere ordinati diaconi e presbiteri anche da sposati, ma non potevano risposarsi. Vari decenni più tardi il sinodo di Cartagine del 390 stabilirà, nel canone 2, l’obbligo di continenza per loro.
Il canone 4 parla della consacrazione del vescovo da parte di almeno tre vescovi della provincia. Non sappiamo come la Chiesa si fosse organizzata in precedenza su questo punto: probabilmente si procedeva all’elezione, e il neoeletto assumeva i doveri in forza di tale elezione ecclesiale, anche senza l’imposizione delle mani da parte di altri vescovi.
Nel canone 5 si parla degli scomunicati e si vieta di riconciliarli al di fuori della Chiesa che li ha condannati. Dobbiamo notare che questo canone in seguito verrà ripreso più volte[26]. Ciò sta a significare che le situazioni nelle quali gli scomunicati, sentendosi forse ingiustamente perseguitati, cercavano la riconciliazione fuori della propria Chiesa, si verificavano spesso. Per evitare ingiustizie, il canone raccomanda che i sinodi provinciali si svolgano due volte l’anno, per discutere insieme i problemi. Potrebbe darsi che l’occasione immediata della formulazione di questo canone sia stato il caso di Ario. Di fatto, non si parla di lui in nessun documento coevo; anche Atanasio di Alessandria, nel De decretis Nicaenae synodi, si limita a presentare l’interpretazione antiariana del Credo, senza menzionare Ario. Potrebbe darsi che qualcuno – per esempio, Eusebio di Nicomedia, o qualcun altro a nome suo – abbia chiesto all’assemblea la riconciliazione con Ario. Il canone lo proibisce, e lo stesso Costantino dopo il Concilio chiese ad Alessandro – e più tardi ad Atanasio – di riconciliare Ario, perché egli era l’unico in grado di farlo, in quanto vescovo di Alessandria[27]. Non si parla neppure della condanna di Ario a Nicea, perché sarebbe stato controproducente scomunicare uno che era stato già di fatto scomunicato.
Il canone 6 stabilisce la precedenza delle sedi vescovili: la prima rimane quella romana, seguita dall’alessandrina e dall’antiochena. Questo canone si rivelerà una pietra d’inciampo per la Chiesa costantinopolitana, che, nei decenni seguenti, vorrà assumere il primo posto in Oriente, con grande irritazione delle altre due sedi orientali sopra citate. Si riconosce anche il posto privilegiato di Gerusalemme (canone 7), ma senza attribuirle la giurisdizione metropolitana.
Il canone 8 tocca un tema scottante per la Chiesa, cioè la riconciliazione dei càtari, divisi in vari raggruppamenti. Non c’è nessun argomento convincente per limitarla ai soli novaziani, come è stato ripetuto per secoli[28]. I chierici càtari – siano essi novaziani, donatisti, montanisti, meleziani o altri ancora – possono rimanere nel clero, perché le loro ordinazioni sono valide, ma devono impegnarsi per iscritto a osservare la prassi della Chiesa rispetto ai peccatori pentiti, siano essi i lapsi delle persecuzioni, o i digamoi, sposati due volte: dopo la debita penitenza, essi hanno diritto alla comunione della Chiesa, e chi glielo nega, viene scomunicato dalla Chiesa. Non viene precisato se si tratta di vedovi/e risposati/e o di divorziati/e, ma, poiché la legge statale permetteva i divorzi, anch’essi dovevano essere presi in considerazione nella prassi penitenziale[29].
Il canone 9 tratta il tema dei chierici promossi troppo presto al sacerdozio. Il canone 10 si riferisce a chi è stato ordinato nonostante abbia rinnegato la fede e abbia mantenuto nascosto questo fatto. Il canone 11 parla dei fedeli che hanno rinnegato la fede e sono finiti tra i laici, e delle penitenze da imporre ad essi. Si può notare come dopo la persecuzione avvenuta ai tempi di Licinio fossero rimaste nel corpo della Chiesa varie ferite: bisognava ristabilire una serie di regole perché esse potessero cicatrizzarsi.
Anche il canone 12 si riferisce a quel periodo, e parla di «chi ha rinunciato al mondo e poi vi è ritornato». Coloro che all’inizio si erano mostrati coraggiosi e avevano abbandonato il servizio militare (durante il quale era richiesta la partecipazione ai sacrifici agli dèi), ma successivamente, per fare carriera, erano tornati indietro e avevano cercato di essere reintegrati nel servizio lasciato, dovevano fare penitenza; il canone raccomanda di trattarli con discernimento, ma seriamente.
Il canone 13 si riferisce a «quelli che in punto di morte chiedono la comunione». Anche in questo caso, si tratta della penitenza dei lapsi dai tempi di Licinio. Ricordiamo che Cipriano non permetteva di privare della comunione colui al quale era stata data una volta, durante la malattia[30]. Ora, invece, per lo stesso caso, si prescrive che il penitente guarito debba continuare la penitenza, sebbene mitigata: «Se poi egli non muore dopo essere stato perdonato e ammesso alla comunione, sia accolto tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che non sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico)».
