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E se la Luna fosse un frammento della Terra?




Dalle missioni Apollo, i campioni lunari sono conservati presso il Johnson Space Centre della Nasa a Houston e sono disponibili per la ricerca. Tutti i campioni lunari analizzati nel laboratorio di Gottinga sono stati forniti dalla Nasa. Crediti: Andreas Pack

Un gruppo di ricercatori della University of Göttingen e del Max Planck Institute for Solar System Research (Mps) ha trovato un altro tassello nel puzzle della formazione della Luna e dell’origine dell’acqua sulla Terra.

Finora, la teoria prevalente era che la Luna fosse il risultato di una collisione tra la Terra in formazione e il protopianeta Theia. Le nuove misurazioni indicano che la Luna si è formata da materiale espulso dal mantello terrestre, con un contributo minimo da parte di Theia. Inoltre, i risultati supportano l’idea che l’acqua potrebbe aver raggiunto la Terra già nelle prime fasi del suo sviluppo e non in seguito a impatti successivi.

Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno analizzato isotopi dell’ossigeno di 14 campioni lunari e hanno effettuato 191 misurazioni su minerali provenienti dalla Terra. Gli isotopi sono varietà dello stesso elemento che differiscono solo per la massa del loro nucleo, ossia hanno lo stesso numero di protoni ma diverso numero di neutroni. L’équipe ha utilizzato una versione migliorata della fluorurazione laser, una tecnica spettroscopica basata sull’eccitazione di una molecola mediante radiazione laser e sulla misura della radiazione di fluorescenza che la molecola emette subito dopo, tornando al suo stato energetico fondamentale. In particolare, la molecola analizzata è stata quella dell’ossigeno: le nuove misurazioni mostrano un’altissima somiglianza tra i campioni prelevati dalla Terra e dalla Luna di un isotopo chiamato ossigeno-17 (17O). La somiglianza isotopica tra la Terra e la Luna è un problema di lunga data nella cosmochimica per il quale è stato coniato il termine “crisi isotopica”.

«Una spiegazione è che Theia abbia perso il suo mantello roccioso in precedenti collisioni e che abbia poi sbattuto contro la Terra primitiva come una palla di cannone metallica», spiega Andreas Pack, direttore del Centro di Geoscienze dell’Università di Göttingen e capo della Divisione di Geochimica e Geologia isotopica. «Se così fosse, oggi Theia farebbe parte del nucleo terrestre e la Luna si sarebbe formata da materiale espulso dal mantello terrestre. Questo spiegherebbe la somiglianza nella composizione della Terra e della Luna».

I dati ottenuti forniscono anche una visione alternativa dell’origine dell’acqua sulla Terra: secondo un’ipotesi diffusa, l’acqua sarebbe arrivata sulla Terra solo dopo la formazione della Luna, attraverso una serie di ulteriori impatti noti come Late Veneer Event (evento di rivestimento tardivo). Poiché la Terra è stata colpita da questi impatti molto più frequentemente della Luna, dovrebbe esserci anche una differenza misurabile tra gli isotopi dell’ossigeno – a seconda dell’origine del materiale che ha impattato. «Tuttavia, poiché i nuovi dati dimostrano che non è così, si possono escludere molti tipi di meteoriti come causa del rivestimento tardivo», spiega il primo autore Meike Fischer. «I nostri dati possono essere spiegati particolarmente bene da una classe di meteoriti chiamata condriti enstatite: sono isotopicamente simili alla Terra e contengono una quantità di acqua tale da essere l’unica responsabile dell’acqua terrestre».

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Allineamenti planetari all’orizzonte



Negli ultimi giorni, molte testate giornalistiche hanno dedicato ampio spazio a un imminente allineamento planetario, descritto come un evento raro e spettacolare. Il fenomeno richiama indubbiamente una certa attenzione mediatica, forse anche perché evocativo di congiunzioni astrali alle quali qualcuno, ancora oggi, tende a dare significati simbolici e spirituali. Media Inaf ha approfondito il tema intervistando Michele Maris dell’Inaf di Trieste, che si occupa di vari aspetti dello studio del Sistema solare.

Maris, cos’è un allineamento planetario e ogni quanto tempo si verifica?

«Si parla di allineamento planetario quando tre o più pianeti visti dalla Terra si collocano più o meno nella stessa regione del cielo. Di solito questo avviene quando più o meno i pianeti si trovano tutti dalla stessa parte del Sistema solare. Dato che tutte le orbite stanno vicino al piano dell’orbita della Terra, visti da quest’ultima, in questa condizione i pianeti che partecipano all’allineamento sembrano disporsi approssimativamente su un arco di alcune decine di gradi e possono essere osservati assieme nel giro della stessa nottata. Si può pensare di classificare gli allineamenti in base a quali e quanti pianeti possiamo osservare e a quanto è ampio l’arco sul quale si distribuiscono. Ad esempio nel grande allineamento del 10 marzo 1982, i pianeti visti dalla Terra apparivano racchiusi in un arco di circa 95 gradi: un allineamento di questo tipo avviene in media circa ogni 175 anni. Ma altri allineamenti, con meno pianeti o con i pianeti distribuiti su un arco più ampio, si sono verificati anche nei decenni successivi. Ad esempio, ricordo quelli del 2023 e 2024. È importante sottolineare come gli allineamenti siano un effetto apparente, che dipende dal nostro punto di vista. Per cui mentre da Terra in questi mesi vedremo i pianeti apparentemente allineati, dal punto di vista di un osservatore che si trovasse fuori dal sistema solare i pianeti non lo sarebbero affatto».


Disposizione dei pianeti il 25 gennaio 2025, alle ore 19. Come si vede, dal punto di vista di un osservatore che si trovasse fuori dal Sistema solare i pianeti non appaiono affatto allineati. L’immagine è stata fatta utilizzando il visualizzatore delle orbite del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa. Crediti: Jpl/Nasa

A breve ci saranno due occasioni del genere. Cosa ci possiamo aspettare?

«Quest’anno avremo la possibilità di osservare due allineamenti: attorno al 25 gennaio e al 28 febbraio. In realtà, tempo permettendo, gli allineamenti saranno visibili per diversi giorni prima e dopo le date indicate, solamente i pianeti saranno più o meno distanziati e dovremo considerare l’orario del tramonto del Sole. In gennaio, attorno alle 19 italiane, potremo vedere Marte a 30 gradi sopra l’orizzonte a est in salita, Giove pressappoco a sud-sud est a 60 gradi in culminazione, Venere e Saturno ben visibili a ovest tra i 28 e i 15 gradi sull’orizzonte, tramontanti. Con un binocolo potremmo cercare Nettuno che segue Venere e Saturno sulla linea del tramonto di pochi gradi più alto e Nettuno verso sud, in alto in cielo. In febbraio alla stessa ora vedremo Marte ancora più alto a est, Giove in culminazione a sud-sud ovest, Urano un poco più in basso a sud ovest, mentre seguendo il Sole al tramonto avremo bassi sull’orizzonte Venere, Nettuno, Mercurio e Saturno molto vicino alla Luna. Diciamo che, considerando l’orario del tramonto, l’allineamento di gennaio resta il più favorevole. Di fatto, anche verso fine marzo potremmo vedere Mercurio, Venere, Saturno e Nettuno molto ravvicinati, ma saranno sopra l’orizzonte quando è giorno e quindi non potranno essere visti».


Allineamento dei pianeti il 25 gennaio 2025 da Bologna, alle ore 19 (locali). Crediti: Stellarium

È possibile che si verifichi un allineamento perfetto di tutti gli 8 pianeti del Sistema solare?

«No, per varie ragioni… la principale delle quali è che le orbite dei pianeti non giacciono sullo stesso piano, quindi i pianeti non si allineano mai su una linea, come spesso si vede in molte illustrazioni. In sé gli allineamenti non sono rarissimi. Sono rari quelli particolarmente stretti, come quello del 1982».

Nemmeno avendo a disposizione un tempo infinito?

«No, neppure in un tempo infinito perché le linee dei nodi non stanno allineate e quindi i piani orbitali non si intersecano su una retta».

In che modo gli allineamenti planetari possono essere utilizzati per studi scientifici o per pianificare missioni spaziali?

«Gli allineamenti sono prima di tutto uno spettacolo della natura, ammirabile senza bisogno di strumenti particolari. Dal punto di vista dello studio scientifico, avere un periodo in cui alcuni pianeti si trovano dalla stessa parte del Sistema solare permette di ridurre i tempi di viaggio da un pianeta all’altro. Ad esempio, l’allineamento del 1982 ha permesso le missioni di esplorazione Voyager 1 e 2 degli anni ’70 e ’80. In questo caso, è stato possibile effettuare in sequenza il passaggio ravvicinato di Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Una disposizione, quella del 1982, che ha reso questo allineamento piuttosto raro».

Gli allineamenti planetari possono influenzare fenomeni astronomici come le maree o il comportamento delle comete?

«Nel caso dell’allineamento del 1982 si fece un gran parlare di questa cosa, ma la risposta è semplicemente no. Gli effetti gravitazionali dei pianeti sono molto piccoli rispetto a quelli del Sole, quindi il fatto di avere i pianeti da una stessa parte del Sistema solare non produce effetti particolari alla nostra stella. Tanto meno al nostro pianeta, le cui maree sono dominate dagli effetti del Sole e della Luna».

Un allineamento planetario può influenzare le orbite dei pianeti nel lungo termine, o la gravità del Sole domina sempre?

«No, la gravità del Sole domina sempre il moto dei pianeti e allineamenti di questo tipo non cambiano in modo importante le orbite dei pianeti. I pianeti si perturbano a vicenda costantemente con la propria gravità ma queste perturbazioni sono molto piccole. Per esempio, la perturbazione più forte che Giove produce sulla Terra è pari a qualche centomillesimo dell’effetto della gravità del Sole. Possiamo pensare che i pianeti si comportino in modo analogo a un’altalena. Se diamo delle spintarelle a un’altalena, piccole rispetto al suo peso, metteremo l’altalena in oscillazione. Finché le spintarelle sono date a casaccio l’oscillazione resta piccola, perché le spinte che potrebbero aumentarla finiranno con l’essere cancellate dalle spinte che tendono a bloccarla. Se però diamo piccole spinte sempre dalla stessa parte e in sincrono con le sue oscillazioni, col tempo vedremo l’altalena oscillare sempre più. In teoria quindi se le perturbazioni reciproche tra i pianeti si potessero sommare per milioni di anni, cioè se avvenissero in sincrono con il loro periodo orbitale, le orbite potrebbero subire dei cambiamenti significativi. Tuttavia, durante la sua formazione, il Sistema solare ha raggiunto un equilibrio simile a quello attuale, in cui le mutue perturbazioni non avvengono in sincrono e quindi tendono a compensarsi tra loro».


Michele Maris, primo ricercatore presso l’Inaf Osservatorio Astronomico di Trieste. Si occupa di modelli di esoclimi per l’abitabilità di esopianeti nell’ambito del progetto Asi Asteria, dello sviluppo tecnologico della missione Lspe Strip e del telescopio antartico Itm-Mnt. Ha inoltre seguito la missione Planck dell’Esa e partecipato alle missioni Euclid, LiteBird e Life. Si occupa inoltre di insegnamento all’Università di Padova e divulgazione, con conferenze e lezioni al pubblico e la mostra Caves in the Skies. Crediti: M. Maris

Quali strumenti permettono di calcolare con precisione gli allineamenti planetari e fino a che punto possiamo prevederli nel futuro?

«A differenza di altri fenomeni, come ad esempio le congiunzioni planetarie o le occultazioni, per prevedere gli allineamenti non occorre una precisione di calcolo molto elevata. Anche strumenti piuttosto semplici sono in grado di prevederli. Al giorno d’oggi uno smartphone connesso a internet può accedere a servizi per il calcolo delle posizioni dei pianeti in cielo (chiamate effemeridi), che coprono un intervallo temporale che va da 13.200 anni nel passato fino a 17.191 anni nel futuro, sufficienti per la gran parte delle applicazioni pratiche, come ad esempio la navigazione o l’astronomia osservativa. Con metodi di calcolo più sofisticati possiamo spingerci a milioni o miliardi di anni nel passato o nel futuro. Ma la precisione di calcolo di questi strumenti diventa esponenzialmente peggiore all’ampliarsi dell’intervallo temporale. Di fatto, se volessimo studiare il moto dei pianeti per capire come saranno messi tra un miliardo di anni, potremmo ottenere informazioni sulla forma, le dimensioni e l’orientamento delle orbite, ma non potremmo stabilire esattamente in quale punto preciso della loro orbita i pianeti verrebbero a trovarsi e quindi potremmo non essere in grado di prevedere allineamenti a quella data».



Incontri: voci e volti dalla galassia Inaf




Davide Coero Borga, autore e conduttore televisivo della redazione scientifica di Rai Cultura e primo tecnologo all’Inaf. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli.

C’è Salvatore, che dall’alluminio forgia pezzi unici che dalla sua officina di Milano voleranno nello spazio. C’è Elise, che dalla Bretagna è scesa fino a Cagliari per studiare oggetti compatti ancora misteriosi come le binarie X. C’è Elena, che dopo un dottorato sugli esopianeti è andata per un po’ a lavorare in un supermercato e ora è di nuovo all’opera nei laboratori di astrofisica – tra l’Arizona e Padova – a costruire ottiche d’avanguardia per i telescopi. C’è Gloria, che cerca mondi diversi dal nostro in grado d’ospitare forme di vita. C’è Daniele, che sogna un futuro nel quale per vedere la Via Lattea sia sufficiente alzare gli occhi nella notte, come un tempo, prima che le luci ci rubassero il cielo. E c’è Maura, che il cielo lo setaccia in cerca di segnali radio da intelligenze extraterrestri.

Sono i primi sei volti, le prime sei voci, i primi sei Incontri – questo il nome dato alla raccolta – di una serie di brevi profili video realizzata per MediaInaf Tv da Davide Coero Borga, autore e conduttore televisivo della redazione scientifica di Rai Cultura e primo tecnologo all’Inaf. E lavorano tutti all’Istituto nazionale di astrofisica anche i protagonisti della raccolta. Persone incontrate da Davide nel corso del 2024 viaggiando per le sedi Inaf di tutt’Italia durante una campagna di servizi fotografici.

«È sempre un regalo poter entrare nei luoghi dove si fa ricerca ad altissimo livello. Avere qualcuno che ti accompagna, ti dedica tempo e ti racconta quello che tutte le mattine lo tira giù dal letto e che, più che un lavoro, è una passione. Farlo davanti a una telecamera», dice Coero Borga, «non è un gioco da ragazzi, vuol dire mettersi in gioco. Io cerco di mettere ciascuno a proprio agio: nessun ricercatore è stato maltrattato durante la realizzazione di queste clip!».

«L’idea dei video ritratti è nata in Ufficio stampa, con Marco Galliani. Spesso giornalisti e autori Tv ci chiedono che faccia hanno i nostri ricercatori, come parlano, se brillano loro gli occhi quando parlano di scienza. Beh, vedete un po’ voi».

I primi incontri, quelli che già potete vedere su MediaInaf Tv, li abbiamo pubblicati durante le vacanze natalizie – un modo per ringraziare il pubblico che ci ha seguito nel corso dell’anno. Gli altri li troverete sempre su MediaInaf Tv nelle prossime settimane, uno ogni venerdì.

Guarda la playlist su MediaInaf Tv:

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Andromeda come non l’avete mai vista



Dieci anni di lavoro, mille orbite attorno alla Terra e oltre seicento singoli scatti, 200 milioni di stelle impresse in circa 2.5 miliardi di pixel. Questa è, a numeri, la descrizione dell’immagine che vedete qui sotto. Si tratta della galassia di Andromeda, la galassia più vicina alla nostra, a soli 2.5 milioni di anni luce. Una distanza che, per altro, si sta riducendo perché la Via Lattea – la nostra galassia – e Andromeda saranno destinate a fondersi fra circa 10 miliardi di anni, in un’unica gigante già battezzata Milkomeda.


