Due oggetti enigmatici nel Braccio del Centauro
Biologi e astrofisici discutono da tempo della possibilità che le molecole complesse alla base della vita sulla Terra siano state “importate” dallo spazio profondo. Uno dei siti di provenienza di queste molecole potrebbe essere rappresentato dai ghiacci interstellari. Si tratta di grani di dimensioni micrometriche che si formano nelle regioni più fredde e dense d’una galassia, tipicamente all’interno di nubi molecolari, per apposizione di atomi e molecole sulla superficie della polvere interstellare, particelle composte principalmente da carbonio, ossigeno, silicio, magnesio e ferro presenti nel mezzo interstellare. Poiché le reazioni chimiche che avvengono su substrati solidi sono molto più efficienti nel produrre molecole organiche complesse rispetto a quelle che avvengono allo stato gassoso, gli scienziati ritengono che i ghiacci interstellari siano cruciali per la formazione molecolare, funzionando di fatto da vere e proprie fabbriche molecolari.
Illustrazione artistica della Via Lattea. I quadratini verdi sono le posizioni dei due oggetti interstellari stimate dai ricercatori. Crediti: Takashi Shimonishi et al., ApJ, 2025
Utilizzando i dati del satellite a infrarossi Akari, nel 2021 un team di astronomi ha scoperto due luminose regioni interstellari che presentavano profonde bande di assorbimento tipiche di questi ghiacci. La prima ipotesi considerata dai ricercatori fu che si trattasse di due nubi molecolari. Tuttavia, le successive analisi spettrali mostrarono che i due oggetti, situati nel piano galattico della Via Lattea, in direzione del Braccio del Centauro, non appartenevano a nessuna regione di formazione stellare nota, lasciando numerosi interrogativi sulla loro natura. Un team di ricerca guidato dall’Università di Niigata (Giappone) ha ora indagato a fondo le caratteristiche questi oggetti, confermando quanto suggerito dagli studi precedenti. La loro conclusione, riportata in un articolo pubblicato lo scorso mese sulle pagine della rivista The Astrophysical Journal, è che i due corpi – chiamati dai ricercatori Oggetto 1 e Oggetto 2 – potrebbero rappresentare una nuova classe di oggetti interstellari.
Per studiare le proprietà dei due misteriosi oggetti gli scienziati hanno utilizzato Alma, la schiera di 66 antenne radio situate nelle Ande cilene. Utilizzando i dati di Alma, il team ha calcolato la distanza e studiato il movimento e la composizione chimica del gas molecolare associato ai due oggetti.
Le osservazioni nell’infrarosso condotte con il satellite Akari indicavano caratteristiche di assorbimento del ghiaccio e delle polveri che sono spesso osservate in oggetti stellari giovani, stelle evolute che mostrano un’intensa perdita di massa o stelle luminose situate dietro dense nubi molecolari. Le indagini con Alma raccontano invece una storia diversa. La distribuzione spettrale di energia nell’infrarosso dei due oggetti, la presenza di caratteristiche di assorbimento del ghiaccio e della polvere, le dimensioni compatte della sorgente e l’ampia emissione molecolare dominata dall’ossido di silicio rilevata dai ricercatori non possono essere facilmente spiegate da nessuna delle sorgenti interstellare note che formano ghiaccio interstellare.
I risultati delle indagini suggeriscono che i due oggetti si trovano a circa 30mila e 40mila anni luce di distanza dalla Terra rispettivamente. Sarebbero oggetti isolati, caratterizzati da una forte emissione di monossido di carbonio e ossido di silicio, con un rapporto tra i due gas insolitamente alto. La rilevazione di ampie linee di emissione molecolare indica inoltre che questi oggetti sono associati a fonti di energia turbolente.
Le linee di emissione molecolare ottenute da Alma hanno consentito di stabilire la composizione dei due misteriosi oggetti (a sinistra). In alto a destra, lo spettro infrarosso, con bande d’assorbimento, relativo all’oggetto più in alto dell’immagine di sinistra osservato dal satellite Akrai. In basso a destra, posizione dei due oggetti ghiacciati nel piano galattico (immagine modificata dai dati di Gaia). Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), T. Shimonishi et al. (Niigata Univ.)
Le osservazioni hanno anche fornito informazioni sulle dimensioni dei due oggetti. Comparando i dati di Alma con quelli ottenuti dal satellite Akari, i ricercatori hanno scoperto che Oggetto 1 e Oggetto 2 hanno dimensioni comprese tra cento e mille unità astronomiche. Si tratta di dimensioni considerevoli, ma comunque più piccole rispetto a quelle tipiche delle tipiche regioni di formazione stellare.
Gli oggetti interstellari noti per essere associati alla formazione di ghiacci solitamente sono immersi in grandi quantità di polvere interstellare che li fa brillare intensamente nell’intervallo di lunghezza d’onda che va dal lontano infrarosso al sub-millimetrico. Le osservazioni di Alma non hanno rilevato alcuna radiazione sub-millimetrica provenire dai due oggetti. I due corpi, inoltre, hanno mostrato un’insolita distribuzione spettrale di energia nell’infrarosso. Tutte queste caratteristiche, spiegano i ricercatoti, non sono compatibili con alcun oggetto noto in grado di formare ghiacci interstellari.
Ma cosa potrebbero essere, allora, Oggetto 1 e Oggetto 2? Come anticipato, l’ipotesi dei ricercatori è che si tratti di oggetti interstellari di un tipo precedentemente sconosciuto.
«Studio i ghiacci interstellari da quasi 18 anni, ma questi due oggetti mi hanno lasciato perplessa», sottolinea il primo autore dello studio, Takashi Shimonishi, della Niigata University. «In quanto diversi da qualsiasi altra sorgente nota associata alla formazione di ghiacci interstellari, le due regioni potrebbero rappresentare una nuova classe di oggetti interstellari al cui interno c’è un ambiente favorevole alla formazione di ghiacci e molecole organiche».
La vera natura di questi due oggetti interstellari compatti e isolati rimane al momento ancora sconosciuta, concludono gli autori. Tuttavia, nuove osservazioni ad alta risoluzione del gas associato ai due oggetti condotte con Alma, insieme a studi più dettagliati dei ghiacci e delle polveri che li costituiscono con il telescopio spaziale James Webb, potrebbero aiutare a svelare il mistero.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “ALMA Observations of Peculiar Embedded Icy Objects” di Takashi Shimonishi, Takashi Onaka e Itsuki Sakon
Lune che nascono dalle polveri
Essendo nati in un sistema planetario di mezza età – il Sole ha ormai 4,5 miliardi di anni – siamo costretti a immaginarne l’origine ricostruendo la storia a posteriori, cercando indizi e tracce provenienti dal passato come degli archeologi dello spazio. Oppure, e questo forse ci regala uno strumento in più rispetto agli archeologi, possiamo guardare cosa succede in sistemi planetari che vediamo formarsi proprio ora, e scoprire per esempio come si formano le lune attorno ai pianeti più giovani. È quanto ha fatto un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizona, osservando due giovani pianeti in orbita attorno a Pds 70 – una stella molto giovane di circa 5 milioni di anni nella costellazione del Centauro, a 370 anni luce dalla Terra – e vedendo anelli di polvere che circondano pianeti appena nati. L’articolo è pubblicato su The Astronomical Journal.
Ciambelle di polvere: illustrazione artistica del sistema Pds 70 con i suoi due protopianeti, ciascuno circondato da anelli di polvere illuminati dalla luce stellare. I pianeti stessi (non in scala) hanno sottili anelli di plasma riscaldati a circa 14 mila gradi, che brillano alla linea di emissione rossa della luce H-alfa. Crediti: Emmeline Close e Laird Close
Per come è raccontata qui sopra, sembrerebbe una procedura lineare e semplice: si sceglie una stella giovane attorno alla quale si è visto un sistema planetario altrettanto giovane, magari appena formato, e si osservano nel dettaglio i pianeti per vedere come sono fatti e, appunto, se stanno sviluppando delle lune. La verità, però, è che fino a pochi anni fa una frase simile avrebbe fatto sorridere qualunque astrofisico, perché la tecnologia non consentiva affatto di raggiungere un simile dettaglio nelle osservazioni. Al massimo si poteva pensare di avvicinarsi alla risoluzione richiesta usando un telescopio spaziale, o sperando nell’arrivo di giganti come Webb, ma certamente era un’operazione impensabile da fare con gli strumenti a terra. Invece, e qui sta la notizia nella notizia, la stella Pds 70, i suoi pianeti e gli anelli di polvere attorno ad essi sono stati osservati con uno strumento chiamato Magellan Adaptive Optics Xtreme, o MagAo-X, situato ai telescopi Magellano di 6,5 metri di diametro dell’Osservatorio di Las Campanas, in Cile. Nemmeno i più grandi che ci siano.
Si tratta, come dice il nome stesso, di un sistema di ottica adattiva: uno specchio deformabile che cambia forma rapidamente (si potrebbe dire in tempo reale) e corregge la distorsione atmosferica in un modo che ricorda il modo in cui le cuffie a cancellazione attiva filtrano il rumore. Le immagini che si riescono a ottenere con questo sistema ottico superano addirittura la risoluzione di telescopi spaziali come Hubble o James Webb. In pratica, annulla il grosso svantaggio di rimanere sulla Terra invece di osservare dallo spazio, ovvero corregge le turbolenze dell’atmosfera che degradano le osservazioni astronomiche. In pratica, il sistema elimina lo “scintillio” delle stelle, consentendo al telescopio di produrre immagini che rivaleggiano con quelle di un telescopio ottico spaziale.
«La forma dello specchio cambia così velocemente che sarebbe come modificare la regolazione ottica di un occhiale da vista duemila volte al secondo», spiega Laird Close, professore di astronomia all’Osservatorio Steward, nel College of Science dell’Università di Los Angeles, e primo autore dell’articolo. «Poiché la nostra tecnologia elimina le perturbazioni dell’atmosfera, è un po’ come prendere lo specchio di un telescopio di 6 metri e mezzo e metterlo nello spazio con un clic del mouse. Per darvi un’idea della risoluzione, immaginate me a Phoenix e voi a Tucson [circa 180 km, la distanza che separa Roma da Napoli, ndr], e con MagAo-X sareste in grado di vedere se sto tenendo in mano una moneta da un quarto di dollaro o due».
Close e coautori ritengono che il Sistema solare, ai tempi della sua nascita, potesse assomigliare a una versione più piccola del sistema planetario Psd 70. La stella osservata, infatti, è circondata un disco gigante a forma di pancake (gli astronomi usano spesso questo termine per descrivere oggetti celesti) di gas e polvere, interrotto però da un’ampio vuoto di polveri nel mezzo, sintomo della presenza di pianeti. «Più pianeti massicci agiscono come scope o aspirapolvere», continua Close. «In pratica disperdono la polvere e ripuliscono il grande vuoto che osserviamo in questo grande disco che circonda la stella».
È davvero raro riuscire a vedere pianeti nascenti, in gergo protopianeti, come Pds 70 b e c (quelli che orbitano attorno a Pds 70), e questi sono gli unici noti agli astronomi su cinquemila esopianeti confermati. Hanno solo cinque milioni di anni, contengono già diverse volte la massa di Giove e non hanno ancora finito di crescere. Lo si capisce, ancora una volta, dalle osservazioni condotte con MagAo-X. Quando i pianeti guadagnano massa dalla nube di gas e polvere che circonda la giovane stella (il disco protoplanetario), “cascate” di idrogeno gassoso cadono su di loro, facendo brillare i pianeti a una precisa lunghezza d’onda che gli astronomi chiamano H-alfa, emessa proprio dall’idrogeno gassoso quando si trova in uno stato eccitato provocato dall’urto del gas che colpisce la superficie del pianeta.
Ricapitolando, quindi, osservando il sistema planetario attorno alla stella Pds 70 con i telescopi Magellano, in Cile, con un filtro che ha selezionato la lunghezza d’onda H-alpha emessa da un processo che avviene tipicamente nei protopianeti e rimuovendo il rumore grazie al nuovo strumento di ottica adattiva MagAo-X, i ricercatori sono riusciti a vedere per la prima volta gli anelli di polvere che circondano i protopianeti. Polvere che, nei prossimi milioni di anni, probabilmente collasserà formando delle lune attorno a ciascuno di questi. E c’è di più: i ricercatori hanno visto uno dei pianeti (Pds 70 b) ridursi a un quinto della sua luminosità originale nell’arco di soli tre anni, mentre l’altro (Pds 70 c) è raddoppiato, come se fosse cambiata drasticamente la quantità di idrogeno gassoso che cade su entrambi. Un’osservazione che, per ora, rimane senza spiegazione, ma che sicuramente avrà creato un precedente, considerando che MagAo-X ha dato vita a un nuovo modo osservativo dalla terra.
«Uno dei nostri obiettivi principali era dimostrare quanto bene si possano fare queste osservazioni con i telescopi a terra», conclude Jared Males, principal investigator di MagAo-X e coautore dell’articolo. «Possiamo costruire grandi telescopi più facilmente a terra che nello spazio, e questo risultato dimostra quanto sia importante costruire la prossima generazione di telescopi ancora più grandi e dotarli di strumenti come MagAo-X».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “Three Years of High-contrast Imaging of the PDS 70 b and c Exoplanets at Hα with MagAO-X: Evidence of Strong Protoplanet Hα Variability and Circumplanetary Dust“, di Laird M. Close, Jared R. Males, Jialin Li, Sebastiaan Y. Haffert, Joseph D. Long, Alexander D. Hedglen, Alycia J. Weinberger, Katherine B. Follette, Daniel Apai, Rene Doyon, Warren Foster, Victor Gasho, Kyle Van Gorkom, Olivier Guyon, Maggie Y. Kautz, Jay Kueny, Jennifer Lumbres, Avalon McLeod, Eden McEwen, Clarissa Pavao, Logan Pearce, Laura Perez, Lauren Schatz, Judit Szulágyi, Kevin Wagner, e Ya-Lin Wu
Due giorni con Simp 0136, solitario e mutevole
Rappresentazione artistica dell’oggetto celeste “solitario” Simp 0136. Crediti: Nasa, Esa, Csa e Joseph Olmsted (Stsci)
Simp 0136 è un gigante gassoso, molto gigante e molto gassoso. E assai peculiare. Anzitutto, a differenza di Giove e Saturno, non vive in un condominio planetario come il nostro Sistema solare, ma se ne sta isolato, per i fatti suoi, a circa vent’anni luce da noi, in direzione della costellazione dei Pesci. Senz’alcuna stella attorno alla quale orbitare. Anzi, forse è lui stesso la “stella”: la sua importante massa – oltre 13 volte quella di Giove – lo colloca infatti sull’incerta zona di confine fra pianeti e nane brune.
Gigante e solitario, senza alcuna fonte di luce nei dintorni che accecando l’osservatore ne pregiudichi la visibilità, è dunque un soggetto ideale per essere studiato dai telescopi, complice anche la distanza relativamente ridotta che lo separa da noi. Hanno puntato lo sguardo su di lui molti telescopi da terra. Lo hanno fatto dallo spazio i due osservatori della Nasa Hubble e Spitzer. E ora anche il telescopio spaziale Webb, che non l’ha perso di vista per due “giorni” interi, vale a dire per quasi cinque ore, considerando che un giorno, là su Simp 0136, dura poco più di 140 minuti. Collezionando con NirSpec (lo spettrografo nel vicino infrarosso di Webb) migliaia di spettri da 0.6 a 5.3 micron – uno ogni 1.8 secondi per più di tre ore, mentre Simp 0136 compiva una rotazione completa. E immediatamente dopo, durante una successiva rotazione, acquisendo centinaia d’altre misure spettroscopiche – una ogni 19.2 secondi, questa volta con lo strumento Miri (sensibile al medio infrarosso), da 5 a 14 micron. Scoprendo così un altro tratto peculiare di questo eremita celeste: la varietà della sua composizione atmosferica.
Le centinaia di curve di luce dettagliate raccolte da Webb mostrano infatti, per ciascuna lunghezza d’onda, come la luminosità cambia man mano che l’oggetto ruota. Per capire il motivo di questa variabilità, il team che ha compiuto le osservazioni si è avvalso di modelli atmosferici, così da individuare la regione atmosferica d’origine delle emissioni alle diverse lunghezze d’onda. «Le diverse lunghezze d’onda forniscono informazioni sulle diverse profondità dell’atmosfera», spiega Allison McCarthy, dottoranda alla Boston University e prima autrice dello studio che riporta questa settimana i risultati delle osservazioni su The Astrophysical Journal Letters. «Abbiamo iniziato a capire che le lunghezze d’onda con forme delle curve di luce fra loro più simili erano anche riconducibili alle stesse profondità, rafforzando così l’idea che a causarle sia lo stesso meccanismo».
Queste curve di luce mostrano la variazione di luminosità di tre diverse serie di lunghezze d’onda della luce nel vicino infrarosso proveniente dall’oggetto isolato di massa planetaria Simp 0136 durante la sua rotazione. Il diagramma a destra illustra la possibile struttura dell’atmosfera di Simp 0136, con le frecce colorate che rappresentano le stesse lunghezze d’onda della luce mostrate nelle curve di luce. Le frecce spesse rappresentano più luce, le frecce sottili meno luce. Crediti:
Nasa, Esa, Csa e Joseph Olmsted (Stsci)
Il gruppo di lunghezze d’onda indicato nell’infografica qui sopra in colore rosso, per esempio, ha origine in strati profondi dell’atmosfera, dove potrebbero esserci nubi a chiazze composte da particelle di ferro. Un secondo gruppo, quello in giallo, proviene da nubi più alte, che si pensa siano costituite da minuscoli grani di minerali silicati. Le variazioni in entrambe le curve di luce sono dunque legate alla disomogeneità degli strati di nubi. Un terzo gruppo di lunghezze d’onda, qui rappresentato dal colore blu, ha invece origine ad altissima quota, molto al di sopra delle nubi, e sembra seguire l’andamento della temperatura.
Ci sono poi anche alcuni hot spot – “punti caldi” luminosi – che potrebbero essere collegati alle aurore, rilevate in precedenza a lunghezze d’onda radio, oppure alla risalita di gas caldo da zone più profonde dell’atmosfera. Non mancano, infine, curve di luce il cui andamento non può essere spiegato né dalla presenza di nuvole né dal variare della temperatura, esibendo piuttosto cambiamenti che potrebbero essere dovuti alla presenza, in atmosfera, di sacche di monossido di carbonio e anidride carbonica che entrano ed escono dalla visuale, oppure a reazioni chimiche che alterano l’atmosfera nel corso del tempo.
«La chimica ancora ci sfugge», ammette la principal investigator del programma osservativo condotto con Webb, Johanna Vos, del Trinity College di Dublino. «Ma si tratta di risultati davvero entusiasmanti, perché ci mostrano che le abbondanze di molecole come il metano e l’anidride carbonica potrebbero cambiare da un luogo all’altro e nel tempo. Se stiamo dunque osservando un esopianeta e possiamo ottenere una sola misurazione, dobbiamo mettere in conto che potrebbe non essere rappresentativa dell’intero pianeta».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “The JWST Weather Report from the Isolated Exoplanet Analog SIMP 0136+0933: Pressure-dependent Variability Driven by Multiple Mechanisms”, di Allison M. McCarthy, Johanna M. Vos, Philip S. Muirhead, Beth A. Biller, Caroline V. Morley, Jacqueline Faherty, Ben Burningham, Emily Calamari, Nicolas B. Cowan e Kelle L. Cruz
Al via la quarta edizione di “Donne fra le stelle”
Donne spaziali che apriranno le porte dei loro mondi di ricerca nel settore astrofisico, aerospaziale e astronautico in una conferenza di due giorni a cavallo proprio dell’8 marzo. Anche quest’anno l’evento “Donne fra le stelle”, giunto alla sua quarta edizione, si terrà ad Abano Terme, in provincia di Padova, al teatro “Pietro D’Abano”.
«Per sfatare lo stereotipo che la scienza non sia un mestiere per donne ci vogliono modelli di ruolo che dimostrino che è possibile che le donne si realizzino e abbiano successo nelle carriere scientifiche e tecnologiche», dice a Media Inaf Patrizia Caraveo, astrofisica dell’Inaf e presidente del comitato scientifico dell’associazione “Donne fra le stelle”. «In altre parole, occorrono esempi di scienziate e ingegnere che sono perfettamente a loro agio nel loro ambiente di lavoro e che sono felici di condividere il loro entusiasmo. Per questo, “Donne fra le stelle” darà voce ad astronaute, astrofisiche, geofisiche, ingegnere aerospaziali e ricercatrici per fornire una panoramica che spazia dallo studio del nostro pianeta, con particolare attenzione alle conseguenze del cambiamento climatico, allo studio dell’universo e all’esplorazione umana dello spazio. Le relatrici mostreranno l’impegno e i risultati delle donne in un settore tradizionalmente dominato dalla presenza maschile per dimostrare che la ricerca, la tecnologia, l’esplorazione non hanno genere».
E, se non si può fare a meno di notare che una conferenza interamente dedicata al ruolo delle donne nel settore astrofisico e spaziale si svolga proprio a cavallo dell’8 marzo, scorrendo il programma salta subito agli occhi come anche l’organizzazione degli argomenti rispecchi temi di grande attualità: la prima giornata si apre con una mattinata dedicata ai temi dell’ambiente, delle variazioni climatiche e dell’ecologia spaziale. Si parlerà di qualità dell’aria che respiriamo, di innalzamento delle temperature, ma anche di costellazioni di satelliti, spazzatura spaziale e legislazione spaziale. E proprio alla gestione dello spazio è dedicata la sessione pomeridiana, che tratterà i temi dell’esplorazione umana dello spazio, della possibilità di creare colonie e insediamenti a lungo termine portando ad esempio l’agricoltura fuori dalla Terra; ma anche di architettura spaziale, e del Sole, la stella che permette la vita sulla Terra e l’unica che abbiamo per poterla salvaguardare, la vita. Entrambe le sessioni si chiuderanno con la presentazione di un libro sull’argomento: il mattino, Ecologia spaziale, l’ultimo libro di Patrizia Caraveo; il pomeriggio, Due soli nel Sole, la stella a noi più cara fra verità scientifiche e fantasie, di Francesco Veltri. Sabato 8 marzo è giornata di premiazioni: alle 10 verrà consegnato ad Amalia Ercoli Finzi il premio “Donne fra le stelle”, mentre il pomeriggio, dopo una sessione dedicata all’esplorazione del cosmo e alle nuove tecnologie, ci sarà la consegna del premio nazionale “Rossella Panarese”, giunto alla seconda edizione e dedicato alla giornalista scientifica di Rai Radio3Scienza scomparsa nel 2021.
«Sono molto felice di poter contribuire a “Donne fra le stelle”, un evento rivolto al grande pubblico che mira a far conoscere il contributo delle donne all’attuale comprensione della fisica dell’universo», dice a Media Inaf Viviana Casasola, ricercatrice all’Inaf di Bologna e relatrice durante la seconda giornata dell’evento. «Presenterò alcuni dei miei risultati scientifici con l’obiettivo di condividere la conoscenza e la bellezza del cosmo, ma anche di incoraggiare le giovani e i giovani a inseguire i propri sogni senza farsi scoraggiare dalle difficoltà che inevitabilmente incontreranno».
Due giorni vivaci e molto vari, con partecipazione libera, di cui trovate informazioni più dettagliate sul sito web dell’iniziativa e nel programma qui sotto.
Il programma dettagliato (cliccare per ingrandire) della quarta edizione di “Donne fra le stelle”, che si terrà il 7 e l’8 marzo ad Abano Terme (Pd), al Teatro Marconi
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Quando attraversammo la Nebulosa di Orione
Immagine della costellazione di Orione prodotta con Stellarium, un software gratuito e open-source. Le sue stelle principali sono collegate da linee rette blu e alcune di esse sono etichettate con il loro nome. La Nebulosa di Orione, detta anche M 42, è identificata dal quadrato rosso. Crediti: Stellarium (Gnu); Efrem Macon
Il Sistema solare non sta mai fermo: è in continuo movimento attorno al centro della Via Lattea. E questo suo peregrinare fa sì che interagisca con svariati ambienti galattici, incluse regioni gassose molto dense. Incontri che possono comprimere l’eliosfera, la bolla protettiva del sistema planetario, potenzialmente esponendo l’atmosfera terrestre alla polvere interstellare.
Utilizzando osservazioni spettroscopiche e dati ottenuti dalla missione Gaia dell’Agenzia spaziale europea (Esa), un team di ricercatori guidato dall’Università di Vienna ha scoperto che, in un’epoca compresa tra 14.8 e 12.4 milioni di anni fa, il Sistema solare – attraversando l’Onda di Radcliffe, una struttura sottile e vasta, formata da regioni di formazione stellare interconnesse tra loro – ha solcato anche la grande nube molecolare del complesso di Orione.
«Questa regione è facilmente osservabile dall’emisfero nord durante l’inverno e dall’emisfero sud durante l’estate», dice João Alves, professore di astrofisica all’Università di Vienna e coautore di uno studio che il mese scorso, su Astronomy & Astrophysics, riporta il risultato. «Guardate verso la costellazione di Orione e la nebulosa di Orione: il Sistema solare proviene da quella direzione!»
«Immaginatelo come una nave che salpa attraverso mari dalle condizioni molto differenti. Quando il Sole ha attraversato l’Onda di Radcliffe, nella costellazione di Orione, ha incontrato una regione ad alta densità gassosa», aggiunge il primo autore dello studio, Efrem Maconi, dottorando all’Università di Vienna.
«Questa scoperta si basa sul nostro lavoro precedente che aveva l’obiettivo di individuare l’Onda di Radcliffe,» ricorda Alves. «Abbiamo attraversato la regione di Orione nel momento in cui ammassi stellari conosciuti, come Ngc 1977, Ngc 1980 e Ngc 1981 si stavano formando».
Lo studio evidenzia come l’incremento del flusso di polvere interstellare dovuto a questo incontro potrebbe aver causato svariati effetti. È possibile che essa abbia penetrato l’atmosfera terrestre lasciando tracce, nei registri geologici, di elementi radioattivi provenienti dalle supernove. Inoltre, una maggiore quantità di polvere potrebbe aver alterato il bilancio radiativo della Terra, con un conseguente effetto di raffreddamento. «Sebbene la tecnologia attuale non sia abbastanza sensibile per la rilevazione di queste tracce, futuri rilevatori potrebbero renderlo possibile», suggerisce Alves.
La ricerca del team indica che il passaggio del Sistema solare attraverso la regione di Orione avvenne circa 14 milioni di anni fa. Questo periodo temporale coincide con la transizione climatica del Medio Miocene, che fu un significativo spostamento da un clima variabile e caldo a un clima più freddo, portando alla riorganizzazione del clima terrestre e all’espansione della calotta glaciale antartica. Nonostante lo studio suggerisca la possibilità di un collegamento tra la traversata del Sistema solare nel vicinato galattico e l’influenza della polvere interstellare sul clima terrestre, gli autori enfatizzano la casualità della connessione e la necessità di ulteriori studi.
Rappresentazione dell’onda di Radcliffe. Le nubi che compongono questa struttura sono evidenziate in rosso e sovrapposte a un’illustrazione della Via Lattea. La posizione del Sole è evidenziata dal punto giallo. Crediti: Alyssa A. Goodman/Harvard University
«Anche se i processi fondamentali responsabili della transizione climatica del Medio Miocene non sono stati completamente identificati, le ricostruzioni disponibili suggeriscono che una diminuzione della concentrazione di anidride carbonica, il gas serra atmosferico, sia la spiegazione più probabile, sebbene esistano molte incertezze. Tuttavia, il nostro studio evidenzia come la polvere interstellare correlata al passaggio attraverso l’Onda di Radcliffe possa aver influenzato il clima del pianeta Terra e possa aver avuto un ruolo in questa transizione climatica. Per poter alterare il clima terrestre, la quantità di polvere extraterrestre presente sulla Terra dovrebbe essere molto maggiore di quanto suggeriscano i dati finora. Future ricerche approfondiranno il significato di questo contributo. È cruciale notare», sottolinea Maconi, «che questa passata transizione climatica e l’attuale cambiamento climatico non sono paragonabili, dal momento che la transizione climatica del Medio Miocene è avvenuta durante un periodo temporale durato centinaia di migliaia di anni, e l’attuale riscaldamento globale sta evolvendo a un ritmo senza precedenti, nell’arco di decenni o secoli, a causa delle azioni dell’uomo».
