Così Planet Nine potrebbe aver preso il largo
Nelle zone periferiche di sistemi planetari, alcuni corpi celesti orbitano ben lontani dalle loro stelle, arrivando persino a migliaia di unità astronomiche (Ua) di distanza. Si tratta di pianeti “a orbita larga”, tra i quali figura anche l’ipotetico Pianeta Nove, la cui effettiva esistenza nel Sistema solare è ancora oggetto di accese discussioni. Dopo anni di dubbi su come avvenga la formazione di tali oggetti, uno studio pubblicato la scorsa settimana su Nature Astronomy, guidato da un team di ricercatori della Rice University e del Planetary Science Institute, potrebbe aver trovato una risposta plausibile.
Gli autori si sono serviti di una lunga e complessa serie di simulazioni, giungendo a concludere che i corpi a orbita larga non sono strane anomalie, ma piuttosto sottoprodotti naturali di uno sviluppo iniziale caotico dei sistemi planetari. Difatti, quando le stelle sono fortemente compresse negli ammassi in cui hanno origine, gli oggetti celesti che si formano nelle epoche iniziali devono cercare di “sopravvivere” in regioni con grandi turbolenze. Così il primo autore dello studio, André Izidoro della Rice University (Usa), descrive cosa accade nelle fasi primordiali dei sistemi planetari: «In sostanza, è come se stessimo guardando dei flipper in una sala giochi cosmica. Quando i pianeti giganti si disperdono a vicenda attraverso interazioni gravitazionali, alcuni vengono scagliati lontano dalla loro stella. Se le circostanze sono perfette questi oggetti non vengono espulsi, ma rimangono intrappolati in orbite molto ampie».
Rappresentazione artistica di Planet Nine. Crediti: Nasa
Le simulazioni hanno riprodotto migliaia di ambienti realistici differenti di ammassi stellari, realizzando modelli con condizioni fisiche di ogni tipo: da sistemi simili al nostro Sistema solare solare a sistemi binari. Nella maggior parte dei casi, il risultato finale ha presentato uno schema frequente: le instabilità interne portano alcuni pianeti a seguire orbite ampie ed eccentriche e, una volta giunti a grande distanza dalla loro stella, questi corpi vengono stabilizzati dall’influenza gravitazionale degli astri vicini nell’ammasso. «Quando le spinte gravitazionali si verificano al momento giusto, l’orbita di un pianeta si disaccoppia dal sistema interno. Il corpo assume un’orbita ampia e rimane essenzialmente congelato sul posto dopo la dispersione dell’ammasso», spiega il coautore dello studio Nathan Kaib.
Considerando che la comunità scientifica definisce pianeti in orbita larga gli oggetti aventi un semiasse maggiore dell’orbita compreso tra 100 e 10mila unità astronomiche, le recenti scoperte potrebbero chiarire alcuni dubbi sull’esistenza dell’ormai celebre Planet Nine. Si ritiene che l’ipotetico corpo celeste orbiti attorno al Sole ad una distanza che va da 250 a mille unità astronomiche. Sebbene a oggi non sia mai stato osservato, la sua presenza è suggerita da particolarità nelle orbite di alcuni oggetti transnettuniani.
«Le simulazioni mostrano che se il Sistema solare primordiale ha attraversato due specifiche fasi di instabilità (la crescita di Urano e Nettuno e la dispersione tra i giganti gassosi), c’è fino al 40 per cento di possibilità che un corpo simile a Pianeta Nove possa essere rimasto intrappolato durante quel periodo», sottolinea Izidoro.
Nel lavoro di ricerca, gli astronomi si sono dedicati anche al confronto tra i pianeti in orbita larga e quelli liberi (o erranti), ossia corpi celesti espulsi dai loro sistemi d’origine. e che dunque non sono legati gravitazionalmente ad alcuna stella. «Non tutti i pianeti sparsi restano vincolati alla propria stella», dice Kaib, «la maggior parte finisce per essere scagliata nello spazio interstellare». La probabilità che corpi simili restino gravitazionalmente legati alle proprie stelle prende il nome di “efficienza d’intrappolamento”. E i sistemi simili al Sistema solare risultano avere un’efficienza d’intrappolamento piuttosto elevata, compresa tra il 5 e il 10 per cento.
Il nuovo studio promette sviluppi interessanti anche nell’ambito della ricerca di esopianeti. Sembra infatti esserci una maggiore probabilità che pianeti “a orbita larga” si trovino intorno a stelle ad alta metallicità, fornendo così potenziali candidati per campagne di deep imaging. Quanto al mistero sull’esistenza o meno di Pianeta Nove, una riposta potrebbe arrivare una volta che l’Osservatorio Vera C. Rubin – destinato a essere usato anche per la ricerca di oggetti distanti del Sistema solare – sarà operativo.
«Man mano che affiniamo la comprensione di dove e cosa cercare», conclude Izidoro, «non solo aumentiamo le probabilità di trovare il Pianeta Nove, ma apriamo anche una nuova finestra sull’architettura e l’evoluzione dei sistemi planetari in tutta la galassia».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Very-wide-orbit planets from dynamical instabilities during the stellar birth cluster phase” di André Izidoro, Sean N. Raymond, Nathan A. Kaib, Alessandro Morbidelli e Andrea Isella