Il più grande fotomosaico di sempre l’ha realizzato Hubble. Il soggetto è la galassia di Andromeda, vicina di casa della Via Lattea distante appena 2.5 milioni di anni luce. L’immagine si compone di circa 600 scatti per un totale di 2.5 miliardi di pixel. Crediti: Nasa, Esa, B. Williams (University of Washington)

Autore di questi scatti è il telescopio spaziale Hubble di proprietà congiunta fra Nasa ed Esa, e la vista globale della galassia è l’unione di due programmi osservativi complementari. Il primo, il Panchromatic Hubble Andromeda Treasury (Phat), è cominciato circa un decennio fa. Le immagini sono state ottenute alle lunghezze d’onda del quasi-ultravioletto, del visibile e del quasi-infrarosso utilizzando la Advanced Camera for Surveys e la Wide Field Camera a bordo di Hubble per fotografare la metà settentrionale di Andromeda. A questo programma è seguito il Panchromatic Hubble Andromeda Southern Treasury (Phast), che ha aggiunto immagini di circa 100 milioni di stelle nella metà meridionale di Andromeda. Questa regione è strutturalmente unica e più sensibile alla storia delle fusioni della galassia rispetto al disco settentrionale mappato dall’indagine Phat. Combinati insieme, i due programmi coprono complessivamente l’intero disco di Andromeda, che nell’immagine si vede quasi di traverso (è inclinato di 77 gradi rispetto al punto di vista che possiamo avere dalla Terra). La galassia è così grande che il mosaico è stato assemblato da circa 600 campi visivi separati.

«In realtà ci sono voluti pochi anni per la prima parte, quella di Phat, che ha beneficiato di uno speciale programma “multiciclo” lanciato da Hubble dieci anni fa», spiega a Media Inaf Leo Girardi, ricercatore all’Inaf di Padova coinvolto nei due progetti. «Phat era un progetto pesante, e non si poteva fare in un unico ciclo osservativo (che dura un anno) dei programmi Hubble. I nuovi tasselli venivano aggiunti appena il software di puntamento del telescopio trovava un momento conveniente, minimizzando i movimenti del telescopio, e con l’unico vincolo di ripetere un certo puntamento dopo sei mesi in modo da poter coprire gli stessi tasselli con tutti i filtri previsti dal programma osservativo. Poi ci siamo occupati per alcuni anni nell’analisi dei dati di Phat, e in questo periodo è stata concepita la sua estensione Phast. Phast è stato un programma più veloce, eseguito con meno filtri e in un unico ciclo di osservazioni».


Leo Girardi, ricercatore all’Inaf di Padova coinvolto nei progetti Phat e Phast che hanno consentito di realizzare il mosaico di Andromeda

Una precisazione. Per quanto imponente e impressionante sia questo mosaico, il numero di stelle che cattura è ancora lontano dall’effettiva popolazione della galassia, la cui popolazione totale si stima che ammonti a circa mille miliardi di stelle. La ragione per cui queste non si vedono è che le stelle mancanti sono troppo poco massicce, e quindi troppo poco luminose, per poter essere viste dal telescopio. In gergo si dice che si trovano sotto al suo limite di sensibilità.

Non solo tante belle immagini, comunque: i dati raccolti forniscono informazioni sull’età delle stelle, sull’abbondanza di elementi pesanti e sulle masse stellari all’interno della galassia. Misure dettagliate che serviranno a vincolare i modelli che ricostruiscono la storia della fusione e dell’evoluzione del disco di Andromeda.

Vedere così bene Andromeda è utile anche perché la nostra vicina – visibile anche a occhio nudo in una notte buia e serena – ha sempre fatto da specchio e da riferimento per capire di più su come sia fatta la nostra, di galassia, rispetto alla quale abbiamo un punto di vista limitato essendoci “dentro”. Nel corso del tempo però, si è capito che sebbene Andromeda e la Via Lattea abbiano un’età simile e una forma simile, la loro storia evolutiva potrebbe essere molto diversa. Secondo i ricercatori, Andromeda sembra essere più popolata di stelle giovani e di caratteristiche insolite, come flussi coerenti di stelle. Ciò implica che ha una storia di formazione stellare e di interazioni più recente rispetto alla Via Lattea.

«Dal punto di vista scientifico questi progetti sono davvero importanti perché Andromeda è praticamente l’unica galassia a spirale per cui si potevano fare osservazioni dettagliate, stella a stella, al punto di poter misurare parametri fondamentali quali la storia di formazione stellare, le distribuzioni spaziali di polvere e stelle, la distribuzione di massa delle stelle, eccetera», continua Girardi. «Oltre ad Andromeda abbiamo soltanto la Via Lattea, che osserviamo dall’interno, e che nessuno può assicurare sia simile ad Andromeda. Infatti, uno dei risultati di Phat è stata la conferma di importanti differenze tra le due galassie, le cui origini non sono state ancora del tutto chiarite. Poi, si sospettava ci fossero asimmetrie tra parti opposte del disco di Andromeda, adesso confermate con i dati Phast. La continuazione ovvia di questo lavoro sarà quella di complementare le survey a disposizione oggi con immagini ad alta risoluzione nell’infrarosso, con il Nancy Grace Roman Telescope che è in fase di preparazione dalla Nasa. Ovviamente, ci stiamo preparando anche noi al lancio di Roman».



Propulsori nucleari per mandare l’uomo su Marte



Quanto potrebbe durare un viaggio umano verso Marte? Le variabili in gioco sono molte: distanza fra la Terra e il pianeta (una quantità in continua variazione), sistema di propulsione, tipo di veicolo sviluppato per volare e per atterrare sulla superficie del pianeta, e infine composizione dell’equipaggio. Per dare un’idea, nel 2022 la Nasa ha pubblicato un report con diverse simulazioni che tenessero conto di tutte queste variabili, per capire come ciascuna di queste potesse influire nel design della missione. Ne sono uscite 27 diverse alternative, con viaggi che duravano da 850 a 1250 giorni terrestri (comprensivi di durata effettiva del transito, più il tempo per il rendez-vous, la sosta e l’opportunità di lancio dell’equipaggio). Al vaglio dell’agenzia spaziale americana, ora, ci sarebbe però una nuova tecnologia, che consentirebbe di eseguire una missione umana sul Pianeta rosso in un tempo totale di due anni (circa 730 giorni).


Rappresentazione artistica che mostra i diversi componenti di un sistema di propulsione elettrica nucleare completamente assemblato. Crediti: Nasa

Il contesto è quello della propulsione nucleare, che si avvale di un reattore a fissione nucleare e si può dividere in due grandi famiglie: i propulsori nucleari termici e quelli nucleari elettrici. La propulsione nucleare termica è la più semplice. Motori di questo tipo sono già stati costruiti e testati a terra. Sebbene sia più performante dei motori attualmente in uso, basati sulla combustione di propellente, delle due soluzioni funzionanti a fissione nucleare, questa è la meno efficiente. La propulsione nucleare elettrica è più complessa. È composta da tre pilastri fondamentali: una sorgente di calore ad alta densità e potenza (il reattore a fissione), un sistema di generazione di energia elettrica e un sistema propulsivo in grado di sfruttare quella elettricità per generare spinta in modo efficiente. Nello specifico, l’energia elettrica prodotta serve per ionizzare, o caricare positivamente, e accelerare elettricamente il propellente gassoso impiegato per fornire la spinta al veicolo spaziale. Un concetto che non è nuovo, a dire il vero, e che era stato esplorato anche in quel documento a cui accennavamo prima, ma con una sostanziale differenza. La novità proposta dalla Nasa è un nuovo tipo di radiatore modulare – il Modular Assembled Radiators for Nuclear Electric Propulsion Vehicles, o Marvl. In particolare, l’agenzia si propone di prendere un elemento critico della propulsione nucleare elettrica, il sistema di dissipazione del calore, e dividerlo in componenti più piccoli che possono essere assemblati roboticamente e autonomamente nello spazio.

«Il progetto Marvl rappresenta una importante pietra miliare per la realizzazione di sistemi propulsivi in grado di portare l’uomo su Marte con tempi di viaggio ragionevoli», commenta a Media Inaf Filippo Maggi, professore associato allo Space Propulsion Laboratory Dept. of Aerospace Science and Technology del Politecnico di Milano, non coinvolto nel progetto. «Per convertire il calore in energia elettrica il generatore richiede un sistema di dissipazione del calore, le cui dimensioni limitano la potenza gestibile. A loro volta, questi oggetti devono essere mandati in orbita e il lanciatore impone dei limiti dimensionali e di peso. Per risolvere questo problema la Nasa, con il progetto Marvl, sta sviluppando tecnologie che permettono l’assemblaggio robotico nello spazio di queste piattaforme spaziali. Tuttavia, per poter arrivare a una missione reale si dovranno sviluppare anche gli altri pilastri della tecnologia nucleare elettrica, ossia un reattore a fissione in grado di resistere alle condizioni estreme dello spazio interplanetario per lunghi periodi di tempo e un propulsore in grado di fornire alte spinte in modo efficiente grazie alla elevata potenza elettrica a disposizione».

A lavorare a questo concetto sono i ricercatori del Langley Research Center della Nasa di Hampton, in Virginia, a cui il progetto Marvl è stato assegnato attraverso la Early Career Initiative. Il team avrà due anni di tempo per far progredire il concetto di propulsione nucleare e sviluppare il sistema di gestione termica, e per farlo ha coinvolto nel lavoro anche un partner esterno, l’azienda Boyd Lancaster, Inc. Alla fine di questo periodo, dicono, l’idea è di riuscire a sviluppare una dimostrazione a terra su piccola scala.

La vera sfida, per quanto riguarda l’ottimizzazione del sistema di gestione termica della propulsione nucleare, riguarda le dimensioni. Completamente dispiegato, infatti, l’array di radiatori per la dissipazione del calore sarebbe grande all’incirca come un campo da calcio. Non è difficile immaginare cosa possa significare ripiegare ordinatamente un sistema così massiccio all’interno dell’ogiva di un razzo. La tecnologia Marvl invece si propone di superare il problema inviando il sistema nello spazio a pezzi, per poi assemblare il tutto fuori dal pianeta. Una volta nello spazio, i robot collegherebbero i pannelli del radiatore del sistema di propulsione elettrica nucleare, attraverso i quali scorrerebbe un refrigerante metallico liquido, come una lega di sodio e potassio. È la prima volta che si pensa di costruire roboticamente un sistema di propulsione nucleare direttamente nello spazio, ed è questa la sfida più grande. Senza contare i rischi connessi alla nuova tecnica di propulsione, mai testata prima nello spazio, nonché i suoi limiti.

«La propulsione elettrica nucleare è un concetto ormai storico, che risale agli anni ’60 del secolo scorso. Tra il dire e il fare, però, c’è il proverbiale mare: i dettagli tecnici sono molto critici» dice a Media Inaf Tommaso Ravaglioli, che nel corso della sua carriera ha lavorato a progetti aeronautici, spaziali e missilistici, sia in ambito civile che militare. «Questa architettura è infatti molto adatta a fornire una spinta ridotta per tempi lunghissimi, il che la rende appetibile per viaggi verso i pianeti esterni, dove per la distanza dalla nostra stella i pannelli solari risultano molto meno utili. La principale limitazione è la scarsa spinta, che impedisce di usare questa propulsione per lasciare il pianeta. Inoltre, nel tempo sono stati sperimentati nello spazio sia i reattori nucleari, sia i propulsori elettrici ma l’unione delle due tecnologie ancora è da sperimentare. Questo progetto non ha requisiti semplici: l’assemblaggio deve essere possibile in modo automatico e la lega metallica refrigerante deve essere mantenuta sempre allo stato liquido, pena la distruzione del reattore».



Sognando di ricevere un messaggio da ET




Graziano Chiaro, “Sotto i cieli lontani. Alla ricerca di civiltà extraterrestri”, Mondadori, 2024, 116 pagine, 10 euro

La ricerca di vita extraterrestre è un argomento affascinante che tocca corde profonde dell’animo umano. È vero oggi ma era vero anche un secolo fa quando, in occasione di un’opposizione particolarmente favorevole di Marte, nell’agosto del 1924, l’astronomo David Peck Todd convinse l’esercito e l’ufficio meteorologico degli Stati Uniti a collaborare al tentativo di ascoltare segnali radio provenienti da Marte. All’epoca erano in molti a credere nell’esistenza dei marziani. Percival Lowell, continuando le osservazioni di Giovanni Schiaparelli per studiare i canali di Marte, aveva dedotto che queste strutture venivano continuamente costruite da marziani intelligenti e operosi. La teoria era sostenuta da Camille Flammarion, famosissimo divulgatore francese, le cui opere subito tradotte raggiungevano un vastissimo pubblico. Fu proprio Flammarion a caldeggiare il tentativo di ascolto dell’agosto 1924 in un articolo, apparso sul New York Times nel marzo dello stesso anno, dove cercava di convincere chi dubitava della possibilità di vita su Marte con il suo famoso pesce pensante. Secondo Flammarion, chi pensa che su Marte non sia possibile la vita a causa delle condizioni così diverse da quelle della terra “non ragiona come un filosofo ma come un pesce”. Ogni pesce pensa che non sia possibile la vita al di fuori dell’acqua ed è convinto che le storie su pescatori e lenze siano tutte allucinazioni.

I tentativi di captare i segnali marziani ebbero luogo durante il picco dell’opposizione di Marte, il 22-24 agosto 1924. La Marina americana montò un’antenna su un dirigibile e utilizzò come ricevitore una radio che era stata sviluppata nel corso della prima guerra mondiale per permettere le comunicazioni tra i soldati. Consci del disturbo prodotto da emissioni terrestri, i militari avevano chiesto periodi di silenzio radio ogni giorno: qualsiasi segnale anomalo captato attraverso le apparecchiature avrebbe potuto, in teoria, provare l’esistenza di vita su Marte.

In effetti, oltre alla radio, per “ascoltare” i segnali c’era la “macchina per la trasmissione continua di radio messaggi fotografici” (in breve radiocamera) sviluppata dall’inventore Charles Francis Jenkins. Qualsiasi segnale rivelato sarebbe stato tradotto in lampi di luce, che si trasformavano in forme su un foglio di carta fotografica lungo dieci metri che scorreva tra due bobine. Durante l’esperimento, la radiocamera di Jenkins rivelò dei segnali. Il crittografo militare William Friedman non riuscì a capirne il senso. Nel frattempo il pubblico interpretò questi segnali visivamente, credendo di riconoscere la forma di un volto umano nelle scariche. L’interesse si spense solo quando fu evidente che si trattava di un’interferenza, probabilmente causata dal passaggio di un tram.

Una storia incredibile, ma assolutamente vera, basata su un’insolita collaborazioni tra militari e cercatori di segnali extraterrestri in un esperimento che Guglielmo Marconi, pur incuriosito da possibili conversazioni con i marziani, aveva bollato come una fantastica assurdità. Tuttavia questo sforzo di ascolto di un secolo fa merita di essere ricordato, perché certifica che l’interesse per la ricerca del segnale extraterrestre è nato prima che venisse sviluppata la tecnologia radioastronomica, inventata da Jansky nel 1931.

Oggi i marziani sono passati di moda, ma l’interesse per la ricerca dei segnali alieni è più vivo che mai. Certamente avrete sentito parlare del progetto Seti (Search for ExtraTerrestrial Intelligence), che scruta il cielo alla ricerca di segnali interessanti grazie a finanziamenti privati, un caso unico in astrofisica. Si tratta di donazioni, grandi e piccole, raccolte da una vasta platea di entusiasti sostenitori che decidono di finanziare il sogno di ricevere un messaggio da ET. In effetti, i cercatori di segnali extraterrestri, pur animati da una straordinaria tenacia e determinazione, non sanno di preciso cosa cercare. In prima approssimazione il programma Seti si propone di selezionare segnali radio (oppure ottici) che non possano essere immediatamente spiegati con meccanismi naturali che caratterizzano l’emissione elettromagnetica degli oggetti celesti noti. L’interpretazione dei segnali rappresenterebbe il secondo passo al quale, però, non si è mai arrivati perché i potenziali candidati si sono rivelati vuoi dei segnali unici non abbastanza convincenti, vuoi dei falsi positivi.

Per il momento, tutti i segnali “strani” sono da attribuire a nuovi fenomeni astrofisici – niente ET ma piuttosto stelle di neutroni, come racconto nella prefazione del libro di Graziano Chiaro Sotto i cieli lontani, che dà un quadro completo e aggiornato dello stato dell’arte.