Questo studio è importante perché aggiunge un altro pezzo del puzzle che compone la storia del Sistema solare. «Siamo abitanti della Via Lattea», dice Alves. «La missione Gaia dell’Esa ci ha fornito i mezzi per tracciare il nostro percorso più recente nel mare interstellare, permettendo agli astronomi di confrontare le proprie conoscenze con geologi e paleoclimatologi. È davvero emozionante».
In futuro, il team guidato da Alves intende approfondire lo studio dell’ambiente galattico incontrato dal Sole durante il suo viaggio, e le possibili conseguenze sulla Terra.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The Solar System’s passage through the Radcliffe wave during the middle Miocene” di E. Marconi, J. Alves, S. Ratzenböck, J. Großschedl, P. Köhler, N. Miret-Roig, S. Meingast, R. Konietzka, C. Zucker, A. Goodman, M. Lombardi, G. Knorr, G. Lohmann, J. C. Forbes, A. Burkert e M. Opher
Segnale radio? Era solo una trasmissione tv
Mentre la crescente attività dei satelliti in orbita intorno alla Terra minaccia il futuro della radioastronomia, un segnale televisivo casualmente riflesso da un aereo di linea ha spinto un gruppo di ricerca della Brown University negli Stati Uniti a elaborare una nuova tecnica per individuare – ed eliminare – i segnali radio indesiderati che costituiscono una fonte di disturbo per i radiotelescopi.
Per un certo periodo di tempo, durante l’analisi dei dati prodotti dal Murchison Widefield Array (un radiotelescopio situato nell’Australia occidentale), gli astronomi si sono imbattuti inaspettatamente nell’interferenza di un segnale che non proveniva dalle fonti astronomiche che stavano studiando. Il fatto risultava decisamente strano, perché il radiotelescopio si trova in una zona di silenzio radio regolata dal governo australiano per tutte le apparecchiature di radiocomunicazione – compresi i trasmettitori televisivi, i dispositivi bluetooth, i telefoni cellulari – con lo scopo di ridurre al minimo le interferenze con i telescopi situati in quella zona.
Il Murchison Widefield Array, situato nell’Australia occidentale. Questa immagine ritrae una parte delle antenne dell’array. Crediti: Natasha Hurley-Walker/Mwa Collaboration & Curtin University
«Erano quasi cinque anni che vedevamo questi segnali e diverse persone avevano ipotizzato che si trattasse di aerei che riflettevano segnali di trasmissioni televisive. Ci siamo resi conto che per una volta avremmo potuto confermare questa teoria», dice Jonathan Pober della Brown University (Usa), responsabile del programma di ricerca statunitense per il Murchison Widefield Array.
Lo studio, pubblicato il mese scorso su Publications of the Astronomical Society of Australia, non solo conferma l’ipotesi che i segnali provengono da un aereo ma fornisce anche un nuovo metodo per identificare e filtrare le radiofrequenze indesiderate: un obiettivo che diventa sempre più importante man mano che i cieli della Terra, con il dispiegamento di un sempre maggiore numero di satelliti, diventano più rumorosi .
«L’astronomia sta affrontando una crisi esistenziale. C’è una crescente preoccupazione – anche riportata in alcuni documenti ufficiali – per il fatto che gli astronomi potrebbero presto non essere in grado di effettuare osservazioni radio di alta qualità, come le conosciamo, a causa delle interferenze delle costellazioni satellitari», ricorda Pober. «Questo è particolarmente difficile per telescopi come il Murchison Widefield Array, che osserva l’intero cielo contemporaneamente. Non c’è modo di puntare i nostri telescopi lontano dai satelliti».
«Tradizionalmente, quando nei dati dei radiotelescopi vengono rilevati segnali indesiderati, noti come interferenze di radiofrequenza (Rfi), i dati vengono scartati in quanto contaminati. Questo perché questi segnali sono imprevedibili e, senza un modello chiaro della loro origine, è quasi impossibile sottrarli dai dati», spiega prima autrice dello studio, Jade Ducharme, della Brown University. «Si finisce per buttare via una quantità pazzesca di dati per non contaminare nessuna parte dell’osservazione».
Per Ducharme e Pober, il nuovo studio è utile per gettare le basi di una soluzione a questo enorme problema, sviluppando un nuovo metodo per rintracciare le interferenze nelle frequenze radio provenienti da oggetti vicini. Per farlo, si sono combinate due tecniche di tracciamento già esistenti. La prima è nota come correzioni del campo vicino, e regola il telescopio in modo tale da mettere a fuoco gli oggetti più vicini alla Terra che normalmente causano interferenze. I telescopi sono progettati per guardare in profondità nello spazio ma le correzioni del campo vicino permettono loro di seguire con maggiore precisione gli oggetti a poca distanza. La seconda tecnica, il beamforming, affina la messa a fuoco di un oggetto creando un “fascio” più preciso che individua la provenienza dell’interferenza, in questo caso il rimbalzo di un aereo.
Combinando i due metodi, i ricercatori hanno tracciato l’aereo e analizzato la curvatura delle onde radio riflesse sulla sua superficie. Ciò ha permesso di calcolare che l’aereo volava a una quota di circa 11.5 km e si muoveva alla velocità di poco meno di ottocento km/h. Pober e Ducharme hanno anche scoperto che il segnale di interferenza che rimbalzava sull’aereo proveniva dalla banda di frequenza associata a Channel 7 della tv digitale australiana.
«Si tratta di un passo fondamentale verso la possibilità di sottrarre dai dati le interferenze causate dall’uomo», dice Pober. «Identificando e rimuovendo con precisione solo le fonti di interferenza, gli astronomi possono sfruttare un maggior numero di osservazioni, ridurre la perdita di dati e aumentare le possibilità di fare importanti scoperte».
I prossimi passi del progetto prevedono il tentativo di rimuovere effettivamente i segnali di interferenza trasmessi dai dati analizzati con il Murchison Widefield Array. L’obiettivo è poi quello di perfezionare ulteriormente il metodo e di estenderlo per filtrare le interferenze dei satelliti e di altri oggetti spaziali, il cui tracciamento è molto più impegnativo.
Altre antenne del Murchison Widefield Array. Crediti: Icrar/Curtin
«Per garantire coperture più capillari e connessioni più veloci, oltre alle nuove generazioni di telefonia mobile terrestre, nei prossimi anni verranno lanciati in orbita circa dieci satelliti ogni giorno. Ciò rappresenta una notevole minaccia alla radioastronomia che già oggi vede molte delle proprie osservazioni dell’universo contaminate dalla presenza di interferenze a radiofrequenza prodotte da sistemi di telecomunicazioni», commenta il referente Inaf per la protezione delle bande di frequenza assegnate al servizio di radioastronomia, Pietro Bolli, non coinvolto nello studio della Brown University. «Come evidenziato nello studio di Ducharme e Pober, anche radiotelescopi localizzati in zone estremamente remote, quali il deserto australiano, non sono immuni da tali disturbi: la sensibilità degli strumenti radioastronomici è infatti tale che un emettitore televisivo terrestre può produrre segnali spuri verso il cielo che riflessi dalla fusoliera di un aereo tornano a terra finendo nel fascio di radiazione del radiotelescopio assieme al segnale naturale prodotto dall’universo».
Si prevede che il boom di satelliti si espanderà ulteriormente nei prossimi decenni, ponendo una sfida importante alla capacità della radioastronomia di studiare fenomeni come i buchi neri, la formazione delle galassie e le origini dell’universo. Ma cosa possiamo fare? «Se non riusciamo a trovare un cielo tranquillo sulla Terra, forse la Terra non è il posto giusto», dice Pober. «Qualunque cosa facciamo, non abbiamo altra scelta che investire in migliori tecniche di analisi dei dati per identificare e rimuovere le interferenze generate dall’uomo».
«I radioastronomi si adoperano per arginare problematiche di questa natura contribuendo ai tavoli che regolamentano l’utilizzo dello spettro radio e sviluppando tecniche di monitoraggio e mitigazione hardware e, come in questo caso, software sempre più evolute per riconoscere il segnale interferente e sottrarlo dal dato celeste minimizzando così la perdita di informazioni utili», cocnlude Bolli. «Se i radioastronomi riusciranno a ingegnarsi con tecniche di mitigazione sempre più avanzate per preservare le proprie osservazioni, oppure se sarà veramente necessario costruire i futuri radiotelescopi nella faccia nascosta della Luna – sempre che le interferenze non arrivino anche là… – lo capiremo solo in futuro».
Per saperne di più:
- Leggi su Publications of the Astronomical Society of Australia l’articolo “Altitude estimation of radio frequency interference sources via interferometric near-field corrections”, di Jade M. Ducharme e Jonathan C. Pober
Blue Ghost, un nuovo lander sulla Luna
Missione compiuta per l’azienda texana Firefly Aerospace con l’approdo sulla Luna del suo lander Blue Ghost, secondo di una società privata a essersi posato sul suolo del nostro satellite e primo in assoluto a esserci riuscito con pieno successo. Già nel febbraio dell’anno scorso, infatti, era parzialmente riuscito nell’impresa Odysseus, il lander di Intuitive Machines, adagiandosi però su un fianco. Nessun intoppo invece per Blue Ghost, che alle 9:34 ora italiana di ieri, domenica 2 marzo, al termine di un viaggio durato 45 giorni e lungo quasi cinque milioni di km, ha toccato dolcemente la superficie della Luna nel sito programmato – una regione del Mare Crisium, il vasto mare di lava che si trova sul lato che guarda alla Terra – “in una configurazione verticale e stabile”, scrive Firefly Aerospace nel suo comunicato.
We’re baaack!Blue Ghost has landed, safely delivering 10 NASA scientific investigations and tech demos that will help us learn more about the lunar environment and support future astronauts on the Moon and Mars. pic.twitter.com/guugFdsXY3
— NASA (@NASA) March 2, 2025
«Firefly è sulla Luna, letteralmente e metaforicamente», ha dichiarato il Ceo dell’azienda Jason Kim. «Il nostro lander Blue Ghost ha ora una casa permanente sulla superficie lunare, con dieci payload della Nasa e una targa con il nome di ogni dipendente di Firefly».
Uno dei dieci strumenti a bordo è il ricevitore satellitare made in Italy LuGre: frutto della collaborazione fra l’Agenzia spaziale italiana e la Nasa, è infatti stato costruito in Italia dalla Qascom di Bassano del Grappa con il supporto scientifico del Politecnico di Torino. Il suo scopo è dimostrare la fattibilità dei servizi di navigazione per l’esplorazione lunare.
La Apod (Astronomy Picture of the Day) di oggi, lunedì 3 marzo, mostra l’ombra del lander Blue Ghost sulla superficie lunare. Crediti: Firefly Aerospace
Oltre a Lugre, fra gli strumenti scientifici commissionati dalla Nasa che Blue Ghost dispiegherà nel corso dei circa sessanta giorni di missione in programma c’è PlanetVac: generando un piccolo vortice artificiale solleverà e catturerà la polvere lunare. Sempre a bordo del lander si trova anche il telescopio Lexi per l’acquisizione d’immagini a raggi X della magnetosfera terrestre – immagini che dovrebbero portare a una migliore comprensione del modo in cui il campo magnetico terrestre protegge la Terra dal vento e dai brillamenti del Sole
La missione Blue Ghost rientra nel programma Commercial Lunar Payload Services (Clps) della Nasa, che attraverso la collaborazione con aziende private intende raccogliere dati e testare tecnologie utili alle future missioni umane del programma Artemis. Il lancio era avvenuto il 15 gennaio scorso con un razzo Falcon 9 di SpaceX. A bordo c’era anche il lander Resilience dell’azienda giapponese ispace, ancora in viaggio.
Blue Ghost è attualmente l’unico lander attivo sulla superficie lunare. Ma se tutto va secondo i piani già entro la fine di questa settimana dovrebbe arrivare a fargli compagnia – approdando vicino al Polo sud lunare – il lander Athena della missione Im-2 di Intuitive Machines, in queste ore in viaggio verso la Luna.
Rivedi al live del lancio sul canale YouTube della Nasa:
Così splende in banda radio il Sole al Polo Sud
L’osservatorio Solaris è un innovativo progetto scientifico e tecnologico – frutto di una collaborazione tra diverse istituzioni scientifiche nazionali coordinate dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), dall’Università di Milano e dall’Università di Milano-Bicocca nell’ambito del Pnra (Piano nazionale di ricerca in antartide)– finalizzato allo sviluppo di un sistema di monitoraggio continuo del Sole alle alte frequenze radio, per studi di fisica fondamentale, climatologia spaziale e interazioni Terra-Sole.
Nonostante sia attivo da pochissimo tempo e ancora nelle fasi iniziali di sviluppo (è infatti passato poco più di un anno dalla sua costituzione), Solaris ha già prodotto dati interessanti dal punto di vista scientifico per applicazioni di climatologia spaziale, in particolare mappe solari che consentono di studiare in banda radio a 95 Ghz l’evoluzione della regione attiva che ha prodotto le tempeste solari responsabili dell’aurora di Capodanno, visibile anche alle nostre latitudini. Le immagini sono state ottenute nelle scorse settimane, e sono tuttora in fase di analisi e interpretazione da parte di un team multidisciplinare di esperti.
Prima immagine del Sole in banda radio osservato alla frequenza di 95 GHz dall’Antartide il 27 dicembre 2024. Crediti: Team Solaris
«La possibilità di monitorare, comprendere e prevedere la mutevole fenomenologia solare e il suo notevole impatto con l’ambiente spaziale e il nostro pianeta è una sfida che acquista sempre più importanza», dice Alberto Pellizzoni, astrofisico Inaf e responsabile scientifico del progetto Solaris. «Per affrontare questa sfida è necessario investire per trasformare e potenziare strumenti già esistenti o crearne di nuovi in una efficiente rete solare internazionale, anche nel contesto degli accordi in essere tra diversi enti in Italia (Inaf, Ingv, Asi, Aeronautica militare e varie università) per sviluppare servizi dedicati allo space weather, e capire come il Sole influisca sulle nostre tecnologie e la nostra vita sulla Terra».
Il progetto Solaris prevede l’implementazione di ricevitori radioastronomici dedicati e intercambiabili su piccoli radiotelescopi della classe di 2.6 metri di diametro, già presenti in Antartide nelle basi italiane Mario Zucchelli e Concordia e adattati per osservazioni solari ad alta frequenza, dell’ordine delle decine di gigahertz. Ciò consente di ricevere onde radio emesse dal Sole, la cui lunghezza d’onda varia da qualche centimetro a qualche millimetro. Con questo tipo di osservazioni è possibile avere una nuova “finestra” in cui studiare il Sole e i suoi fenomeni, rilevando con precisione la temperatura e i brillamenti della corona solare e fare previsioni sulle possibili tempeste geomagnetiche. Al progetto, oltre alle sedi Inaf di Cagliari, Bologna, Trieste, Milano e alle università di Milano e Milano-Bicocca, partecipano le università di Roma Sapienza, Tor Vergata e Roma Tre, l’Agenzia spaziale italiana, l’Aeronautica militare italiana, l’Università Cà Foscari di Venezia, il Consiglio nazionale delle ricerche.
«Vediamo finalmente venire alla luce i primi risultati di un lungo progetto a cui abbiamo lavorato per quasi dieci anni», dicono Francesco Cavaliere e Marco Potenza, del Dipartimento di fisica dell’Università di Milano, «dopo che il Pnra ci aveva chiesto di prenderci carico delle infrastrutture nelle due basi. Il lavoro da fare è ancora moltissimo, ma i primi risultati sono di grande soddisfazione anche in funzione delle scarsissime risorse che abbiamo avuto a disposizione. La riuscita di questa prima fase è anche una valorizzazione delle attività svolte proprio a Milano, dove abbiamo un telescopio prototipo con cui validare tutte le procedure e risolvere gran parte dei problemi prima di arrivare a lavorare al Polo».
«Solaris rappresenta uno dei progetti di punta del Pnra in campo astrofisico e uno tra i più promettenti programmi astrofisici che operano nelle aree polari a livello internazionale», aggiunge Massimo Gervasi, docente a Milano-Bicocca e membro del Physical Science Group dello Scar (Scientific Committee on Antarctic Research). «L’analisi delle immagini di Solaris, correlata con le immagini fornite dai satelliti a più alte energie da un lato e i dati sulle particelle energetiche solari dall’altro, aiuterà a comprendere meglio i fenomeni fisici che stanno alla base delle emissioni solari energetiche».
In presenza di condizioni di visibilità del cielo ottimali come quelle antartiche, Solaris sarà l’unica installazione a offrire un monitoraggio continuo del Sole ad alte frequenze radio permettendo di osservare le variazioni che avvengono nella cromosfera solare, uno strato dell’atmosfera della nostra stella in cui si formano fenomeni altamente energetici come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Monitorare le variazioni in questa banda radio permette di identificare segnali precursori di tempeste geomagnetiche, che potrebbero interferire con le nostre tecnologie nello spazio e a terra.
La scelta di posizionare a una latitudine così meridionale Solaris non è dovuta solo alla limpidezza dell’atmosfera, garantita dalla bassa umidità che altrimenti assorbirebbe i segnali radio ad alta frequenza, ma anche e soprattutto alla lunga persistenza del Sole nel cielo durante l’estate antartica (che corrisponde al nostro periodo invernale), seppure molto basso rispetto all’orizzonte. Nei pressi dei poli terrestri, infatti, è possibile – durante i rispettivi periodi estivi – osservare la nostra stella per oltre venti ore al giorno.
Per poter offrire un monitoraggio solare costante durante tutto l’anno, il progetto Solaris sarà dunque implementato anche nell’emisfero settentrionale con lo sviluppo di una stazione sulle Alpi (presso l’Osservatorio climatico Testa Grigia del Cnr, a 3500 metri s.l.m., in Valle D’Aosta) e altre in Scandinavia e regioni artiche, grazie all’interesse internazionale destato da queste prospettive.
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
Ritratto di famiglia della Galassia di Andromeda
Come fastidiosi granelli di polvere depositati su una vecchia fotografia analogica esaminata da chi voglia contemplare la nostra vicina di casa, la Galassia di Andromeda anche detta M31, con la sua forma a sigaro in questa immagine, ma a spirale nella realtà tridimensionale dei fatti. Puntiformi irrilevanze che, se esposte all’occhio acutissimo del telescopio spaziale Hubble, si avvicinano e avvicinano mostrandosi per quelle che sono, in questi dettagliati ritratti di famiglia: decine di galassie nane che gravitano attorno ad Andromeda come condor che sorvolano un pasto prelibato. Ritratti che hanno consentito agli scienziati di mappare la struttura tridimensionale di questa famiglia numerosa, che conta ben 36 componenti, e di ricostruire quanto efficacemente queste piccolette abbiano generato stelle lungo l’intera esistenza dell’universo.
Il sistema di galassie nane che circonda la Galassia di Andromeda (M31) in un’immagine realizzata da terra. Le trentasei galassie nane oggetto dello studio appaiono come dei granelli di polvere all’interno dei cerchi. Oltre a M31, dalla forma a sigaro e visibile vicino al centro dell’immagine, la galassia più prominente è M32, che nell’immagine appare come un punto localizzato su di essa. Crediti: Nasa, Esa, Alessandro Savino (Uc Berkeley), Joseph DePasquale (Stsci), Akira Fujii Dss2
Questa saga familiare ci viene raccontata da un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Alessandro Savino in un articolo uscito il mese scorso su The Astrophysical Journal. Una storia di famiglia che appare molto diversa da quella che caratterizza la Via Lattea, la nostra galassia, accompagnata solo da uno scampolo di galassiette. Spesso accostate per la loro forma affine, Andromeda e la Via Lattea, e in verità si scoprono con una storia familiare che ha percorso traiettorie differenti. Quella di Andromeda sembrerebbe ben più accidentata, caratterizzata da uno scontro con una galassia di massa simile qualche miliardo di anni fa. Collisione che spiegherebbe, assieme alla sua massa doppia rispetto alla nostra “casa”, la ricchezza di galassie satelliti e le loro caratteristiche. Che sembrerebbero peculiari.
«Vediamo che la durata per cui le galassie satelliti possono continuare a formare nuove stelle dipende da quanto sono massicce e da quanto sono vicine alla galassia di Andromeda», dice Savino, della University of California a Berkeley. «È una chiara indicazione di come la crescita delle piccole galassie sia disturbata dall’influenza di una galassia massiccia come Andromeda».
«Tutto ciò che è sparso nel sistema di Andromeda è molto asimmetrico e perturbato. Sembra che qualcosa di significativo sia accaduto non molto tempo fa», aggiunge Daniel Weisz, ricercatore presso la stessa struttura. «C’è sempre la tendenza a usare ciò che comprendiamo nella nostra galassia e generalizzarlo per le altre galassie nell’universo. Ci sono sempre state preoccupazioni sul fatto che ciò che stiamo imparando sulla Via Lattea si applichi più ampiamente ad altre galassie. E se ci fosse più diversità tra le galassie esterne? Hanno proprietà simili? Il nostro lavoro ha dimostrato che le galassie di piccola massa in altri “ecosistemi” hanno seguito percorsi evolutivi diversi da ciò che sappiamo dalle galassie satellite della Via Lattea».
Ritratti di quattro delle trentasei galassie nane ottenuti con il telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa, Esa, Alessandro Savino (Uc Berkeley), Joseph DePasquale (Stsci), Akira Fujii Dss2
Studiare il sistema di galassie satelliti che circonda la Via Lattea è più complesso perché ci troviamo dentro di essa. Come cantava Niccolò Fabi in Lontano da me, “alla giusta distanza la vista migliora”. Vale nelle nostre imperfette relazioni, e vale pure per le galassie, talvolta.
Nella folta famiglia di Andromeda, esemplare di spicco è senza dubbio M32, galassia ellittica compatta che potrebbe costituire il nucleo rimasto spoglio di una galassia molto più grande che ha interagito con Andromeda in passato. M32 contiene stelle piuttosto vecchie. Sembrerebbe però che un’ondata di formazione stellare l’abbia investita qualche miliardo di anni fa, a seguito della tempestosa interazione. Le galassie nane che attorniano Andromeda hanno messo in piedi il grosso della loro massa in un’epoca molto antica e hanno continuato a generare stelle con un ritmo lento, consumando in modo fiacco ma costante il gas che si trovava al loro interno. In questo sono molto diverse dalle galassiette che sguazzano attorno alla Via Lattea.
«La formazione stellare è continuata molto a lungo, il che non è affatto ciò che ci si aspetterebbe da queste galassie nane», aggiunge Savino. «Questo non appare nelle simulazioni al computer. Fino ad ora nessuno sa come ciò sia possibile». Oltre a questo, gli astronomi non si spiegano perché le galassie sembrino confinate in un piano e orbitino tutte nella stessa direzione. «È bizzarro. In realtà è stata una sorpresa totale trovare i satelliti in quella configurazione e ancora non capiamo del tutto perché appaiano in quel modo», conclude Weisz.
Il telescopio Hubble ha fornito il primo gruppo di immagini con cui gli astronomi hanno potuto quantificare il moto delle galassie nane. Nell’arco di cinque anni un secondo gruppo di immagini sarà ottenuto da Hubble o dal telescopio Webb, e consentirà di ricostruire la dinamica di tutte le 36 galassie, permettendo agli astronomi di riavvolgere il nastro e di capire come il complesso ecosistema di Andromeda si sia formato miliardi di anni fa.
Nel video qui sotto, animazione che mostra un viaggio immaginario, lungo due milioni e mezzo di anni luce, verso la Galassia di Andromeda. Oltrepassate le stelle della Via Lattea, Andromeda si mostra circondata dal suo stuolo di galassie satelliti. La struttura tridimensionale mostrata nel video è stata realizzata grazie ai dati di Hubble. Crediti: Nasa, Esa, Christian Nieves (Stsci), Alessandro Savino (Uc Berkeley); Ringraziamenti: Joseph DePasquale (Stsci), Frank Summers (Stsci) e Robert Gendler
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Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The Hubble Space Telescope Survey of M31 Satellite Galaxies. IV. Survey Overview and Lifetime Star Formation Histories” di Alessandro Savino, Daniel R. Weisz, Andrew E. Dolphin, Meredith J. Durbin, Nitya Kallivayalil, Andrew Wetzel, Jay Anderson, Gurtina Besla, Michael Boylan-Kolchin, Thomas M. Brown, James S. Bullock, Andrew A. Cole, Michelle L. M. Collins, M. C. Cooper, Alis J. Deason, Aaron L. Dotter, Mark Fardal, Annette M. N. Ferguson, Tobias K. Fritz, Marla C. Geha, Karoline M. Gilbert, Puragra Guhathakurta, Rodrigo Ibata, Michael J. Irwin, Myoungwon Jeon, Evan N. Kirby, Geraint F. Lewis, Dougal Mackey, Steven R. Majewski, Nicolas Martin, Alan McConnachie, Ekta Patel, R. Michael Rich, Evan D. Skillman, Joshua D. Simon, Sangmo Tony Sohn, Erik J. Tollerud e Roeland P. van der Marel
La Iss? Più “sporca” è meglio
Simbolo di cooperazione internazionale e laboratorio di ricerca scientifica in microgravità, la Stazione spaziale internazionale (Iss) offre agli astronauti un’esperienza di vita unica. La permanenza a bordo, a circa 400 km di quota, pone tuttavia diverse sfide. Una delle principali, per la quale esiste una pletora di letteratura scientifica, è quella legata ai rischi per la salute.
In primo piano, la Stazione spaziale internazionale. Sullo sfondo, l’orizzonte terrestre e l’oscurità dello spazio. L’immagine è stata scattata nel 2010 dall’equipaggio della missione Sts-130. Crediti: Nasa
Oltre alla perdita di massa ossea e muscolare e alle alterazioni del sistema cardiovascolare, sulla Iss gli astronauti sperimentano comunemente eruzioni cutanee, allergie atipiche e altri processi infiammatori, sia acuti che cronici. Tutte queste condizioni sono riconducibili a una disfunzione del sistema immunitario. Un nuovo studio pubblicato ieri sulla rivista Cell edita da Cell Press suggerisce che tutti questi problemi potrebbero avere un’origine comune: la natura eccessivamente “sterile” della navicella spaziale.
Condotto da un team di ricerca guidato dall’Università della California a San Diego, lo studio ha dimostrato che la Stazione Spaziale Internazionale ha una diversità microbica molto inferiore rispetto agli ambienti naturali terrestri, con la maggior parte del germi presenti appartenenti al microbioma cutaneo, cioè l’insieme dei germi naturalmente residenti sulla nostra pelle. Inoltre, sarebbe eccessivamente pulita. Poiché sempre più studi collegano le malattie infiammatorie croniche alla ridotta esposizione microbica propria di ambienti troppo lindi, l’ipotesi dei ricercatori è che il problema delle risposte infiammatorie sviluppate dagli astronauti sulla Iss potrebbe essere collegato a questi aspetti. Insomma, il mantra per vivere meglio sulla Iss sarebbe lo stesso che i pediatri e le pediatre ci ripetono sin da piccoli: bisogna sporcarsi, troppa igiene fa male.
Per giungere alla loro conclusione, i ricercatori hanno esaminato ben 803 campioni – 100 volte più di quelli prelevati nelle precedenti indagini – raccolti all’interno dell’US Orbital Segment (Usos), l’unità orbitale costruita e gestita dalla Nasa, dall’Esa, dall’Agenzia spaziale canadese (Csa) e dall’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa). L’esperimento si chiama three-dimensional microbial mapping (3dmm), un’ambiziosa indagine il cui obiettivo era mappare le comunità microbiche e le specie chimiche presenti sulle superfici della Iss.
A prelevare i campioni da analizzare con una sorta di cotton fioc strisciato su una generica area – tamponi di superficie, è così che si chiamano – sono stati gli astronauti della Expedition 64, la 64esima missione sulla Stazione spaziale internazionale, iniziata il 21 ottobre 2020 e conclusa il 17 aprile 2021.