Ciò starebbe forse a significare che si erano verificati abusi, più frequenti che non 70 anni prima in Africa? Potrebbe darsi, ma in questo caso dovremmo supporre che anche il grado della trasgressione fosse maggiore, che la Chiesa unificata da Costantino dopo gli anni delle guerre civili presentasse un profilo morale assai basso e che il numero dei lapsi fosse perfino maggiore di quello del 250. Anche il canone 14 tocca questo tema, concentrandosi sui catecumeni che avevano rinnegato la fede.
I quattro canoni successivi trattano del clero. I canoni 15 e 16 parlano di coloro che, abbandonata la propria Chiesa per la quale erano stati ordinati, si trasferiscono di propria iniziativa da una città all’altra. Il fatto che questo tema ritorni in tanti sinodi ci fa capire che si tratta di un problema ricorrente. Infatti, se lo stesso Eusebio di Nicomedia, vescovo della capitale, sede dell’imperatore, si comportava così e, dopo essere stato ordinato a Beritto (Beirut), si era trasferito a Nicomedia, e qualche anno dopo a Costantinopoli[31], cosa si poteva pretendere dal clero inferiore? Possiamo pensare che per l’imperatore – il quale evidentemente approvava i trasferimenti di Eusebio, e anche di altri – questa fosse una questione di poca importanza. Ai suoi occhi, il trasferimento di un funzionario da una sede all’altra, poteva essere segno di prestigio e di promozione, se la nuova sede era più grande e più ricca della precedente. Diveniva, invece, segno di decadenza e punizione in caso contrario. Forse proprio la mancanza del sostegno imperiale aveva provocato l’insuccesso di questo canone e la necessità che dovesse essere ripreso più volte[32].
Il canone 17 minaccia la riduzione allo stato laicale di chierici usurai.
Il canone 18 ricorda che i diaconi devono essere subordinati ai presbiteri anche nel ricevere la Comunione: i diaconi la possono ricevere dai sacerdoti, ma non darla ad essi, perché non hanno il potere di consacrare. Oggi questa prescrizione potrebbe sembrare banale, ma rispecchia la disciplina di allora, dal momento che il ruolo dei diaconi era diverso nelle varie Chiese. A Roma essi erano soltanto sette e avevano posti di comando presso il vescovo. In Oriente, come testimoniano le Costituzioni apostoliche, erano considerati al secondo posto dopo il vescovo, e stavano accanto a lui come Cristo sta presso il Padre, mentre i presbiteri erano considerati i successori degli apostoli. Di conseguenza, i diaconi potevano, in certi casi e in certi luoghi, sentirsi più importanti dei sacerdoti.
Il canone 19 stabilisce come ricevere nella Chiesa gli eretici seguaci di Paolo di Samosata. Nel canone 8 si prescriveva che i chierici scismatici potevano essere accettati con la sola benedizione; qui invece si prescrive di battezzarli e, se un chierico è ritenuto degno del suo posto, occorre ordinarlo di nuovo. In questo contesto, troviamo l’unica menzione delle diaconesse: esse rimangano tra i laici, perché non hanno avuto l’imposizione delle mani.
La differenza nel trattamento degli scismatici è importante e merita di essere menzionata; il trascurarla, infatti, provocò, dopo il Concilio, molti problemi nella Chiesa. Atanasio, divenuto vescovo di Alessandria nel 328, cominciò a trattare gli scismatici meleziani come se fossero eretici e non riconosceva la validità della loro ordinazione, pretendendo che dovessero ricevere l’ordinazione da lui. Ciò suscitò lo sdegno di Costantino, che lo condannò all’esilio.
Alla chiusura del Concilio, forse nessuno di coloro che avevano partecipato poteva immaginare quale significato esso avrebbe avuto in futuro. Nei 20 anni seguenti, quasi non se ne parlò, ma quando le discussioni tra varie fazioni teologiche continuarono a crescere, pian piano il Credo niceno andò acquistando sempre più sostenitori e la «consostanzialità» del Padre e del Figlio, proclamata dal Concilio, si rivelò la formula più adeguata per esprimere la fede della Chiesa. Con le precisazioni fornite dai Padri cappadoci e con l’appoggio degli imperatori, la professione di fede di Nicea divenne comprensibile ai più, e infine divenne canone dell’ortodossia. Per quanto riguarda la celebrazione comune della Pasqua da parte di tutti i cristiani, essa rimane ancora auspicabile, e possiamo sperare che le celebrazioni dell’anniversario del Concilio nel 2025 aiutino a superare tutti gli ostacoli.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***
[1] Cfr Ario, Thalia, in Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra Arianos, I, 6; Epistula encyclica ad episcopos Aegypti et Libyae, II, 12.
[2] Lettera citata da Atanasio di Alessandria, s., De Synodis,16; Epifanio di Salamina, Panarion, 69, 7.