Dopo decenni di ricerche, ET non si è ancora fatto vivo, ma questo aumenta l’interesse. Yuri Milner ha finanziato le Breaktrhough Initiatives per dare nuovo vigore alla ricerca e la sua spinta ha avuto risonanza mondiale, facendo ripartire attività che si erano assopite nel corso degli anni.

Il contributo italiano alla ricerca Seti passa attraverso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) che gestisce i radiotelescopi italiani. In questo ambito, Breaktrough Listen ha stabilito una collaborazione con il Sardinia Radio Telescope (Srt), la più grande antenna radio in Italia con 64 m di diametro, per ascoltare i pianeti che orbitano le stelle più vicine alla ricerca di un segnale tecnologico.

La campagna di osservazioni si svilupperà nell’arco di diversi anni, la ricerca degli alieni richiede molta pazienza.

Per saperne di più:



Lanciato il razzo New Glenn di Blue Origin



Ha avuto inizio questa mattina dalla Space Force Station di Cape Canaveral, alle 8:02 ora italiana, il primo test in volo del razzo New Glenn dell’azienda Blue Origin, fondata da Jeff Bezos. L’obiettivo è ottenere la certificazione da parte della National Security Space Launch.

Inizialmente previsto alle 7,00 italiane, il lancio è avvenuto con oltre un’ora di ritardo per due stop imprevisti al conto alla rovescia. Alto 98 metri e con un diametro di sette, il razzo è destinato a portare in orbita carichi commerciali e rientrare a Terra per essere riutilizzato.

pic.twitter.com/Y2jjkkZsQv

— Jeff Bezos (@JeffBezos) January 16, 2025

In questo suo primo test in volo la separazione dei due stadi del razzo è avvenuta correttamente. Il secondo stadio ha raggiunto regolarmente l’orbita e il primo stadio è rientrato, ma non è riuscito ad atterrare sulla piattaforma Jacklyn, chiamata come la madre di Bezos, nell’Oceano Atlantico.

Raggiungere l’orbita era l’obiettivo principale di questo primo test in volo, come aveva dichiarato la stessa azienda in un post su X poco prima del lancio: «il nostro obiettivo principale oggi è raggiungere l’orbita in sicurezza. Tutto ciò che va oltre è la ciliegina sulla torta. Sappiamo che far atterrare il booster al nostro primo tentativo al largo dell’Atlantico è ambizioso, ma ci stiamo provando. Non importa che cosa accadrà, impareremo, perfezioneremo e applicheremo quella conoscenza al nostro prossimo lancio».

Il secondo stadio ha portato in orbita la piattaforma Blue Ring, progettata per trasportare più satelliti fino a un carico di tre tonnellate, e per rilasciarli su orbite diverse.



Quarantaquattro stelle sotto l’Arco del Drago




L’ammasso di galassie Abell 370. Le immagini di diverse galassie che si trovano dietro l’ammasso risultano distorte e a forma di arco a causa del lensing gravitazionale. Crediti: Nasa

Una serie di fortunati eventi, e certamente tanto lavoro oltre che l’uso del miglior telescopio al mondo, ha consentito a un gruppo di astronomi guidati da Yoshinobu Fudamoto di osservare per la prima volta quarantaquattro stelle in una galassia a sei miliardi e mezzo di anni luce dalla Terra. Si tratta di un record: mai si erano viste in una galassia a tale distanza tutte queste stelle, distinguendo le une dalle altre. Lo scoperta è stata realizzata col James Webb Space Telescope ed è uscita la scorsa settimana su Nature Astronomy.

«Le galassie che sono molto lontane solitamente ci appaiono come un blob diffuso e confuso», dice Fudamoto, ricercatore dell’Università di Chiba, in Giappone, e ospite dello Steward Observatory di Tucson, in Arizona. «Ma in realtà questi blob sono fatti di tante, tantissime stelle. Solo che non possiamo risolverle – ovvero, distinguerle – con i nostri telescopi».

Parliamo di galassie situate a miliardi di anni luce dal nostro pianeta, infinitamente più remote di Andromeda, la nostra vicina di casa, in cui, con le tecnologie attuali, potremmo letteralmente noverar le stelle ad una ad una, come fantasticava un malinconico pastore. Cimentarsi in questo compito con le galassie lontane sarebbe un po’ come provare a distinguere i granelli di sabbia di un cratere lunare con un umile binocolo. Perfino Webb, portentoso strumento che osserva nell’infrarosso, non ce la fa a distinguere le singole stelle in galassie tanto remote. E allora, come hanno fatto gli astronomi a vederle? Qui entrano in gioco i fortunati eventi, che sono due nella fattispecie.

Il primo fortunato evento è il lensing gravitazionale. Per circostanze assolutamente accidentali la galassia studiata da Fudamoto e collaboratori si trova dietro un ammasso di galassie, ovvero un numeroso insieme di galassie che abbonda di gas bollente e materia oscura. L’ammasso in questione è Abell 370, situato a quattro miliardi di anni luce dalla Terra. Per un effetto previsto da Einstein – il lensing gravitazionale, per l’appunto – oggetti come Abell 370 possono, in virtù dell’immane contenuto di materia, deviare in maniera significativa la luce degli oggetti che si trovano alle loro spalle. Non solo. La luce viene pure amplificata, cosicché galassie che ci apparirebbero fioche, a causa della smisurata distanza o perché intrinsecamente deboli, si mostrano a noi con una sgargianza che si sognerebbero se non ci fosse il lensing. In questo modo, galassie che potevano essere condannate a eterna invisibilità, “coperte” da entità ingombranti come gli amassi, si manifestano ai nostri occhi in tutto il loro splendore.


L’alone massiccio e invisibile di materia oscura di un ammasso di galassie funziona come un “macrolente”, mentre le stelle solitarie e non legate che attraversano l’ammasso agiscono come ulteriori “microlenti”, moltiplicando il fattore di ingrandimento. Crediti: Yoshinobu Fudamoto

Bisognerà dire che qualche ammaccatura l’incontro ravvicinato con l’ammasso – che si comporta dunque da “lente” – la lascerà, cosicché la luce della galassia in questione apparirà distorta e con una caratteristica forma ad arco, traccia inequivocabile del lensing. Non a caso, la galassia oggetto della scoperta è stata ribattezzata Dragon Arc ed è visibile addirittura più volte nell’immagine sottostante in quanto il lensing, tanto per non farsi mancare niente, ha pure un effetto moltiplicativo sulle immagini delle galassie.

Sfruttando l’amplificazione della luce dovuta al lensing gravitazionale, Fudamoto e collaboratori sono riusciti a scorgere insospettabili dettagli nel Dragon Arc. Ben quarantaquattro singole stelle sono state individuate, confrontando alcune immagini della galassia realizzate da Webb a dicembre 2022 e 2023. Fondamentale è stato il lavoro di Fengwu Sun, secondo autore dello studio, che ha ispezionato le diverse immagini. «Questa scoperta senza precedenti dimostra, per la prima volta, che studiare un gran numero di singole stelle in una galassia lontana è possibile», commenta.


Zoom sulla galassia Dragon Arc che appare fortemente distorta a causa del lensing in un’immagine di Webb. Crediti: Nasa

Tuttavia, il lensing gravitazionale dovuto al solo ammasso non è sufficiente per spiegare le numerose stelle osservate dai ricercatori. E qui entra in gioco il secondo fortunato evento, che viene spiegato da Eiichi Egami, tra i collaboratori dello studio: «All’interno dell’ammasso di galassie, fluttuano numerose stelle che non appartengono a nessuna galassia. Quando una di queste passa davanti a una stella nella galassia lontana lungo la linea di vista, essa agisce come una “microlente”, che si aggiunge al macrolensing dell’ammasso nel suo insieme.» Due fenomeni insieme, dunque, il macrolensing su scala dell’ammasso e il microlensing su scala stellare, collaborano efficacemente aumentando la brillantezza delle singole stelle e rendendole visibili agli occhi di Webb. Gli ci è voluto l’aiutino, dunque, stavolta. Addirittura, le stelle del Dragon Arc appaiono e scompaiono in immagini catturate in tempi diversi, in quanto esse diventano visibili solo quando si trovano perfettamente allineate con gli astri che vagano nell’ammasso. Che però si muovono, determinando un’apparente sparizione delle stelle quando viene meno l’allineamento.

E come sono queste stelle? Apparirebbero grandi e rosse. Piuttosto vetuste dunque, come le familiari Betelgeuse e Antares, diversamente da quanto affermato da studi precedenti, che avevano identificato prevalentemente supergiganti blu all’interno della galassia. Per il futuro gli astronomi prevedono di osservare molte più stelle nel Dragon Arc sfruttando nuove osservazioni di Webb. Questo lavoro potrebbe fare da apripista a osservazioni di centinaia di astri nelle galassie lontane. Lo studio delle singole stelle potrebbe fornirci ulteriori dettagli sulla struttura degli ammassi che fanno da lente e sul contenuto di materia oscura.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Identification of more than 40 gravitationally magnified stars in a galaxy at redshift 0.725” di Y. Fudamoto, F. Sun, J. M. Diego, L. Dai, M. Oguri, A. Zitrin, E. Zackrisson, M. Jauzac, D. J. Lagattuta, E. Egami, E. Iani, R. A. Windhorst, K. T. Abe, F. E. Bauer, F. Bian, R. Bhatawdekar, T. J. Broadhurst, Z. Cai, C.-C. Chen, W. Chen, S. H. Cohen, C.J. Conselice, D. Espada, N. Foo, B. L. Frye, S. Fujimoto, L. J. Furtak, M. Golubchik, T.Yu-Yang Hsiao, J.-B. Jolly, H. Kawai, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, K. Kohno, V.Kokorev, M.Li, Z. Li, X. Lin, G. E. Magdis, Ashish K. Meena, A. Niemiec, A. Nabizadeh, J. Richard, C. L. Steinhardt, Y. Wu, Y. Zhu e S. Zou


Gaia, undici anni nello spazio


Gaia, undici anni nello spazio


Intervista a Marco Castellani (Osservatorio Astronomico di Roma) rilasciata in occasione del pensionamento del satellite Gaia di ESA. Grazie ad Elisa Nichelli (Osservatorio di Roma) per la realizzazione ed il montaggio.




Macchine del tempo: il podcast


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Si parte dalla Terra. Da quel “pallido puntino blu” che la sonda Voyager 1 immortalò, trentacinque anni fa, dai confini del Sistema solare, volgendo lo sguardo indietro. “Come colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una volta ancora tutta la sua valle, si volta, si ferma, indugia” – per dirla con le parole del poeta tedesco Rilke. Quel puntino blu che è la nostra casa nel cosmo, dimora di tutte le vicende umane, non ultima la grandiosa impresa di dare un senso all’universo. Ed è proprio un’esplorazione dell’universo che propone Macchine del tempo, il nuovo podcast lanciato oggi dall’Istituto nazionale di astrofisica. Un viaggio a ritroso nel tempo tra pianeti, stelle e galassie, la cui luce ha viaggiato per centinaia, migliaia, milioni o addirittura miliardi di anni, prima di essere catturata dalle “macchine del tempo” dell’astrofisica contemporanea: i telescopi.

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Cover del podcast Macchine del tempo. Crediti logo: Stephanie Forte/Inaf

Il podcast, strutturato in cinque episodi, è stato ideato e realizzato da Lucia Bucciarelli, ricercatrice in storia della scienza presso l’Università Cattolica di Milano. È ispirato alla grande mostra dell’Inaf Macchine del tempo. Il viaggio nell’universo inizia da te che racconta l’astrofisica italiana e che, dopo il successo della prima edizione a Palazzo Esposizioni Roma, apre nuovamente le porte al pubblico, questa volta presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino, a partire dal 15 marzo 2025.

Questo progetto nasce dalla volontà di mettere a disposizione del pubblico una panoramica più ampia dei contenuti trattati nella mostra, mediante approfondimenti e interviste con esperte ed esperti delle diverse tematiche, dalla planetologia all’astrofisica stellare ed extragalattica, fino alla cosmologia. Al contempo, con questo podcast il viaggio spazio-temporale proposto dalla mostra diventa fruibile anche per chi non avrà la possibilità di visitarla, estendendo la portata della comunicazione oltre i confini fisici e temporali del museo.

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Lucia Bucciarelli, di fronte a uno degli exhibit della mostra Macchine del Tempo presso il Palazzo Esposizioni Roma

«La prima volta che ho visitato la mostra Macchine del tempo è stato come tornare bambina: mi sono sentita guidata dallo stesso stupore con cui, da piccola, scoprivo per la prima volta l’universo nella sua vastità e complessità», dice Lucia Bucciarelli, che ha sviluppato il podcast durante un tirocinio presso la Struttura per la comunicazione Inaf nell’ambito del master La scienza nella pratica giornalistica di Sapienza Università di Roma. «Questo spirito ha accompagnato tutto il lavoro di produzione del podcast, dove ho voluto mantenere una narrazione capace di raccontare storie. Storie che intrecciano il racconto della mostra, il lavoro appassionato delle ricercatrici e dei ricercatori Inaf e le vite straordinarie di chi, nei secoli, ha rivoluzionato il nostro modo di guardare il cielo. Spero che questo entusiasmo arrivi a chi ascolta, accendendo in ognuno la curiosità per la scienza e la sua storia».

In linea con il tema della mostra, ogni episodio inizia in un punto preciso non solo dello spazio ma dello spaziotempo, corrispondente a un evento di particolare rilievo nella storia della conoscenza umana. Da qui, attraverso un mix di narrazione coinvolgente e suoni immersivi, si procede alla scoperta di corpi celesti sempre più distanti ed enigmatici, immergendosi in epoche sempre più remote della storia dell’universo, grazie agli strumenti sempre più ingegnosi che, per secoli, li hanno immortalati per decifrarne i misteri. Dal cannocchiale di Galileo ai grandi telescopi odierni, fino agli albori del cosmo.

Da oggi, potrete ascoltare il primo episodio di Macchine del tempo su Apple Podcast, su Spotify e su YouTube, oltre che sul sito di Media Inaf dedicato ai podcast. Gli episodi successivi saranno pubblicati, con cadenza mensile, da febbraio a maggio, per continuare il viaggio attraverso l’universo, a cavallo della luce, comodamente da casa.

Ascolta il podcast su YouTube:

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Il satellite Gaia va in pensione


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Dopo 3827 giorni e oltre mille miliardi di osservazioni, il satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha completato oggi le sue ultime osservazioni scientifiche. Lanciato il 19 dicembre 2013, Gaia ha misurato con precisione senza precedenti le posizioni, distanze e moti di quasi due miliardi di stelle per costruire la più grande mappa mai realizzata della nostra galassia, la Via Lattea.

Per raggiungere questo ambizioso obiettivo, il satellite orbita attorno al punto lagrangiano L2, uno dei punti di equilibrio del sistema Terra-Sole, situato in direzione opposta al Sole rispetto alla Terra. Si tratta di un luogo molto gettonato per l’astronomia spaziale a causa della sua stabilità termica (Sole e Terra si trovano sempre nella stessa direzione) e per questo ospita svariati telescopi. Da qui, Gaia ha scansionato l’intera volta celeste più di venti volte ruotando continuamente intorno al proprio asse con velocità di rotazione costante: un’operazione che costa una decina di grammi di gas (azoto) freddo al giorno. Ed è proprio questo propellente – 55 chili al lancio – che sta per finire.

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La missione Gaia in numeri. Crediti: Esa/Gaia/Dpac, illustrazione della Via Lattea di Stefan Payne-Wardenaar. Cc By-Sa 3.0 Igo

Così, dopo più di 15mila “piroette spaziali” e oltre un decennio di premiato servizio, Gaia si prepara alla pensione. Oggi, 15 gennaio 2025, sono state compiute le ultime osservazioni del cielo, lasciando il propellente rimasto a bordo per una serie di test tecnologici programmati nei prossimi due mesi. Queste procedure permetteranno di comprendere ancora più a fondo il funzionamento del satellite e della tecnologia di bordo, migliorando la calibrazione dei dati e dunque i risultati scientifici, ma anche la progettazione di missioni spaziali future. In questo periodo, a causa del mutato orientamento in relazione al Sole, Gaia apparirà più brillante nel cielo rispetto al solito: pur non diventando visibile a occhio nudo, sarà più semplice “catturarla” con un piccolo telescopio. Con le ultime manovre, l’Esa allontanerà il satellite dalla sua orbita attorno a L2, indirizzandolo verso un’orbita attorno al Sole, lontano dalla sfera d’influenza terrestre, prima di spegnerlo definitivamente il prossimo 27 marzo.