L’astronauta della Expedition 64 Kate Rubins con in mano i tamponi di superficie per l’indagine 3dmm. Crediti: Nasa
La missione portava a bordo circa mille dispositivi di campionamento. Per portare a termine l’esperimento, agli astronauti è stato chiesto di tamponare una superficie di 5 cm x 5 cm in specifiche posizioni all’interno di nove degli undici moduli orbitali della Usos. Lo sforzo di campionamento, effettuato con strisciate a zig zag per coprire tutta la superficie in esame e favorire il trasferimento dei germi al cotton fioc, ha richiesto in totale 6 giorni, impegnando gli astronauti per 23 ore e 52 minuti. I campioni sono giunti sulla Terra conservati a meno ottanta gradi Celsius, e hanno mantenuto questa temperatura fino all’arrivo ai laboratori di ricerca dell’Università della California a San Diego. Qui, dopo l’inventariazione, i campioni sono stati aperti e sottoposti a una duplice analisi: chimica, per identificare residui di sostanze utilizzate per l’igiene degli ambienti; e genomica, per caratterizzare e identificare i ceppi batterici presenti. Come gli esseri umani, anche i batteri possiedono infatti un codice genetico univoco. L’analisi dell’ordine dei mattoncini che lo compongono – le basi azotate – tramite il sequenziamento del Dna, fornisce ai ricercatori indizi sulla loro identità.
Il primo risultato delle indagini è venuto fuori dal confronto del microbioma della Iss con quello di ambienti terrestri. I ricercatori hanno scoperto che le comunità microbiche presenti erano meno diversificate rispetto alla maggior parte dei campioni prelevati sulla Terra. In particolare, le superfici erano prive di microbi ambientali liberi che si trovano di solito nel suolo e nell’acqua, con una composizione più simile ai campioni provenienti da ambienti industrializzati e isolati, come ospedali, habitat chiusi e case presenti in aree urbanizzate. I germi più rappresentati erano quelli che costituiscono il microbioma umano, ovvero l’insieme di microbi che popolano naturalmente – perché sì, che ci piaccia o no li abbiamo, ed è pure un bene – la nostra pelle.
Il secondo risultato delle analisi è che la diversità microbica nella Iss variava a seconda del modulo di provenienza del campione. Tale diversità, spiegano i ricercatori, non può dipendere da fattori ambientali condivisi tra moduli interconnessi, come pressioni parziali atmosferiche, temperatura ed esposizione alle radiazioni, ma è influenzata dallo specifico tipo di utilizzo che gli astronauti fanno del modulo. Ad esempio, le aree di ristorazione e preparazione del cibo contenevano più microbi associati agli alimenti, mentre la toilette conteneva più microbi associati alle attività di minzione e defecazione. Il terzo risultato, infine, quello che più di tutti ha sorpreso gli scienziati, è che ovunque erano presenti tracce di sostanze chimiche tipiche dei prodotti per l’igiene e la disinfezione.
«Abbiamo notato che l’abbondanza di disinfettante sulla superficie della Stazione spaziale internazionale è strettamente correlata alla diversità del microbioma in diversi ambienti», dice a questo proposito Nina Zhao, ricercatrice dell’Università della California a San Diego e co-autrice dello studio.
Alla luce di questi risultati, l’ipotesi dei ricercatori è che la perdita di diversità microbica sulla Iss possa essere associata all’eccessivo uso di disinfettanti e che questo sia a stretto giro correlato alle disfunzioni del sistema immunitario. Sempre più studi suggeriscono infatti che un’esposizione microbica diversificata può giovare alla salute umana, contribuendo alla produzione di un ventaglio di anticorpi che rendono le nostre difese immunitarie più forti. Per ovviare a questi problemi gli autori propongono due soluzioni, entrambe in grado di salvaguardare la salute degli astronauti senza sacrificare l’igiene.
Nel riquadro (A) è mostrata la configurazione del segmento orbitale statunitense della Iss. I moduli campionati in questo studio sono visualizzati a colori, mentre gli altri in grigio. Nel riquadro (B) sono visualizzati i grafici che mostrano il numero di campioni raccolti in ciascun modulo oggetto dello studio. Il riquadro (C) mostra il flusso di lavoro per l’analisi dei campioni. Il riquadro (D), infine, mostra la visualizzazione 3D del campionamento. Crediti: Rodolfo A. Salido et al., Cell, 2025
La prima soluzione consiste nel creare all’interno della Iss ambienti popolati da microbi che di solito si trovano in ambienti naturali, ad esempio i giardini.
«Invece di fare affidamento su spazi altamente sanificati, le future stazioni spaziali potrebbero trarre vantaggio dall’introduzione intenzionale di comunità microbiche che permettano di imitare l’esposizione naturale a germi che si sperimenta sulla Terra», dice a questo proposito Rodolfo Salido, ricercatore all’Università della California a San Diego e primo autore dello studio.
La seconda soluzione proposta è una sanificazione basata sull’utilizzo di probiotici (batteri “buoni”) anziché di sostanze chimiche, un metodo che consente di ridurre la contaminazione delle superfici da parte di germi patogeni sfruttando la competizione biologica tra questi batteri e microrganismi innocui per la salute.
«Se vogliamo davvero che la vita prosperi fuori dalla Terra, non possiamo semplicemente prendere un piccolo ramo dell’albero della vita, lanciarlo nello spazio e sperare che funzioni», continua Salido. «Dobbiamo iniziare a pensare a quali altri compagni utili dovremmo inviare con gli astronauti, per aiutarli a sviluppare ecosistemi che saranno sostenibili e benefici per tutti».
L’assenza di microbi ambientali terrestri, combinata con l’elevato uso di disinfettanti suggerisce che la Iss possa essere un ambiente non ottimale per supportare la funzione del sistema immunitario, concludono i ricercatori. Questo studio fornisce prove preziose circa il fatto che sulla Iss esiste un gradiente microbico e chimico collegato all’utilizzo dei vari moduli abitativi che a sua volta è connesso a vari rischi sulla salute, offrendo spunti che possono aiutare la progettazione delle future stazioni spaziali per missioni a lungo termine.
Per saperne di più:
- Leggi su Cell l’articolo “The International Space Station has a unique and extreme microbial and chemical environment driven by use patterns” di Rodolfo A. Salido, Haoqi Nina Zhao, Daniel McDonald, Helena Mannochio-Russo, Simone Zuffa, Renee E. Oles, Allegra T. Aron, Yasin El Abiead, Sawyer Farmer, Antonio González, Cameron Martino, Ipsita Mohanty, Ceth W. Parker, Lucas Patel, Paulo Wender Portal Gomes, Robin Schmid, Tara Schwartz, Jennifer Zhu, Michael R. Barratt, Kathleen H. Rubins, Hiutung Chu, Fathi Karouia, Kasthuri Venkateswaran, Pieter C. Dorrestein e Rob Knight
Integral, fine delle trasmissioni
Dopo più di 22 anni, non potremo più vedere l’universo attraverso gli occhi di Integral. Occhi molto speciali in grado di vedere le lunghezze d’onda energetiche dei raggi gamma, la cui vista dalla Terra è impedita dalla presenza dell’atmosfera. Occhi che ci hanno consentito di studiare fenomeni misteriosi come i gamma ray bursts, per comprendere che quelli “più lunghi”, che durano diversi secondi, potrebbero essere dovuti al collasso spontaneo di stelle massicce che diventano supernove, mentre quelli più brevi a buchi neri e stelle di neutroni che si scontrano tra loro. Non solo, il telescopio ha catturato il lampo gamma più luminoso mai osservato, avvenuto in una galassia distante quasi due miliardi di anni luce.
Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Integral dell’Esa. Il satellite ha un’altezza di circa 9 metri con pannelli solari larghi 15 metri, per un peso totale di 3600 kg. Crediti: Esa
«Veramente difficile da digerire, dopo trent’anni anni dall’approvazione da parte di Esa della realizzazione dell’Osservatorio spaziale Integral, che la missione verga terminata», commenta amareggiato a Media Inaf Pietro Ubertini, principal investigator dello strumento Ibis a bordo del satellite. «In realtà, dal momento che il telescopio ha da poco iniziato una nuova orbita, impiegherà tre giorni per arrivare all’apogeo a 153 mila chilometri dalla Terra (per poi tornare indietro) e continuerà a trasmettere dati scientifici fino all’ultimo. Poi, una volta raggiunto il punto più vicino alla terra entrerà in eclisse il 4 marzo e per sei ore sarà alimentato dalle batterie di bordo. Da quel momento non invierà più dati scientifici a terra. Dal punto di vista del satellite però non cambia molto, perché rimarrà attivo, ma cambierà tutto per la comunità scientifica mondiale delle alte energie. Tecnicamente il centro di controllo di Esoc [il centro controllo missioni dell’Agenzia spaziale europea a Darmstadt, in Germania, ndr] dovrà controllare che tutto funzioni come prima: per poter assicurare un rientro sicuro anche gli strumenti scientifici saranno operativi perché necessari al corretto bilancio termico. L’unica differenza sarà l’interruzione della trasmissione dei dati scientifici. Anche questo difficile da digerire. Per risparmiare meno dell’un per cento del costo della missione non riceveremo più dati definiti “outstanding”, di grande valore scientifico. Basti pensare che per l’ultimo anno di osservazioni l’Esa ha ricevuto da astrofisici di tutto il pianeta proposte scientifiche che richiedono quattro anni di osservazioni di Integral».
Integral era stato lanciato il 17 ottobre 2002 dal cosmodromo russo di Baikonur, in Kazakistan. Al momento del lancio era il più avanzato osservatorio di raggi gamma e il primo osservatorio spaziale in grado di vedere oggetti celesti contemporaneamente nei raggi gamma, nei raggi X e nella luce visibile. Il telescopio è – o forse dovremmo dire era – dotato di un campo visivo molto ampio che copre circa 900 gradi quadrati di cielo nei raggi X e gamma più energetici, ed è in grado di produrre, simultaneamente, immagini e spettri dettagliati alle energie più elevate, aiutandosi con camere a raggi X e ottiche per individuare le sorgenti di raggi gamma.
Pietro Ubertini (Inaf), principal investigator dello strumento Ibis a bordo di Integral, durante i test pre-lancio del satellite nella clean room al centro spaziale di Esa-Estec, in Olanda, nel dicembre 2001. A sinistra la maschera codificata di tungsteno utilizzata per ottenere le prime immagini in raggi gamma ad elevata risoluzione delle sorgenti cosmiche osservate. Crediti: Angela Bazzano
Ed è grazie a questo se il telescopio si è mostrato lo strumento giusto anche per svolgere osservazioni per le quali non era stato concepito. Fra tutte, la capacità di rintracciare le sorgenti nel cielo che hanno generato alcune delle onde gravitazionali e dei neutrini ad altissima energia catturati dagli strumenti specializzati a terra. Al momento del lancio di Integral non si era nemmeno sicuri che le onde gravitazionali potessero essere rilevate direttamente: la loro prima osservazione è stata effettuata 13 anni dopo, dai rilevatori di onde gravitazionali Ligo negli Stati Uniti, nel 2015. E nemmeno due anni più tardi Integral, insieme al satellite Fermi della Nasa, ha registrato un segnale in raggi gamma 1,7 secondi dopo l’arrivo delle onde gravitazionali dell’evento Gw 170817 – il primo, e a oggi unico, evento di astronomia multimessaggera di questo tipo.
Concludiamo quindi la Hall of fame di Integral con altre due targhette: recentemente il telescopio ha anche guidato intuizioni uniche su come le esplosioni termonucleari guidano i getti nelle stelle di neutroni e ha catturato la rarissima esplosione di una magnetar extragalattica, che ha emesso una quantità di energia pari a quella prodotta dal nostro Sole in mezzo milione di anni che ha addirittura perturbato l’alta ionosfera terrestre. In tutto il segnale registrato è durato meno di un secondo, sufficiente però per una scoperta pubblicata su Nature Communications.
«Dopo oltre 2886 orbite e 22 anni di osservazione delle profondità del nostro cosmo, oggi i sensibili strumenti di Integral smettono di raccogliere dati scientifici. Ma l’eredità dell’osservatorio di raggi gamma dell’Esa servirà agli scienziati per molti anni ancora», conclude Matthias Ehle, mission manager di Integral all’Esa. «La ricchezza di dati raccolti in due decenni sarà conservata nell’Integral Science Legacy Archive. Sarà essenziale per la ricerca futura e per ispirare una nuova generazione di astronomi e ingegneri a sviluppare nuove entusiasmanti missioni».
A questo punto, una domanda doverosa per la fine di una missione spaziale. Che fine farà Integral, ora che non trasmette più dati scientifici? Quando il telescopio è stato lanciato, nel 2002, l’Agenzia spaziale europea non prevedeva alcuna procedura di deorbiting dei suoi satelliti per evitare che questi, una volta dismessi, diventassero spazzatura spaziale. Nel 2015 però, il team dell’Agenzia spaziale europea che controllava il volo di Integral si rese conto che eseguendo una manovra specifica per modificare l’orbita si sarebbe potuto evitare che il telescopio rimanesse, al suo spegnimento, un detrito spaziale per i secoli a venire. Una manovra che, inaspettatamente, complicò la vita del telescopio, ma che garantirà il naturale rientro di Integral nell’atmosfera terrestre nel 2029, fra quattro anni.
Come mai questa manovra complicò la vita del telescopio? Se avete ascoltato la puntata di Houston (il podcast di Media Inaf) “Tre ore per salvare Integral” già lo sapete: a causa del propellente impiegato per modificarne l’orbita durante quella manovra – e in seguito a un problema avvenuto a maggio 2020 – da quasi cinque anni il telescopio spaziale vola senza propulsori, capovolgendosi regolarmente per scaricare le ruote di reazione e mantenere la stabilità operativa. Una procedura mai pensata prima al centro di controllo dell’Esa a Darmstadt, che ha trovato un ottimo compromesso con le osservazioni e che ha impedito la sua prematura fine e altri quattro anni e mezzo di osservazioni.
Se volete saperne di più su questa vicenda, potete ascoltare la puntata del podcast sul canale Youtube MediaInaf Tv al link qui sotto oppure su Spotify o Apple podcast.
Lunar Trailblazer è in volo verso il nostro satellite
È partita all’una e 16 ora italiana di ieri notte, fra mercoledì 26 e giovedì 27 febbraio, la sonda Lunar Trailblazer della Nasa, decollata a bordo di un Falcon 9 di SpaceX dal Kennedy Space Center, in Florida. Selezionata nel 2019 come tassello del programma Small Innovative Missions for Planetary Exploration con l’obiettivo di mappare le fonti di acqua presenti sul suolo lunare, per volare verso il nostro satellite Lunar Trailblazer ha chiesto un “passaggio” alla missione Intuitive Machines Im-2, il cui lander Athena approderà sulla superficie della Luna non prima del 6 marzo, trasportando tecnologie innovative fondamentali per comprendere in maniera più accurata l’ambiente lunare.
Lunar Trailblazer ha una massa di circa 200 kg e un’ampiezza – a pannelli solari totalmente dispiegati – di 3.5 metri. Per raggiungere la sua orbita finale, la sonda sfrutterà i campi gravitazionali del Sole, della Terra e della Luna, seguendo una cosiddetta traiettoria di trasferimento a bassa energia. Per ben 12 volte al giorno la sonda invierà dati sulla composizione della Luna ed esaminerà, in particolare, i crateri situati in corrispondenza del Polo Sud, che potrebbero contenere fino a 600 milioni di tonnellate di acqua allo stato solido, ossia ghiaccio.
Infografica in inglese della campagna di raccolta dati del Lunar Trailblazer (cliccare per ingrandire). Crediti: Filo Merid for Lunar Trailblazer (Pcc/Caltech)
Tra i principali strumenti presenti nella navicella vi è il Lunar Thermal Mapper (Ltm), realizzato da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di fisica dell’università di Oxford. La sua funzione consiste nella misurazione della temperatura superficiale e nell’analisi dei minerali che danno al corpo celeste il suo tipico aspetto. I dati raccolti saranno estremamente utili per confermare la presenza di acqua sul satellite e per definire le specifiche posizioni in cui sarà individuata. La struttura dell’Ltm si basa su quattro canali a banda larga che lavorano nell’infrarosso, adatti per la determinazione della temperatura del suolo lunare, mentre altri undici canali cattureranno le più piccole variazioni nella composizione dei silicati che costituiscono le rocce. Questi fattori possono largamente influenzare l’abbondanza di acqua in ogni specifica regione.
Il Lunar Thermal Mapper produrrà inoltre una scansione delle aree mappate, realizzando immagini utili per caratterizzare la temperatura superficiale. Contemporaneamente, al suo fianco lavorerà anche un altro strumento, l’High-Resolution Volatiles and Minerals Moon Mapper (Hvm3) della Nasa: il suo compito sarà segnalare le impronte spettrali, cioè le lunghezze d’onda della luce solare riflessa, delle differenti forme di acqua situate sulla superficie della Luna. I due strumenti procederanno dunque all’unisono, perseguendo l’obiettivo di determinare il ciclo dell’acqua sul satellite.
Uno degli obiettivi di Trailblazer è lo studio della variabilità temporale di alcune sostanze volatili lunari. Crediti: Caltech
Come se non bastasse, i risultati della missione IM-2 porteranno notevoli vantaggi in molti ambiti di ricerca. I percorsi tracciati potranno essere seguiti in future esplorazioni da parte di rover.
Il viaggio di Lunar Trailblazer e, più in generale, l’intera missione Im-2 rappresentano un passo in avanti per gli studi che verranno in relazione al possibile impiego delle fonti di acqua lunare. Risorse idriche che potrebbero essere adoperate nei modi più svariati: da una potenziale purificazione per renderle potabili ad una trasformazione in carburante od ossigeno, magari in previsione di sbarchi umani sul corpo celeste.
«Il Lunar Thermal Mapper è stato progettato, costruito e testato qui a Oxford», dice Neil Bowles dell’Università di Oxford, instrument scientist di Ltm. «Le misurazioni della temperatura aiuteranno a confermare la presenza del segnale dell’acqua nei dati di Hvm3 e i due strumenti lavoreranno insieme per mappare la composizione della Luna, mostrandoci dettagli che in precedenza erano stati solo accennati».
Guarda su MediaInaf Tv il servizio video sul lancio della missione Im-2:
Al via le celebrazioni per l’Anno cassiniano
Giovanni Domenico Cassini (17esimo secolo, olio su tela, Museo di Palazzo Poggi-Università di Bologna). Crediti: Università di Bologna
L’8 giugno 1625 nasceva Giovanni Domenico Cassini. Il Cassini della divisione degli anelli di Saturno. Quello della sonda Cassini-Huygens, lanciata nel 1997 per studiare Saturno e le sue lune, che ci ha regalato immagini mozzafiato e il celebre ultimo “tuffo”.
Per celebrare il 400esimo anniversario della nascita dello scienziato, oggi si apre l’Anno cassiniano e Media Inaf per l’occasione ha intervistato Francesco Poppi, astrofisico dell’Inaf di Bologna ed esperto di ricerca storica, con particolare attenzione alla storia dell’astronomia e dell’astrofisica italiana dell’Ottocento, e la valorizzazione del patrimonio storico-culturale.
Poppi, prima di entrare nel dettaglio del personaggio storico, può dire ai nostri lettori cosa avete in programma per il 400esino anniversario della nascita di Cassini?
«L’Anno cassiniano sarà l’occasione per celebrare e riscoprire l’importanza di Giovanni Domenico Cassini attraverso varie attività rivolte a studenti, studiosi e largo pubblico nei principali luoghi cassiniani: Bologna, Perinaldo (in provincia di Imperia, dove nacque), Genova, Roma – dove Cassini si recava per le sue frequentazioni, in particolare con la Regina Cristina di Svezia – e Loiano (in provincia di Bologna), dove il telescopio più grande è intitolato a proprio a lui. Le celebrazioni sono promosse dal Comitato nazionale istituito dal Ministero della Cultura e sostenute dall’Inaf (sedi di Bologna e Roma), dall’Università di Bologna (Difa e Accademia delle Scienze) e dal Comune di Perinaldo, col patrocinio della Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, Comune di Loiano e Università di Genova. Prevedono eventi aperti alla cittadinanza, tra cui l’osservazione del passaggio del Sole al solstizio sulla Meridiana di San Petronio a Bologna e sulla Meridiana della Visitazione a Perinaldo, conferenze pubbliche e spettacoli sul territorio nazionale dedicati alle tematiche astronomiche affrontate da Cassini, e un congresso storico-scientifico sulla figura di Cassini che si svolgerà a Bologna nei giorni 18-20 giugno 2025. In particolare, questo pomeriggio si terrà a Bologna una conferenza pubblica presso la Sala Ulisse dell’Accademia delle scienze, che sarà possibile seguire anche da remoto, in diretta streaming».
Perché Cassini è considerato una figura così importante nella storia dell’astronomia?
«Giovanni Domenico Cassini nacque l’8 giugno 1625 a Perinaldo (oggi in provincia di Imperia) e aveva appena compiuto otto anni quando Galileo fu costretto a pronunciare l’abiura del copernicanesimo. Cassini si trovò immerso nell’astronomia post-galileiana, ed anzi ne fu uno dei maggiori artefici. I suoi contributi alla comprensione del Sistema solare – che costituiva di fatto l’intero universo per la sua epoca – sono universalmente riconosciuti in Italia e all’estero. Ma Cassini non è stato solo questo. Egli ha partecipato appieno al fermento scientifico che ha caratterizzato il XVII secolo, diventando uno degli attori principali di un nuovo fenomeno, quello della nascita delle Accademie, luoghi di incontro, scambio e crescita per coloro che si occupavano di scienza. Va ricordato che Cassini fu chiamato dal ministro Jean-Baptiste Colbert alla corte di Luigi XIV nel 1669 per dirigere il completamento della costruzione dell’Observatoire de Paris, primo osservatorio astronomico moderno, dove si fermò fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1712, e dove diede origine ad una dinastia di astronomi fino alla quarta generazione».
Quale fu il suo ruolo all’Università di Bologna e come contribuì alla crescita della scuola astronomica bolognese?
«Cassini, dopo aver compiuto i suoi studi presso il Collegio dei Gesuiti di Genova ed essendosi distinto in particolare nell’astronomia, fu invitato dal marchese Malvasia, membro del Senato di Bologna, a occuparsi del suo osservatorio privato di Panzano, oggi in provincia di Modena. Nel 1650 gli fu affidata la cattedra di Astronomia all’Università di Bologna. Nel periodo bolognese, durato quasi vent’anni e terminato col trasferimento a Parigi, Cassini avviò i suoi studi sui corpi del Sistema solare. Si dedicò all’osservazione delle comete e alla previsione del loro moto, aprendo la strada ai lavori di Halley sulle orbite cometarie. Grazie anche ai telescopi di Giuseppe Campani, uno dei migliori ottici dell’epoca, scoprì la macchia rossa di Giove ed alcune macchie sulla superficie di Marte che gli consentirono di calcolare con buona precisione il periodo di rotazione dei due pianeti. Ma i lavori che contribuirono enormemente alla sua fama sono principalmente due».
Linea della meridiana di Cassini, all’interno della basilica di San Petronio, a Bologna
Quali sono questi due lavori?
«Ricordiamo che siamo in piena epoca post-galileiana e la discussione verteva innanzitutto su quale dei due sistemi del mondo fosse quello reale: quello geocentrico, o quello eliocentrico. Per dare una risposta a questa domanda era necessario migliorare la precisione nella conoscenza del moto apparente del Sole e dei pianeti. In particolare era nota una variazione del moto solare, che non è costante nei diversi periodi dell’anno. Si trattava di verificare se tale variazione fosse reale, come previsto dalla seconda legge di Keplero avvalorando il sistema eliocentrico, oppure solo apparente e dovuta alla diversa distanza Terra-Sole durante l’anno, prevista in modo più marcato nei sistemi geocentrici. A tale scopo nel 1655 Cassini realizzò la meridiana di San Petronio come un vero strumento astronomico, che egli chiamava “eliometro”. La grandezza e precisione dello strumento consentirono a Cassini di compiere un accurato confronto tra la variazione del diametro del Sole proiettato e la variazione della velocità del moto durante l’anno, dimostrando che la variazione della velocità è reale e non solo apparente e fornendo così la prima prova sperimentale della seconda legge di Keplero. Inoltre, uno degli scopi della meridiana di San Petronio era anche la verifica della bontà della riforma del calendario introdotta nel 1582 da papa Gregorio XIII. Dello scopo scientifico abbiamo già detto in precedenza».
E il secondo lavoro?
«Come abbiamo visto, Cassini era interessato a migliorare la precisione nella misura dei moti dei corpi del Sistema solare. Questo lo portò a realizzare nel 1668 le effemeridi dei satelliti medicei, di gran lunga le più precise disponibili all’epoca, che offrirono una soluzione all’annoso problema del calcolo della longitudine terrestre. Inoltre, esse furono utilizzate con successo in altre importanti attività e scoperte, come la misura della distanza Terra-Marte, che lo stesso Cassini eseguì insieme al suo assistente Jean Richier in occasione dell’opposizione del pianeta del 1672, e la verifica della velocità finita della luce ad opera di Ole Roemer nel 1675. Anche dopo il suo trasferimento a Parigi, Cassini continuò ad avere contatti con l’area bolognese. Si pensi che il suo nome continuò a essere scritto nei registri dei professori fino all’anno della morte, a dimostrazione del fatto che il Senato accademico auspicava un suo rientro a Bologna. In realtà solo nel 1695 Cassini fece un breve ritorno a Bologna insieme al figlio Jacques per restaurare la meridiana di San Petronio. Attraverso i contatti con Luigi Ferdinando Marsili e gli astronomi Eustachio Manfredi e Vittorio Stancari, Cassini ha poi contribuito a porre le basi per la fondazione dell’Accademia delle scienze di Bologna e dell’Osservatorio astronomico, oggi Museo della Specola».
Cassini, G.D., Guglielmini, D.: “La Meridiana del Tempio di S. Petronio. Tirata e preparata per le Osservazioni astronomiche l’anno 1655. Rivista e restaurata l’anno 1695″, Bologna, 1695
In che modo il suo lavoro a Bologna lo portò a essere chiamato in Francia da Luigi XIV?
«Furono proprio le Ephemerides Bononienses mediceorum siderum del 1668, le tavole dei moti e delle occultazioni dei satelliti di Giove, così precise e fondamentali per il calcolo della longitudine e dunque per la scrittura delle mappe e dei confini dei territori, che resero Cassini così importante agli occhi di Luigi XIV. A Parigi, Cassini sposò il programma di astronomia applicata alla geografia e alla cartografia base dell’attività dell’Académie des Sciences e negli anni si adoperò per creare una rete di osservatori astronomici europei collegati con l’Observatoire de Paris. Per quanto riguarda l’osservazione planetaria, negli anni parigini Cassini scoprì la divisione degli anelli di Saturno e i quattro satelliti Giapeto, Rea, Dione, Teti. Ricordiamo che i lavori di Cassini sullo studio del sistema di Saturno hanno portato le grandi agenzie spaziali Nasa ed Esa, assieme all’Agenzia spaziale italiana, a denominare “Cassini-Huygens” la missione che tra il 1997 e il 2017 ha esplorato da vicino il pianeta e il suo satellite maggiore, Titano. Inoltre, Cassini realizzò una mappa dettagliata della Luna e studiò le anomalie del moto lunare. E ancora, scoprì la causa della luce zodiacale come effetto di riflessione e diffusione della luce solare sulle polveri interplanetarie presenti sul piano dell’ecclittica».
Francesco Poppi è primo tecnologo all’Inaf di Bologna e si occupa di ricerca storica, con particolare attenzione alla storia dell’astronomia e dell’astrofisica italiana dell’Ottocento, e la valorizzazione del patrimonio storico-culturale. Dal 2020 al 2023 è stato curatore del Museo astronomico e copernicano dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Roma
Ci sono ancora oggi tracce del suo lavoro a Bologna che possiamo vedere o visitare, oltre alla meridiana?