[3] Alessandro di Alessandria, s., Lettera a tutti i vescovi; Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 6.
[4] Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, II, 64-72; nel testo, questa opera verrà citata con la sigla VC. Cfr H. G. Opitz, Athanasius Werke, III, 1, Berlin – Leipzig, Walter de Gruyter and Co, 1934, 32 ss.; H. Pietras, Concilio di Nicea (325) nel suo contesto, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2021, 85-110.
[5] Cfr S. G. Hall, «Some Constantinian Documents in the Vita Constantini», in S. N. C. Lieu – D. Montserrat (edd.), Constantine. History, Historiography and Legend, London – New York, Routledge, 1998, 86-103.
[6] Cfr A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma, École française de Rome, 1996, 303-312.
[7] Cfr Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, La navigazione mediterranea nell’Alto Medioevo, Spoleto, Fondazione Cisam, 1978; R. Chevallier, Voyages et déplacements dans l’Empire romain, Paris, Armand Colin, 1988.
[8] Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra arianos, 76; H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., 58 s.
[9] Costantino, Lettera a tutte le Chiese, in VC III, 17-20.
[10] Il sinodo di Arles si tenne nel 314. Cfr A. Di Berardino (ed.), I canoni dei concili della Chiesa antica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 2010, 38; Id., «L’imperatore Costantino e la celebrazione della Pasqua», in G. Bonamente – F. Fusco, Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, t. I, Macerata, Università degli Studi di Macerata, 1992, 363-384.
[11] Cfr F. Nau, «Littérature canonique syriaque inédite», in Revue de l’Orient chrétien 4 (1909) 5 s.
[12] Cfr VC III, 15-16.
[13] Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 13,13. Lo seguono M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma, Istituto Patristico Augustinianum, 1975, 38; G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 1990, 26.
[14] Cfr F. Nau, «Littérature canonique syriaque inédite», cit., 6. Si dicono d’accordo con lui N. P. Tanner, Decrees of the Ecumenical Councils, vol. I, London – Washington, Sheed & Ward – Georgetown University Press, 1990 e i commentatori di Socrate in Sources Chrétiennes, n. 477.
[15] Cfr G. Caprèolo, «Epistula“ad concilium Ephesinum”», in Acta Conciliorum Oecumenicorum I-II, 64 s; Patrologia Latina Supplementum,3, 259 s.
[16] Cfr Sozomeno, Historia Ecclesiastica, I, 19, 2.
[17] Sulle discussioni intorno all’oratore che avrebbe avuto questo onore, cfr la nota 2 in Teodoreto di Ciro, Histoire Ecclésiastique, Paris, Cerf, 204 s.
[18] Per l’intervento di Costantino, cfr VC III, 12. Per il seguito, cfr H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., 133 s.
[19] Cfr H. Pietras, «Od prezbiteratu do kapłaństwa: ewolucja pojęć i urzędu», in Studia Bobolanum 3 (2002) 5-17.
[20] Cfr Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 8, 19; Rufino di Aquileia, Historia Ecclesiastica, X, 2. La scena è illustrata da un affresco nel battistero lateranense.
[21] Cfr VC III, 13.
[22] Cfr VC III, 13, 1.
[23] Cfr Eusebio di Cesarea, Lettera alla Chiesa di Cesarea, in Atanasio di Alessandria, Il credo di Nicea, appendice; Socrate, Historia Ecclesiastica, I, 8.
[24] Per esempio, Roma (154 e 193), Mesopotamia (196), Osroene (196), Pont (197), Lyon (197), Cesarea di Palestina (198).
[25] Su di essi, cfr H. Pietras, Concilio di Nicea…, cit., cap. 5.
[26] Cfr, per esempio, Antiochia (341), c. 6; Serdica (343), c. 53; Carthago (390), c. 7 ecc.
[27] Atanasio di Alessandria, s., Apologia contra Arianos, 59. Cfr H. Pietras, «Fonti sulla condanna di Ario a Nicea nel 325», in Gregorianum 104/3, 2023, 491-493.
[28] Per l’esame della questione, cfr H. Pietras, «Fonti sulla condanna di Ario a Nicea nel 325», cit., 493-496; Id., Concilio di Nicea…, cit., 144-149.
[29] Cfr G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, Roma, Aracne, 2013.
[30] Cfr Cipriano di Cartagine, s., Epistula, 64, 1.
[31] Cfr Socrate, Historia Ecclesiastica, II, 7.
[32] Tra i Concili e i Sinodi più importanti che ne hanno trattato, ricordiamo: Ancyra (314), c. 18; Arles (314) I, 2; II, cc. 2; 21; 27; Antiochia (341), cc. 3; 16; 21; Cartagine (ca. 348), cc. 5; 7; Roma (376-377), 9 (Tomus Damasi); Calcedonia (451), cc. 5; 10; 20; Quinisexta (692), cc. 17-18; Nicea (787), cc. 10; 15.
The post I 1700 anni del concilio di Nicea: contesto storico, convocazione e principali decisioni first appeared on La Civiltà Cattolica.