«Questi test di “fine vita” sono di particolare importanza per comprendere sia la resilienza, dopo oltre dieci anni in L2 (ovvero senza la protezione del campo magnetico terrestre agli ioni pesanti del vento solare), degli oltre cento sensori Ccd che ricoprono il piano focale di Gaia, sia le cause delle anomalie termiche che hanno afflitto le misure astrometriche del satellite in questi anni e che solo la presenza a bordo del sistema metrologico laser Bam (Basic Angle Monitoring) ha permesso di monitorare, caratterizzare e quindi eliminare in fase di riduzione a terra dei dati», spiega a Media Inaf Mario Lattanzi, responsabile nazionale per conto dell’Agenzia spaziale italiana e dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) della partecipazione italiana alla missione Gaia. «I prossimi venti giorni saranno proprio dedicati all’utilizzo del sistema Bam che prenderà continuamente dati, ogni 24 secondi, con le due unità a bordo mentre il satellite modificherà il suo orientamento rispetto alla direzione del Sole. I dati verranno quindi analizzati da un gruppo di scienziati del Data Processing and Analysis Consortium (Dpac) e ingegneri – sia di Esa che delle industrie che hanno realizzato Gaia – attraverso modelli termo-meccanici del satellite».

L’Italia, fortemente coinvolta in Gaia sin dalla genesi della missione, ha una importante partecipazione nel gruppo che analizzarà i risultati dei test delle prossime settimane, attraverso il team dell’Inaf di Torino che ha caratterizzato il comportamento astrometrico dei due campi di vista del satellite durante tutti questi anni grazie al suo sistema Bam, realizzato presso il Data Processing Center Italiano (Dpct) in collaborazione con il team di Altec, sempre a Torino, che ha realizzato e opera l’infrastruttura Dpct. «I nostri team si sono preparati nei mesi scorsi a ricevere e analizzare questa nuova sequenza di dati metrologici e hanno superato brillantemente i test di qualifica sulle sequenze simulate inviate da centro di operazioni scientifiche di Madrid. Siamo quindi oggi pronti a contribuire in modo fondamentale al successo dei test di fine vita così cruciali per una comprensione di dettaglio della macchina Gaia», aggiunge Lattanzi. «Oltre all’impatto che la missione sta avendo ed avrà per molti decenni a venire sull’astrofisica e la cosmologia, Gaia ha rappresentato – e rappresenta – una crescita straordinaria per la comunità italiana non solo scientifica ma, allo stesso modo, tecnologica, avendo creato competenze internazionalmente riconosciute nel campo della caratterizzazione e calibrazione remota di payload digitali dedicati a misure di accuratezza senza precedenti sia astrometriche che fotometriche. Simili risultati e competenze si sono create nel campo dell’informatica avanzata (Big Data) e del calcolo ad alte prestazioni».

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Rappresentazione artistica della Via Lattea (vista laterale). Crediti: Crediti: Esa/Gaia/Dpac, Stefan Payne-Wardenaar.
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Se la fase di raccolta dati è terminata, la scienza della missione è ancora in pieno svolgimento. Il catalogo più recente, quello che in gergo viene chiamato la Data Release 3 (Dr3), è stato pubblicato nel 2022 ed è basato su circa tre anni di osservazioni di Gaia. Oltre alle posizioni, distanze e moti per quasi due miliardi di stelle, contiene cataloghi di sorgenti specifiche: stelle binarie, stelle variabili, asteroidi e molto ancora. Ma il meglio deve ancora arrivare.

Da diversi anni, la comunità scientifica della missione Gaia è al lavoro per realizzare la Data Release 4 (Dr4), prevista per il 2026. Sarà una miniera di informazioni ricchissima, contenente circa 500 terabyte di dati e basata su cinque anni e mezzo di osservazioni – l’arco di tempo inizialmente previsto per la missione, la cui vita operativa è stata prolungata con diverse estensioni che ne hanno raddoppiato la durata originale.

«È questa la release di Gaia che la comunità sta aspettando, ed è emozionante pensare che coprirà appena metà dei dati raccolti» nota Antonella Vallenari, ricercatrice Inaf e deputy chair del consorzio Dpac, la collaborazione che comprende centinaia di esperti in tutta Europa incaricati di trasformare le osservazioni di Gaia in cataloghi scientifici ad uso della comunità astronomica internazionale. «Anche se la missione ha smesso di raccogliere dati, il nostro lavoro andrà avanti ancora per molti anni per rendere questi incredibili set di dati pronti all’uso».

I dati resi pubblici finora, nelle prime tre release, hanno già contribuito a rivoluzionare la nostra comprensione della galassia in cui viviamo, permettendo di ricostruire la sua storia passata e, con essa, le nostre origini cosmiche. Dalla scoperta di una “galassia fantasma” che ha plasmato la Via Lattea primordiale ai “blocchi di stelle” che si sono fuse con essa in tempi remoti, dalla collisione che ha “piegato” la forma del disco galattico a quella, più recente, che ne ha “corrugato” l’aspetto, tutti questi studi stanno riscrivendo l’archeologia della nostra galassia. E non solo: negli ultimi anni Gaia ha collezionato risultati sorprendenti su ogni tipo di corpo celeste, dagli asteroidi (con tanto di lune) a buchi neri da record, fino ai lontanissimi quasar, per un totale di 13mila pubblicazioni scientifiche.

Fra i vari aspetti con cui la Dr4 supererà le precedenti data release c’è anche la capacità unica di rivelare i piccoli moti relativi delle coppie di corpi celesti che orbitano uno attorno all’altro: il catalogo di stelle binarie di Gaia, il più grande del suo genere ad oggi, è infatti destinato a crescere ancora di più. Nelle prossime release, che saranno basate su un lasso di tempo più lungo di osservazioni, aumenterà anche il numero di esopianeti, rivelati tracciando minuscole perturbazioni nei moti delle stelle causate da corpi più piccoli in orbita attorno ad esse.

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Rappresentazione artistica della Via Lattea. Le annotazioni indicano i nomi delle varie strutture (cliccare per ingrandire). Crediti: Crediti: Esa/Gaia/Dpac, Stefan Payne-Wardenaar.
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L’impatto di questa straordinaria missione ha toccato anche uno dei misteri più intriganti che avvolgono la Via Lattea: il suo aspetto. Non potendo uscire dalla nostra galassia, non è affatto banale determinare come questa possa apparire a un osservatore esterno. Niente selfie, dunque. Ma i dati di Gaia e i numerosi studi basati su di essi sono le prove migliori a nostra disposizione.

Molto è cambiato negli ultimi anni: secondo i modelli più recenti, la Via Lattea avrebbe un numero di bracci a spirale maggiore di due, ma questi sarebbero meno prominenti di quanto ritenuto in passato. Inoltre, la barra centrale sarebbe più inclinata dal punto di vista del Sole, e orientata in maniera diversa in relazione ai bracci a spirale rispetto a quanto noto prima di Gaia. Questi nuovi elementi sono confluiti in una nuova rappresentazione artistica della nostra galassia pubblicata oggi in occasione della fine delle operazioni scientifiche, realizzata da Stefan Payne-Wardenaar, esperto di visualizzazioni scientifiche presso il Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, in Germania. Rappresentazione artistica, anch’essa, destinata a migliorare ancora con le release di dati degli anni a venire.

Per saperne di più:

  • Leggi la guida sul sito dell’Esa per provare a osservare Gaia con un piccolo telescopio (in inglese)


Valeria Zanini alla guida della Sisfa


media.inaf.it/2025/01/14/valer…
Dal prossimo 19 febbraio e per tre anni, la Società italiana degli storici della fisica e dell’astronomia (Sisfa) avrà una nuova presidente: Valeria Zanini. Già responsabile del museo “La Specola” e dei beni culturali della sede padovana dell’Inaf, studiosa esperta di storia dell’astronomia e strumenti scientifici dei secoli XVII-XIX, Zanini sarà la prima donna e prima astronoma a ricoprire questa carica. Media Inaf l’ha intervistata.

Si aspettava questa nomina o è stata una sorpresa?

«Secondo lo statuto della società, è il comitato elettorale che propone i candidati per la presidenza e per il consiglio direttivo. Io stavo concludendo il mio primo mandato in consiglio direttivo e stavo considerando di mettermi a disposizione della società per un secondo mandato. Non mi aspettavo però che mi sarebbe stato chiesto di candidarmi alla presidenza, quindi sì, è stata una sorpresa, peraltro molto gradita. Significa che il lavoro fatto negli ultimi tre anni in consiglio direttivo, assieme a tutti i colleghi uscenti, è stato apprezzato e riconosciuto».

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Valeria Zanini, prossima presidente della Sisfa. Laureata in astronomia e tecnologo all’Inaf di Padova, Zanini, 54 anni, nasce e vive a Vicenza. È sposata e ha due figlie ormai ventenni. Responsabile del museo “La Specola” e dei beni culturali dell’Osservatorio astronomico di Padova, i suoi interessi di ricerca vertono sulla storia dell’astronomia nei secoli XVII-XIX e sugli strumenti scientifici della stessa epoca. È stata responsabile del Servizio musei dell’Inaf fino al 2015, e ora collabora attivamente con il Servizio biblioteche, musei e terza missione, occupandosi della tutela e valorizzazione del patrimonio storico sia mediante studi e ricerche, sia attraverso l’organizzazione di eventi e mostre. Dal 2015 svolge con contratto a titolo gratuito metà del corso di Storia dell’astronomia, per la laurea in astronomia, presso l’Università di Padova. Crediti: Inaf

Che cos’è esattamente la Sisfa? E di cosa si occupa?

«La Sisfa, Società italiana degli storici della fisica e dell’astronomia, è stata istituzionalizzata nella forma attuale nel 1999, ma affonda le sue radici negli anni ’70, quando un gruppo di ricercatori creò, all’interno del Cnr, un coordinamento scientifico per le attività di ricerca in storia della fisica, ispirandosi a quanto all’estero già si faceva da tempo. Ciò portò, nel 1981, alla costituzione del Gruppo nazionale di coordinamento per la storia della fisica (Gnsf) che successivamente, accorpando anche l’anima astronomica, si trasformò nella Sisfa. La Sisfa si pone come obiettivo la valorizzazione della storia della fisica e dell’astronomia in ogni ambito della società: nella ricerca, nella divulgazione, nell’insegnamento delle scienze, nella formazione dei docenti, nella cultura in generale. La Società opera, inoltre, per la tutela e la valorizzazione del ricco patrimonio storico-scientifico italiano che sopravvive nei dipartimenti di fisica, negli osservatori astronomici e in altri luoghi storicamente legati a queste discipline».

Che tipo di lavoro l’attenderà, in quanto presidente? Quali sono i suoi obiettivi?

«In questo contesto, nel prossimo triennio vorrei che la Sisfa si affermasse sempre più come spazio di dialogo e confronto per tutti gli studiosi interessati alla storia della fisica e dell’astronomia in Italia, uno spazio in grado di accogliere e valorizzare le diverse professionalità che contraddistinguono i suoi soci: ricercatori, docenti, collezionisti, conservatori, restauratori, cultori, semplici appassionati… Inoltre, consapevole delle limitate opportunità di carriera in questo settore di ricerca e della conseguente difficoltà nel ricambio generazionale, durante la mia presidenza vorrei sostenere le giovani generazioni di ricercatori in storia della fisica e dell’astronomia, offrendo loro opportunità di crescita e formazione. Sono peraltro convinta che la formazione dei giovani debba passare attraverso un “passaggio di conoscenza” intergenerazionale, e per questo mi piacerebbe avviare percorsi di mentorship che favoriscano il dialogo tra l’esperienza dei soci più “maturi” e l’energia innovativa dei soci più giovani».

Non solo prima donna, ma anche prima astronoma in quarant’anni. Come mai nessun astronomo prima di lei?

«Come dicevamo, la storia dell’astronomia è entrata in un secondo momento nel Gnsf e i ricercatori con formazione prettamente astronomica erano molto pochi, anche se erano molto attivi in seno alla Società. Per molti anni la presidenza è stata tenuta dal professor Pasquale Tucci il quale, pur essendo di formazione fisica, ha contribuito significativamente al recupero e alla valorizzazione del patrimonio astronomico dell’Osservatorio di Brera, incarnando così anche l’anima astronomica della Società. Negli ultimi anni, soprattutto dopo il congresso annuale organizzato a Padova nel 2023, i soci astronomi sono aumentati, per cui anche la Società ha sentito l’esigenza che questa fetta importante dei suoi soci trovasse maggior rappresentanza negli organi istituzionali».

Qual è il valore aggiunto che potrà portare la sua formazione, in questo ruolo?

«Come astronoma che lavora all’Inaf – un ente di ricerca che, pur tra diverse difficoltà, negli ultimi anni ha sempre più capito l’importanza di valorizzare la propria storia e il proprio patrimonio, in un dialogo costante con la parte di ricerca e con i colleghi che si occupano di divulgazione e didattica – credo che il valore aggiunto che potrò portare sarà proprio quello di favorire il dialogo e lo scambio di idee. D’altra parte, l’astronomia, oltre a essere la scienza più antica, è anche quella che più affascina l’uomo della strada, e proprio questo può facilitare il dialogo con l’intera società anche sul piano della storia di questa disciplina».

Un po’ della sua storia: come si è avvicinata al mondo della storia dell’astronomia e come ha deciso di dedicarsi completamente a questo?

«Io mi sono laureata in astronomia all’Università di Padova e nel mio percorso accademico ho seguito anche il corso di storia dell’astronomia, che all’epoca era tenuto dal professor Giuliano Romano. Il professor Romano era un grandissimo appassionato ma anche un grande comunicatore. In un’epoca in cui le lezioni si tenevano ancora con i lucidi e non esisteva PowerPoint, lui era in grado di farti vivere dei veri e propri viaggi nel tempo in prima persona. Al momento di scegliere la mia tesi di laurea ho dunque voluto approfondire un argomento storico. Il professor Romano era però andato in pensione, per cui ho svolto la mia tesi (sull’astronomo seicentesco Geminiano Montanari) sotto la guida della professoressa Luisa Pigatto, che proprio in quegli anni stava allestendo il museo “La Specola”, facendo restaurare l’antica strumentazione padovana e favorendo il recupero delle antiche sale osservative della Specola. È stata proprio lei a trasformare quello che pensavo sarebbe stato un interesse temporaneo, limitato al periodo della laurea (già mi immaginavo come insegnante di matematica e fisica in qualche liceo), nella vera passione e nel lavoro della mia vita».

Perché è importante conoscere e tramandare la storia dell’astronomia? E come si può rendere attuale e interessante lo studio della storia a chi comincia a studiare astrofisica, e vuole volgere tutta la sua attenzione al progresso, alle nuove scoperte, agli strumenti più grandi e d’avanguardia?

«L’articolo 9 della nostra Costituzione sancisce che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione […]”. Non è casuale che i nostri padri costituenti abbiano accostato la ricerca scientifica alla tutela del patrimonio storico, perché non vi è futuro se non si ha una comprensione profonda del passato da cui si arriva. Questo principio vale in ogni ambito della nostra vita – familiare, sociale, politico e anche scientifico. Attraverso la storia emerge chiaramente come lo sviluppo delle conoscenze scientifiche non sia stato un processo lineare e fluido, ma piuttosto un percorso accidentato, sempre strettamente interconnesso con l’evoluzione politica, sociale e culturale dell’epoca».

Lei insegna anche il corso di storia dell’astronomia all’Università di Padova. Come fare per rendere attuale e attraente questa disciplina agli occhi dei giovani studenti?

«Il processo di acquisizione della conoscenza scientifica di un giovane studente riflette, seppur in scala ridotta, il cammino dell’umanità verso la scienza moderna. Trasmettere dunque l’idea che le conoscenze scientifiche odierne non sono appannaggio dei pochi in grado di comprenderle, ma sono il frutto di un lungo e difficoltoso cammino di apprendimento collettivo, può essere la chiave attraverso cui far conoscere la storia, e con la quale stimolare quella fetta della società che più ha difficoltà con le materie scientifiche. Questo approccio crea una sorta di empatia con i nostri predecessori, permettendo a tutti di riconoscersi, anche in campo scientifico, come parte della Storia».