«Naturalmente l’eredità più evidente che Cassini ha lasciato a Bologna è la meridiana di San Petronio, ancora la più lunga al mondo che consente di seguire interamente il moto del Sole dal solstizio d’estate a quello invernale, ed è meta di numerosi turisti tutto l’anno. Presso il museo di San Petronio è poi possibile vedere alcuni degli strumenti originali ideati da Cassini per la costruzione della meridiana. Sempre in San Petronio, in alto all’interno del finestrone sul portale d’ingresso è presente un traguardo che Cassini utilizzava per misurare l’altezza della stella polare. Nel museo di Palazzo Poggi nella sezione di fisica e possibile vedere alcune lenti e il prezioso laboratorio di ottica di Giuseppe Campani, che ricordiamo fu uno dei migliori costruttori di telescopi del Seicento, probabilmente i preferiti da Cassini tanto che pretese ne fosse dotato anche l’Osservatorio di Parigi. Sempre presso il museo di Palazzo Poggi esiste un ritratto, olio su tela, XVII secolo, di Giovanni Domenico Cassini».
Cassini applicò le sue conoscenze scientifiche in altri ambiti oltre l’astronomia?
«Sì, come comunemente capitava in passato, l’astronomo doveva occuparsi anche di attività pratiche legate al territorio, oltre alla cartografia. Cassini era ingegnere idraulico del pontefice e dunque era chiamato a sovrintendere la gestione delle acque. Inoltre in ambito militare si occupava di fortificazioni. Inoltre, eseguì esperimenti di trasfusione del sangue e si occupò di osservazioni di insetti».
Per saperne di più sugli eventi in programma:
Il programma delle iniziative per l’Anno cassiniano è consultabile sul sito web dedicato.
L’Anno cassiniano si apre oggi, giovedì 27 febbraio con la conferenza pubblica che si terrà alle 16 presso la Sala Ulisse dell’Accademia delle Scienze, a Bologna in via Zamboni 31, dal titolo “La misura del mondo: da Cassini ai tempi moderni”, di Bruno Marano (Università di Bologna e Accademia delle scienze di Bologna) e Sandro Bardelli (Istituto nazionale di astrofisica). Sarà possibile seguire l’evento in streaming a questo link.
A questa seguirà una seconda conferenza, il 7 marzo alle 18, presso la Piazza coperta di Salaborsa, Piazza Nettuno 3, Bologna, dal titolo «Une déclaration d’amour»: la mappa lunare di Cassini”, di Fabrizio Bònoli (Università di Bologna) e Agnese Mandrino (Istituto nazionale di astrofisica).
Punch, tutto il Sole in uno sguardo
La Terra è costantemente investita da un flusso di particelle cariche proveniente dal Sole, noto come vento solare. Questo fenomeno influisce non solo sul nostro pianeta, ma anche sui satelliti in orbita, sugli astronauti nello spazio e sulle infrastrutture a terra. La missione Punch (Polarimeter to Unify the Corona and Heliosphere) della Nasa sarà la prima a osservare simultaneamente la corona solare e il vento solare, offrendo una visione integrata del Sole, del vento solare e della loro interazione con la Terra.
Questa animazione mostra l’eliosfera, la vasta bolla generata dal campo magnetico del Sole che avvolge tutti i pianeti. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab
La missione Punch sarà lanciata a bordo di un razzo Falcon 9 di SpaceX dalla base spaziale di Vandenberg in California. Fornirà nuove informazioni sulla formazione e l’evoluzione degli eventi solari potenzialmente dirompenti, e questo potrebbe migliorare la capacità di prevedere con maggiore precisione l’arrivo di eventi meteorologici spaziali sulla Terra. È programmata per condurre attività scientifiche per almeno due anni, dopo un periodo di messa in servizio di 90 giorni dal lancio.
I quattro satelliti della missione Punch, ciascuno delle dimensioni di una valigia, avranno campi di vista sovrapposti che si combinano per coprire una porzione di cielo più ampia rispetto a qualsiasi missione precedente dedicata allo studio della corona e del vento solare. Distribuiti nell’orbita terrestre bassa, forniranno una visione globale della corona solare e della sua transizione verso il vento solare, tracciando sia le tempeste solari che le espulsioni di massa coronale (Cme). Grazie alla loro orbita sincrona con il Sole, potranno osservarlo ininterrottamente 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con il campo visivo solo occasionalmente ostruito dalla Terra.
I campi di vista dei quattro satelliti della missione Punch. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center
Le immagini tipiche delle telecamere sono bidimensionali e comprimono il soggetto 3D in un’immagine 2D, perdendo informazioni, ma Punch sfrutterà la polarizzazione della luce per ricostruire le immagini in 3D. Quando la luce del Sole viene riflessa sulla materia di cui è composta la corona e il vento solare, si polarizza e ogni satellite è dotato di un polarimetro che utilizza tre distinti filtri polarizzatori per catturare informazioni sulla direzione in cui si muove il materiale che andrebbero altrimenti perse.
«Questa nuova prospettiva permetterà agli scienziati di individuare l’esatta traiettoria e la velocità delle espulsioni di massa coronale mentre si muovono attraverso il Sistema solare interno», afferma Craig DeForest, principal investigator di Punch al Southwest Research Institute’s Solar System Science and Exploration Division a Boulder, in Colorado. «Questo costituisce un miglioramento rispetto agli strumenti attuali per due motivi: le immagini tridimensionali ci permettono di localizzare e seguire le Cme che vengono direttamente verso di noi, e l’ampio campo di vista ci permette di seguire queste Cme lungo tutto il percorso dal Sole alla Terra».
Tutti e quattro i veicoli spaziali sono sincronizzati per servire come un unico “strumento virtuale” che copre l’intera costellazione Punch. I satelliti Punch comprendono un Narrow Field Imager e tre Wide Field Imager. Il Narrow Field Imager (Nfi) è un coronografo che blocca la luce del Sole per vedere meglio i dettagli della corona solare, ricreando ciò che sulla Terra si osserva durante un’eclissi totale di Sole. I Wide Field Imagers (Wfi) sono immagini eliosferiche che visualizzano la porzione molto debole e più esterna della corona solare e il vento solare stesso, offrendo un’ampia visione del vento mentre si diffonde nel Sistema solare.
Rappresentazione artistica dei quattro satelliti della missione Punch, in orbita terrestre bassa. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center
Quando queste strutture del vento solare raggiungono il campo magnetico terrestre, possono provocare dinamiche che influenzano le cinture di radiazioni della Terra. Per lanciare i veicoli spaziali attraverso queste fasce, compresi quelli che porteranno gli astronauti sulla Luna e oltre, gli scienziati devono comprendere la struttura del vento solare e i cambiamenti in questa regione.
«La missione Punch è costruita sulle spalle di giganti», dichiara Madhulika Guhathakurta, scienziato della Nasa. «Per decenni, le missioni eliofisiche ci hanno fornito scorci della corona del Sole e del vento solare, offrendo una visione fondamentale ma parziale dell’influenza della nostra stella sul Sistema solare».
Quando gli scienziati combineranno i dati di Punch e della sonda Parker Solar Probe della Nasa, che vola attraverso la corona del Sole, vedranno sia il quadro generale che i dettagli ravvicinati. Lavorando insieme, Parker Solar Probe e Punch copriranno un campo visivo che va da poco più di un chilometro a oltre 260 milioni di chilometri.
Mercoledì 22 gennaio 2025, presso la Astrotech Space Operations, nella base spaziale di Vandenberg, in California, sono stati effettuati ulteriori test per il dispiegamento del campo solare dei satelliti Punch (Polarimeter to Unify the Corona and Heliosphere) della Nasa. Crediti: Ussf 30° Stormo Spaziale/Alex Valdez
Inoltre, il team Punch combinerà i propri dati con diverse osservazioni provenienti da altre missioni, come Codex (Coronal Diagnostic Experiment) della Nasa, che studia la corona dal suo punto di osservazione privilegiato, sulla Stazione spaziale internazionale. I dati di Punch andranno a integrare anche le osservazioni di Ezie (Electrojet Zeeman Imaging Explorer) della Nasa – il cui lancio è previsto per marzo 2025 – che studierà le perturbazioni del campo magnetico associate alle aurore terrestri ad alta quota, che Punch individuerà nel suo ampio campo di vista. Infine, quando il vento solare che Punch osserverà si allontanerà dal Sole e dalla Terra, sarà studiato dalla missione Imap (Interstellar Mapping and Acceleration Probe), il cui lancio è previsto per il 2025.
«La missione Punch farà da ponte tra queste prospettive, fornendo una visione continua senza precedenti che collega il luogo di nascita del vento solare nella corona alla sua evoluzione nello spazio interplanetario», conclude Guhathakurta.
Al Cern, un nuovo magnete a forma di fusillo
Si chiama proprio come uno dei formati di pasta più classici, Fusillo, il nuovo prototipo magnete superconduttore in via di sviluppo al Cern. Un concetto di forma sviluppato per adeguarsi a futuri acceleratori di particelle compatti, come il nuovo anello di accumulazione per l’esperimento Isolde del Cern, ma che ha già trovato un possibile impiego anche in campo medico, ad esempio nella terapia adronica per il trattamento del cancro.
Nell’immagine, il tecnico meccanico del Cern Frédéric Garnier controlla il processo di inserimento del former interno nel former esterno. Sono visibili le scanalature nella struttura esterna del magnete Fusillo, in cui è stato successivamente inserito il cavo. Crediti: M. Struik/Cern
La base del progetto di Fusillo è costituita da un cavo avvolto in due bobine annidate. Le bobine sono inclinate seguendo le scanalature del cosiddetto “former”, una sorta di stampo che potete vedere nell’immagine a destra. La bobina interna è inclinata in direzione opposta rispetto a quella esterna e insieme producono un dipolo all’interno del tubo. Si tratta di un nuovo approccio alla creazione di un campo di dipolo, testato per la prima volta con questo prototipo. Sebbene l’idea di base esista da molti decenni, la potenza di calcolo necessaria per la sua progettazione è stata disponibile solo negli ultimi anni. Per produrre un magnete che possa essere alimentato da una bassa corrente, il team del Cern guidato da Ariel Haziot ha deciso di attorcigliare più fili isolati in una specie di corda che viene poi avvolta intorno al former. I singoli fili sono collegati in modo da permettere alla corrente di fare molti giri intorno alle bobine, creando un elettromagnete con una forza utilizzabile elevata (3 tesla al centro), ma che richiede una quantità relativamente piccola di corrente (300 ampere).
Il concetto di Canted-Cosine-Theta – Cct, un magnete acceleratore che sovrappone campi di solenoidi annidati e inclinati in modo opposto – è un concetto che risale agli anni ’60 ed è in fase di sviluppo al Cern dal 2014. Il progetto di costruzione del dimostratore Cct curvo Fusillo ha già richiesto circa due anni e mezzo. La fase di costruzione sta per concludersi e i primi test su scala reale di questo nuovo magnete sono previsti per aprile. Dopo diverse valutazioni in scala ridotta, infatti, questi test confronteranno il comportamento del magnete con i risultati delle simulazioni e determineranno le fasi successive del processo di sviluppo. Come dicevamo, si prevede che i magneti come Fusillo saranno utilizzati nel nuovo anello di accumulazione (in inglese storage ring) per Hie-Isolde entro circa cinque anni e potrebbero poi essere ulteriormente sviluppati per altre applicazioni, tra cui la terapia adronica – o adroterapia.
L’adroterapia è un tipo di radioterapia che utilizza fasci di protoni o ioni leggeri per irradiare il tessuto canceroso. Rispetto ai raggi X, che utilizzano fasci di luce, i fasci di ioni rilasciano meno energia lungo il loro percorso e più energia in un punto specifico. Ciò provoca meno danni da radiazioni ai tessuti sani che circondano il tumore e consente di somministrare in modo sicuro un dosaggio più elevato, con conseguente distruzione più rapida del tumore. La riduzione dei danni ai tessuti circostanti comporta anche un tasso di tossicità inferiore, il che significa che il paziente si sentirà meglio durante e dopo il trattamento. Negli ultimi decenni, in tutto il mondo sono state costruite oltre cento strutture per la terapia adronica. Tuttavia, pochi centri medici hanno i mezzi per acquistare le macchine per questo trattamento, poiché i magneti necessari sono costosi e in genere richiedono risorse come correnti elevate e raffreddamento con elio. Finora la terapia adronica è offerta solo in alcuni paesi europei e asiatici e negli Stati Uniti, mentre non ne esistono in Africa e c’è solo un centro in costruzione in Sud America. Con il magnete Fusillo, il trattamento potrebbe diventare in futuro più accessibile: la nuova tecnologia richiede infatti una corrente molto più bassa, ha un costo relativamente contenuto ed è anche più compatta, grazie a un design semplificato che richiede meno componenti rispetto ad altri magneti. Si prevede inoltre che Fusillo possa essere raffreddato più facilmente “a secco”, senza utilizzare elio liquido, a differenza di molti altri magneti superconduttori.
Eppur si muovono, ruotando: le galassie di Lewis
Nuovi dettagli sulle galassie ultra diffuse (Udg, dall’inglese ultra diffuse galaxies) sono stati svelati grazie a due studi pubblicati questo mese sulla rivista Astronomy & Astrophysics. I lavori, realizzati con un contributo fondamentale di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica, hanno mappato per la prima volta la cinematica stellare di circa trenta Udg nell’ammasso galattico dell’Idra, distante oltre 160 milioni di anni luce da noi.
La scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie potrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione della loro storia di formazione ed evoluzione. Questo studio è stato reso possibile grazie al progetto internazionale Lewis (Looking into the faintest with Muse), guidato Enrichetta Iodice, ricercatrice all’Inaf, che ha utilizzato il potente spettrografo a campo integrale Muse, installato al Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, in Cile.
Immagine delle galassie Ngc 3314 e Udg 32 acquisite con la OmegaCam installata al telescopio Vst. Crediti: Eso, Inaf/E. Iodice
Le galassie ultra diffuse, scoperte di recente grazie ai progressi tecnologici in astronomia, sono galassie poco luminose ma molto estese e di bassa luminosità. Identificate per la prima volta in grandi quantità nel 2015, la loro natura e il loro processo di formazione sono ancora oggetto di intensa ricerca. Le nuove analisi spettroscopiche con il progetto Lewis hanno rivelato che queste galassie si trovano in ambienti estremamente variabili, mostrando una sorprendente varietà nelle loro proprietà fisiche, come la cinematica delle stelle che le compongono e la quantità di materia oscura presente.
Uno dei risultati più significativi e inaspettati del progetto Lewis è l’identificazione di diverse classi cinematiche di Udg nell’ammasso dell’Idra. Quasi la metà delle galassie esaminate mostra segni evidenti di rotazione nelle stelle che le compongono. Una scoperta che contrasta con una convinzione precedente, secondo cui queste galassie non dovrebbero mostrare questo tipo di moti. Questo risultato potrebbe essere fondamentale per comprendere meglio la struttura di queste galassie e il loro legame con la materia oscura.
«I risultati che abbiamo ottenuto hanno avuto una duplice soddisfazione», dice Chiara Buttitta, ricercatrice postdoc all’Inaf e prima autrice di uno dei due articoli pubblicati su Astronomy & Astrophysics. «Non solo siamo stati in grado di ricavare i moti stellari in queste galassie estremamente deboli, ma abbiamo trovato qualcosa che non ci aspettavamo di osservare».
Rappresentazione di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/Inaf
Le osservazioni hanno permesso in particolare di realizzare un’analisi dettagliata di Udg 32, una galassia ultra diffusa che è stata scoperta all’estremità dei filamenti della galassia a spirale Ngc 3314A. La galassia Udg 32 è appena visibile, ed appare come una debole macchia giallastra nelle immagini. Una delle possibili origini proposte per le Udg è la formazione da nubi di gas nei filamenti di galassie come Ngc 3314A. Questa è rimasta solo un’ipotesi fino a quando è stata scoperta Udg 32. In particolare, una nube di gas presente nei filamenti, se raggiunge la densità critica, sotto l’azione della forza gravitazionale può collassare e formare stelle, diventando un nuovo sistema originatosi dal materiale rilasciato dalla galassia madre. L’analisi dei dati Lewis ha confermato che Udg 32 è associata alla coda di filamenti della galassia Ngc 3314A: quindi non è solo un effetto di proiezione che localizza casualmente Udg 32 nella coda di Ngc 3314A. Inoltre, i nuovi dati hanno mostrato che Udg G32 è caratterizzata da una popolazione stellare ricca di metalli e di età intermedia, più giovane delle altre Udg osservate nell’ammasso dell’Idra, consistente con l’ipotesi che questa galassia potrebbe essersi formata da materiale pre-arricchito nel gruppo sud-est dell’ammasso dell’Idra e quindi liberato da una galassia più massiccia.
Lewis è il primo grande progetto dell’Eso, guidato da Inaf, interamente dedicato allo studio delle Udg. Questo programma ha raddoppiato il numero di galassie ultra diffuse analizzate spettroscopicamente, fornendo per la prima volta una visione globale delle loro proprietà all’interno di un ammasso di galassie ancora in fase di formazione.
«Il progetto Lewis è stata una sfida. Quando questo programma è stato accettato dall’Eso abbiamo realizzato che fosse una miniera di dati da esplorare. E tale si è rivelato», dice Iodice. «La forza di Lewis, grazie alla spettroscopia integrale dello strumento usato, risiede nel poter studiare contemporaneamente, per ogni singola galassia, non solo i moti delle stelle, ma anche la popolazione stellare media e, quindi, avere indicazioni sull’età di formazione e le proprietà degli ammassi globulari, traccianti fondamentali anche per il contenuto di materia oscura. Mettendo insieme i singoli risultati, come in un puzzle, si ricostruisce la storia di formazione di questi sistemi».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra-I cluster II. Stellar kinematics and dynamical masses”, di Chiara Buttitta, Enrichetta Iodice, Goran Doll, Johanna Hartke, Michael Hilker, Duncan A. Forbes, Enrico M. Corsini, Luca Rossi, Magda Arnaboldi, Michele Cantiello, Giuseppe D’Ago, Jesus Falcon-Barroso, Marco Gullieuszik, Antonio La Marca, Steffen Mieske, Marco Mirabile, Maurizio Paolillo, Marina Rejkuba, Marilena Spavone, Chiara Spiniello e Marc Sarzi
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra I cluster III. Untangling UDG 32 from the stripped filaments of NGC 3314A with multi-wavelength data”, di J. Hartke, E. Iodice, M. Gullieuszik, M. Mirabile, C. Buttitta, G. Doll, G. D’Ago, C. C. de la Casa, K. M. Hess, R. Kotulla, B. Poggianti, M. Arnaboldi, M. Cantiello, E. M. Corsini, J. Falcón-Barroso, D. A. Forbes, M. Hilker, S. Mieske, M. Rejkuba, M. Spavone e C. Spiniello
Rosso Gilera, Rosso Guzzi, Rosso Marte
Si fa presto a dire “Pianeta rosso”. Ma quale rosso? Così come nel celebre dittico di Alighiero Boetti dall’accostamento fra Rosso Gilera e Rosso Guzzi sembra trapelare tutta la differenza di sfumature fra le due case motociclistiche, l’approfondita analisi cromatica della nuance rugginosa di Marte pubblicata oggi su Nature Communications apre scorci preziosi sull’umido passato del pianeta.
This is your last weekend to catch @ngadc‘s “The Double: Identity and Difference in Art since 1900″—featuring 90 artists, including four visionaries. Plan your visit: t.co/vDbKXQgu7NAlighiero Boetti, Rosso Gilera 60 1232 / Rosso Guzzi 60 1305 pic.twitter.com/nY5mEgziYu
— Italy in US (@ItalyinUS) October 28, 2022
Marte ha un aspetto che tende al rossastro, lo sappiamo, basta osservarlo anche solo a occhio nudo nel cielo notturno per rendersene conto. E grazie ai tanti satelliti e rover che da decenni ci hanno consentito di studiarlo da vicino sappiamo anche a cos’è dovuta, questa sua colorazione: ai minerali di ferro arrugginiti presenti nella polvere che ne copre la superficie. Arrugginiti a seguito della reazione tra il ferro e l’acqua allo stato liquido, o l’acqua e l’ossigeno in atmosfera, in modo simile a quello che porta alla formazione di ruggine qui sulla Terra. Nel corso di miliardi di anni questo materiale arrugginito è poi stato ridotto in polvere e diffuso su tutto il pianeta dai venti – un processo che continua ancora oggi.
Quest’infografica illustra come Marte si sia trasformato da pianeta grigio e umido a pianeta rosso e polveroso. Da sinistra a destra vediamo la rappresentazione di quattro fasi. Anzitutto il ferro presente nelle rocce reagisce con l’ossigeno e l’acqua e produce la ruggine. Ruggine trasportata nei fiumi, nei laghi, nei mari e incorporata nelle rocce sottostanti. Il vulcano rappresenta una fonte di calore che potrebbe aver sciolto il ghiaccio, sciacquando così ulteriormente la ruggine all’interno di pozze. Nel corso di miliardi di anni, la roccia arrugginita si frantuma poi in polvere. Infine, i venti disperdono questa polvere finissima su tutto il pianeta. Sono anche raffigurati un rover e un orbiter, a rappresentare rispettivamente le analisi dirette e da remoto di questa polvere arrugginita. Crediti: Esa
Il materiale rossastro di questa polvere è chiamato genericamente ossido di ferro: un’etichetta piuttosto vaga, che non identifica una precisa molecola. L’opinione prevalente è che l’ossido di ferro che caratterizza Marte sia ematite, un cosiddetto ossido ferrico. Il nuovo studio giunge invece a concludere che la vera protagonista del “Rosso Marte” sia la ferridrite, un ossi-idrossido di ferro che esiste perlopiù sotto forma di nanoparticolato e ha origine in ambienti ricchi di acqua. Sulla Terra è comunemente associata a processi come l’erosione di rocce e ceneri vulcaniche. Finora il suo ruolo nella composizione della superficie di Marte non era ben compreso, ma i risultati ora pubblicati su Nature Communications suggeriscono che potrebbe costituire una parte importante della polvere che ricopre la superficie del pianeta.
La polvere color terracotta mostrata in questa foto, come la polvere marziana, è morbida e fine, dalla consistenza più simile a quella della farina che a quella della sabbia. Crediti: A. Valantinas
«Perché Marte sia rosso è una domanda fondamentale che ci poniamo da centinaia, se non da migliaia di anni», ricorda il primo autore dello studio, Adomas (Adam) Valantinas, ricercatore postdoc alla Brown University (Usa). «La nostra analisi ci porta a concludere che la ferridrite sia presente ovunque nella polvere e probabilmente anche nelle formazioni rocciose. Non siamo i primi a ritenere che sia la ferridrite la ragione per cui Marte è rosso, ma questo non era mai stato dimostrato nel modo in cui l’abbiamo dimostrato noi ora: utilizzando dati osservativi e nuovi metodi sperimentali per creare, essenzialmente, una polvere marziana in laboratorio».
Quali dati? Principalmente quelli raccolti dallo spazio dal Mars Reconnaissance Orbiter della Nasa e dai due satelliti Mars Express e Trace Gas Orbiter dell’Esa, e direttamente sul suolo grazie alle misure compiute dai rover della Nasa Curiosity, Mars Pathfinder e Opportunity. Per il confronto, il team guidato da Valantinas ha creato in laboratorio una replica della polvere marziana, usando una macchina smerigliatrice in grado di produrre particelle finissime, appena un centesimo dello spessore di un capello umano. Analizzando poi questi campioni con le stesse tecniche impiegate dai veicoli spaziali in orbita attorno a Marte, così da poter fare un confronto diretto, gli autori dello studio sono giunti infine a scoprire che corrispondenza migliore è, appunto, quella con la ferridrite.
Il risultato suggerisce che in un lontano passato Marte sia stato più umido e dunque potenzialmente più abitabile di quanto si pensasse, perché a differenza dell’ematite, che si forma tipicamente in condizioni più calde e asciutte, la ferridrite richiede la presenza di acqua fresca. Dunque si conferma che Marte potrebbe aver avuto un ambiente in grado di sostenere l’esistenza di acqua allo stato liquido, per poi lasciare posto – miliardi di anni fa – a un ambiente via via più secco, come quello che oggi lo caratterizza.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Detection of ferrihydrite in Martian red dust records ancient cold and wet conditions on Mars”, di Adomas Valantinas, John F. Mustard, Vincent Chevrier, Nicolas Mangold, Janice L. Bishop, Antoine Pommerol, Pierre Beck, Olivier Poch, Daniel M. Applin, Edward A. Cloutis, Takahiro Hiroi, Kevin Robertson, Sebastian Pérez-López, Rafael Ottersberg, Geronimo L. Villanueva, Aurélien Stcherbinine, Manish R. Patel e Nicolas Thomas
L’asteroide 2024 YR4 non fa più paura
Le nuove osservazioni di 2024 YR4 condotte con il Very Large Telescope (Vlt) dello European Southern Observatory (Eso) e con strutture di tutto il mondo hanno praticamente escluso un impatto dell’asteroide con il nostro pianeta. L’asteroide è stato monitorato attentamente negli ultimi due mesi, poiché le sue probabilità di impatto con la Terra nel 2032 erano salite a circa il 3 per cento – la più alta probabilità di impatto mai raggiunta per un asteroide di grandi dimensioni. Dopo le ultime osservazioni, le probabilità di impatto sono scese quasi a zero.
Orbita dell’asteroide 2024 YR24, qui evidenziata in rosso, mentre si avvicina a quella della Terra il 22 dicembre 2032. Grazie ai dati più recenti, tra cui quelli del Very Large Telescope dell’Eso, le ultime stime sulla possibilità di impatto sono minime. Le dimensioni dei pianeti non sono in scala: sono state aumentate per motivi di visibilità. Crediti: Esa
L’asteroide 2024 YR4, il cui diametro è stimato tra i 40 e i 90 metri, è stato scoperto alla fine dello scorso dicembre su un’orbita che potrebbe portarlo a collidere con la Terra il 22 dicembre 2032. A causa delle sue dimensioni e della probabilità di impatto, l’asteroide era salito rapidamente in cima alla risk list dell’Agenzia spaziale europea (Esa), un catalogo di tutti gli asteroidi con possibilità di impatto sulla Terra.
Il Vlt dell’Eso è stato utilizzato per osservare 2024 YR4 a metà gennaio, fornendo agli astronomi i dati cruciali necessari per calcolare con maggiore precisione la sua orbita. Combinate con i dati di altri osservatori, le misure molto precise del Vlt hanno consentito di conoscere meglio l’orbita dell’asteroide, arrivando inizialmente a stimare una probabilità d’impatto superiore all’un per cento: una soglia chiave per attivare le procedure di “mitigazione del disastro”. Si sono fatte altre osservazioni e, infine, l’International Asteroid Warning Network ha emesso un avviso di potenziale impatto di asteroide, allertando circa il possibile impatto i gruppi di difesa planetaria, tra cui lo Space Mission Planning Advisory Group.
A seguito dell’osservazione dell’asteroide con numerosi telescopi in tutto il mondo e alla modellazione della sua orbita da parte degli astronomi, il 18 febbraio la probabilità di impatto era salita a circa il 3 per cento, la più alta mai registrata per un asteroide di dimensioni superiori ai 30 metri. Ma già il giorno successivo nuove osservazioni effettuate con il Vlt dell’Eso avevano dimezzato il rischio di impatto.
L’aumento e la diminuzione della probabilità di impatto dell’asteroide seguono uno schema previsto e ben compreso. Per sapere dove si troverà l’asteroide nel 2032, gli astronomi compiono un’estrapolazione dalla piccola porzione di orbita misurata finora. «A causa delle incertezze, l’orbita dell’asteroide è come il fascio di una torcia elettrica: diventa sempre più ampio e sfocato in lontananza. Man mano che aumentano le osservazioni, il fascio diventa più nitido e più stretto», è l’analogia proposta dall’astronomo dell’Eso Olivier Hainaut. «Man mano che questo fascio di luce illuminava maggiormente la Terra, la probabilità di impatto aumentava».
Le nuove osservazioni del Vlt (riportate nel video qui di seguito), insieme ai dati di altri osservatori, hanno permesso agli astronomi di ridurre gli errori sulla stima dell’orbita al punto da poter escludere quasi del tutto un impatto con la Terra nel 2032. «Il fascio più stretto si sta ora allontanando dalla Terra», dice Hainaut. «Al momento in cui scriviamo, la probabilità d’impatto riportata dal Near-Earth Objects Coordination Centre dell’Esa è di circa lo 0,001 per cento e l’asteroide non è più in cima alla risk list dell’Esa.
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Poiché 2024 YR4 si sta ora allontanando dalla Terra, sta diventando sempre più debole e difficile da osservare, tranne che per i telescopi più grandi. Il Vlt dell’Eso è stato fondamentale per le osservazioni dell’asteroide, grazie alle dimensioni del suo specchio e alla sua eccezionale sensibilità, oltre che all’eccellente cielo buio dell’Osservatorio Paranal dell’Eso, in Cile, dove si trova il telescopio. Ciò lo rende ideale per individuare oggetti deboli come 2024 YR4 e altri asteroidi potenzialmente pericolosi.
Purtroppo, gli stessi cieli bui e incontaminati del Paranal che hanno reso possibili queste misurazioni cruciali sono oggi minacciati dal megaprogetto industriale Inna di Aes Andes, una filiale della società elettrica statunitense Aes Corporation. Il progetto prevede di coprire un’area di dimensioni simili a quelle di una piccola città e si trova, nel punto più vicino, a circa 11 km dal Vlt. A causa delle sue dimensioni e della sua vicinanza, l’Inna avrebbe effetti devastanti sulla qualità del cielo del Paranal, soprattutto a causa dell’inquinamento luminoso prodotto dagli impianti industriali. Con un cielo meno buio, telescopi come il Vlt perderanno la capacità di rilevare alcuni degli obiettivi cosmici più deboli.
«Con un cielo più luminoso, avverte Hainaut, «il Vlt perderebbe di vista il debole 2024 YR4 circa un mese prima, e questo comporterebbe un’enorme differenza nella nostra capacità di prevedere un impatto e preparare misure di mitigazione per proteggere la Terra».
Fonte: press release Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Asteroide 2024 YR4, la storia si ripete” di Albino Carbognani
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Sulle montagne russe con 2024 YR4” di Albino Carbognani
Guarda sul canale YouTube dell’Eso l’evoluzione della stima del rischio d’impatto per 2024 YR4:
Culle stellari come zucchero filato
La Piccola Nube di Magellano. Crediti: Eso/Vista Vmc
Dalle nubi di gas molecolare si formano le stelle. Nella nostra galassia queste nubi si presentano con le fattezze di lunghissimi filamenti, larghi un terzo di anno luce – più o meno tremila miliardi di chilometri. Un addensamento di gas, pressato dalla forza di gravità in uno di questi filamenti, si pensa che in un tempo remoto – oltre quattro miliardi e mezzo di anni fa – abbia generato il Sole e il suo sistema di pianeti. E ancora prima, dove si formavano le stelle nell’infanzia dell’universo?
Prova a rispondere a questa domanda un articolo uscito la scorsa settimana su The Astrophysical Journal. Gli autori dello studio hanno osservato 17 nubi di gas molecolare nella Piccola Nube di Magellano, galassia satellite della Via Lattea. Scoprendo che non sempre la formazione stellare avrebbe luogo all’interno di lunghi filamenti. Le culle di certi astri somiglierebbero più a delle soffici nuvolette, piuttosto. Scoperte dietro casa, e che pure potrebbero raccontarci qualcosa dei luoghi in cui nascevano le stelle nei primi miliardi di vita dell’universo.
«In totale, abbiamo raccolto e analizzato dati da 17 nubi molecolari. Ognuna di queste nubi molecolari aveva stelle neonate in crescita con una massa pari a 20 volte quella del nostro Sole», spiega Kazuki Tokuda, ricercatore postdoc presso la facoltà di scienze dell’Università di Kyushu, in Giappone, e primo autore dello studio. «Abbiamo scoperto che circa il 60 per cento delle nubi molecolari che abbiamo osservato aveva una struttura filamentosa con una larghezza di circa 0,3 anni luce, ma il restante 40 per cento aveva una forma “soffice”. Inoltre, la temperatura all’interno delle nubi molecolari filamentose era più alta di quella delle nubi molecolari soffici».
Non dunque imponenti cordoni di materia, piuttosto pesantissimo zucchero filato ricorderebbero le nubi indagate dagli scienziati. Che le hanno immortalate sfruttando la risoluzione sopraffina dell’interferometro Alma, localizzato in Cile, catturando l’emissione del monossido di carbonio. Ma tra tutte le galassie che avevano a disposizione, perché i ricercatori hanno scelto di studiare proprio la Piccola Nube di Magellano? Intanto perché si trova, come si diceva, “dietro casa”, nel senso che la sua prossimità alla Via Lattea ci consente di osservare nel dettaglio quel che accade al suo interno. Ma soprattutto perché è una galassia povera di metalli, ovvero di quegli elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. Per fare un confronto, la Via Lattea è cinquanta volte più ricca di metalli rispetto alla sua piccola dirimpettaia. Questa caratteristica rende la Piccola Nube di Magellano analoga all’ambiente tipico che si registrava nella prima parte della storia cosmica, circa dieci miliardi di anni fa. Quando ancora non si erano avvicendate diverse generazioni di stelle, responsabili dell’arricchimento chimico del mezzo interstellare. Gli studiosi si sono dunque rivolti al vicino e al recente per cercare i dettagli dell’antico e dell’imponderabile.
La Piccola Nube di Magellano in un’immagine infrarossa del telescopio Herschel. I cerchi indicano le posizioni delle nubi molecolari osservate con Alma e ingrandite nei riquadri. Le strutture filamentose sono riquadrate in giallo mentre quelle soffici in blu. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), Tokuda et al., Esa/Herschel
«Nell’universo di oggi la nostra comprensione della formazione stellare è in fase di sviluppo, comprendere come le stelle si sono formate nell’universo più antico è ancora più difficile», continua Tokuda. «L’universo primordiale era molto diverso da oggi, e popolato principalmente da idrogeno ed elio. Gli elementi più pesanti si sono formati più tardi in stelle di grande massa. Non possiamo tornare indietro nel tempo per studiare la formazione stellare nell’universo primordiale, ma possiamo osservare zone dell’universo con ambienti simili all’universo primordiale».
Che implicazioni avrebbe la forma delle nubi sul processo di formazione stellare? Le nubi filamentose sembrerebbero maggiormente predisposte alla generazione di nuovi astri simili al Sole, spaccandosi in certi punti e generando decine e decine di stelle di piccola massa. Al contrario, queste stelle emergerebbero con maggiore difficoltà dalle strutture soffici. Sembrerebbe che queste strutture vaporose si formino a partire dalle prime a causa delle turbolenza iniettata dal gas che precipita sui filamenti in fase di raffreddamento, smussandone la forma. Negli ambienti ricchi di metalli, dunque, i filamenti di gas molecolare sembrerebbero favoriti, e dunque favorita sarebbe anche la nascita di sistemi planetari simili al Sistema solare.
Zoom su una nube molecolare filamentosa (sinistra) e su una soffice (destra). In entrambe le nubi si stanno formando stelle. La scala nell’immagine a sinistra indica le dimensioni di un anno luce. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), Tokuda et al.
«Questo studio indica che l’ambiente, ovvero un’adeguata disponibilità di elementi pesanti – i metalli –, è cruciale per il mantenimento di una struttura filamentosa e può svolgere un ruolo importante nella formazione di sistemi planetari», conclude Tokuda. «In futuro, sarà importante confrontare i nostri risultati con le osservazioni di nubi molecolari in ambienti ricchi di elementi pesanti, tra cui la Via Lattea. Questo tipo di studi dovrebbe fornire nuove informazioni sulla formazione e l’evoluzione temporale delle nubi molecolari e dell’universo.»
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “ALMA 0.1 pc View of Molecular Clouds Associated with High-mass Protostellar Systems in the Small Magellanic Cloud: Are Low-metallicity Clouds Filamentary or Not?” di Kazuki Tokuda, Yuri Kunitoshi, Sarolta Zahorecz, Kei E. I. Tanaka, Itsuki Murakoso, Naoto Harada, Masato I. N. Kobayashi, Tsuyoshi Inoue, Marta Sewiło, Ayu Konishi, Takashi Shimonishi, Yichen Zhang, Yasuo Fukui, Akiko Kawamura, Toshikazu Onishi e Masahiro N. Machida
Un pilastro di luce sull’Etna innevato
Una colata lavica può estendersi nel cielo? No, ma la luce della colata lavica può farlo e la Astronomy Picture of the Day (Apod) della Nasa lo dimostra. La splendida fotografia che vedete in questa pagina è opera di Davide Caliò, geologo con una grande passione per la fotografia naturalistica e paesaggistica. Nei suoi scatti, unisce l’aspetto scientifico a quello artistico, trasformando fenomeni naturali ed eventi geologici in immagini di grande impatto visivo ed emotivo. E questa volta ci è riuscito perfettamente, catturando un fenomeno davvero insolito: una colonna di luce vulcanica.
Colonna di luce sull’Etna in eruzione. Crediti & copyright: Davide Caliò
Di solito, i pilastri di luce sono fenomeni ottici atmosferici causati dalla luce solare e appaiono come colonne luminose che si estendono verso l’alto sopra il Sole all’alba o al tramonto. Questo effetto si genera quando la luce viene riflessa da minuscoli cristalli di ghiaccio sospesi nell’atmosfera o nelle nuvole ad alta quota. Esistono anche altri tipi di pilastri di luce, alcuni dai colori vivaci, osservati sopra le luci di strade e abitazioni. In questo caso, però, il pilastro luminoso è illuminato dalla luce rossa sprigionata dal magma incandescente dell’Etna. L’immagine è stata catturata in un singolo scatto durante una mattinata di metà febbraio.
Davide Caliò, autore della Nasa Apod del 25 febbraio 2025. Crediti: D. Caliò
«È successo tutto in pochissimi minuti», racconta Caliò, autore dello scatto. «Stavamo risalendo la strada Altomontana per raggiungere il fronte della colata in atto, immersi nel buio e nel silenzio della notte. Poi, all’improvviso, un fascio luminoso ben visibile a occhio nudo si è esteso per centinaia di metri, forse chilometri, sopra il vulcano. L’adrenalina è salita, abbiamo gettato gli zaini a terra per montare il treppiede, impostato la fotocamera e scattato. Il primo scatto ha catturato in modo chiaro ed evidente il Light Pillar, mentre nei due successivi, a distanza di 13 secondi l’uno dall’altro, il fenomeno era quasi del tutto svanito. È stato un istante irripetibile, un frammento di luce sospeso nel tempo, che ho avuto la fortuna di immortalare».
Le temperature sotto lo zero sopra il flusso di lava dell’Etna hanno favorito la formazione di cristalli di ghiaccio, sia nell’aria sovrastante il vulcano che nel vapore acqueo condensato emesso dall’eruzione. Questi cristalli, che tendono a disporsi orizzontalmente mentre discendono, riflettono la luce sottostante. La loro presenza a diverse altitudini crea un effetto di allungamento verticale del riflesso, dando origine a una colonna luminosa. Quanto più numerosi e grandi sono i cristalli, tanto più marcato risulta questo fenomeno.
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Connettere chiunque dovunque? Occorrono regole
Siamo animali sociali e abbiamo bisogno di comunicare. Un tempo si scrivevano lettere, poi la tecnologia ci ha dato il telegrafo, il telefono, il fax, il cellulare, evoluto nello smartphone che ha reso obsoleto tutto il resto. Per quanto smart, il nostro telefonino non è autonomo, ha sempre bisogno di connettersi con un ripetitore che veicola il suo segnale alla rete di terra. Tutti sappiamo che non sempre la connessione è ideale e, quando ci troviamo in aree isolate, in montagna, nel mezzo del mare l’assenza di segnale può fare nascere la sensazione di essere isolati. Sensazione normale fino a pochi anni fa, quando capitava spesso che in viaggio o nella casa in campagna il cellulare non prendesse, oppure avesse costi proibitivi, ma oggi decisamente più rara, tanto da essere accompagnata da un senso di inquietudine. Come potrei chiedere aiuto se mi succedesse qualcosa?
SpaceX’s first launch of 2024 deployed our first set of Starlink sats with the Direct to Cell capability to help end cell-phone dead zones. Today, the Direct to Cell constellation is nearly 10x the size of all other operators pursuing a similar capability combined pic.twitter.com/dfwsxvMBDx— Starlink (@Starlink) December 31, 2024
La tecnologia, sempre attenta ai nostri bisogni, oggi ci offre diverse soluzioni anti-isolamento. Se vogliamo restare connessi anche quando ci prendiamo una pausa e andiamo in campeggio in qualche luogo remoto, Starlink offre un terminale da passeggio che sta in uno zaino e permette di avere accesso al segnale internet satellitare fornito dagli oltre seimila satelliti che operano nell’orbita bassa. Se invece si preferisce viaggiare leggeri, a partire da quest’anno verrà offerta la possibilità di utilizzare il servizio Direct To Cell, che permette di connettersi al satellite Starlink direttamente da cellulare per inviare brevi messaggi. È un servizio pensato più che altro per situazione d’emergenza. Ma presto crollerà anche l’ultimo baluardo dell’isolamento dal momento che sarà disponibile la connessione a banda larga via satellite. L’hanno provata pochi giorni fa ed è frutto della collaborazione tra la compagnia satellitare Ast SpaceMobile e Vodafone. Il servizio funziona con un normale cellulare 4G o 5G che, per chiamare da un’area non coperta, si connette a un satellite Bluebird di Ast SpaceMobile che poi rimbalza la chiamata a un’antenna che agisce da gateway per entrare nelle rete terrestre Vodafone. In questo modo è stata realizzata la prima videochiamata da una zona del Galles priva di segnale.
Connettere chiunque dovunque avrà senza dubbio successo ed è questo che mi preoccupa. I satelliti Bluebird sono coperti da antenne ad allineamento di fase distribuite su una superficie di circa 60 metri quadri. Sono l’equivalente di un monolocale in orbita che riflette la luce del Sole e di notte è più luminoso delle stelle visibili a occhio nudo. Adesso i satelliti Bluebird sono cinque ma non sono sufficienti per fornire un servizio continuo. Ce ne vorranno almeno 50-60 e la società sta costruendo satelliti ancora più grandi e potenti, capaci di disturbare seriamente sia le osservazioni ottiche sia quelle radio. Mentre il problema in ottico è legato alla riflessione del Sole, in radio la situazione è anche peggio, perché i satelliti usano le onde radio per comunicare con la Terra e il loro segnale è molto più potente di quelli cosmici.
t.co/NElIX5INyw— AST SpaceMobile (@AST_SpaceMobile) January 31, 2025
Queste prospettive non possono fare altro che aumentare la preoccupazione di tutti coloro che vorrebbero preservare un cielo buio e silenzioso, o perlomeno trovare un ragionevole compromesso per permettere le osservazioni con i telescopi ottici e radio. La proliferazione del numero dei satelliti che orbitano intorno alla terra a circa 500 km di altezza è legata alla crescita tumultuosa della space economy, che fornisce servizi utilissimi a migliorare la vita di tutti noi, ma offre un chiaro esempio della tensione tra l’innovazione e le sue conseguenze. Ci vorrebbe una politica spaziale e un sistema di governance adattabile all’evoluzione delle attività spaziali e ai loro impatti imprevisti. Ne ho parlato nel mio ultimo libro Ecologia spaziale (Hoepli), dove esamino gli impatti globali della nostra fiorente attività spaziale. Non si tratta di essere pro o contro la crescita della space economy: mancano leggi internazionali per regolare un settore strategico che vede la presenza preponderante di pochissimi privati che monopolizzano lo spazio orbitale. Il problema si riproporrà sulla Luna dove si moltiplicano le missioni per preparare lo sfruttamento commerciale di risorse che sono un patrimonio di tutti, ma non appartengono a nessuno.
Tutti i buchi neri di Desi
Grazie ai primi dati raccolti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (Desi), un team di scienziati ha ottenuto il più grande campione di galassie nane che ospitano un buco nero attivo, oltre alla più ampia collezione di candidati buchi neri di massa intermedia. Questo duplice risultato non solo amplia la nostra comprensione della popolazione di buchi neri nell’universo, ma getta anche le basi per ulteriori esplorazioni sulla formazione dei buchi neri primordiali e sul loro ruolo nell’evoluzione delle galassie.
Rappresentazione artistica di una galassia nana che ospita un nucleo galattico attivo. Sullo sfondo sono rappresentate molte altre galassie nane che ospitano buchi neri attivi, oltre a una varietà di altri tipi di galassie che ospitano buchi neri di massa intermedia. Crediti: NoirLab/Nsf/Aura/J. da Silva/M. Zamani
Desi è uno strumento all’avanguardia in grado di catturare la luce di 5mila galassie contemporaneamente. È stato costruito e viene gestito con i finanziamenti dell’Office of Science del Dipartimento dell’energia (Doe) degli Stati Uniti, ed è montato sul telescopio di 4 metri Nicholas U. Mayall della National Science Foundation (Nsf) presso il Kitt Peak National Observatory. Il programma del NoirLab è ora al suo quarto di cinque anni di osservazione del cielo e prevede di osservare circa 40 milioni di galassie e quasar entro la fine del progetto.
Con i primi dati, che comprendono la validazione della survey e il 20 per cento del primo anno di attività, il team, guidato da Ragadeepika Pucha dell’Università dello Utah, è stato in grado di ottenere un set di dati senza precedenti che comprende gli spettri di 410mila galassie, tra cui circa 115mila galassie nane.
Questo mosaico mostra una serie di immagini di candidate galassie nane che ospitano un nucleo galattico attivo, catturate con la Hyper Suprime-Cam del Subaru Telescope. Crediti: Legacy Surveys/D. Lang (Perimeter Institute)/Naoj/Hsc Collaboration/D. de Martin (Nsf NoirLab) & M. Zamani (Nsf NoirLab)
Mentre gli astrofisici sono abbastanza sicuri che tutte le galassie massicce, come la Via Lattea, ospitino buchi neri al loro centro, il quadro diventa poco chiaro man mano che ci si sposta verso galassie con massa minore. Trovare i buchi neri è già di per sé una sfida, ma identificarli nelle galassie nane è ancora più difficile, a causa delle loro piccole dimensioni e della limitata capacità dei nostri attuali strumenti di risolvere le regioni vicine a questi oggetti. Un buco nero che si alimenta attivamente, invece, è più facile da individuare.
«Quando un buco nero al centro di una galassia inizia ad alimentarsi, sprigiona un’enorme quantità di energia nell’ambiente circostante, trasformandosi in quello che chiamiamo nucleo galattico attivo», spiega Pucha. «Questa drammatica attività funge da faro e ci permette di identificare i buchi neri nascosti in queste piccole galassie».
Lo studio ha permesso al team di identificare ben 2.500 galassie nane candidate a ospitare un nucleo galattico attivo (o Agn, dall’inglese active galactic nuclei), il più grande campione mai scoperto. La percentuale significativamente più alta di galassie nane con un Agn (2 per cento) rispetto agli studi precedenti (circa 0,5 per cento) è un risultato entusiasmante, che suggerisce come un numero sostanziale di buchi neri di bassa massa sia ancora da scoprire. In una ricerca separata attraverso i dati Desi, il team ha identificato 300 candidati buchi neri di massa intermedia, la raccolta più ampia fino ad oggi.
La maggior parte dei buchi neri conosciuti sono stellari (meno di cento volte la massa del Sole) o supermassicci (oltre un milione di volte la massa del Sole). Quelli che si collocano tra questi due estremi rimangono poco conosciuti, ma si ipotizza che siano i resti dei primissimi buchi neri formatisi nell’universo primordiale e i semi dei buchi neri supermassicci che oggi si trovano al centro delle grandi galassie. Tuttavia, questi oggetti restano estremamente sfuggenti, con solo circa 100-150 candidati noti fino a oggi. Grazie all’ampia popolazione scoperta da Desi, gli scienziati dispongono ora di un ricco set di dati per studiare questi enigmi cosmici.
Questo mosaico mostra una serie di immagini di candidati buchi neri di massa intermedia, disposti in ordine crescente di massa stellare, catturati con la Hyper Suprime-Cam del Subaru Telescope. Crediti: Legacy Surveys/D. Lang (Perimeter Institute)/Naoj/Hsc Collaboration/D. de Martin (Nsf NoirLab) & M. Zamani (Nsf NoirLab)
«Il design tecnologico di Desi è stato importante per questo progetto, in particolare le dimensioni ridotte delle sue fibre, che ci hanno permesso di ingrandire meglio il centro delle galassie e di identificare le sottili firme dei buchi neri attivi», spiega Stephanie Juneau, astronoma associata al Nsf NoirLab e coautrice dell’articolo. «Con altri spettrografi a fibre ottiche con fibre più grandi, entra più luce stellare dalla periferia della galassia e diluisce i segnali che stiamo cercando. Questo spiega perché in questo lavoro siamo riusciti a trovare una frazione maggiore di buchi neri attivi rispetto agli sforzi precedenti».
In teoria, i buchi neri presenti nelle galassie nane dovrebbero appartenere alla categoria di massa intermedia. Tuttavia, solo 70 dei candidati buchi neri di massa intermedia appena scoperti coincidono con i candidati Agn nelle galassie nane. Questo risultato aggiunge un ulteriore livello di interesse alla scoperta e solleva nuove domande sulla formazione e l’evoluzione dei buchi neri all’interno delle galassie. «Ad esempio, esiste una relazione tra i meccanismi di formazione dei buchi neri e i tipi di galassie in cui si trovano?», si domanda Pucha. «La vasta quantità di nuovi candidati ci permetterà di approfondire questi misteri, arricchendo la nostra comprensione dei buchi neri e del loro ruolo centrale nell’evoluzione delle galassie».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print l’articolo “Tripling the Census of Dwarf AGN Candidates Using DESI Early Data” di Ragadeepika Pucha et al.
Nuovi scenari per deviare gli asteroidi
Quanto siamo pronti a deviare un asteroide diretto verso la Terra? A questa domanda d’indubbia attualità rispondono due studi pubblicati la settimana scorsa su Nature Communications, frutto della collaborazione tra il Politecnico di Milano, il Georgia Institute of Technology e altre istituzioni internazionali, fra le quali l’Istituto nazionale di astrofisica. Le ricerche analizzano il risultato storico della missione Dart (Double Asteroid Redirection Test) della Nasa, che il 26 settembre 2022 ha colpito l’asteroide Dimorphos, segnando la prima dimostrazione pratica di difesa planetaria.
L’evoluzione della nube di detriti attorno a Dimorphos e Didymos dopo l’impatto con Dart. Crediti: Eso/Opitom et al.
L’impatto, osservato da telescopi spaziali come Hubble e da osservatori terrestri, ha prodotto un’enorme quantità di ejecta – frammenti espulsi dalla superficie – rivelando informazioni cruciali per migliorare l’efficacia delle future missioni di deviazione asteroidale.
Il primo studio è stato condotto da un team di ricercatori del Dipartimento di scienze e tecnologie aerospaziali del Politecnico di Milano, sotto la guida del professor Fabio Ferrari, insieme a Paolo Panicucci e Carmine Giordano, e in collaborazione con il Georgia Institute of Technology. Il secondo studio, coordinato dal professor Masatoshi Hirabayashi del Georgia Tech, ha visto il contributo dello stesso Ferrari.
«Utilizzando le immagini del telescopio Hubble e simulazioni numeriche avanzate, abbiamo identificato una spiegazione plausibile per la morfologia osservata e stimato la massa, la velocità e la dimensione dei frammenti», spiega Fabio Ferrari del Politecnico di Milano. «Abbiamo scoperto che queste strutture derivano dall’interazione dinamica tra gli ejecta, la gravità del sistema binario e la pressione della radiazione solare. Comprendere questi processi è fondamentale per interpretare future osservazioni e migliorare le strategie di difesa planetaria».
Lo schema mostra come più impattatori di piccole dimensioni possano aumentare l’efficienza della deflessione rispetto a un unico grande impattatore (cliccare per ingrandire). Fonte: M. Hirabayashi et al., Nature Communications, 2025
Ma la forma dell’asteroide può fare la differenza nella traiettoria di espulsione degli ejecta, secondo lo studio condotto dal Georgia Institute of Technology. Il professor Masatoshi Hirabayashi sottolinea un dato sorprendente: «La nostra analisi ha rivelato che la forma schiacciata di Dimorphos ha ridotto l’efficienza della deviazione del 56 per cento. Abbiamo osservato come la traiettoria degli ejecta sia stata influenzata dalla morfologia dell’asteroide, diminuendo l’efficacia della spinta generata dall’impatto».
«Se l’impatto è grande, più ejecta vengono spinti lontano dalla superficie, ma sono anche maggiormente influenzati dall’inclinazione della superficie. Questo processo devia la traiettoria degli ejecta rispetto quella ideale, riducendo la spinta sull’asteroide», prosegue Hirabayashi. «L’invio di più oggetti di piccole dimensioni non solo consente di ottenere una maggiore spinta dell’asteroide, ma anche di risparmiare sui costi operativi e di aumentare la flessibilità della tattica per la deviazione».
Un’idea condivisa da Ferrari, il cui studio ha analizzato l’evoluzione degli ejecta contribuendo a chiarire il loro ruolo nella deflessione dell’asteroide. «La comprensione dei processi di impatto e delle loro conseguenze è fondamentale per capire le proprietà degli asteroidi, la loro evoluzione naturale e il loro futuro e, in ultima analisi, per progettare azioni di mitigazione ai fini della difesa planetaria», conclude Ferrari.
Fonte: comunicato stampa del Politecnico di Milano
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Morphology of ejecta features from the impact on asteroid Dimorphos”, di Fabio Ferrari, Paolo Panicucci, Gianmario Merisio, Carmine Giordano, Mattia Pugliatti, Jian-Yang Li, Eugene G. Fahnestock, Sabina D. Raducan, Martin Jutzi, Stefania Soldini, Masatoshi Hirabayashi, Colby C. Merrill, Patrick Michel, Fernando Moreno, Gonzalo Tancredi, Jessica M. Sunshine, Jens Ormö, Isabel Herreros, Harrison Agrusa, Ozgur Karatekin, Yun Zhang, Nancy L. Chabot, Andrew F. Cheng, Derek C. Richardson, Andrew S. Rivkin, Adriano Campo Bagatin, Tony L. Farnham, Stavro Ivanovski, Alice Lucchetti, Maurizio Pajola, Alessandro Rossi, Daniel J. Scheeres e Filippo Tusberti
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Elliptical ejecta of asteroid Dimorphos is due to its surface curvature”, di Masatoshi Hirabayashi, Sabina D. Raducan, Jessica M. Sunshine, Tony L. Farnham, J. D. P. Deshapriya, Jian-Yang Li, Gonzalo Tancredi, Steven R. Chesley, R. Terik Daly, Carolyn M. Ernst, Igor Gai, Pedro H. Hasselmann, Shantanu P. Naidu, Hari Nair, Eric E. Palmer, C. Dany Waller, Angelo Zinzi, Harrison F. Agrusa, Brent W. Barbee, Megan Bruck Syal, Gareth S. Collins, Thomas M. Davison, Mallory E. DeCoster, Martin Jutzi, Kathryn M. Kumamoto, Nicholas A. Moskovitz, Joshua R. Lyzhoft, Stephen R. Schwartz, Paul A. Abell, Olivier S. Barnouin, Nancy L. Chabot, Andrew F. Cheng, Elisabetta Dotto, Eugene G. Fahnestock, Patrick Michel, Derek C. Richardson, Andrew S. Rivkin, Angela M. Stickle, Cristina A. Thomas, Joel Beccarelli, John R. Brucato, Massimo Dall’Ora, Vincenzo Della Corte, Elena Mazzotta Epifani, Simone Ieva, Gabriele Impresario, Stavro Ivanovski, Alice Lucchetti, Dario Modenini, Maurizio Pajola, Pasquale Palumbo, Simone Pirrotta, Giovanni Poggiali, Alessandro Rossi, Paolo Tortora, Filippo Tusberti, Marco Zannoni, Giovanni Zanotti, Fabio Ferrari, David A. Glenar, Isabel Herreros, Seth A. Jacobson, Özgür Karatekin, Monica Lazzarin, Ramin Lolachi, Michael P. Lucas, Rahil Makadia, Francesco Marzari, Colby C. Merrill, Alessandra Migliorini, Ryota Nakano, Jens Ormö, Paul Sánchez, Cem Berk Senel, Stefania Soldini e Timothy J. Stubbs
Einstein Probe: transiente rivela una rara binaria
È stato messo in orbita per catturare e studiare eventi transienti a raggi X, il telescopio spaziale Einstein Probe. E non ha deluso le attese: a distanza di poco più di un anno dal lancio, le sue ottiche lobster-eye (a “occhi di aragosta”) hanno già individuato oltre dieci sorgenti transienti. È notizia di pochi giorni fa che il telescopio ha ora scoperto la sua ennesima fugace esplosione di raggi X. Non un’esplosione qualsiasi, però. A produrla sarebbe infatti una rara coppia stellare, un sistema binario composto da una nana bianca che accresce materia da una stella di sequenza principale di tipo Be.
Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Tutto è cominciato il 27 maggio del 2024, quando i rivelatori del Wide-field X-ray telescope (Wxt) – uno dei due strumenti di cui è dotato l’Einstein Probe, collaborazione fra l’accademia cinese delle scienze (Cas), L’Esa e il Max Planck Institute für Extraterrestrische Physik – vengono sollecitati da fotoni X provenienti da una sorgente sconosciuta. L’emissione arriva da una regione situata nella Piccola Nube di Magellano, una delle galassie a noi più vicine. L’analisi delle curve di luce prodotte dallo strumento non lascia dubbi: si tratta di un outburst, un’esplosione transiente di raggi X.
L’evento, etichettato come EP J0052, mette subito in guardia gli scienziati, che oltre a puntare verso la sorgente il Follow-up X-ray Telescope (Fxt) – l’altro dei due strumenti scientifici a bordo dell’Einstein probe – diramano l’allerta ad altri telescopi sensibili alla luce X. Swift, Nicer e Xmm-Newton rispondono alla chiamata. L’obiettivo era effettuare osservazioni di follow-up per studiare in dettaglio l’esplosione e caratterizzare la sorgente che l’ha prodotta. I dati X ottenuti dai telescopi arrivano tra le mani di un team guidato da Alessio Marino, ricercatore all’Institute of Space Sciences di Barcellona, in Spagna, e associato Inaf. Il tempo necessario per una approfondita analisi degli spettri e arriva il responso, pubblicato martedì scorso sulle pagine della rivista The Astrophysical Journal Letters.
Le analisi degli spettri X ottenuti dai vari telescopi indicano che il transiente osservato da Einstein Probe sia un’emissione di raggi X a bassa energia. Outbust supersoft, è così che la chiamano gli astronomi. Non si tratta di un raro tipo di esplosione. Quello che è raro è invece la sorgente che l’ha prodotta.
Illustrazione artistica che mostra la struttura di una stella nana bianca. Crediti: University of Warwick/Mark Garlick
La presenza negli spettri di caratteristiche in assorbimento ed emissione, in particolare di bordi di assorbimento – discontinuità nello spettro di assorbimento di una sostanza – a circa 0.63, 0.88 e 1 KeV (la firma di azoto, ossigeno e neon nel materiale esploso), suggeriscono che a produrre il fugace flare di raggi x sia stato un Be-white dwarf X-ray binary systems, cioè un sistema binario costituito da una nana bianca e una stella Be, in cui la prima accresce materia dalla seconda.
Alessio Marino, primo autore dello studio pubblicato su ApJL, ricercatore all’Institute of Space Sciences di Barcellona, in Spagna, e associato all’Inaf Iasf di Palermo
«EP J0052 è stato scoperto da Einstein Probe come una nuova sorgente di raggi X nel cielo lo scorso anno, “esplosa” nella vicina Piccola Nube di Magellano», dice Marino a Media Inaf. «Una volta visti i dati, ci siamo subito resi conto di avere a che fare con una bestia piuttosto rara. Lo spettro X della sorgente, per forma e per la presenza di righe spettrali di neon e ossigeno, era quello che ci aspettiamo da una nana bianca quando divora materia da una piccola stella compagna più piccola del Sole, un tipo di sistema molto comune nella nostra galassia. Tuttavia, EP J0052, pur essendo sì un sistema composto da due stelle, non è un sistema affatto comune, in quanto l’altro componente di questa coppia cosmica è una stella molto massiccia di tipo Be, probabilmente una decina di volte più grande del Sole»
Le due stelle nel sistema orbitano vicine l’una all’altra. Il loro rapporto di coppia, come anticipato, non è tuttavia idilliaco. L’intenso campo gravitazionale della nana bianca, infatti, succhia materia dalla stella compagna. Man mano che sempre più materia cade sull’oggetto compatto, questa si comprime, fino a quando non si innesca sulla sua superficie un’esplosione termonucleare incontrollata. Ciò crea un luminoso lampo di luce che brilla nel cielo in un’ampia gamma di lunghezze d’onda, compresa quella della luce X osservata da Einstein Probe.
La scoperta che a produrre EP J0052 sia un simile sistema è stata una sorpresa per i ricercatori. «Si tratta di un sistema non solo insolito, ma in qualche modo sorprendente», continua Marino. «Le nane bianche sono stelle “morte” che ci aspettiamo di vedere dopo miliardi di anni alla fine della vita di stelle relativamente piccole. Le stelle di tipo Be vivono invece una vita molto più breve, dell’ordine di decine di migliaia di anni. Sembra impossibile che queste stelle, una molto giovane ed una molto vecchia, possano esistere insieme».
La soluzione di questo impasse, per i ricercatori, e da ricercarsi nei progenitori del sistema. L’ipotesi è che i due oggetti celesti siano la discendenza di una coppia formata da due stelle di sequenza principale, che hanno sperimentato una fase di involucro comune e almeno due episodi di trasferimento di massa.
Infografica che mostra il probabile processo evolutivo che ha portato alla formazione dell’esotica binaria X EP J0052 scoperta dai ricercatori. Crediti: Esa
«Quello che pensiamo sia successo è che EP J0052 discenda da una coppia di stelle parecchio massicce, di 8 e 6 volte la massa del Sole rispettivamente» , spiega Marino. «La stella più massiccia esaurisce il combustibile nucleare prima e si espande, fino al punto in cui l’altra stella inizia ad accumulare parte degli strati esterni della stella rigonfiata. Alla fine di questo scambio di materia, in un lasso di tempo di soli 40mila anni circa, della stella che ha ceduto massa rimane solo il nucleo che collassa su sé stesso diventando una nana bianca, mentre la stella che ha ricevuto materia è cresciuta fino a diventare una gigante di tipo Be. Adesso la situazione si è capovolta, con la nana bianca che accresce materia dagli strati esterni della stella Be».
Se la natura della sorgente venisse confermata, questo lavoro potrebbe rappresentare uno dei pochissimi casi in cui un’esplosione di raggi X in tali sistemi è stata monitorata a fondo per la maggior parte della sua durata, dall’aumento al decadimento, sottolineano i ricercatori. Le capacità di monitoraggio dell’Einstein Probe nella gamma dei raggi X “morbidi” – come chiamano gli astronomi i raggi X a bassa energia – sono particolarmente adatte a scoprire outburst supersoft emessi da queste sorgenti, offrendo l’opportunità di affrontare molte questioni irrisolte su di esse.
«Einstein Probe offre l’opportunità unica di individuare queste emissioni fugaci e mettere alla prova la nostra comprensione di come si evolvono le stelle massicce», conclude Erik Kuulkers, astronomo dell’Esa e project scientist di Einsten Probe. «La scoperta di questa sorgente mette in mostra le capacità rivoluzionarie di questa missione»
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Einstein Probe Discovery of EP J005245.1−722843: A Rare Be–White Dwarf Binary in the Small Magellanic Cloud?” di A. Marino, H. N. Yang, F. Coti Zelati, N. Rea, S. Guillot, G. K. Jaisawal, C. Maitra, J.-U. Ness, F. Haberl, E. Kuulkers, W. Yuan, H. Feng, L. Tao, C. Jin, H. Sun, W. Zhang, W. Chen, E. P. J. van den Heuvel, R. Soria, B. Zhang, S.-S. Weng, L. Ji, G. B. Zhang, X. Pan, Z. Lv, C. Zhang, Z. X. Ling, Y. Chen, S. Jia, Y. Liu, H. Q. Cheng, D. Y. Li, K. Gendreau, M. Ng, e T. Strohmayer
Un lampo X nascosto nell’archivio di Chandra
Vi è mai capitato di sfogliare vecchi album fotografici e notare per la prima volta un dettaglio interessante dietro alla figura immortalata in primo piano? Magari una persona sullo sfondo del gruppo che sorride davanti alla fotocamera, o un volto incorniciato in una foto posata sul ripiano accanto alla televisione. Qualcosa di affascinante, discreto ma visibile, che nessuno aveva mai notato prima. Ora immaginate di fare lo stesso su scala cosmica.
È così che è stata scoperta una potente esplosione proveniente da un misterioso oggetto al di fuori della nostra galassia. È passata inosservata per anni all’interno di un vasto archivio di osservazioni del Chandra X-ray Observatory della Nasa, prima di essere riportata alla luce in un nuovo articolo pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
La “notevole” esplosione cosmica Xrt 200515 osservata dal Chandra X-ray Observatory della Nasa. Crediti: Steven Dillmann
«Utilizzando un approccio innovativo di apprendimento automatico, abbiamo esaminato oltre 20 anni di osservazioni d’archivio del Chandra X-ray Observatory della Nasa e abbiamo scoperto un notevole e potente lampo di raggi X proveniente da un oggetto sconosciuto al di fuori della nostra galassia, che era passato inosservato per anni all’interno del vasto archivio di Chandra – un vero e proprio evento da ago nel pagliaio».
Il 15 maggio 2020, mentre Chandra osservava i resti di una stella esplosa nella Grande Nube di Magellano (una piccola galassia vicina alla Via Lattea), ha accidentalmente catturato un lampo di raggi X luminoso ed estremamente veloce proveniente da un oggetto sconosciuto. Questo lampo è apparso e scomparso nel giro di pochi secondi, e all’epoca è passato inosservato, finendo in “un cassetto”.
A differenza degli approcci tradizionali, il metodo di apprendimento automatico utilizzato nel nuovo studio è riuscito a scoprire il cosiddetto transiente veloce extragalattico a raggi X (Fxt), che i ricercatori hanno chiamato Xrt 200515 in riferimento al giorno in cui è stato rilevato da Chandra.
«Questo lampo cosmico è particolarmente interessante per le sue caratteristiche insolite, diverse da tutti gli altri Fxt extragalattici rilevati in precedenza da Chandra», dice Steven Dillmann della Stanford University. «Ha prodotto un burst iniziale incredibilmente energetico che è durato solo 10 secondi, mentre altri sono durati minuti o ore. A questo è seguito un afterglow più lungo e meno energetico, della durata di pochi minuti».
La curva di luce (quantità di fotoni ricevuti dal luogo del burst nel tempo) di Xrt 200515, che mostra l’intensità e la velocità del burst. Crediti: Steven Dillmann
Poiché né Chandra né altri telescopi hanno mai registrato la sorgente prima o dopo questa esplosione, la sua vera natura rimane ignota. I ricercatori ritengono che potrebbe trattarsi del primo X-ray burster mai scoperto nella Grande Nube di Magellano. Si tratta di sistemi che coinvolgono due stelle: una stella di neutroni e una normale stella compagna che le orbita attorno. La potente forza di gravità della stella di neutroni attira il gas dalla compagna e quando sulla sua superficie si accumula una quantità di gas sufficiente, si innesca una massiccia esplosione termonucleare che rilascia un’intensa emissione X.
Secondo un’altra teoria, potrebbe trattarsi di un raro e gigantesco brillamento proveniente da una lontana magnetar, una stella di neutroni con campi magnetici estremamente forti. Questi brillamenti sono tra gli eventi più esplosivi del cosmo e rilasciano un’enorme quantità di raggi gamma in un tempo molto breve. Se Xrt 200515 fosse la controparte a raggi X di un evento di questo tipo, sarebbe il primo brillamento di una magnetar gigante osservato a questi livelli di energia a raggi X.
L’ultima spiegazione proposta dai ricercatori è che potrebbe trattarsi di un tipo di esplosione cosmica sconosciuta che potrebbe rivelare nuove conoscenze sull’universo.
«Questa scoperta ci ricorda che lo spazio è dinamico e in continua evoluzione, con fenomeni emozionanti che si verificano costantemente», conclude Dillmann. «Dimostra anche il valore dell’uso dell’intelligenza artificiale per le scoperte scientifiche nei dati astronomici d’archivio: potrebbero esserci innumerevoli altre scoperte che aspettano di essere trovate nelle osservazioni che abbiamo già fatto».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Representation learning for time-domain high-energy astrophysics: Discovery of extragalactic fast X-ray transient XRT 200515” di Steven Dillmann, Juan Rafael Martínez-Galarza, Roberto Soria, Rosanne Di Stefano, Vinay L Kashyap
Sulle montagne russe con 2024 YR4
In questi giorni l’asteroide near-Earth 2024 YR4 ha fatto la comparsa su media e social di tutto il mondo. Il motivo? Un aumento della probabilità d’impatto con la Terra per il 22 dicembre 2032. Per smorzare subito facili allarmismi va detto che 2024 YR4 è un asteroide roccioso con un diametro di soli 40-90 metri. Le piccole dimensioni ci dicono che, nella remota possibilità che colpisse realmente la Terra nel 2032, non rappresenterebbe un rischio di rilievo.
Le conseguenze dell’impatto sarebbero di tipo locale, com’è accaduto il 30 giugno 1908 con la catastrofe di Tunguska: l’asteroide si disintegrerebbe a qualche chilometro dal suolo rilasciando un’energia di circa 10 Mton, creando un’onda d’urto che spazzerebbe via l’area sottostante. Nel caso l’asteroide colpisse un luogo popolato basterebbe evacuarlo prima della caduta per azzerare il numero delle vittime: niente che non si possa gestire con un po’ di intelligenza, senza isterismi.
La probabilità d’impatto in funzione del tempo di 2024 YR4. Dopo avere raggiunto un massimo di circa il 3%, ora la probabilità è in netta flessione e ci si aspetta che vada a zero nei prossimi mesi. Crediti: Esa/Neocc.
«Per quanto riguarda il valore della probabilità d’impatto, quello che abbiamo visto fino al 18 febbraio è un generale trend in aumento. In questo giorno la probabilità ha raggiunto il valore di 2,8 percento, il più alto mai registrato per un asteroide di diametro maggiore di 20 metri. Apophis, infatti, raggiunse il valore massimo di 1/37, che corrisponde al 2,7 percento. Oggi però la probabilità d’impatto di 2024 YR4 ha iniziato a scendere e si è portata all’1,5 percento, ed è possibile che scenda ancora», commenta a Media Inaf Marco Fenucci, esperto di dinamica asteroidale del Neo Coordination Centre dell’Esa a Frascati.
La futura traiettoria dell’asteroide, note posizione e velocità iniziali che si ottengono con le osservazioni al telescopio, viene calcolata tenendo conto della forza di gravità del Sole, dei pianeti, degli asteroidi maggiori e degli effetti della relatività generale. L’incertezza sulla posizione finale dell’asteroide è determinata dalla lunghezza dell’arco di orbita osservato: più è corto, maggiore è l’incertezza su posizione e velocità iniziali che si ripercuote, amplificata, sulla posizione finale.
Al momento l’arco orbitale noto copre 56 giorni, per un totale di 376 osservazioni astrometriche. Purtroppo ora l’asteroide sta diventando sempre più debole, si trova a circa 85 milioni di chilometri dalla Terra e ha una magnitudine apparente di +24,6.
Marco Fenucci, ricercatore del Neo coordination centre dell’agenzia spaziale europea a Frascati, primo autore dello studio sul destino orbitale dei detriti di Dimorphos. Crediti: Jelena Jokić
«Il 27 gennaio la probabilità d’impatto ha superato l’1 percento e fino all’8 febbraio ci sono state nuove osservazioni giornaliere, che però si sono fermate fino al 15 febbraio per la presenza della Luna piena», commenta Fenucci. «Le osservazioni adesso sono ricominciate, principalmente da parte di osservatori professionali dotati di telescopi con diametro maggiore di 2 metri, dato che la magnitudine apparente sta lentamente aumentando. Da adesso fino a inizio aprile si osserverà 2024 YR4 con telescopi di grandi dimensioni, con diametri pari o superiori agli 8 metri. Le osservazioni che verranno fatte con il James Webb Space Telescope (Jwst) saranno fondamentali per determinare in modo più accurato le dimensioni di 2024 YR4. La stima che abbiamo attualmente del diametro è tra 40 e 90 metri, quindi ancora molto incerta. Una stima migliore ci permetterà di capire meglio quali saranno gli effetti dell’impatto, nel caso improbabile che questo avvenga, e ci aiuteranno a migliorare la risposta di mitigazione. Un primo ciclo di osservazioni avverrà a marzo, mentre un secondo ciclo è previsto per maggio. In particolare, il ciclo di maggio servirà anche per allungare l’arco osservativo là dove non è più possibile arrivare con i telescopi da Terra, e questo permetterà di migliorare ancora di più l’accuratezza dell’orbita».
Se anche le osservazioni con Jwst non dovessero ridurre a zero la probabilità d’impatto, ci sarà occasione di osservare nuovamente 2024 YR4 nel dicembre del 2028, quando passerà a circa 7,5 milioni di chilometri da noi. Nel passaggio del 2028 si determinerà sicuramente con precisione l’orbita e sarà possibile dire se colpirà la Terra oppure no nel successivo passaggio. Nel caso d’impatto confermato sarà noto anche il luogo esatto e ci saranno 4 anni a disposizione per prepararsi con misure da protezione civile.
Mentre aspettiamo le osservazioni di Jwst cerchiamo di capire a grandi linee come si stima la probabilità d’impatto di un asteroide e perché ci possono essere degli aumenti e dei bruschi cali.
Evoluzione della nube di asteroidi virtuali dal 18 (sopra) al 19 (sotto) febbraio 2025. Come si vede la Terra sta uscendo dalla nube mano a mano che si aggiungono nuove osservazioni. Crediti: Esa/Neocc.
La probabilità di un evento, come il venire “testa” nel lancio di una moneta, si calcola matematicamente facendo il rapporto fra il numero di volte in cui è venuta testa e il numero di lanci totale. Se la moneta non è truccata e il numero di lanci è abbastanza grande, si ottiene un valore vicino al 50 percento.
Nel caso della probabilità d’impatto di un asteroide si procede in modo simile: si fa evolvere nel tempo una “nube” composta di un certo numero N di asteroidi virtuali, con posizione e velocità iniziale compatibili con le osservazioni dei telescopi. La nube di asteroidi virtuali si espanderà nello spazio, perché ognuno segue una propria traiettoria leggermente diversa dagli altri e queste piccole differenze si amplificano con il passare del tempo. La Terra (al computer), sarà quindi investita da una nube di asteroidi molto estesa nello spazio, uno dei quali è l’asteroide vero, ma non sappiamo quale sia. Facendo il rapporto fra il numero C di asteroidi virtuali che hanno colpito la Terra e gli N iniziali si ha la probabilità d’impatto P=C/N. Ma da dove arrivano le oscillazioni della probabilità d’impatto?
«Il fatto che la probabilità di impatto inizialmente cresca è normale quando si fanno questi calcoli», spiega Fenucci. «Infatti, quando l’arco osservativo è corto, l’incertezza della predizione futura è molto grande, e la Terra occuperà una frazione molto piccola dell’incertezza. Mano a mano che si effettuano nuove osservazioni, l’orbita sarà determinata in modo migliore e la predizione avrà quindi un’incertezza minore. La Terra però occuperà una frazione più grande dell’incertezza, e di conseguenza la probabilità d’impatto si alzerà. L’impatto sarà infine scongiurato quando l’incertezza sarà abbastanza piccola da non intersecare più la Terra. Questo meccanismo di compattazione della nube di asteroidi virtuali si vede bene fra il 18 e il 19 febbraio. Il 18 febbraio la Terra si trovava vicino al centro della nube di asteroidi, cioè vicino alla nominale, dove la probabilità d’impatto è più alta. Il 19 febbraio l’estensione della nube di asteroidi virtuali si è ridotta, e allo stesso tempo l’orbita nominale dell’asteroide si è spostata lontana dalla Terra, che adesso si trova in una regione meno densa quindi con probabilità più bassa. Nonostante il calo nella probabilità d’impatto, questo non vuol dire che possiamo permetterci di smettere di osservare l’asteroide. Nuovi dati sono necessari per consolidare il trend dell’orbita nominale e per ridurre ancora di più l’incertezza, fino a escludere del tutto l’impatto del 2032».
Si spiega così il comportamento a “montagne russe” della probabilità d’impatto di 2024 YR4. Non resta che attendere le osservazioni di Jwst per vedere se si archivierà definitivamente il caso. Se volete rimanere aggiornati sull’asteroide 2024 YR4 vi raccomando di seguire il blog dell’Esa: Rocket Science, News from the edge of gravity.
I ghiacciai fondono, ma c’è meno acqua dolce
Oltre 450 ricercatori e 35 gruppi di ricerca hanno unito menti e dati per fare un censimento sulla fusione dei ghiacciai in tutto il mondo. E il risultato non è incoraggiante: escludendo Groenlandia e Antartide, i ghiacciai del mondo hanno perso in media 273 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno a partire dal 2000, con una quantità di ghiaccio perso aumentata del 36 per cento dal 2012 rispetto agli 11 anni precedenti. Un fenomeno che sta esaurendo le risorse regionali di acqua dolce in varie regioni del mondo e sta facendo aumentare il livello globale del mare a ritmi sempre più rapidi. I risultati della ricerca sono pubblicati su Nature.
Quest’immagine mostra il tasso di perdita di ghiaccio nei ghiacciai di alcune regioni del mondo dal 2000 al 2023. Secondo le stime complessive del progetto internazionale Glambie, i ghiacciai hanno perso circa il 5 per cento del loro volume totale, con perdite regionali che vanno dal 2 per cento nelle isole antartiche e subantartiche al 39 per cento in Europa centrale. Ciò corrisponde a una perdita annuale di 273 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Tuttavia, la quantità di ghiaccio perso è aumentata del 36 per cento nella seconda metà del periodo di studio (2012-2023) rispetto alla prima metà (2000-2011). I risultati, pubblicati sulla rivista Nature, dimostrano che lo scioglimento dei ghiacciai di tutto il mondo sta esaurendo le risorse regionali di acqua dolce e sta facendo aumentare il livello del mare a livello globale a ritmi sempre più rapidi. Crediti: Esa/Planetary visions
Questa volontà congiunta di produrre stime globali sul tasso di fusione dei ghiacciai ha dato vita a un’iniziativa internazionale, il Glacier Mass Balance Intercomparison Exercise, o Glambie, coordinata dal World Glacier Monitoring Service (Wgms) dell’Università di Zurigo, in collaborazione con l’Università di Edimburgo e Earthwave Ltd. Lo sforzo è stato quello di unire, standardizzare e analizzare dati diversi provenienti da misure sul campo o da missioni satellitari ottiche, radar, laser e gravimetriche. Fra queste, ad esempio, le missioni statunitensi Terra/Aster e IceSat-2, la statunitense-tedesca Grace, la tedesca TanDem-X e CryoSat dell’Esa. Il risultato è una serie temporale annuale che disegna la variazione di massa dei ghiacciai per tutte le regioni glaciali a livello globale dal 2000 al 2023.
Secondo le stime, nel 2000 i ghiacciai – escluse le calotte continentali della Groenlandia e dell’Antartide – si estendevano per 705.221 km² e contenevano circa 121.728 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Negli ultimi due decenni, hanno perso circa il 5 per cento del loro volume totale, con perdite regionali che vanno dal 2 per cento nelle isole antartiche e subantartiche al 39 per cento in Europa centrale. Ciò corrisponde a una perdita annuale di 273 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Complessivamente, la perdita di massa dei ghiacciai nell’intero periodo di studio è stata del 18 per cento superiore a quella della calotta glaciale della Groenlandia e più del doppio di quella della calotta glaciale antartica – con un aumento molto più pronunciato del fenomeno dopo il 2012.
«Grazie ai diversi metodi di osservazione, Glambie non solo fornisce nuove informazioni sulle tendenze regionali e sulla variabilità da un anno all’altro, ma è anche in grado di identificare le differenze tra i metodi di osservazione», dice Michael Zemp, professore al Dipartimento di Geografia dell’Università di Zurigo, direttore del World Glacier Monitoring Service e primo autore dello studio. «Ciò significa che possiamo fornire una nuova base osservativa per studi futuri che analizzino l’impatto dello scioglimento dei ghiacciai sulla disponibilità idrica regionale e sull’innalzamento globale del livello del mare».
Tra il 2000 e il 2023, i ghiacciai hanno perso collettivamente 6.542 miliardi di tonnellate di ghiaccio, contribuendo per 18 mm all’innalzamento del livello globale del mare. Significa che, in media, ogni anno, il livello del mare aumenta di 0,75 mm. Ma fare una stima media non rende conto fino in fondo dell’entità del problema, poiché come dicevamo il tasso di perdita di ghiaccio dei ghiacciai è aumentato significativamente nel tempo, passando da 231 miliardi di tonnellate all’anno nella prima metà del periodo di studio a 314 miliardi di tonnellate all’anno nella seconda metà.
Ghiacciai nelle Chugach Mountains dell’Alaska. Questa immagine, catturata dalla missione Copernicus Sentinel-2 il 6 ottobre 2017, mostra lo scioglimento dei ghiacciai Scott (a sinistra), Sheridan (al centro) e Childs (a destra) che alimentano laghi e fiumi nei loro fronti. Crediti: Rielaborazione dei dati della missione Copernicus/Esa
Oggi i ghiacciai sono al secondo posto tra i fattori che contribuiscono all’innalzamento globale del livello del mare, dopo l’espansione termica legata al riscaldamento degli oceani. Superano i contributi della calotta glaciale della Groenlandia, della calotta glaciale dell’Antartide e dei cambiamenti nello stoccaggio delle acque terrestri. Non solo: oltre all’innalzamento del livello del mare, lo scioglimento dei ghiacciai rappresenta una perdita significativa di risorse d’acqua dolce a livello regionale. I ghiacciai sono infatti risorse d’acqua dolce vitali, soprattutto per le comunità locali dell’Asia centrale e delle Ande centrali, dove i ghiacciai dominano il deflusso durante le stagioni calde e secche.
«Per mettere le cose in prospettiva», continua Zemp, «le 273 miliardi di tonnellate di ghiaccio persi ogni anno equivalgono a quanto l’intera popolazione globale consuma in 30 anni, ipotizzando tre litri a persona al giorno».
Insomma, un quadro allarmante e pubblicato puntuale come una sentenza nell’Anno internazionale per la conservazione dei ghiacciai e del Decennio di azione per le scienze criosferiche (2025-2034) indetti dalle Nazioni Unite. Aggiungetelo – se non era già presente – alla lista delle conseguenze disastrose del cambiamento climatico in atto, probabilmente fra quelle irreversibili. E, se ve lo state chiedendo, sì, è il caso di iniziare a preoccuparsi.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Community estimate of global glacier mass changes from 2000 to 2023“, The Glambie Team
Il Roman Telescope ha il suo parasole
I tecnici del Goddard Space Flight Center della Nasa accanto al sistema parasole-esoscheletro del telescopio spaziale Nancy Grace Roman. Crediti: Nasa/Chris Gunn
La Nasa continua a fare passi da gigante nello sviluppo del Nancy Grace Roman Space Telescope (Rst), il successore del telescopio spaziale Hubble. L’ultima pietra miliare raggiunta dal team della missione, dopo l’integrazione del coronografo e il montaggio delle ottiche, è l’integrazione del parasole – la deployable aperture cover – sull’esoscheletro del telescopio – l’outer barrel assembly.
“Milestone alert! Roman’s deployable aperture cover has been installed onto the outer barrel assembly”, dice il post con cui viene annunciato su X il successo dell’operazione.
Il parasole del Nancy Grace Roman Telescope è una sorta di visiera realizzata per bloccare la luce diffusa che arriva al telescopio. Progettata e costruita al Goddard Space Flight Center della Nasa, la struttura è un componente chiave del futuro telescopio, che studierà l’universo a infrarossi. Grazie a questa copertura l’osservatorio sarà infatti più sensibile alla luce infrarossa proveniente dall’universo, aiutando gli astronomi a osservare oggetti più deboli e lontani.