Come diventare milionari ripulendo la Luna


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Durante i preparativi per le missioni lunari a lungo termine, come quelle previste per il programma Artemis, e progettando le future attività umane sul nostro satellite, la gestione dei rifiuti nello spazio sta diventando sempre più un problema cruciale. È arrivato dunque il momento di capire come minimizzare, conservare, trattare e riciclare nello spazio per ridurre al minimo o eliminare del tutto la necessità di riportare i rifiuti sulla Terra.

Per promuovere una sorta di “sostenibilità spaziale”, la Nasa ha lanciato la sfida LunaRecycle Challenge, rivolta a persone che possano offrire soluzioni innovative per riciclare flussi di rifiuti inorganici quali imballaggi alimentari, vestiti scartati e materiali per esperimenti scientifici. Mentre gli sforzi precedenti si concentravano sulla riduzione della massa e del volume dei rifiuti, il focus di questa iniziativa è invece sulla loro trasformazione in prodotti utili per supportare la ricerca e le attività esplorative nello spazio e minimizzare la nostra impronta ecologica sulla Luna. In palio ci sono premi per tre milioni di dollari.

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Grafica e logo ufficiale della sfida LunaRecycle Challenge della Nasa. Crediti: Nasa

LunaRecycle Challenge rientra nella serie di sfide che l’agenzia americana spaziale ha avviato nel 2005 per cercare tra cittadini, startup, università e organizzazioni di tutto il mondo il “Mr. Wolf” che possa risolvere tutti i problemi. Il programma Centennial Challenge, infatti, offre premi a chi riesca a fornire e inventare soluzioni rivoluzionarie e non tradizionali a problemi di interesse, non solo per la Nasa ma per tutta la società. Le tecnologie ideate nella LunaRecycle Challenge, ad esempio, oltre a sostenere il futuro dell’esplorazione spaziale, potranno contribuire anche a migliorare la gestione dei rifiuti sulla Terra, ispirando nuovi approcci e soluzioni per il riciclo, aumentando l’efficienza, riducendo i rifiuti tossici e creando tecnologie su scala ridotta applicabili alle comunità di tutto il mondo.

«Operare in modo sostenibile è una considerazione importante per noi che facciamo scoperte e conduciamo ricerche sia lontano da casa che sulla Terra», spiega Amy Kaminski, responsabile del programma Prizes, Challenges and Crowdsourcing della Nasa. «Con questa sfida, stiamo cercando gli approcci innovativi proposti dalla società tutta per la gestione dei rifiuti sulla Luna e puntiamo a riportare sulla Terra le lezioni apprese a beneficio di tutti».

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Rappresentazione artistica di raccolta di materiale sulla Luna. Crediti: Nasa

La Luna Recycle Challenge della Nasa offre due percorsi di gara, ognuno con premi dedicati: Prototype Build e un Digital Twin. La linea Prototype Build si concentra sulla progettazione e lo sviluppo di componenti hardware e sistemi per il riciclaggio dei rifiuti solidi sulla superficie lunare. Per le attività Digital Twin ci si focalizzerà sulla creazione di una replica virtuale di un sistema completo per il riciclaggio di rifiuti lunari e la fabbricazione di prodotti finali. Chi vorrà mettersi alla prova, potrà competere in una o in entrambe le specialità scrivendo una proposta.

«Siamo entusiasti di vedere le soluzioni che i nostri concorrenti produrranno e impazienti per questa sfida che farà da catalizzatore positivo per avvicinare l’agenzia e l’umanità all’esplorazione di altri mondi oltre il nostro», dice Kim Krome, responsabile della LunaRecycle Challenge, che è stata realizzata grazie alla collaborazione della Nasa con l’Università dell’Alabama e l’azienda AI SpaceFactory, conosciuta per i suoi progressi nel campo delle tecnologie innovative destinate ad ambienti estremi, tipo quelli marziani o lunari.

Le squadre interessate a partecipare devono registrarsi tramite il modulo ufficiale disponibile sul sito dedicato alla competizione entro il 31 marzo 2025. Per prepararsi al meglio e “scaldare i cervelli”, la Nasa propone un webinar di 90 minuti che si terrà il prossimo 15 gennaio su Zoom. Nel corso del webinar, ex partecipanti delle sfide Centennial condivideranno strategie, pratiche e storie di successo per aiutare i nuovi concorrenti a costruire la perfetta squadra di inventori e “spazzini spaziali” efficaci per raggiungere i propri obiettivi e, chissà, diventare milionari raccogliendo rifiuti lunari.

Per saperne di più:

Guarda il video di presentazione:

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Dagli abissi al cielo, una Terra di rifiuti


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Plastiche, reti, microplastiche e persino vere e proprie isole di rifiuti popolano i nostri mari. Cemento, palazzoni, fumi ed emissioni. E ancora deforestazione, eventi climatici estremi, scioglimento della calotta polare. Questo è, solo in parte, il ritratto di come l’uomo ha plasmato (qualcuno azzarderebbe un “rovinato”) il pianeta Terra. Tutte cose che possiamo osservare quotidianamente da satellite. Sì, perché grazie alle costellazioni di satelliti in orbita mari e terre sono costantemente monitorati. E il cielo? Nemmeno quello è un bello spettacolo. Lo potete vedere, da fuori, nell’immagine riportata qui, sulla destra: una rappresentazione abbastanza attendibile di un problema che gli esperti chiamano space debris. Spazzatura spaziale. Un problema preoccupante, al punto che un gruppo di esperti ha scritto un articolo, pubblicato la settimana scorsa su One Earth, per proporre la designazione di un nuovo Obiettivo di sviluppo sostenibile dedicato alla protezione dell’orbita terrestre.

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Illustrazione della Terra circondata dai detriti spaziali. Crediti: NASA

Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), attualmente 17, sono stati scritti e adottati dai membri delle Nazioni Unite nel 2015 come appello universale all’azione per porre fine alla povertà, proteggere il pianeta per le generazioni future e garantire a tutte le persone pace e prosperità. Fra gli ambienti naturali non più incontaminati a rischio, secondo scienziati ed esperti sul tema, ci sarebbe ora anche l’orbita del nostro pianeta. Sono circa cento le nazioni oggi coinvolte in attività spaziali a vari livelli. Dagli anni Cinquanta sono stati lanciati nell’orbita terrestre quasi 20mila satelliti, ma secondo l’ultimo report annuale sull’ambiente spaziale pubblicato dall’Esa alla fine dello scorso anno, il 2024 è stato l’anno con più lanci di sempre e il numero delle costellazioni di satelliti commerciali in alcune orbite terrestri basse continua ad aumentare.

I satelliti apportano immensi benefici alla società, monitorando ecosistemi, supportando le comunicazioni globali e consentendo il mantenimento di reti e servizi utilizzati da miliardi di persone in tutto il pianeta, come la televisione satellitare e i pagamenti contactless – nessuno dubita di questo. Tuttavia, una volta raggiunta la fine della loro vita, molti di questi rimangono abbandonati, e assieme ai diversi stadi di lancio e a frammenti derivanti da esplosioni o collisioni finiscono per accumularsi come detriti orbitali. Un fenomeno che, in una sorta di effetto domino, aumenta ulteriormente la possibilità di collisioni con satelliti attivi e la generazione di ulteriori detriti.

«Lo spazio è essenziale per la nostra vita quotidiana, dalle comunicazioni globali alla comprensione dei cambiamenti climatici, eppure il rapido aumento del dispiegamento di satelliti – 2.877 solo nel 2023 (un aumento del 15 per cento circa rispetto al 2022), e ancora di più nel 2024 – ha portato a un aumento del rischio di collisioni e detriti», dice Melissa Quinn, direttrice generale della Business Unit Internazionale di Slingshot Aerospace e coautrice della proposta di Sdg. «Nel 2024, abbiamo registrato un’impennata del 17 per cento rispetto all’anno precedente nel numero medio di avvicinamenti in orbita terrestre bassa per satellite su Slingshot Beacon, l’applicazione di coordinamento del traffico spaziale di Slingshot. Con oltre 12.500 veicoli spaziali in orbita attorno al nostro pianeta, tra cui più di 3.300 satelliti inattivi, abbiamo bisogno di un’azione globale urgente e coordinata per garantire che lo spazio sia sicuro, sostenibile e protetto».

Un’azione che, secondo Quinn e gli altri autori dell’articolo, acquisterebbe molta più rilevanza se associata alla creazione di un nuovo Sdg. Il che non significa che non vi sia alcuna strategia di mitigazione già in atto da parte delle agenzie spaziali del mondo. Nel 2002, infatti, il Comitato di coordinamento interagenzie per i detriti spaziali (Iadc), di cui l’Esa è membro, ha pubblicato le Linee guida per la mitigazione dei detriti spaziali. Le misure descritte nelle linee guida stabiliscono come progettare, far volare e smaltire le missioni spaziali in modo da evitare la creazione di ulteriori detriti. E dal 2016 lo Space Debris Office dell’Esa pubblica un rapporto annuale sull’ambiente spaziale per fornire una panoramica trasparente delle attività spaziali globali, e determinare in che misura queste e altre misure internazionali di riduzione dei detriti stiano migliorando la sostenibilità a lungo termine del volo spaziale. Nell’ultimo, a cui abbiamo già accennato prima, l’Esa sottolinea che, a oggi, non abbastanza satelliti lasciano queste orbite fortemente congestionate alla fine della loro vita. In altre parole, la stessa Agenzia spaziale europea ammette che, nonostante l’adozione di misure di mitigazione dei detriti spaziali stia lentamente migliorando, siamo ancora molto lontani dall’arresto della produzione di nuovi detriti. E conclude che, senza ulteriori cambiamenti, il comportamento collettivo delle entità che operano nello spazio (aziende private e agenzie nazionali) non è sostenibile a lungo termine.

Per questo, i proponenti del nuovo Sdg sottolineano l’importanza di creare un consenso globale e velocizzare l’attuazione pratica di misure volte ad affrontare la questione. Nella pratica, scrivono gli autori, il nuovo Sdg18 potrebbe trarre diretta ispirazione da uno degli obiettivi esistenti, l’Sdg14: Life Below Water, che riguarda la gestione dei detriti marini. Una cosa che certamente accomuna le due tipologie di rifiuti, e che renderebbe l’intervento delle Nazioni Unite prezioso, scrivono gli autori, è che entrambi si estendono oltre qualunque confine nazionale e internazionale.

«Proprio come l’inquinamento da plastica e il cambiamento climatico, la spazzatura spaziale è un problema che trascende i confini», dice infatti Heather Koldewey, responsabile della conservazione degli oceani e del gruppo Fairer della Zoological Society of London (Zsl) e coautrice dell’articolo. «I nostri continui sforzi per proteggere gli oceani evidenziano quanto siano importanti gli accordi sostenuti dalle Nazioni Unite per gestire questa crisi. È fondamentale imparare dalle sfide e dalle soluzioni che abbiamo trovato nell’affrontare i detriti marini e agire subito per proteggere l’orbita del nostro pianeta».

Qualche passo concreto, negli ultimi anni, è comunque stato fatto. Nell’ultimo rapporto del 2024 l’Esa ha aggiornato i requisiti e gli standard di mitigazione dei detriti che regolano le modalità di progettazione, costruzione, volo e smaltimento delle missioni dell’Agenzia, stabilendo anche le regole per qualsiasi azienda o istituzione che collabora con l’Esa nelle sue missioni. Linee guida più rigorose per la mitigazione dei detriti, che sono state accolte con favore da molti nel settore spaziale. Nel 2023, infine, l’Esa ha facilitato la creazione della Zero Debris Charter, oggi firmata da 12 Paesi e oltre cento entità commerciali e non commerciali, con l’obiettivo di limitare in modo significativo la produzione di detriti nelle orbite terrestri e lunari di tutte le missioni, i programmi e le attività future entro il 2030.

Per saperne di più:



Getti in tempo reale dal buco nero del Dragone


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A 270 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione del Dragone, c’è un buco nero da 1,4 milioni di masse solari che negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione di molti astronomi. Di conseguenza è stato immortalato più volte da numerosi telescopi, dallo spazio e da terra. È il buco nero supermassiccio al centro della galassia 1ES 1927+654, del quale abbiamo appena dato notizia: in base ai dati raccolti dal telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Esa, mostra anomale emissioni in banda X variabili nel tempo e in frequenza, dette oscillazioni quasi periodiche (Qpo) e ascrivibili – questa l’ipotesi più recente – ai “morsi” di materia con i quali sta consumando una nana bianca che gli orbita attorno.

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La galassia attiva 1ES 1927+654, evidenziata da un cerchio, ha mostrato cambiamenti straordinari dal 2018, quando si è verificato un importante outburst nella luce visibile, ultravioletta e a raggi X. La galassia ospita un buco nero centrale di circa 1,4 milioni di masse solari e si trova a 270 milioni di anni luce da noi. Crediti: Nasa/Gsfc

Non ci sono però solo queste oscillazioni a stuzzicare la curiosità degli astronomi: osservazioni in banda radio compiute nei mesi di febbraio, aprile e maggio 2024 – riportate in un articolo pubblicato oggi su ApJ Letters e guidato da Eileen Meyer della University of Maryland Baltimore County – hanno messo in evidenza strutture che si estendono da entrambi i lati del buco nero, lunghe in totale circa mezzo anno luce, che sembrano essere getti di gas ionizzato, o plasma, emesso a circa un terzo della velocità della luce. Gli astronomi si chiedono da tempo perché solo una frazione dei buchi neri produca potenti getti di plasma e queste osservazioni potrebbero fornire indizi fondamentali per arrivare a una risposta.

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Le immagini radio di 1ES 1927+654 rivelano strutture emergenti che sembrano essere getti di plasma in uscita da entrambi i lati del buco nero centrale della galassia in seguito a un forte brillamento radio. La prima immagine, scattata nel giugno 2023, non mostra alcun segno del getto, probabilmente perché il gas caldo lo ha schermato dalla vista. Poi, a partire dal febbraio 2024, le caratteristiche emergono e si espandono dal centro della galassia, coprendo una distanza totale di circa mezzo anno luce misurata dal centro di ciascuna struttura. Crediti: Nsf/Aui/Nsf Nrao/Meyer et al. 2025

«Nel 2018 il buco nero ha iniziato a cambiare le sue proprietà proprio sotto i nostri occhi, con un importante outburst ottico, ultravioletto e a raggi X, e da allora molti team lo tengono d’occhio», ha ricordato oggi Meyer al meeting dell’American Astronomical Society, in corso in questi giorni a National Harbor (Maryland, Stati Uniti). «La formazione del getto di un buco nero non è mai stata osservato prima in tempo reale. Pensiamo che l’emissione abbia avuto inizio prima del brillamento in banda radio, quando i raggi X sono aumentati, ma che il getto sia stato inizialmente schermato alla nostra vista dal gas caldo, finché all’inizio dell’anno scorso non è emerso».

E se all’origine dei “singhiozzi” in banda X pare esserci la consumazione d’una nana bianca, anche per quanto riguarda i getti radio le ipotesi non mancano. «La spiegazione che per ora ci siamo dati per descrivere ciò che sta accadendo», dice a Media Inaf una delle coautrici dello studio su ApJ Letters, Francesca Panessa dell’Istituto nazionale di astrofisica, «è che probabilmente la responsabile del lancio del getto osservato in banda radio sia una riconfigurazione del campo magnetico – ad esempio, da toroidale a poloidale – nei pressi del buco nero».

«Questa scoperta», ribadisce un altro dei coautori, Gabriele Bruni, dell’Istituto nazionale di astrofisica, «è il risultato di una massiccia campagna osservativa che coinvolge un grande numero di osservatori a terra e nello spazio, incluso lo European Vlbi Network». E proprio la varietà e la quantità di telescopi coinvolti nelle osservazioni di 1ES 1927+654, dalla banda radio fin su all’X, passando per ottico e ultravioletto, è argomento di un terzo studio su questo buco nero, sottoposto la settimana scorsa a The Astrophysical Journal.