Tenere la luce indesiderata fuori dalla portata del telescopio non è però l’unica funzione della struttura. Un altro compito a cui dovrà assolvere la struttura quando il telescopio sarà in orbita intorno al punto lagrangiano L2 del sistema Terra-Sole è la protezione dall’impatto di micrometeoriti. Per questo motivo gli ingegneri della Nasa hanno costruito il parasole con una struttura simile a quella di una finestra a doppio vetro, fatta da due strati termici rinforzati – uno dei quali in kevlar, lo stesso materiale che riveste i giubbotti antiproiettile – separati da uno spazio di circa 2,5 centimetri.
La settimana scorsa, dopo aver superato numerosi test – acustici, in camera termica a vuoto e ambientali – il parasole è stato montato sul suo supporto. Tutto è avvenuto all’interno della più grande camera bianca presente al Nasa Goddard. Nel corso di alcune ore, i tecnici della Nasa hanno agganciato con successo la struttura all’outer barrel assembly, una sorta di esoscheletro del telescopio a forma di barile. «È stato incredibile vedere questi componenti del telescopio trasformarsi da modelli al computer a strutture reali, fino alla loro integrazione», dice Sheri Thorn, una degli ingegneri aerospaziali del Goddard Space Flight Center della Nasa a Greenbelt, nel Maryland, coinvolti nella fabbricazione, prova ed integrazione del componente sul Roman Space Telescope. «Dal momento che tutto viene assemblato al Goddard Space Flight Center, abbiamo il privilegio di assistere al processo in prima fila. Abbiamo visto il progetto maturare, che è un po’ come osservare un bambino crescere, ed è un’esperienza davvero gratificante»
Schema della struttura del Roman Telescope con il parasole (evidenziato sulla sinistra) e outer barrel assembly (sulla destra). Crediti: Nasa Gsfc
L’outer barrel assemblyè un altro componente importante del telescopio. Oltre a coadiuvare il parasole nelle sue funzioni, funge da supporto per i pannelli solari del telescopio. Non solo, però. L’esoscheletro aiuta anche a mantenere il telescopio a una temperatura stabile. Per svolgere quest’ultima funzione è dotato di riscaldatori, strumenti in grado di garantire che gli specchi del telescopio non subiscano grandi oscillazioni di temperatura che possono comprometterne la funzione.
Una vista del parasole del telescopio attraverso l’outer barrell assembly. Crediti: Nasa/Chris Gunn
Sia il parasole che l’esoscheletro sono già stati ampiamente testati individualmente. Ora che sono stati collegati, gli ingegneri stanno comunque ripetendo i test per sincerarsi che le due unità funzionino ancora correttamente. Fondamentale in questo senso è il test di dispiegamento del parasole. Durante il lancio del telescopio, il parasole rimarrà piegato su se stesso. Il dispiegamento avverrà solo dopo che il telescopio sarà nello spazio, tramite tre bracci che si estendono verso l’alto quando verrà inviato il comando. Verificare che questa fase avvenga correttamente è molto importante, poiché c’è in gioco la capacità del telescopio di ottenere immagini nitide.
«Dato che il parasole è stato progettato per essere dispiegato nello spazio, il sistema non è abbastanza forte da dispiegarsi sotto la forza della gravità terrestre. Per verificare che tutto funzionasse come previsto abbiamo quindi utilizzato un gravity negation system per compensare il suo peso», spiega Matthew Neuman, uno degli ingegneri meccanici che lavora al parasole del telescopio presso il Nasa Goddard, riferendosi al sistema messo a punto dalla Nasa per simulare il laboratorio l’assenza di gravità.
Le prossime verifiche a cui il sistema parasole-esoscheletro sarà sottoposto saranno un test in camera termica a vuoto, per garantire che i componenti funzionino alle temperatura e pressione dello spazio, e un test di scuotimento, per simulare le intense vibrazioni che sperimenteranno durante il lancio. Se anche il risultato di questi test dovesse darà esito positivo, il prossimo passo sarà collegare i pannelli solari, per poi integrare il il tutto con il resto dell’osservatorio entro la fine dell’anno.
L’integrazione del parasole al suo supporto segna il superamento della cosiddetta Key Decision Point-D (Kdp-d), un’importante pietra miliare nella costruzione del telescopio, e sancisce ufficialmente il passaggio dalla fase di costruzione a quella di assemblaggio e collaudo del telescopio. Se i tempi saranno rispettati, queste fasi potrebbero essere completate già nel 2026, con il lancio del telescopio entro maggio 2027.
La forza delle maree su Titano
Gli scienziati dello SwRI hanno calcolato che, alla velocità con cui l’orbita di Titano sta cambiando, il satellite avrebbe dovuto raggiungere un’orbita circolare entro circa 350 milioni di anni. Il fatto che Titano possieda ancora un’orbita eccentrica suggerisce che negli ultimi 350 milioni di anni sia accaduto qualcosa in grado di perturbare il suo percorso orbitale. Crediti: Nasa/ Jpl/ University of Arizona/ University of Idaho
Quando penso alle maree, l’immagine che mi viene subito in mente è quella di Mont Saint-Michel. In particolare, ricordo quando, dal muro di cinta, ho osservato il mare risalire rapidamente la spiaggia, avanzando di centinaia di metri in pochi minuti, fino ad arrivare all’ingresso dell’abbazia. In effetti, quando la maggior parte delle persone pensa alle maree, immagina il movimento degli oceani che si alzano e si abbassano, influenzato dall’azione gravitazionale della Luna. «Questo solo perché l’acqua si muove più liberamente di qualsiasi altra cosa», spiega Brynna Downey dello SwRI a Boulder, Colorado, prima autrice di un articolo su questo tema pubblicato sulla rivista Science Advances. «Quando la Luna si trova sopra la nostra testa, anche la roccia risponde, seppur in modo meno evidente. Quella piccola forza gravitazionale che la Luna esercita è ciò che definiamo dissipazione mareale».
Per misurare la dissipazione mareale della Luna, gli scienziati inviano dei laser dalla Terra verso specchi posizionati sulla sua superficie, permettendo di rilevare con precisione anche i minimi spostamenti. Che poi, se volete, tanto minimi non sono visto che si sta allontanando dalla Terra di circa 4 centimetri all’anno. Poiché questa tecnica non è applicabile su Titano, gli scienziati hanno sviluppato un metodo alternativo per dedurre la velocità di dissipazione, basandosi sulla differenza tra la rotazione effettiva dell’asse di Titano e quella che ci si aspetterebbe in assenza di tale forza.
«La dissipazione mareale nei satelliti influisce sulla loro evoluzione orbitale e rotazionale, nonché sulla loro capacità di mantenere oceani nel sottosuolo», spiega Downey. «Ora che abbiamo una stima della forza delle maree su Titano, possiamo dire qualcosa sulla velocità con cui l’orbita sta cambiando? Abbiamo scoperto che sta cambiando molto rapidamente su una scala temporale geologica».
Insieme al coautore Francis Nimmo, dell’Università della California Santa Cruz, Downey ha ipotizzato che l’angolo di orientamento del polo di rotazione di Titano possa essere spiegato esclusivamente dall’attrito e ha sviluppato un metodo per correlare questo angolo con un parametro di attrito mareale. Grazie a questo approccio, sono riusciti a ricostruire parte della storia di Titano partendo dal suo attuale stato di rotazione. Con le future missioni spaziali previste su altre lune, come Europa e Ganimede, due satelliti di Giove, Downey spera che questo metodo possa essere applicato anche ad altri corpi celesti.
L’attrito all’interno di un satellite provoca un lento spostamento verso un’orbita circolare. Considerando la velocità con cui la sua orbita sta cambiando, Titano avrebbe dovuto raggiungere un’orbita circolare in circa 350 milioni di anni. Il fatto che Titano possieda ancora un’orbita non perfettamente circolare, ma eccentrica, suggerisce che negli ultimi 350 milioni di anni sia accaduto qualcosa in grado di perturbare la sua orbita.
«Qualsiasi evento, come un impatto o la perdita di un antico satellite, potrebbe aver influenzato l’orbita di Titano, rendendola eccentrica. I nostri risultati non indicano la natura specifica di questo evento, e altri hanno proposto diverse ipotesi», conclude Downey. «Riteniamo che qualcosa abbia disturbato l’orbita di Titano negli ultimi 350 milioni di anni, un periodo relativamente recente nella storia del Sistema solare. Stiamo osservando un’istantanea temporale tra quell’evento e il momento in cui Titano raggiungerà nuovamente un’orbita circolare».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Titan’s spin state as a constraint on tidal dissipation” di Brynna Downey e Francis Nimmo
Siamo soli nell’universo? Forse no
C’è la possibilità che emergano o siano emerse forme di vita intelligenti nell’universo? Per il fisico teorico australiano Brandon Carter la risposta è che sia un evento estremamente improbabile. Il motivo di questa bassa probabilità, secondo lo scienziato, è legato ai lunghi tempi scala necessari per la loro evoluzione rispetto alla durata media della fase di sequenza principale delle stelle. Una riflessione, questa, che nel 1983 lo ha portato a formulare il modello dei passaggi difficili (hard steps model, in inglese). Secondo questo modello, lo sviluppo di forme di vita complesse prevede il superamento di una serie di passaggi cosiddetti “difficili”. Ciascuno di questi passaggi è un collo di bottiglia evolutivo, e solo il loro completamento sequenziale porta allo sviluppo di forme di vita intelligenti e autocoscienti. Più sono i passaggi difficili, più tempo occorre affinché la vita intelligente emerga.
Immagine del nostro pianeta visto dallo spazio. Una nuova teoria propone che gli esseri umani, e la vita analoga oltre la Terra, possano rappresentare il probabile risultato dell’evoluzione biologica e planetaria. Crediti: Nasa
Considerato il numero di passaggi che l’essere umano ha dovuto superare per evolversi – l’origine della vita, la fotosintesi, l’evoluzione degli eucarioti, eccetera – e considerato il tempo impiegato dagli esseri umani per farlo rispetto alla durata totale della vita del Sole, lo scienziato ipotizzò che la nostra origine evolutiva fosse improbabile e che esseri simili agli umani al di là della Terra siano rari.
Per arrivare a concepire questo modello, Carter ha considerato due diverse scale temporali: la comparsa dell’uomo sulla Terra (circa 5 miliardi di anni fa) e la durata stimata della vita del Sole nella sua fese di sequenza principale (10 miliardi di anni), corrispondente alla finestra di abitabilità della Terra. Lo scienziato ha quindi valutato tre diverse possibilità che collegano queste due scale temporali con il tempo medio di evoluzione della vita intelligente. La prima possibilità è che il tempo medio richiesto per far evolvere specie intelligenti sia strettamente minore della durata stimata della vita del Sole nella sequenza principale. La seconda è che il tempo richiesto per l’evoluzione sia uguale alla suddetta durata. La terza, infine, che il tempo medio di evoluzione sia strettamente maggiore.
Carter scarta la prima ipotesi in quanto ritiene che se fosse vera dovremmo trovarci su una Terra molto più giovane. La Terra, cioè, avrebbe dovuto popolarsi di umani miliardi di anni fa. Scarta anche la seconda ipotesi definendola poco probabile a priori. Secondo lo scienziato, infatti, questa ipotesi andrebbe presa in considerazione solo se fossero emerse prove convincenti a posteriori contro le altre due possibilità. Per Carter l’ipotesi più plausibile è la terza. Le conclusioni a cui giunge seguendo questo ragionamento sono due. La prima conclusione è che il tempo medio per l’evoluzione della vita intelligente su un pianeta abitabile supera di gran lunga la durata della vita della sua stella. La seconda, che è una conseguenza della prima, è che era intrinsecamente improbabile che la nostra origine evolutiva avvenisse entro il tempo di vita della nostra stella, con il corollario che forme di intelligenti analoghe oltre la Terra sarebbero ugualmente improbabili.
Per spiegare perché è così improbabile che forme di vita intelligenti si evolvano entro la durata della vita media della sequenza principale di una stella, lo scienziato ha introdotto i già citati passaggi difficili. Poiché, secondo Carter, il tempo di vita del Sole nella sequenza principale può essere conciliato al più con due di questi passaggi, la sua idea è che l’evoluzione degli esseri umani sulla Terra sia dipeso da eventi casuali. Insomma, secondo il modello di Carter la Terra sarebbe un pianeta straordinariamente raro, forse l’unico a essere riuscito a superare tutti i passaggi prima di diventare inabitabile.
Un team multidisciplinare di scienziati guidati dalla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco (Germania) e dalla Penn State (Usa) mette ora in discussione questo modello. Lo fa considerando l’evoluzione della vita complessa sotto l’aspetto della geobiologia storica, cioè lo studio di come l’ambiente superficiale della Terra e la vita si sono co-evoluti nel tempo geologico.
Pubblicata la settimana scorsa sulle pagine della rivista Science Advances, la nuova ricerca propone che la tempistica delle origini umane possa essere spiegata dall’apertura sequenziale di “finestre di abitabilità” nel corso della storia della Terra, guidata da cambiamenti nella disponibilità di nutrienti, nella temperatura della superficie del mare, nei livelli di salinità degli oceani e nelle quantità di ossigeno nell’atmosfera. Secondo questo nuovo modello, i passaggi evolutivi che hanno portato all’emergere della vita intelligente sono diventati possibili solo quando l’ambiente globale ha raggiunto uno stato “permissivo”. Il fatto che la Terra sia diventata ospitale per l’umanità solo di recente è il risultato naturale di queste condizioni all’opera. Poco c’entrerebbe, dunque, il caso.
«Riteniamo che la vita intelligente potrebbe non aver avuto bisogno di una serie di colpi di fortuna per esistere», spiega Dan Mills, ricercatore alla Ludwig-Maximilians-Universität e primo autore dello studio. «Gli esseri umani non si sono evoluti presto o tardi nella storia della Terra, ma “in tempo”, quando le condizioni lo hanno permesso. Alcuni pianeti potrebbero essere in grado di raggiungere queste condizioni più rapidamente della Terra, altri potrebbero impiegare più tempo».
Contrariamente a quanto ipotizzato da Carter, gli autori del nuovo studio propongono che l’evoluzione della vita complessa non debba essere studiata considerando la vita del Sole nella sequenza principale. In questo senso, la presenza di forme di vite complesse sulla Terra e oltre potrebbe essere non una questione di fortuna ma di interazione tra la vita e il suo ambiente.
«Sosteniamo che, anziché basare le nostre previsioni sulla durata della vita del Sole, dovremmo usare una scala temporale geologica, perché è il tempo che impiega l’atmosfera e il paesaggio a cambiare», dice a questo proposito Jason Wright, ricercatore alla Penn State e coautore della pubblicazione. «Se la vita si è evoluta con il pianeta, allora si evolverà su una scala temporale planetaria, a un ritmo planetario»
Il nuovo modello non prevede neanche il superamento di passaggi difficili. Secondo i ricercatori, infatti, il ritmo generale dell’evoluzione della vita intelligente sulla Terra sarebbe stabilito da processi ambientali. Tali processi avrebbero fatto sì che la vita complessa emergesse così “tardi” nella storia del nostro pianeta perché la finestra di abitabilità si è aperta solo relativamente di recente. In questo senso, la storia della biosfera potrebbe essersi svolta in modo più deterministico di quanto generalmente si pensi, con innovazioni evolutive limitate a finestre temporali in cui le condizioni erano globalmente favorevoli.
«Questa nuova prospettiva suggerisce che l’emergere della vita intelligente potrebbe non essere poi così improbabile», conclude Wright. «Invece di una serie di eventi improbabili, l’evoluzione potrebbe essere un processo più prevedibile, che si svolge non appena le condizioni globali lo consentono. Il nostro quadro si applica non solo alla Terra, ma anche ad altri pianeti, aumentando la possibilità che una vita simile alla nostra possa esistere altrove».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “A reassessment of the “hard-steps” model for the evolution of intelligent life” di Daniel B. Mills, Jennifer L. Macalady, Adam Frank e Jason T. Wright
Tylos e la sua atmosfera impetuosa
«L’atmosfera del pianeta ha dei comportamenti che sfidano la nostra comprensione di come funziona il meteo, non solo sulla Terra, ma su tutti i pianeti. Sembra un film di fantascienza», esclama Julia Victoria Seidel, ricercatrice all’Eso (Osservatorio europeo australe), in Cile, e prima autrice principale di uno studio, pubblicato oggi su Nature, sull’esopianeta Wasp-121b.
Noto anche come Tylos, Wasp-121b si trova a circa 900 anni luce di distanza da noi nella costellazione della Poppa. È un pianeta gioviano ultra-caldo, un gigante gassoso in orbita così vicino alla stella madre che un anno, lì, dura appena trenta ore terrestri. Inoltre, un lato del pianeta è rovente, poiché è sempre rivolto verso la stella, mentre l’altro lato è molto più freddo.
Tylos (o Wasp-121b) è un gigante gassoso situato a circa 900 anni luce da noi nella costellazione della Poppa. Utilizzando lo strumento Espresso del Very Large Telescope dell’Eso è stato possibile ricostruirne per la prima volta – per un esopianeta – l’atmosfera in tre dimensioni. Si è così scoperto che è divisa in tre strati, con venti di ferro nella parte inferiore, seguiti da un getto molto veloce di sodio e infine da uno strato superiore di venti di idrogeno. Questo tipo di clima non è mai stato osservato prima su nessun pianeta. Crediti: Eso/M. Kornmesser
Il gruppo di lavoro ha esplorato in profondità l’atmosfera di Tylos e ha rivelato venti distinti in strati separati, che risultano nella mappa tridimensionale della struttura dell’atmosfera. È la prima volta che gli astronomi hanno potuto studiare l’atmosfera di un pianeta al di fuori del Sistema solare in modo così approfondito e dettagliato.
«Ciò che abbiamo scoperto è stato sorprendente: una corrente a getto fa ruotare il materiale intorno all’equatore del pianeta, mentre un flusso separato ai livelli inferiori dell’atmosfera sposta il gas dal lato caldo a quello più freddo. Questo tipo di clima non è mai stato osservato prima su nessun pianeta», dice Seidel, che è anche ricercatrice presso il Lagrange Laboratory, parte dell’Observatoire de la Côte d’Azur, in Francia. La corrente a getto osservata attraversa metà del pianeta, guadagnando velocità e scuotendo violentemente gli strati superiori dell’atmosfera mentre attraversa il lato caldo di Tylos. «Al confronto, persino i più violenti uragani del Sistema solare sembrano un venticello».
«Nelle regioni più profonde, il materiale è ridistribuito tramite venti diretti direttamente dal lato diurno a quello notturno. Questo meccanismo», spiega a Media Inaf uno dei coautori dello studio, l’astrofisico Lorenzo Pino dell’Inaf di Arcetri, «è alla base della redistribuzione di calore dal lato diurno – dove la stella deposita la sua energia – a quello notturno del pianeta. I modelli indicano che la presenza di un campo magnetico limita l’intensità di questo tipo di venti, ma i dati mostrano che questo effetto non è molto forte in Wasp-121b. Invece, è necessario che parte del calore venga liberata nel lato notturno attraverso specifiche reazioni chimiche che coinvolgono la formazione di idrogeno molecolare a partire dalla sua forma atomica – una reazione che libera energia.
«Più in alto», continua Pino, «abbiamo osservato una corrente a jet di forza inattesa, cento volte più veloce dei venti misurati in Giove. I modelli non sono attualmente in grado di spiegare questi venti, che rappresentano forse la scoperta più inattesa. È possibile che anche questo tipo di circolazione atmosferica richieda la presenza di campi magnetici, ma l’effetto andrà quantificato in futuro con modelli dedicati. Infine, nelle regioni più esterne dell’atmosfera abbiamo osservato una parziale transizione a dei venti orientati verticalmente. Pensiamo che questo fenomeno sia collegato al fenomeno dell’evaporazione dell’atmosfera del pianeta, cioè una perdita di massa, che però non sarà sufficiente a distruggere questo pianeta, che è massiccio. I meccanismi alla base di questo fenomeno, che riguarda molti giganti gassosi caldi, non sono ancora chiariti, e questo studio mostra che la transizione da regimi di circolazione orizzontale a regimi verticali – che genererebbero poi la perdita di massa – è graduale, e dunque potenzialmente collegato. Ulteriori studi saranno necessari sia per determinare la velocità di questi moti verticali, sia per modellare la transizione tra i regimi di circolazione orizzontale e verticale».
Per scoprire la struttura in tre dimensioni dell’atmosfera dell’esopianeta, il gruppo ha utilizzato lo strumento Espresso, installato sul Vlt dell’Eso per combinare la luce dei quattro telescopi individuali in un singolo segnale. Questa modalità di combinazione del Vlt raccoglie quattro volte più luce di un singolo telescopio, permettendo di rivelare dettagli più deboli. Osservando il pianeta per un transito completo davanti alla stella madre, Espresso ha trovato l’impronta di vari elementi chimici, sondando di conseguenza diversi strati dell’atmosfera.
«È davvero incredibile che siamo in grado di studiare dettagli come la composizione chimica e la struttura climatica di un pianeta a una distanza così grande», dice Bibiana Prinoth, dottoranda all’Università di Lund (Svezia) e all’’Eso, coautrice dell’articolo di Nature e prima autrice di uno studio correlato, pubblicato su Astronomy & Astrophysics, che ha rivelato l’inattesa presenza di titanio appena sotto la corrente a getto.
«Questo risultato conferma le capacità eccezionali dello spettrografo ad altissima risoluzione Espresso», ribadisce uno dei coautori dello studio su Astronomy & Astrophysics, Francesco Borsa dell’Inaf di Brera, «il primo strumento in grado di osservare simultaneamente con tutti e quattro i telescopi del Very Large Telescope simultaneamente, simulando un telescopio da 16 metri di diametro. Le prime osservazioni in questo modo osservativo dell’atmosfera di Wasp-121b (il primo esopianeta ad avere questo tipo di osservazioni) erano state pubblicate nel 2021 e già avevano dimostrato la loro eccezionalità, ma erano purtroppo solo parziali. Con questo studio si è completata la parte mancante delle osservazioni, e i risultati ci hanno permesso di studiare la chimica e fisica atmosferica di questo gioviano ultracaldo al variare di latitudine e longitudine. In particolare, la presenza di titanio sembra essere limitata alle regioni equatoriali, suggerendo un rimescolamento atmosferico limitato. Lo studio del titanio e dei suoi composti ci aiuta a capire come avvengono i meccanismi di condensazione in queste atmosfere planetarie dalle temperature estreme. I livelli di dettaglio raggiunti osservando con i quattro Vlt simultaneamente confermano le grandi aspettative che si hanno verso l’Extremely Large Telescope per lo studio delle atmosfere di esopianeti, con obiettivo l’osservazione di atmosfere di esopianeti potenzialmente abitabili».
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Vertical structure of an exoplanet’s atmospheric jet stream”, di Julia V. Seidel, Bibiana Prinoth, Lorenzo Pino, Leonardo A. dos Santos, Hritam Chakraborty, Vivien Parmentier, Elyar Sedaghati, Joost P. Wardenier, Casper Farret Jentink, Maria Rosa Zapatero Osorio, Romain Allart, David Ehrenreich, Monika Lendl, Giulia Roccetti, Yuri Damasceno, Vincent Bourrier, Jorge Lillo-Box, H. Jens Hoeijmakers, Enric Pallé, Nuno Santos, Alejandro Suárez Mascareño, Sergio G. Sousa, Hugo M. Tabernero e Francesco A. Pepe
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Titanium chemistry of WASP-121 b with Espresso in 4-UT mode”
Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:
Mercoledì 19 febbraio torna la Binocular Classroom al Parco delle Ginestre (via Salita di Oriolo, #Faenza)
E' una lezione di #astronomia osservando il cielo col #binocolo
I posti sono limitati, contattaci per prenotare!
Dettagli: mobilizon.it/events/1cce724c-7…
#spazio #astrofili #scienza #osservazioneastronomica #cielostellato #cielonotturno #divulgazione #scienze #evento #eventi #corso #corsi #romagna #italia #space #astronomy #stargazing #starparty #binocoli #space #astronomy
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Ogni nana bianca esplode a modo suo
Le nane bianche sono il risultato dell’evoluzione finale di stelle di piccola e media massa (fino a circa 8 volte la massa del Sole). Anche se non nascono da supernove, come invece accade per le stelle di neutroni e i buchi neri, ne possono essere la causa, portando all’esplosione delle codiddette supernove di tipo Ia. Per decenni queste drammatiche esplosioni hanno svolto un ruolo fondamentale nello studio dell’energia oscura, la misteriosa forza responsabile dell’accelerazione dell’espansione dell’universo, oltre che essere l’origine di molti elementi della nostra tavola periodica, come il titanio, il ferro e il nichel, che si formano nelle condizioni di estrema densità e calore presenti durante le loro esplosioni.
Il telescopio Samuel Oschin da 1.2 metri dell’Osservatorio Palomar in California con un’immagine della Via Lattea sullo sfondo. Le stelle rappresentano il numero di supernove scoperte in ogni direzione e l’inserto è un’immagine di una galassia dopo (a sinistra) e prima (a destra) dell’esplosione della supernova. Crediti: Mickael Rigault
Proprio in questi giorni è stata raggiunta una pietra miliare nella comprensione di questi transienti esplosivi con la pubblicazione di un’importante serie di dati e delle relative 21 pubblicazioni in un numero speciale di Astronomy & Astrophysics, pubblicato il 14 febbraio.
La release, denominata Dr2, contiene 3628 supernove di tipo Ia vicine (z < 0,3) scoperte, seguite e classificate dalla survey Zwicky Transient Facility (Zft) – una survey astronomica che utilizza una fotocamera avanzata collegata al telescopio Samuel Oschin presso l’osservatorio di Monte Palomar, in California – tra marzo 2018 e dicembre 2020. Si tratta della più grande release di supernove Ia mai rilasciata e aumenta di un ordine di grandezza il numero di oggetti ben caratterizzati a basso redshift.
«Grazie alla capacità unica di Ztf di scansionare il cielo rapidamente e in profondità, è stato possibile scoprire nuove esplosioni di stelle fino a un milione di volte più deboli delle stelle più deboli visibili a occhio nudo», afferma Kate Maguire del Trinity College di Dublino.
Uno dei risultati chiave è la scoperta che esistono molteplici modi esotici in cui le nane bianche possono esplodere, tra spettacolari collisioni e cannibalismo in sistemi binari. La sorprendente diversità riscontrata potrebbe avere implicazioni sull’uso di queste supernove nella misurazione delle distanze nell’universo, poiché i vincoli sulle proprietà dell’energia oscura richiedono in modo cruciale che queste esplosioni possano essere standardizzate. «La diversità dei modi in cui le stelle nane bianche possono esplodere è molto più ampia di quanto ci si aspettasse in precedenza, con esplosioni che vanno da quelle così deboli da essere appena visibili ad altre che sono abbastanza luminose da poter essere viste per molti mesi o anni dopo», conclude Maguire.
Insomma, le nane bianche non finiscono di stupirci e pensare che anche la nostra stella – il Sole – terminerà la sua vita in quella forma, non fa che accrescere l’interesse per questi affascinanti oggetti compatti. Pensate che, secondo uno studio pubblicato sempre la scorsa settimana su The Astrophysical Journal, tra i circa 10 miliardi di nane bianche presenti nella Via Lattea, un numero maggiore del previsto potrebbe ospitare esopianeti nella zona abitabile. Sperabilmente, non quelle che daranno origine a supernove!
Per saperne di più:
- Consulta su Astronomy & Astrophysics la Special Issue Ztf Sn Ia Dr2
Gli ammassi globulari e i segreti delle galassie
Gli ammassi globulari non sono solo semplici agglomerati di stelle: sono vere e proprie macchine del tempo cosmiche che permettono di tuffarsi nella storia di formazione ed evoluzione delle galassie. Con centinaia di migliaia di stelle raccolte in un unico sistema, questi antichissimi agglomerati stellari raccontano storie segrete di fusioni galattiche e di eventi cosmici che hanno scolpito l’Universo come lo conosciamo oggi. Lo ribadiscono le immagini dei gruppi di galassie Ngc 3640 e Ngc 5018, realizzate con il telescopio italiano Vst (Vlt Survey Telescope) in Cile e analizzate in due studi guidati da giovani dottorandi dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), pubblicati recentemente su Astronomy & Astrophysics.