Per saperne di più:

  • Leggi su Media Inaf il comunicato stampa “Il buco nero con la corona oscillante
  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo“Late-time radio brightening and emergence of a radio jet in the changing-look AGN 1ES 1927+654”, di Eileen T. Meyer, Sibasish Laha, Onic I. Shuvo, Agniva Roychowdhury, David A. Green, Lauren Rhodes, Amelia M. Hankla, Alexander Philippov, Rostom Mbarek, Ari laor, Mitchell C. Begelman, Dev R. Sadaula, Ritesh Ghosh, Gabriele Bruni, Francesca Panessa, Matteo Guainazzi, Ehud Behar, Megan Masterson, Haocheng Zhang, Xiaolong Yang, Mark A. Gurwell, Garrett K. Keating, David Williams-Baldwin, Justin D. Bray, Emmanuel K. Bempong-Manful, Nicholas Wrigley, Stefano Bianchi, Federica Ricci, Fabio La Franca, Erin Kara, Markos Georganopoulos, Samantha Oates, Matt Nicholl, Main Pal e S. Bradley Cenko
  • Leggi il preprint dell’articolo sottoposto a The Astrophysical Journal Multi-wavelength observations of a jet launch in real time from the post-changing-look Active Galaxy 1ES 1927+654”, di Sibasish Laha, Eileen T. Meyer, Dev R. Sadaula, Ritesh Ghosh, Dhrubojyoti Sengupta, Megan Masterson, Onic I. Shuvo, Matteo Guainazzi, Claudio Ricci, Mitchell C. Begelman, Alexander Philippov, Rostom Mbarek, Amelia M. Hankla, Erin Kara, Francesca Panessa, Ehud Behar, Haocheng Zhang, Fabio Pacucci, Main Pal, Federica Ricci, Ilaria Villani, Susanna Bisogni, Fabio La Franca, Stefano Bianchi, Gabriele Bruni, Samantha Oates, Cameron Hahn, Matt Nicholl, S. Bradley Cenko, Sabyasachi Chattopadhyay, Josefa Becerra Gonzalez, J.A. Acosta-Pulido, Suvendu Rakshit, Jiri Svoboda, Luigi Gallo, Adam Ingram e Darshan Kakkad


Il buco nero con la corona oscillante


Immagine/foto
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Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: Nasa/Sonoma State University, Aurore Simonnet

Grazie a una lunga campagna di osservazioni realizzate con il telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa), un gruppo internazionale di ricerca guidato dal Massachusetts Institute of Technology (Mit), di cui fa parte anche Ciro Pinto dell’Istituto nazionale di astrofisica, ha rilevato oscillazioni quasi periodiche dei segnali X provenienti dalla “corona” di particelle che circonda un buco nero supermassiccio situato nel cuore di una galassia vicina. L’evoluzione di queste oscillazioni non solo suggerisce la presenza di un altro oggetto celeste in orbita attorno al buco nero, ma indica inoltre che questi oggetti compatti divorano la materia in modi più complessi di quanto gli astronomi inizialmente pensassero.

I risultati dello studio, pubblicato sulla rivista Nature, suggeriscono che a produrre tale variabilità possa essere una nana bianca attorno al buco nero, che viene divorata a piccoli “morsi” a ogni orbita. Il lavoro, basato su osservazioni del buco nero supermassiccio 1ES 1927+654, al centro dell’omonima galassia situata in direzione della costellazione del Dragone, è stato presentato oggi al 245mo meeting dell’American Astronomical Society in corso a National Harbor (Maryland, Stati Uniti). Durante il meeting sono stati presentati altri due studi, dedicati a osservazioni dello stesso buco nero, firmati tra gli altri da Gabriele Bruni, Francesca Panessa e Susanna Bisogni dell’Inaf.

I buchi neri supermassicci sono mostri cosmici che imprigionano qualsiasi cosa varchi il loro “confine”, una regione dello spaziotempo nota come orizzonte degli eventi. Previsti dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, si distinguono per la loro capacità di accrescere massa attraverso un disco di accrescimento riscaldato dall’attrito, emettendo luce visibile, ultravioletta e raggi X. Intorno al disco si sviluppa una corona di particelle caldissime che emette raggi X ad alta energia, la cui intensità varia in base alla quantità di materia che fluisce verso il buco nero.

Le emissioni descritte nell’articolo di Nature sono segnali a raggi X variabili nel tempo e in frequenza, chiamate oscillazioni quasi periodiche, o Qpo (dall’inglese Quasi Periodic Oscillations). Le osservazioni hanno rivelato picchi di emissione X che variano su tempi scala brevissimi, dell’ordine di 500 secondi.

Gli autori dello studio, guidato da Megan Masterson del Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti, osservano 1ES 1927+654 con Xmm-Newton fin dal 2011. All’inizio il buco nero si trovava in una fase di basso accrescimento, una sorta di “regime alimentare dietetico”. Le cose sono cambiate nel 2018, quando è entrato in una fase di accrescimento estremo, caratterizzata da una potente esplosione (outburst in inglese) associata all’emissione da parte del disco di accrescimento di luce visibile e ultravioletta, come pure di potenti venti relativistici: il segno tangibile di un “pasto abbondante”. In quell’occasione, i ricercatori hanno anche osservato la scomparsa dell’emissione X ad alta energia della corona (precedentemente osservata), sinonimo di distruzione della corona stessa.

Dopo il ripristino del flusso di raggi X emessi dalla corona nel 2021, nuove osservazioni condotte sempre con Xmm-Newton a luglio del 2022 hanno però mostrato rapide variazioni di questo flusso, con periodi compresi tra 400 e 1000 secondi. Il profilo di emissione presentava picchi che si alternavano a bruschi cali del segnale: le oscillazioni quasi periodiche, fluttuazioni dell’emissione X notoriamente difficili da rilevare nei buchi neri supermassicci, e che, a distanza di anni dalla loro scoperta, non si sa ancora per certo da cosa siano prodotte.

«A marzo del 2024, abbiamo osservato nuovamente il buco nero con Xmm-Newton e le oscillazioni erano ancora presenti», sottolinea Ciro Pinto, ricercatore Inaf, tra i firmatari dello studio. «L’oggetto orbitava a quasi la metà della velocità della luce, completando un’orbita ogni sette minuti».

Per spiegare una tale curva di luce, il team ha proposto due ipotesi alternative. La prima ipotesi è che nei pressi del buco nero si sia verificato un evento di distruzione mareale, ossia la disintegrazione di un corpo celeste, ad esempio una stella, da parte delle forze di marea del buco nero. Un tale evento potrebbe spiegare la perturbazione della nube di particelle della corona. L’altra ipotesi prevede che a determinare il profilo di emissione di 1ES 1927+654 possa essere stata invece una nana bianca, un “cadavere stellare” catturato dalla immane forza di gravità del buco nero che, orbitando rapidamente attorno a esso, avrebbe spazzato via a ogni orbita il gas della corona responsabile delle emissioni.

I calcoli effettuati dai ricercatori sembravano avallare la seconda ipotesi. Le fluttuazioni dell’emissione X erano molto probabilmente determinate da una nana bianca dieci volte meno massiccia del Sole, che completa un’orbita attorno al buco nero, a una distanza di circa cento milioni di chilometri, ogni diciotto minuti circa.

Le nuove osservazioni hanno tuttavia messo in discussione entrambe le ipotesi. Lo studio dell’evoluzione della frequenza delle emissioni nel tempo ha infatti mostrato che le oscillazioni aumentavano la loro frequenza: un simile comportamento esclude che a produrre la curva di luce possa essere stato un evento di distruzione mareale, che avrebbe causato la scomparsa dei picchi di emissione X nell’arco di alcuni mesi. In questo caso, invece, le oscillazioni sono state osservate per almeno due anni. I dati di Xmm-Newton del 2024 hanno mostrato inoltre che, su tempi scala ancora più lunghi, i picchi di emissione X coronali si sono stabilizzati, il che esclude anche l’ipotesi della nana bianca, o quanto meno che la distruzione sia avvenuta in un colpo solo. Si potrebbe però considerare una nana bianca alla quale il buco nero strappa materia “a piccoli bocconi”: questa non sarebbe stata consumata in un solo pasto, dunque, ma poco a poco.

A discriminare tra i vari scenari potrebbe essere un’altra osservazione, quella di onde gravitazionali. Quando due oggetti compatti, come nane bianche o buchi neri, ruotano l’uno attorno all’altro, vengono infatti prodotte queste increspature nello spazio tempo che si propagano nel cosmo. Se l’ipotesi della nana bianca fatta a pezzi “a piccoli morsi” dal buco nero fosse vera, si dovrebbero captare questi segnali: non con gli osservatori terrestri, che osservano onde gravitazionali ad alte frequenze, ma con osservatori spaziali come la futura missione LISA, il primo osservatorio spaziale di onde gravitazionali, che l’ESA lancerà nel 2035. Progettato per rilevare onde gravitazionali esattamente nella gamma di frequenze che 1ES 1927+654 sta emettendo, LISA potrebbe confutare o confermare l’ipotesi dei ricercatori.

«A partire dagli anni 2030 per questo tipo di astrofisica si apriranno nuove frontiere», conclude Ciro Pinto. «Il primo grande passo verso nuove scoperte sarà il lancio della missione Lisa, che permetterà la rilevazione di onde gravitazionali da buchi neri supermassicci. A questo obiettivo si aggiungerà la missione NewAthena che, dotata di ottiche più potenti dei precedenti osservatori a raggi X, fornirà misurazioni di oscillazioni quasi periodiche più accurate e per più sorgenti. Tale combinazione di strumenti è indispensabile per valutare quale tra le varie interpretazioni o modelli finora disponibili circa l’origine delle oscillazioni quasi periodiche sia corretta. Tutto ciò è rilevante per comprendere i meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci, ancora oggi in discussione».

Per saperne di più:

  • Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Nature “Millihertz Oscillations Near the Innermost Orbit of a Supermassive Black Hole”, di Megan Masterson, Erin Kara, Christos Panagiotou, William N. Alston, Joheen Chakraborty, Kevin Burdge, Claudio Ricci, Sibasish Laha, Iair Arcavi, Riccardo Arcodia, S. Bradley Cenko, Andrew C. Fabian, Javier A. García, Margherita Giustini, Adam Ingram, Peter Kosec, Michael Loewenstein, Eileen T. Meyer, Giovanni Miniutti, Ciro Pinto, Ronald A. Remillard, Dev R. Sadaula, Onic I. Shuvo, Benny Trakhtenbrot e Jingyi Wang


Un premio all’European Pulsar Timing Array


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Premio conferito allo European Pulsar Timing Array (Epta) dalla Royal Astronomical Society. Crediti: Ras

La Royal Astronomical Society (Ras) rappresenta una delle più prestigiose autorità scientifiche internazionali e conferisce ogni anno una serie di premi e medaglie per la ricerca astrofisica e geofisica. Tra questi anche il Group Achievement Award che – già attribuito nel 2019 alla collaborazione Ligo e nel 2021 all’Event Horizon Telescope – nel 2025 è stato assegnato a un progetto scientifico di ampio respiro in cui il contributo italiano è stato e continua a essere importante fin dalla sua nascita: lo European Pulsar Timing Array (Epta).

Epta nasce nei primi anni duemila con l’obiettivo di rivelare onde gravitazionali a bassissima frequenza tramite l’osservazione congiunta di una serie di “orologi cosmici” molto precisi, le cosiddette pulsar: minuscole ma densissime stelle di neutroni il cui battito (corrispondente a una rotazione su sé stesse) può variare, a seconda della specifica pulsar, da alcuni secondi fino ad arrivare al ritmo esasperato di ben 716 giri in un solo secondo (in particolare, queste pulsar vengono chiamate pulsar a millisecondo). Correlando fra loro le minuscole variazioni dei battiti di queste stelle si può misurare il passaggio di onde gravitazionali di bassissima frequenza provenienti da sistemi binari di buchi neri supermassicci.

Per capire quanto bassa sia la frequenza delle onde gravitazionali indagate da Epta, e quanto di conseguenza siano difficili da “afferrare”, ricordiamo anzitutto che esse, in ossequio alla teoria della relatività generale di Albert Einstein, viaggiano alla velocità della luce. La loro frequenza va da 1 a 100 miliardesimi di Hertz. Siccome un Hertz equivale a un ciclo al secondo, la lunghezza di queste onde va da circa 0,3 anni luce (che corrispondono a circa mille volte la distanza tra il Sole e Nettuno), fino a circa 30 anni luce, ovvero circa 3 volte la distanza che ci separa dalla stella Sirio.

Per poter misurare le minime variazioni prodotte nello spaziotempo da queste onde lunghissime, il consorzio Epta ha messo insieme, nel tempo, una dozzina di istituti di ricerca e oltre 80 ricercatori (al 2025, ma se ne sono avvicendati molti di più) che per 25 anni hanno osservato, e continuano a farlo, svariate decine di pulsar (circa 60) selezionate a questo scopo.

Fin dai primordi del terzo millennio (con alcune anticipazioni anche negli anni ’90 del 1900), iniziò dunque una fase osservativa da parte dei più grandi e potenti radiotelescopi europei: Effelsberg (Germania), Jodrell Bank (Regno Unito), Nançay (Francia) e Westerbork (Paesi Bassi), poi raggiunti in corsa dal Sardinia Radio Telescope (Srt) dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) che in quei primi tempi era ancora in costruzione sulle colline intorno a San Basilio, non lontano da Cagliari.

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Il team Epta in forze all’Inaf Osservatorio Astronomico di Cagliari. Da sininistra Francesco Iraci, Marta Burgay, Andrea Possenti, Delphine Perrodin, Caterina Tiburzi. Sullo sfondo il Sardinia Radio Telescope e una rappresentazione artistica di coppie di buchi neri supermassicci emittenti onde gravitazionali che impattano sulle stelle pulsar osservate dalla Terra. Crediti: Epta / Inaf / P. Soletta / R. Bonuccelli.

L’allora direttore dell’Osservatorio e “padre” del progetto Srt, Nichi D’Amico, fu tra i primi e più convinti sostenitori di questo nuovo e pionieristico ambito di ricerca astronomica (è bene ricordare che l’ufficializzazione della scoperta delle onde gravitazionali sarebbe arrivata solo nel 2015, con la rivelazione di onde gravitazionali di frequenza elevata, attorno al centinaio di Hertz) e lavorò da subito alla costruzione di un team di astrofisici dedicato a Epta che ancora oggi conta sull’esperienza di Andrea Possenti (già direttore dell’Inaf di Cagliari, oggi Dirigente di Ricerca e membro del direttivo internazionale di Epta), Marta Burgay (scopritrice della celebre e finora unica doppia pulsar), Delphine Perrodin (responsabile in Sardegna di Leap, un sotto-progetto all’interno di Epta), Caterina Tiburzi (una delle massime esperte mondiali degli effetti che il mezzo interstellare impartisce su segnali delle pulsar a millisecondo) e del dottorando Francesco Iraci. Il gruppo Epta ha potuto contare in un recente passato anche sulla collaborazione di Maura Pilia e Alessandro Corongiu.

A questa prima fase di tipo osservativo e tecnologico se n’è aggiunta un’altra caratterizzata da studi più marcatamente teorici in cui si sono inserite con successo l’Università di Milano Bicocca, con un team condotto da Alberto Sesana, e anche il Gran Sasso Science Institute (Gssi), a dimostrazione della varietà e dell’importanza del ruolo italiano in Epta.

I risultati di questo lavoro ultraventennale sono stati presentati inizialmente nel 2021 e successivamente nel 2023, con una seconda importante release che estendeva il precedente set di dati, migliorava la determinazione di parametri cruciali per l’individuazione delle onde gravitazionali di bassissima frequenza e, non secondariamente, rendeva i dati disponibili ad altri ricercatori.

«I risultati del 2023 sono stati l’esito di uno sforzo di ampia portata e di durata pluridecennale dove è stato decisivo mettere a fattor comune il meglio della strumentazione (fra cui Srt di Inaf) e della ricerca europea, sia a livello di studio delle pulsar, sia della astrofisica delle onde gravitazionali di periodo ultra-lungo», spiega Possenti. «L’unione dei mezzi tecnici e delle capacità di tutti è stato l’ingrediente fondamentale».

Questo metodo di lavoro è proprio alla base delle motivazioni che hanno indotto la Royal Astronomical Society a conferire un premio dedicato ai “risultati ottenuti dal gruppo” (Group Achievement Award), come spiega, in attesa della cerimonia ufficiale che avverrà tra qualche mese, lo stesso istituto britannico: «Uno dei punti di forza dell’Epta è la sua struttura ampia, diversificata ed egualitaria. Coinvolgendo collaboratori di diverse nazionalità e background e in particolare incoraggiando e supportando i ricercatori all’inizio della carriera, l’Epta è un modello di collaborazione internazionale e generazionale».



Le immagini a podio di BepiColombo


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Valentina Galluzzi, geologa planetaria e prima ricercatrice Inaf. È Co-Investigator dello strumento Simbio-Sys su BepiColombo e responsabile delle strategie osservative dei target scientifici dello strumento. Crediti: V. Galluzzi

Mercoledì 8 gennaio 2025, BepiColombo ha volato a soli 295 chilometri sopra la superficie di Mercurio, sul lato freddo e buio del pianeta. Circa sette minuti dopo, è passato direttamente sopra il polo nord del pianeta, prima di affacciarsi sul suo lato illuminato dal Sole. Ieri, giovedì 9 gennaio, il direttore generale dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) Josef Aschbacher ha presentato la prima immagine del sorvolo. Come durante i precedenti flyby di BepiColombo, le telecamere di monitoraggio del veicolo spaziale (M-Cam) non hanno deluso le aspettative. È stata l’ultima volta che le M-Cam hanno potuto vedere da vicino Mercurio, poiché il modulo della sonda a cui sono collegate si separerà dai due orbiter della missione – il Mercury Planetary Orbiter (Mpo) dell’Esa e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mio) della Jaxa – prima che entrino in orbita intorno a Mercurio alla fine del 2026.

Nella galleria in calce all’articolo vi riportiamo le tre migliori immagini di questo sesto incontro ravvicinato e, nelle relative didascalie, una descrizione di ciò che rivelano sul misterioso Mercurio.

Come vi avevamo anticipato mercoledì, Valentina Galluzzi di Inaf era nella nella control room dello European Space Operations Centre (Esoc) a Darmstadt, in Germania, a seguire il flyby ed è stata tra le prime persone a vedere queste immagini. Media Inaf l’ha raggiunta al suo rientro in Italia per avere qualche commento sull’esperienza e sui risultati raggiunti.

Valentina, è andato tutto come previsto? Qual è stato il momento più emozionante del flyby?

«Io ed Emanuele Simioni dell’Osservatorio Astronomico di Padova, che ci occupiamo delle simulazioni delle immagini delle M-Cam sin dal primo flyby, abbiamo preparato delle previsioni su ciò che le M-Cam avrebbero osservato pochi mesi fa. Questo ha permesso al team di prepararsi in anticipo sulle regioni che avremmo osservato. Nonostante ci sia sempre un po’ di nervosismo nell’attesa di vedere se tutto tornava, è andato come previsto e ne siamo molto felici. Il momento più emozionante è stato vedere l’immagine del polo nord di Mercurio ripreso per la prima volta da BepiColombo. Siamo stati fortunati che in quel momento molti crateri del polo nord fossero allineati con il terminatore (il confine tra il giorno e la notte, ndr), creando una scena drammatica e appagante. Sapevamo già che avremmo visto questo scenario, ma vedere il risultato vero dà sempre una scossa di emozione in più, in quanto le nostre previsioni sono basate su dati raccolti 10 anni fa, mentre questi sono risultati aggiornati in tempo quasi reale».

Quante foto sono state scattate e quale preferisce?

«Abbiamo scattato più di 60 foto con M-Cam1 e M-Cam2 con Mercurio nel loro campo di vista durante il flyby. Quella che preferisco è appunto l’immagine di M-Cam1 del polo nord perché sono consapevole che quella regione nasconde grandi enigmi, in quanto il Sole è sempre molto radente facendo sì che esistano aree in ombra permanente che probabilmente ospitano ghiaccio. Purtroppo le M-Cam non sono camere scientifiche e non hanno potuto investigare nel dettaglio questa regione. Ma lo scenario offerto dalle foto aiuta a realizzare la sfida che dovremo affrontare con lo strumento italiano Simbio-Sys e i suoi canali di imaging che al momento, durante la cruise, sono “ciechi” purtroppo. In realtà, anche Simbio-Sys sì è acceso con successo e ha fatto dei test, ma essendo chiuso tra Mpo e Mtm non ha potuto scattare immagini di Mercurio».

Lei di cosa si occupa, in particolare?

«Sono Co-Investigator dello strumento Simbio-Sys e mi occupo di strategie osservative. Mi dedico alla cartografia geologica di Mercurio da oltre 10 anni e al momento sono impegnata nella selezione di target scientifici da osservare con le nostre camere. A bordo di BepiColombo ci sono ben quattro strumenti a guida italiana, di cui due a guida Inaf Iaps Roma (Isa e Serena, che hanno raccolto dati durante il flyby) e uno a guida Inaf Osservatorio di Padova (Simbio-Sys). Inoltre, mi occupo anche dei satelliti ghiacciati di Giove in quanto sono associata allo strumento Janus sulla missione Juice».

Recentemente è uscito un articolo che tratta proprio la geologia di Mercurio, in particolare degli hollows, cavità molto recenti e chiare che caratterizzano molti crateri di Mercurio. Può descriverci i risultati salienti del lavoro?

«Il nostro recente paper sugli hollows è frutto di un aggiornamento che abbiamo fatto al database degli hollows conosciuti e riconoscibili a livello globale. Il lavoro della prima autrice, Barbara De Toffoli, è servito a fornire dati statistici e stratigrafici sulla distribuzione di queste feature. Uno dei risultati è la dimostrazione che non solo la morfologia degli hollows è molto recente e fresca, come risaputo, ma anche di durata effimera nei tempi geologici del pianeta. Rimane quindi difficile capire se tali formazioni si fossero create anche in tempi geologici più antichi (ovvero prima di 1 miliardo di anni fa), rendendole una delle feature geologiche più dinamiche che la superficie di Mercurio possa avere. Il database fornito con questo lavoro è andato ad arricchire la lista dei target Simbio-Sys in quanto gli hollows sono uno degli obiettivi di studio principali della missione».

Mercury_s_shadowy_north_pole_revealed_by_M-CAM_1_with_labels Mercury_s_sunlit_north_viewed_by_M-CAM_1_with_labels Lava_and_debris_brighten_Mercury_s_surface_with_labels


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Questa immagine della M-Cam1, scattata appena cinque minuti dopo la prima, mostra che le grandi pianure (visibili anche nell'immagine precedente) si estendono su gran parte della superficie di Mercurio. È ben visibile il cratere Mendelssohn. Solo una manciata di crateri da impatto più piccoli e recenti intaccano la superficie liscia. Più lontano, ma sempre all'interno della Planitia Borealis, il cratere Rustaveli ha subito un destino simile. In basso a sinistra si trova l'enorme bacino Caloris, il più grande cratere da impatto di Mercurio, che si estende per oltre 1500 chilometri. L'impatto che ha creato questo bacino ha sfregiato la superficie di Mercurio fino a migliaia di chilometri di distanza, come dimostrano le depressioni lineari che si irradiano da esso. Sopra un avvallamento particolarmente grande, si nota una curva a forma di boomerang più brillante dei dintorni. Questo flusso di lava sembra collegarsi a un profondo avvallamento sottostante. Il colore è simile a quello della lava del bacino di Caloris e della lava di Borealis Planitia, più a nord. Un altro mistero che BepiColombo spera di risolvere è da che parte si è mossa questa lava: verso il bacino di Caloris o fuori da esso? Crediti: Esa/BepiColombo/Mtm



Le immagini a podio di BebiColombo


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Valentina Galluzzi, geologa planetaria e prima ricercatrice Inaf. È Co-Investigator dello strumento Simbio-Sys su BepiColombo e responsabile delle strategie osservative dei target scientifici dello strumento. Crediti: V. Galluzzi

Mercoledì 8 gennaio 2025, BepiColombo ha volato a soli 295 chilometri sopra la superficie di Mercurio, sul lato freddo e buio del pianeta. Circa sette minuti dopo, è passato direttamente sopra il polo nord del pianeta, prima di affacciarsi sul suo lato illuminato dal Sole. Ieri, giovedì 9 gennaio, il direttore generale dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) Josef Aschbacher ha presentato la prima immagine del sorvolo. Come durante i precedenti flyby di BepiColombo, le telecamere di monitoraggio del veicolo spaziale (M-Cam) non hanno deluso le aspettative. È stata l’ultima volta che le M-Cam hanno potuto vedere da vicino Mercurio, poiché il modulo della sonda a cui sono collegate si separerà dai due orbiter della missione – il Mercury Planetary Orbiter (Mpo) dell’Esa e il Mercury Magnetospheric Orbiter (Mio) della Jaxa – prima che entrino in orbita intorno a Mercurio alla fine del 2026.

Nella galleria in calce all’articolo vi riportiamo le tre migliori immagini di questo sesto incontro ravvicinato e, nelle relative didascalie, una descrizione di ciò che rivelano sul misterioso Mercurio.

Come vi avevamo anticipato mercoledì, Valentina Galluzzi di Inaf era nella nella control room dello European Space Operations Centre (Esoc) a Darmstadt, in Germania, a seguire il flyby ed è stata tra le prime persone a vedere queste immagini. Media Inaf l’ha raggiunta al suo rientro in Italia per avere qualche commento sull’esperienza e sui risultati raggiunti.

Valentina, è andato tutto come previsto? Qual è stato il momento più emozionante del flyby?

«Io ed Emanuele Simioni dell’Osservatorio Astronomico di Padova, che ci occupiamo delle simulazioni delle immagini delle M-Cam sin dal primo flyby, abbiamo preparato delle previsioni su ciò che le M-Cam avrebbero osservato pochi mesi fa. Questo ha permesso al team di prepararsi in anticipo sulle regioni che avremmo osservato. Nonostante ci sia sempre un po’ di nervosismo nell’attesa di vedere se tutto tornava, è andato come previsto e ne siamo molto felici. Il momento più emozionante è stato vedere l’immagine del polo nord di Mercurio ripreso per la prima volta da BepiColombo. Siamo stati fortunati che in quel momento molti crateri del polo nord fossero allineati con il terminatore (il confine tra il giorno e la notte, ndr), creando una scena drammatica e appagante. Sapevamo già che avremmo visto questo scenario, ma vedere il risultato vero dà sempre una scossa di emozione in più, in quanto le nostre previsioni sono basate su dati raccolti 10 anni fa, mentre questi sono risultati aggiornati in tempo quasi reale».

Quante foto sono state scattate e quale preferisce?

«Abbiamo scattato più di 60 foto con M-Cam1 e M-Cam2 con Mercurio nel loro campo di vista durante il flyby. Quella che preferisco è appunto l’immagine di M-Cam1 del polo nord perché sono consapevole che quella regione nasconde grandi enigmi, in quanto il Sole è sempre molto radente facendo sì che esistano aree in ombra permanente che probabilmente ospitano ghiaccio. Purtroppo le M-Cam non sono camere scientifiche e non hanno potuto investigare nel dettaglio questa regione. Ma lo scenario offerto dalle foto aiuta a realizzare la sfida che dovremo affrontare con lo strumento italiano Simbio-Sys e i suoi canali di imaging che al momento, durante la cruise, sono “ciechi” purtroppo. In realtà, anche Simbio-Sys sì è acceso con successo e ha acquisito [dati], ma essendo chiuso tra Mpo e Mtm non ha potuto scattare immagini di Mercurio».

Lei di cosa si occupa, in particolare?

«Sono Co-Investigator dello strumento Simbio-Sys e mi occupo di strategie osservative. Mi dedico alla cartografia geologica di Mercurio da oltre 10 anni e al momento sono impegnata nella selezione di target scientifici da osservare con le nostre camere. A bordo di BepiColombo ci sono ben quattro strumenti a guida italiana, di cui due a guida Inaf Iaps Roma (Isa e Serena, che hanno raccolto dati durante il flyby) e uno a guida Inaf Osservatorio di Padova (Simbio-Sys). Inoltre, mi occupo anche dei satelliti ghiacciati di Giove in quanto sono associata allo strumento Janus sulla missione Juice».

Recentemente è uscito un articolo che tratta proprio di cartografia geologica di Mercurio, in particolare degli hollows, cavità molto recenti e chiare che caratterizzano molti crateri di Mercurio. Può descriverci i risultati salienti del lavoro?

«Il nostro recente paper sugli hollows è frutto di un aggiornamento che abbiamo fatto al database degli hollows conosciuti e riconoscibili a livello globale. Il lavoro della prima autrice, Barbara De Toffoli, è servito a fornire dati statistici e stratigrafici sulla distribuzione di queste feature. Uno dei risultati è la dimostrazione che non solo la morfologia degli hollows è molto recente e fresca, come risaputo, ma anche di durata effimera nei tempi geologici del pianeta. Rimane quindi difficile capire se tali formazioni si fossero create anche in tempi geologici più antichi (ovvero prima di 1 miliardo di anni fa), rendendole una delle feature geologiche più dinamiche che la superficie di Mercurio possa avere. Il database fornito con questo lavoro è andato ad arricchire la lista dei target Simbio-Sys in quanto gli hollows sono uno degli obiettivi di studio principali della missione».

Mercury_s_shadowy_north_pole_revealed_by_M-CAM_1_with_labels Mercury_s_sunlit_north_viewed_by_M-CAM_1_with_labels Lava_and_debris_brighten_Mercury_s_surface_with_labels


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Questa immagine della M-Cam1, scattata appena cinque minuti dopo la prima, mostra che le grandi pianure (visibili anche nell'immagine precedente) si estendono su gran parte della superficie di Mercurio. È ben visibile il cratere Mendelssohn, il cui bordo esterno è appena visibile sopra l'interno allagato. Solo una manciata di crateri da impatto più piccoli e recenti intaccano la superficie liscia. Più lontano, ma sempre all'interno della Planitia Borealis, il cratere Rustaveli ha subito un destino simile. In basso a sinistra si trova l'enorme bacino Caloris, il più grande cratere da impatto di Mercurio, che si estende per oltre 1500 chilometri. L'impatto che ha creato questo bacino ha sfregiato la superficie di Mercurio fino a migliaia di chilometri di distanza, come dimostrano le depressioni lineari che si irradiano da esso. Sopra un avvallamento particolarmente grande, una curva a forma di boomerang illumina la superficie. Questo flusso di lava brillante sembra collegarsi a un profondo avvallamento sottostante. Il colore è simile a quello della lava del bacino di Caloris e della lava di Borealis Planitia, più a nord. Un altro mistero che BepiColombo spera di risolvere è da che parte si è mossa questa lava: verso il bacino di Caloris o fuori da esso?



A rischio il cielo del Paranal Observatory


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Il problema dell’inquinamento luminoso – light pollution, in inglese – è una spina nel fianco di astronomi e astrofili. Di fatto, lampione dopo lampione, il cielo notturno è stato progressivamente cancellato, sprecando preziosa energia e interferendo con i ritmi biologici di flora e fauna. La gran parte del cielo italiano è irrimediabilmente “cancellato”, così come quello dell’intera Europa, anche se in misura minore rispetto all’Italia. Non va meglio negli Stati Uniti, India o Cina. Per rendersi conto dello stato attuale dell’inquinamento luminoso nel mondo si può consultare l’atlante mondiale della luminosità artificiale del cielo, da cui si potrà vedere che restano buie solo ampie zone dell’Africa e dell’Asia, il deserto australiano, buona parte del Canada, l’Amazzonia, la Patagonia, oltre alle due regioni polari.

Per quanto si sia cercato di costruire osservatori astronomici in luoghi sempre più remoti, l’avanzamento della light pollution ha iniziato a intaccare il cielo anche dei grandi osservatori, quelli che possiedono telescopi aventi un diametro superiore ai 3 metri. In effetti l’inquinamento luminoso negli osservatori astronomici è uno dei principali fattori da tenere in considerazione per preservare la loro produttività scientifica e la loro vita utile. I risultati di un recente studio mostrano che nei due terzi di queste strutture la radianza del cielo allo zenit ha già superato l’aumento critico del 10 per cento rispetto ai livelli naturali.

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Immagine che mostra il cielo buio di cui si può godere dal Paranal. In piedi in cima a una piattaforma del Vlt, l’ambasciatore fotografico dell’Eso Petr Horálek allunga la mano verso il pianeta Giove. Crediti Petr Horálek/Eso.