La galassia Ngc 3640, al centro dell’omonimo gruppo di galassie, e la vicina Ngc 3641, osservate con il Vst. Crediti: Eso/Inaf/M. Mirabile et al./R. Ragusa et al.
Uno dei due lavori si focalizza sul gruppo di galassie Ngc 3640, dominato dall’omonima galassia ellittica, a circa 88 milioni di anni luce da noi. Si tratta di una galassia dalla forma curiosa e perturbata, che reca i segni di passate interazioni con le vicine galassie. La nuova immagine ottenuta con il Vst e pubblicata oggi svela per la prima volta la distribuzione degli ammassi globulari nella regione, visibili come puntini luminosi nei pressi delle galassie: questi non si limitano a orbitare intorno alle singole galassie, ma si estendono anche nello spazio intergalattico. La loro disposizione è il risultato di una lunga storia di interazioni e fusioni galattiche che hanno “strappato via” non solo singole stelle ma anche interi ammassi stellari dai loro sistemi originali.
«Il nostro studio offre una comprensione più approfondita dell’evoluzione e delle interazioni delle galassie nel corso della loro storia, arricchendo le conoscenze sui processi fondamentali che hanno modellato l’universo», spiega Marco Mirabile, dottorando presso il Gran Sasso Science Institute (Gssi) con una borsa supportata da Inaf d’Abruzzo e primo autore di uno dei due articoli. «Abbiamo studiato per la prima volta le proprietà degli ammassi globulari delle galassie Ngc 3640 e Ngc 3641 utilizzando immagini a grande campo e multi-banda, identificando un possibile nuovo modello di interazione tra le due galassie e scoprendo inoltre 17 nuove galassie nane che non erano note precedentemente in questo campo».
Il gruppo di galassie Ngc 3640 osservato con il Vst. Crediti: Eso/Inaf/M. Mirabile et al.
Gli ammassi globulari analizzati nel lavoro, contrariamente alle aspettative, mostrano la loro massima concentrazione non intorno a Ngc 3640, la galassia più massiccia del gruppo, ma intorno alla sua vicina, Ngc 3641, che spicca nella metà inferiore dell’immagine. La distribuzione degli ammassi risulta peraltro allineata con la cosiddetta luce intragruppo (in inglese: intra-group light). Si tratta di una luminosità diffusa dovuta a stelle che sono state sottratte alle varie galassie durante fenomeni di merging, già studiata in questo sistema proprio grazie ai dati del Vst in un lavoro guidato dalla ricercatrice Inaf Rossella Ragusa nel 2023. Tutti questi indizi suggeriscono che la fusione tra queste due galassie sia ancora in corso.
Il secondo studio si concentra invece sul gruppo di galassie Ngc 5018, anch’esso dominato dalla galassia ellittica che porta lo stesso nome e che si trova a circa 120 milioni di anni luce da noi. Anche Ngc 5018 è ricca di segni di interazioni cosmiche: concentrazioni di stelle disposte in forma di gusci concentrici, code mareali e flussi di gas. Nelle immagini del Vst, già studiate sin dal 2018, è stato ora possibile identificare, per la prima volta, una popolazione di ammassi globulari distribuita, anche in questo caso, lungo la luce intragruppo: questo evidenzia come la mutua gravità delle galassie abbia scolpito il sistema durante passate fusioni e interazioni.
«Il nostro studio suggerisce che le interazioni gravitazionali tra le galassie del gruppo Ngc 5018 abbiano disperso gli ammassi globulari lungo l’asse di interazione», nota Pratik Lonare, dottorando presso l’Università di Roma Tor Vergata con una borsa supportata da Inaf d’Abruzzo e primo autore del secondo articolo. «Questa ricerca dimostra che gli ammassi globulari non sono solo fossili della formazione iniziale delle galassie, ma vengono rimodellati dinamicamente da interazioni, fusioni e processi di accrescimento nel tempo». Inoltre, il team ha individuato una possibile nuova galassia nana ultra-diffusa (in inglese: ultra-diffuse galaxy) mai osservata prima in questo gruppo galattico.
Questa immagine profonda dell’area di cielo intorno alla galassia ellittica Ngc 5018 offre una veduta spettacolare delle tenui scie di gas e stelle. Queste strutture delicate sono i segni distintivi dell’interazione tra galassie e forniscono indizi fondamentali per comprendere la struttura e la dinamica della galassie. Crediti: Eso/Spavone et al.
I due nuovi lavori fanno parte del progetto Vegas-Sss (Vst Early-type Galaxy Survey – Small Stellar Systems), un censimento di galassie guidato dall’Inaf con il Vst dedicato a sistemi stellari più piccoli delle galassie, come ammassi globulari e galassie nane, per esplorare i processi di formazione galattica su scale cosmiche. Il telescopio Vst, gestito da Inaf presso l’Osservatorio Eso di Paranal, è lo strumento ideale per questo tipo di studi grazie al suo grande campo di vista di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area della luna piena nel cielo. Questo permette di osservare in dettaglio non solo le galassie ma anche l’ambiente circostante, spianando la strada a progetti futuri come il Vera C. Rubin Observatory, che sarà inaugurato prossimamente, sempre in Cile, per realizzare survey astronomiche con un campo di vista ancora più grande.
Per saperne di più:
- Leggi la news sulla Picture of the week sul sito Eso
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “VEGAS-SSS: Tracing Globular Cluster Populations in the Interacting NGC 3640 Galaxy Group” di Marco Mirabile, Michele Cantiello, Pratik Lonare, Rossella Ragusa, Maurizio Paolillo, Nandini Hazra, Antonio La Marca, Enrichetta Iodice, Marilena Spavone, Steffen Mieske, Marina Rejkuba, Michael Hilker, Gabriele Riccio, Rebecca A. Habas, Enzo Brocato, Pietro Schipani, Aniello Grado e Luca Limatola
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “VEGAS-SSS: An intra-group component in the globular cluster system of NGC 5018 group of galaxies using VST data”, di Pratik Lonare, Michele Cantiello, Marco Mirabile, Marilena Spavone, Marina Rejkuba, Michael Hilker, Rebecca Habas, Enrichetta Iodice, Nandini Hazra e Gabriele Riccio
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Tramonti madreperla su Marte
“Vanno, vengono, e ogni tanto si fermano…” cantava Fabrizio De André in “Nuvole”. E anche su Marte avrebbe potuto comporre la stessa canzone. Nuvole iridescenti dai colori rosso e verde hanno, infatti, solcato il cielo marziano finendo nelle immagini straordinarie scattate dal rover Curiosity della Nasa.
Le nubi iridescenti mostrate in proiezione cilindrica. Crediti: M.T. Lemmon et al., Geophysical Research Letters, 2024
Immortalate dalla camera Mastcam, il principale set di “occhi” del rover, il 17 gennaio scorso in un video di 16 minuti, le nuvole hanno mostrato colori spettacolari grazie alla diffusione della luce solare durante il tramonto marziano, creando un effetto visivo simile a quello delle nubi iridescenti terrestri.
Note come nubi crepuscolari o “nottilucenti” (dal latino, notte splendente), queste formazioni si riscontrano quando il sole tramonta e illumina le nubi alte, creando effetti di colore incredibili. Alcune di queste nuvole hanno anche mostrato iridescenze simili al colore delle perle, un fenomeno che si verifica solo quando le nuvole sono particolarmente alte nell’atmosfera marziana, ad altitudini comprese tra i 60 e gli 80 chilometri sopra la superficie del Pianeta rosso.
Fondamentali per studiare e raccogliere indizi sulla composizione atmosferica di Marte e sul suo clima, le nuvole marziane possono essere costituite da ghiaccio d’acqua, simile a quelle terrestri, o da ghiaccio di anidride carbonica (ghiaccio secco), che si forma solo ad altitudini più elevate e a temperature estremamente basse. A far la differenza è la quota: a grandi altezze, troviamo nuvole di ghiaccio di anidride carbonica (quelle che possono diventare iridescenti), mentre a quote più basse nuvole di ghiaccio d’acqua, che si muovono in direzione opposta rispetto a quelle superiori.
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Le nuvole crepuscolari su Marte furono osservate per la prima volta dalla missione Pathfinder della Nasa nel 1997. Curiosity ha scattato le prime immagini di nuvole iridescenti nel 2019 e questo è il quarto anno marziano in cui il rover osserva il fenomeno, che si verifica all’inizio dell’autunno marziano nell’emisfero meridionale. Secondo Mark Lemmon dello Space Science Institute di Boulder, Colorado, che ha riportato le prime due stagioni di osservazioni di Curiosity sulle nuvole al crepuscolo in un articolo su Geophysical Research Letters, la presenza di queste nubi è ora diventata piuttosto costante. «Ricorderò sempre la prima volta che ho visto quelle nuvole iridescenti pensando si trattasse di un artefatto cromatico», ha detto. «Ora è diventato così prevedibile vederle che possiamo pianificare i nostri scatti in anticipo aspettando le nuvole che si presentano esattamente nello stesso periodo dell’anno». Ogni avvistamento di nuvole crepuscolari sopra il rosso paesaggio desertico offre agli scienziati l’opportunità di studiare in dettaglio le dimensioni delle particelle di ghiaccio e il tasso di crescita delle nuvole. Ciò migliora la nostra comprensione dell’atmosfera marziana e dà indicazioni sul passato di Marte, quando il pianeta potrebbe aver avuto un clima più caldo e ospitare la vita.
Ancora misterioso, però, il motivo per cui le nubi crepuscolari siano state osservate solo in alcune aree di Marte. Né il rover Pathfinder, approdato nella Ares Vallis, a nord dell’equatore, né Perseverance, in azione dal 2021 nel cratere Jezero dell’emisfero settentrionale, hanno infatti mai avvistato nuvole crepuscolari. Curiosity, atterrato nel 2012, si trova ora sul Monte Sharp nel cratere Gale, a sud dell’equatore marziano, ed è stato finora l’unico a documentare il fenomeno. Secondo il gruppo di ricerca di Lemmon, alcune regioni di Marte potrebbero essere predisposte alla formazione di nubi a causa delle onde di gravità atmosferiche, che possono raffreddare l’atmosfera e formare ghiaccio secco. «Non ci aspettavamo che, in questa zona, l’anidride carbonica condensasse in ghiaccio», spiega Lemmon. «Potrebbe esserci, quindi, qualcosa che raffredda l’atmosfera. Inoltre, le onde di gravità marziane, ad oggi, non sono del tutto comprese e non abbiamo certezza su quale sia la causa della formazione di nubi crepuscolari in un luogo piuttosto che un altro».
Schema degli strumenti sul rover Curiosity. Mastcam è una telecamera che riprende immagini e filmati a colori del terreno marziano. Lo strumento viene utilizzato anche per studiare il paesaggio marziano e per supportare le operazioni di guida e campionamento del rover. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Intanto, Curiosity continua a scattare foto grazie alla Mastcam, una preziosa telecamera che riprende immagini e filmati a colori del terreno marziano e che studia il paesaggio marziano per supportare le operazioni di guida e campionamento. Il rover ha recentemente esplorato il canale di Gediz Vallis e si sta ora dirigendo verso una località con boxwork – fratture formate dall’acqua di falda – che, se viste dallo spazio, sembrano gigantesche ragnatele. Più recentemente, Curiosity ha visitato anche il cratere da impatto Rustic Canyon da venti metri di diametro, catturando immagini e studiando la composizione delle rocce che lo circondano. Lo studio dei crateri marziani è utile perché può portare alla luce materiali sepolti da lungo tempo che possono aver conservato meglio le molecole organiche rispetto alle rocce esposte alle radiazioni in superficie. Molecole che forniscono una finestra sull’antico ambiente marziano e sul modo in cui potrebbe aver sostenuto la vita microbica miliardi di anni fa.
Per saperne di più:
- Leggi su Geophysical Research Letters l’articolo “Iridescence Reveals the Formation and Growth of Ice Aerosols in Martian Noctilucent Clouds” di M. T. Lemmon, A. Vicente-Retortillo, S. D. Guzewich, M. de la Torre Juárez, A. C. Innanen, C. L. Campbell, J. N. Maki, M. C. Malin, J. E. Moores
Vista su una caleidoscopica nursery stellare
In quest’immagine da 80 milioni di pixel ottenuta dal Visible and Infrared Survey Telescope for Astronomy (Vista) dello European Southern Observatory (Eso) – in funzione nel deserto di Atacama, all’Osservatorio del Paranal, in Cile – c’è tutta l’esuberanza cromatica della nursery stellare Rcw 38, un ammasso situato a circa 5500 anni luce da noi, nella costellazione delle Vele. Con le striature e i vortici luminosi che la contraddistinguono, questa culla di stelle non ha timore d’ostentare i suoi colori. Dal rosa vivido delle nubi di gas ai puntini multicolori, ciascuno dei quali è una giovane stella, in questa immagine non manca nulla.
L’ammasso stellare Rcw 38 (cliccare per ingrandire). Crediti: Eso/Vvvx survey
Rispetto al Sole, che con circa 4.6 miliardi di anni d’età si trova ormai in una fase stabile della sua vita, le stelle di Rcw 38 sono ancora molto giovani. A meno di un milione di anni dalla sua formazione, Rcw 38 contiene circa duemila stelle – quelle che danno vita al paesaggio psichedelico immortalato da Vista. Insomma, è un giovane ammasso stellare in piena attività, il che lo rende un obiettivo interessante da osservare per gli astronomi.
Gli ammassi stellari sono come gigantesche pentole a pressione al cui interno si possono trovare tutti gli ingredienti per la formazione delle stelle: dense nubi di gas e ammassi opachi di polvere cosmica. Quando questa miscela di gas e polvere collassa per effetto della propria gravità, ecco che nasce una stella.
L’intensa radiazione emessa da queste stelle neonate fa brillare il gas che avvolge l’ammasso, producendo le tonalità rosa che vediamo in Rcw 38. Una vista davvero spettacolare, nonostante molte stelle dell’ammasso rimangano nascoste ai nostri occhi, celate come sono dalla polvere che le avvolge, opaca alla luce visibile.
È qui che entra in gioco il telescopio Vista: la sua camera VirCam è, infatti, sensibile alla luce infrarossa, che a differenza della luce visibile riesce ad attraversare la polvere quasi senza incontrare ostacoli, riuscendo così a svelare il vero volto di Rcw 38. Ecco così che all’improvviso riusciamo a vedere anche giovani stelle avvolte in bozzoli polverosi, o stelle fredde “fallite” note come nane brune.
Questa immagine all’infrarosso è stata scattata durante la survey Vista Variables in the Vía Láctea (Vvv), che ha prodotto la mappa all’infrarosso più dettagliata mai realizzata della nostra galassia. Studi come questo permettono di scoprire oggetti astronomici ancora sconosciuti e di offrirci una nuova visione di quelli conosciuti.
Da quando è stata scattata questa immagine, la fedele fotocamera VirCam di Vista, che ha condotto numerose imaging survey di sin dal 2008, dopo un’impressionate carriera è andata in pensione. Nel corso del 2025 il telescopio riceverà un nuovissimo strumento chiamato 4Most, in grado di acquisire gli spettri di 2400 oggetti contemporaneamente su un’ampia area del cielo. Con la rinascita di Vista, il futuro si prospetta luminoso.
Fonte: press release Eso
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube dell’Eso:
Phoenix A: vecchia fuori, giovane dentro
Immagine che mostra l’ammasso della Fenice. Crediti: South Pole Telescope collaboration
In qualsiasi campo della ricerca scientifica ci sono regole ed eccezioni. In astronomia, e in particolare nel campo che studia la relazione tra l’evoluzione delle galassie e la formazione stellare, la regola dice che nelle galassie giovani nascono nuove stelle a un tasso elevatissimo. Nelle galassie vecchie, al contrario, la formazione di nuovi astri è ridotta, se non azzerata.
A questa regola, come dicevamo, c’è l’eccezione: galassie vecchie che sfornano stelle a un ritmo forsennato. Phoenix A ne è un esempio lampante. Galassia al centro di un ammasso di galassie – l’ammasso della Fenice – situato a circa 6 miliardi di anni luce dalla Terra, Phoenix A si stima produca mille stelle all’anno. Si tratta di un tasso di formazione stellare elevatissimo. Basti pensare che, prima della sua scoperta, l’ammasso di galassie più prolifico conosciuto produceva cento stelle all’anno. Come fa Phoenix A ad alimentare una formazione stellare così impetuosa? Il motivo di tanta fertilità è diventato chiaro quando al suo interno sono state individuate, accanto a grandi quantità di gas ultracaldo (gas riscaldato dall’attività dell’enorme buco nero al centro della galassia), vaste nubi di gas ultrafreddo, le culle all’interno delle quali avviene la formazione stellare.
Da dove proviene questo gas, si sono chiesti i ricercatori? È gas caldo galattico che in qualche modo si sta raffreddando, magari attraverso un processo in cui è coinvolto il buco nero centrale, ad esempio il cosiddettofeedback dell’Agn, o è materia fredda che arriva dalle vicine galassie dell’ammasso? La risposta arriva ora grazie a uno studio condotto da un team di ricercatori guidati dal Massachusetts Institute of Technology, i cui risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su Nature. Utilizzando la vista a infrarossi del James Webb Space Telescope, gli autori hanno infatti ottenuto indicazioni che il gas ultrafreddo responsabile dell’elevato tasso di natalità in Phoenix A sia endogeno.
Per giungere a questa conclusioni i ricercatori sono partiti da un assunto: se il gas freddo che forma le stelle dell’ammasso della Fenice proviene dall’interno della galassia centrale piuttosto che dalle galassie circostanti, la galassia centrale dovrebbe avere non solo sacche di gas ultra caldo e ultra freddo, ma anche gas caldo, cioè gas con temperature intermedie. Considerato che il gas ultracaldo scoperto in studi precedenti aveva temperature di 500mila gradi Celsius e quello ultrefreddo di -263,15 gradi Celsius, il gas caldo dovrebbe avere temperature comprese tra questi due estremi. Rilevare tale gas, spiegano gli autori dello studio, sarebbe come catturare il gas nel mezzo di un raffreddamento estremo: la prova che il nucleo dell’ammasso è effettivamente la fonte del combustibile stellare freddo.
Seguendo questo ragionamento, il team ha cercato di rilevare qualsiasi gas caldo all’interno di Phoenix A avesse temperature tra -263 gradi Celsius e un milione di gradi Celsius. Per farlo, i ricercatori hanno puntato nella direzione di Phoenix A il James Webb Space Telescope. Sfruttando la capacità dello strumento Miri del telescopio di mappare la luce nello spettro infrarosso, hanno cercato la riga di emissione del neon [Ne VI ], una riga che viene emessa quando il gas è a temperature di circa 300mila gradi Celsius, valore che rientra nell’intervallo di temperature del gas caldo che i ricercatori stavano cercando.
E lo hanno trovato. «Questo gas a 300mila gradi Celsius è come un’insegna al neon che brilla in una specifica lunghezza d’onda di luce», dice a questo proposito Michael Reefe, ricercatore al Massachusetts Institute of Technology e primo autore dello studio. «Potevamo vederne grumi e filamenti in tutto il nostro campo visivo».
Il nucleo dell’ammasso della Fenice mostrato attraverso un’ampia porzione dello spettro elettromagnetico. Il viola rappresenta l’emissione di raggi X del gas caldo. Le linee tratteggiate mostrano le regioni in cui questo gas caldo è stato spazzato via dai getti radio, in rosso, del buco nero supermassiccio. Il blu e il giallo rappresentano la luce visibile emessa dal gas freddo e dalle stelle. Le linee verdi mostrano il gas “caldo” in fase di raffreddamento, osservato in questo studio. Crediti: Nasa
La “pistola fumante” che mostra come il gas ultrafredddo all’interno di Phoenix A sia di origine endogena, e non provenga dalle galassie vicine dell’ammasso, è il fatto che, spiegano i ricercatori, l’emissione estesa del neon VI è co-spaziale con il picco di raffreddamento del mezzo all’interno della galassia. Sulla base dell’estensione del gas caldo all’interno di Phoenix A, il team stima che la galassia centrale stia subendo un evento di raffreddamento estremo e che stia generando una quantità di gas ultrafreddo ogni anno pari alla massa di circa 20mila soli. Con questo tipo di fornitura di combustibile stellare, il team ritiene che sia molto probabile che Phoenix A stia effettivamente generando i propri semi per la formazione stellare, piuttosto che utilizzare il combustibile delle galassie circostanti. Ma come? Una possibilità è che ciò avvenga attraverso il cosiddetto feedback del buco nero. Si tratta di un meccanismo sostenuto da evidenze osservative secondo cui l’attività del buco nero supermassiccio al centro delle galassie può svolgere una duplice azione nei confronti della formazione stellare. Attraverso un feedback negativo, i venti e i getti prodotti dal buco nero possono inibire la formazione stellare rimuovendo gas molecolare. Mediante un feedback positivo, al contrario, i venti e i getti possono provocare nel gas che rimane una compressione, seguita dal raffreddamento e dalla successivo innesco della formazione stellare. I risultati, concludono i ricercatori, forniscono una mappa su larga scala del gas a temperature comprese tra 10mila 1 milione di gradi Celsius nel nucleo dell’ ammasso della Fenice, e sottolineano il ruolo critico che il feedback del buco nero ha non solo nel regolare il raffreddamento del gas galattico ma anche nel promuoverlo.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Directly imaging the cooling flow in the Phoenix cluster” di Michael Reefe, Michael McDonald, Marios Chatzikos, Jerome Seebeck, Richard Mushotzky, Sylvain Veilleux, Steven W. Allen, Matthew Bayliss, Michael Calzadilla, Rebecca Canning, Benjamin Floyd, Massimo Gaspari, Julie Hlavacek-Larrondo, Brian McNamara, Helen Russell, Keren Sharon e Taweewat Somboonpanyakul
Sistema planetario in fuga nella Via Lattea
In fuga per il centro della Via Lattea se ne andrebbe, un sistema costituto da un esopianeta più grosso di Nettuno e da una piccola stella. Le misure dicono 540 chilometri al secondo. Sarebbe questa la folle velocità alla quale l’affiatata coppia scorrazza all’interno del bulge, ovvero quella regione rigonfia, pullulante di stelle vecchie, che si trova nel centro della nostra galassia. Oltre il doppio della velocità alla quale il Sole, con tutto il suo stuolo di pianeti, si trascina attorno al centro della Via Lattea. Se confermato, si tratterebbe del sistema planetario più veloce mai osservato. La notizia è stata pubblicata questa settimana su The Astronomical Journal.
Il bulge della Via Lattea. Crediti: Nasa
«Pensiamo che sia un cosiddetto pianeta super-nettuniano – ovvero un pianeta con massa compresa fra quella di Nettuno e Giove – che orbita attorno a una stella di piccola massa a una distanza che si troverebbe tra le orbite di Venere e della Terra, se fosse nel nostro sistema solare», spiega Sean Terry, primo autore dello studio, post-doc preso l’Università del Maryland e del Goddard Space Flight Center della Nasa, sempre nel Maryland. Poiché la stella è molto piccola, siamo ben al di là della zona abitabile. «Se confermato, sarà il primo pianeta mai trovato attorno a una stella iperveloce».
Se confermato. Lo scenario descritto da Terry e collaboratori non è infatti esente da incertezze. Ripercorriamone la storia. Era il 2011 quando la coppia di oggetti venne scoperta sfruttando la tecnica del microlensing gravitazionale e i dati d’archivio del programma Moa – acronimo di Microlensing Observations in Astrophysics. In virtù di questo effetto, la luce delle sorgenti collocate dietro un oggetto massiccio – per esempio, una stella – viene deflessa e amplificata, consentendoci di distinguere dettagli che ci sarebbero altrimenti preclusi per sempre. Recentemente, la tecnica del microlensing ha permesso di osservare decine di stelle in una galassia a sei miliardi di anni luce dalla Terra.
Dai dati del 2011 si evince che i due corpi celesti siano l’uno duemilatrecento volte più massiccio dell’altro. Due scenari venivano proposti per spiegare il significativo divario in massa: un sistema costituito da una piccola stella, avente una massa pari al 20 per cento di quella solare, e un pianeta ventinove volte più pesante della Terra, secondo il primo scenario. Una coppia composta da un pianeta quattro volte più grosso di Giove e dalla sua luna, più piccina della Terra, nel secondo caso.
Rappresentazione artistica che mostra le stelle in prossimità del centro della Via Lattea. Le code colorate rappresentano la velocità delle stelle. Più lunga e rossa è la coda e più rapidamente si sta muovendo la stella. La stella analizzata nello studio è quella con la lunga coda rossa. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/R. Hurt (Caltech-Ipac)
Per discernere lo scenario più probabile gli astronomi hanno fatto ricorso ai dati ad alta risoluzione dell’Osservatorio Keck alle Hawaii e del satellite Gaia dell’Esa – recentemente andato in pensione. Questi ultimi hanno consentito di stimare la distanza, pari a circa 24mila anni luce dalla Terra, e la velocità del sistema, ottenuta confrontando la posizione della presunta stella tra il 2011 e il 2021.
La velocità stimata, che ammonta a, come si diceva, 540 chilometri al secondo, potrebbe essere in realtà minore di quella effettiva. Se superasse la velocità di fuga della Via Lattea, pari a circa 600 chilometri al secondo, il sistema planetario sarebbe destinato ad abbandonare la nostra galassia e a saettare nella solitudine degli spazi intergalattici tra molti milioni di anni. Gli scienziati ritengono che nella sua forsennata fuga attraverso il bulge, la stella stia generando un’onda di prua –bow shock, in inglese – simile a quella che increspa le acque annunciando l’arrivo di una nave. Solo che al posto dell’acqua qui abbiamo il gas interstellare. C’è bisogno di osservare nuovamente il sistema dei due oggetti per pronunciarsi oltre ogni ragionevole dubbio sulla sua natura.
Immagine di una stella della costellazione di Orione immortalata da Hubble. È visibile una cosiddetta “onda di prua”, simile a quella che potrebbe essere prodotta dalla stella ad alta velocità protagonista della scoperta. Crediti: Nasa and The Hubble Heritage Team (StScI/Aura); C. R. O’Dell
«Per essere certi che la stella appena identificata sia parte del sistema che ha provocato il segnale del 2011, vorremmo esaminarla di nuovo tra un altro anno e vedere se si muove della giusta quantità e nella giusta direzione per confermare che provenga dal punto in cui abbiamo rivelato il segnale», afferma David Bennett, coautore dello studio.
A tale proposito si pronuncia anche Aparna Bhattacharya, sempre tra i coautori. «Se osservazioni ad alta risoluzione mostrano che la stella rimane nella stessa posizione, allora potremo dire con certezza che non fa parte del sistema che ha provocato il segnale nel 2011. Vorrebbe dire che il modello del pianeta con una luna è favorito.»
Non è la prima volta che stelle velocissime vengono viste sfrecciare nella Via Lattea. Il Nancy Grace Roman Space Telescope, costruito dalla Nasa e il cui lancio è previsto nel 2027, ci consentirà di scoprire quanto comuni siano i pianeti attorno a certe stelle velocissime, inquiline bizzarre della nostra galassia, svelando i meccanismi di accelerazione delle stesse. Di grande utilità sarà la survey del bulge che verrà condotta da Roman e che combinerà un ampio campo di vista con una straordinaria risoluzione. I dati di tre strumenti sono qui intervenuti per stanare il sistema. Nel futuro potremo sbrigarcela con uno solo. «Grazie al potente sguardo di Roman e alla strategia osservativa pianificata, non avremo bisogno di affidarci a telescopi ulteriori. Roman farà tutto», conclude Terry.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “A Candidate High-velocity Exoplanet System in the Galactic Bulge” di Sean K. Terry, Jean-Philippe Beaulieu, David P. Bennett, Aparna Bhattacharya, Jon Hulberg, Macy J. Huston, Naoki Koshimoto, Joshua W. Blackman, Ian A. Bond, Andrew A. Cole, Jessica R. Lu, Clément Ranc, Natalia E. Rektsini e Aikaterini Vandorou
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