A oggi, l’osservatorio con il cielo più buio è il Paranal Observatory, situato sul Cerro Paranal a 2600 metri sul livello del mare, nell’arido deserto di Atacama, realizzato e gestito dall’Eso, l’Osservatorio Australe Europeo. Al Paranal, il maggiore telescopio presente è il Very Large Telescope (Vlt), composto da quattro distinti telescopi, ciascuno di 8,2 metri di diametro, che possono funzionare sia in modo combinato che indipendente. Fin dalla sua inaugurazione avvenuta nel 1999, il Paranal ha portato a importanti scoperte astronomiche, come la prima immagine di un esopianeta (2M1207b, ripreso nel 2004) e la conferma dell’espansione accelerata dell’universo.

Il premio Nobel per la fisica nel 2020 è stato in parte assegnato “per la scoperta di un oggetto compatto super-massiccio al centro della nostra galassia”, ricerca fatta con gli strumenti del Paranal. L’osservatorio, considerata la strumentazione all’avanguardia e il cielo buio di cui dispone, è una risorsa fondamentale per gli astronomi di tutto il mondo, compresi quelli cileni, che ha visto la sua comunità astronomica crescere notevolmente negli ultimi decenni. Inoltre, il vicino Cerro Armazones ospita la costruzione dello Extremely Large Telescope (Elt), che con i suoi 39 metri di diametro sarà il più grande telescopio al mondo, uno strumento che cambierà radicalmente ciò che sappiamo del nostro universo.

Purtroppo però, una minaccia sembra incombere sul limpido cielo del Paranal. Il 24 dicembre 2024, Aes Andes, una sussidiaria della società elettrica statunitense Aes Corporation, ha presentato una valutazione di impatto ambientale alle autorità cilene riguardante un progetto per la produzione di idrogeno verde su scala industriale che dovrebbe essere situato a soli 5-11 chilometri dai telescopi del Paranal. Il progetto, che è in fase di sviluppo iniziale, potrebbe includere una varietà di soluzioni, tra cui idrogeno verde per l’esportazione o il consumo interno, in linea con la National Green Hydrogen Strategy del Cile, oltre all’implementazione di sistemi di accumulo solari ed eolici per supportare il fabbisogno elettrico del Paese.

«La vicinanza del megaprogetto industriale Aes Andes al Paranal rappresenta un rischio critico per i cieli notturni più incontaminati del pianeta», sottolinea il direttore generale dell’Eso, Xavier Barcons. «Le emissioni di polvere durante la costruzione, l’aumento della turbolenza atmosferica e soprattutto l’inquinamento luminoso avranno un impatto irreparabile sulle capacità di osservazione astronomica, che finora hanno attratto investimenti multimiliardari da parte dei governi degli Stati membri dell’Eso».

«Il Cile, e in particolare il Paranal, è un luogo davvero speciale per l’astronomia: i suoi cieli bui sono un patrimonio naturale che trascende i confini e va a beneficio di tutta l’umanità», ha dichiarato Itziar de Gregorio, rappresentante dell’Eso in Cile. «È fondamentale prendere in considerazione luoghi alternativi per questo megaprogetto che non mettano in pericolo uno dei più importanti tesori astronomici del mondo».

La delocalizzazione di questo progetto rimane l’unico modo efficace per evitare danni irreversibili al cielo unico del Paranal. Questa misura non solo salvaguarderà il futuro dell’astronomia, ma preserverà anche uno degli ultimi cieli bui veramente incontaminati della Terra.

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Plutone e la cattura di Caronte


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Immagine composita di Plutone (in basso a destra) e Caronte (in alto a sinistra), ripresa dalla sonda New Horizons della Nasa durante il suo passaggio nel sistema di Plutone il 14 luglio 2015. Crediti: Nasa/Jhuapl/SwRI

Miliardi di anni fa, nelle gelide regioni esterne del Sistema solare, due mondi ghiacciati si scontrarono. Invece di distruggersi l’un l’altro in una catastrofe cosmica, ruotarono insieme come un pupazzo di neve celeste, separandosi infine ma rimanendo per sempre legati dalla gravità. È così che hanno avuto origine Plutone e la sua luna più grande, Caronte, secondo un nuovo studio dell’Università dell’Arizona che sfida decenni di ipotesi scientifiche.

Lo studio in questione – guidato da Adeene Denton della Nasa, che ha condotto la ricerca presso il Lunar and Planetary Laboratory – ha rivelato questo inaspettato meccanismo di “bacio e cattura”, che potrebbe aiutare gli scienziati a capire meglio come si formano ed evolvono i corpi planetari.

Considerando un aspetto che gli scienziati planetari avevano trascurato per decenni – la forza strutturale dei mondi freddi e ghiacciati – i ricercatori hanno scoperto un tipo di collisione cosmica completamente nuovo. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Nature Geoscience.

Per decenni, gli scienziati hanno teorizzato che la luna insolitamente grande di Plutone, Caronte, si fosse formata attraverso un processo simile a quello terrestre: una collisione massiccia seguita dallo stiramento e dalla deformazione di corpi assimilabili a fluidi. Questo modello ha funzionato bene per il sistema Terra-Luna, dove l’intenso calore e le maggiori masse coinvolte hanno fatto sì che i corpi in collisione si comportassero più come fluidi. Tuttavia, quando è stato applicato al sistema Plutone-Caronte, più piccolo e più freddo, questo approccio ha trascurato un fattore cruciale: l’integrità strutturale della roccia e del ghiaccio. «Plutone e Caronte sono diversi: sono più piccoli, più freddi e fatti principalmente di roccia e ghiaccio. Quando abbiamo tenuto conto della forza effettiva di questi materiali, abbiamo scoperto qualcosa di completamente inaspettato», riferisce Denton.

Utilizzando simulazioni d’impatto avanzate su un cluster di calcolo ad alte prestazioni, il team di ricerca ha scoperto che, invece di allungarsi come mastice durante la collisione, Plutone e il proto-Caronte sono rimasti temporaneamente incollati, ruotando come un oggetto a forma di pupazzo di neve prima di separarsi nel sistema binario che osserviamo oggi. Sì, perché di sistema binario si tratta: come due pattinatori che ruotano tenendosi per mano, questi due corpi celesti orbitano attorno a un centro di massa comune.

«La maggior parte degli scenari di collisione planetaria sono classificati come hit and run (colpisci e scappa) o graze and merge (sfiora e fondi). Quello che abbiamo scoperto è qualcosa di completamente diverso: uno scenario kiss and capture (bacio e cattura), in cui i corpi si scontrano, rimangono brevemente uniti e poi si separano rimanendo legati gravitazionalmente», spiega Denton.

«L’aspetto interessante di questo studio è che i parametri del modello che funzionano per catturare Caronte finiscono per metterlo nell’orbita giusta. Si ottengono due cose giuste al prezzo di una», riporta Erik Asphaug, professore del Lunar and Planetary Laboratory e co-autore dello studio.

Lo studio suggerisce inoltre che sia Plutone che Caronte sono rimasti pressoché intatti durante la collisione, conservando gran parte della loro composizione originale. Questo sfida i modelli precedenti che suggerivano un’ampia deformazione e miscelazione durante l’impatto. Inoltre, il processo di collisione, compreso l’attrito mareale durante la separazione dei corpi, ha alimentato un notevole calore interno in entrambi i corpi, che potrebbe fornire un meccanismo in grado di sviluppare su Plutone un oceano sotto-superficiale senza richiederne la formazione nel Sistema solare primordiale, più radioattivo – un vincolo temporale che ha sempre messo in difficoltà gli scienziati planetari.

Il team di ricerca sta già pianificando studi di follow-up per esplorare diverse aree fondamentali. In particolare, vuole studiare come le forze di marea abbiano influenzato la prima evoluzione di Plutone e Caronte quando erano molto più vicini, analizzare come questo scenario di formazione si allinei con le attuali caratteristiche geologiche di Plutone ed esaminare se processi simili possano spiegare la formazione di altri sistemi binari.

«Siamo particolarmente interessati a capire come questa configurazione iniziale influisca sull’evoluzione geologica di Plutone», conclude Denton. «Il calore dell’impatto e le successive forze di marea potrebbero aver giocato un ruolo cruciale nel modellare le caratteristiche che vediamo oggi sulla superficie di Plutone».

Per saperne di più:


Astronomia - Gruppo Forum ha ricondiviso questo.


Stasera (giovedì 9) dalle 20 ci troviamo in sede in Via Zauli Naldi 2 a #Faenza, e se sarà sereno osserveremo la #Luna gibbosa crescente vicina alle #Pleiadi #Giove #Marte ed altri oggetti interessanti con #binocoli e #telescopi

Ingresso libero e #gratis, non mancare!
mobilizon.it/events/9302016c-5…

@astronomia

#astronomia #spazio #space #astronomy #astrofili #scienza #divulgazione #divulgazionescientifica #telescopio #binocolo #osservatorio #starparty #stargazing #evento #eventi #romagna #italia


Osservazione del Cielo di Gennaio 2025 a Faenza


Giovedì 9 gennaio dalle ore 20:00, presso la sede del Gruppo Astrofili in Via Zauli Naldi 2 a Faenza (terrazzo della palestra delle scuole elementari/medie Carchidio-Strocchi) e dal cortile della scuola, osservazione guidata del cielo, ad occhio nudo e con i binocoli e i telescopi dell'associazione.

Condizioni meteo permettendo, in questa serata si potrà osservare la Luna gibbosa crescente vicina alle Pleiadi, Venere, Saturno, Giove, Marte, ed altri oggetti celesti interessanti.

Ingresso libero e gratuito. Per motivi organizzativi, è gradita la prenotazione usando i contatti disponibili sul sito www.astrofaenza.it

Si ricorda che durante la notte la temperatura può abbassarsi notevolmente rispetto al giorno. Per passare una serata piacevole, senza soffrire il freddo, si consiglia di vestirsi adeguatamente in base alla temperatura prevista per la sera e/o la minima per la mattina successiva, indossare calze o calzini caldi, e portare qualcosa per coprirsi in caso di freddo, come guanti, berretta, sciarpa o scaldacollo.

Abbiamo preparato un video con alcuni consigli per l'abbigliamento invernale: youtu.be/vMA_6Qgz_lE




Sincrotrone da onde d’urto nell’eliosfera


media.inaf.it/2025/01/08/sincr…
Nel cosmo esistono diversi ambienti caratterizzati da onde d’urto capaci di convertire l’energia cinetica di gas e flussi di particelle in calore, turbolenze, energia magnetica e, infine, di accelerare particelle fino a energie relativistiche, producendo raggi cosmici. Le dimensioni di tali sistemi possono variare di molti ordini di grandezza, dalle dimensioni tipiche dell’ambiente interplanetario fino agli enormi ammassi di galassie. Questi meccanismi vengono studiati principalmente attraverso l’emissione di radiazione elettromagnetica da parte delle particelle ad altissima energia, in particolare la radiazione di sincrotrone emessa da elettroni relativistici in moto attorno alle linee di campo magnetico nelle onde d’urto.

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Configurazione schematica della sonda Parker Solar Probe, l’emissione di sincrotrone e la geometria delle onde d’urto e del campo magnetico nei due giorni di osservazione. Crediti: I. C. Jebaraj et al. ApJL, 2024

La fisica dell’emissione di sincrotrone e il legame tra le proprietà spettrali di questa radiazione con le caratteristiche fisiche del sistema responsabile dell’accelerazione sono da tempo oggetto di studio. Inoltre, l’invarianza di scala che caratterizza questi processi (ossia la conservazione delle proprietà e delle leggi fisiche al variare delle dimensioni del sistema) permette di sfruttare lo studio delle onde d’urto prodotte nell’eliosfera e nell’ambiente interplanetario per comprendere meglio ciò che avviene in sistemi più grandi e distanti, come i resti di supernova, che sono responsabili dell’accelerazione di molti dei raggi cosmici di origine galattica.

Misure locali nell’eliosfera di campi magnetici ed emissione di sincrotrone sono oggi possibili grazie alla sonda della Nasa Parker Solar Probe, progettata per effettuare passaggi ravvicinati al Sole. Il 24 dicembre 2024 la sonda ha raggiunto una distanza di 6.1 milioni di km, muovendosi a un’incredibile velocità di circa 200 km/s. Un team di ricercatori guidato dall’astrofisico Immanuel Christopher Jebaraj dell’Università di Turku (Finlandia) ha analizzato i dati ottenuti dalla Parker Solar Probe il 5 settembre 2022 e il 13 marzo 2023. In quesi due giorni, la Parker Solar Probe aveva osservato emissioni di sincrotrone prodotte da particelle accelerate in onde d’urto caratterizzate da un diverso orientamento tra la direzione del campo magnetico e quella di propagazione dell’onda d’urto: una configurazione “quasi parallela” il primo giorno e “quasi perpendicolare” il secondo giorno.

Lo studio dimostra come la diversa geometria delle onde d’urto si rifletta in differenti caratteristiche dell’emissione di sincrotrone, come la sua polarizzazione, e in una diversa efficienza nell’accelerazione delle particelle, che risulta essere maggiore in una geometria “quasi parallela”. Questo conferma i risultati di studi precedenti sull’accelerazione di raggi cosmici nel resto di supernova Sn 1006 attraverso osservazioni ai raggi X. I dati della Parker Solar Probe si confermano quindi estremamente importanti sia per la comprensione dei processi fisici che caratterizzano l’eliosfera e l’ambiente interplanetario, sia per quelli che avvengono in ambienti più estesi e lontani, come i resti di supernova.

«Questo studio presenta la prima osservazione di radiazione di sincrotrone da onde d’urto che si propagano nell’eliosfera», sottolinea Marco Miceli dell’Università di Palermo, fra i coautori dell’articolo che riporta il risultato su The Astrophysical Journal Letters. «La possibilità di osservare in situ il processo di accelerazione degli elettroni e l’emissione elettromagnetica che ne deriva ci ha permesso di utilizzare l’eliosfera come una sorta di laboratorio per riprodurre in scala ciò che avviene nei ben più potenti shock associati alle esplosioni stellari. Grazie ai dati della Parker Solar Probe – e alla complicità del Sole – siamo riusciti a osservare due eventi in condizioni molto diverse fra loro, con diverse orientazioni del campo magnetico rispetto al fronte di shock. Abbiamo così potuto provare la maggiore efficacia del processo di accelerazione negli shock quasi-paralleli».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Direct Measurements of Synchrotron-Emitting Electrons at Near-Sun Shocks”, di I. C. Jebaraj, O. V. Agapitov, M. Gedalin, L. Vuorinen, M. Miceli, R. Vainio, C. M. S. Cohen, A. Voshchepynets, A. Kouloumvakos, N. Dresing, A. Marmyleva, V. Krasnoselskikh, M. Balikhin, J. G. Mitchell, A. W. Labrador, N. Wijsen, E. Palmerio, L. Colomban, J. Pomoell, E. K. J. Kilpua, M. Pulupa, F. S. Mozer, N. E. Raouafi, D. J. McComas e S. D. Bale


Ultimo flyby di Mercurio per BepiColombo


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Questa mattina, esattamente alle 06:58:52, BepiColomboha sorvolato Mercurio arrivando a soli 295 chilometri dalla sua superficie. Ha sfruttato questa opportunità per fotografare il pianeta, effettuare misurazioni uniche dell’ambiente che lo circonda e mettere a punto le operazioni degli strumenti scientifici prima dell’inizio della missione principale. Questo sesto e ultimo flyby ridurrà la velocità della sonda e ne cambierà la direzione, preparandola a entrare in orbita alla fine del 2026.

«Abbiamo ricevuto le prime immagini poco fa e siamo tutti molto felici ed eccitati perché le nostre simulazioni hanno funzionato: hanno predetto le zone giuste e abbiamo visto quello che ci aspettavamo. In queste situazioni c’è sempre un po’ di nervosismo perché quello che simuliamo deve essere poi verificato con le immagini vere», commenta Valentina Galluzzi di Inaf, ora nella control room dello European Space Operations Centre (Esoc) a Darmstadt, in Germania. «Le immagini verranno rilasciate domani sui canali ufficiali dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Per ora posso dire che sono belle immagini, soprattutto abbiamo occasione di vedere il polo nord che è una regione molto interessante da studiare. Anche se sono state riprese da camere non scientifiche, avere queste immagini dopo 10 anni da Messenger è comunque un’emozione».

Images and other scientific data from this morning’s close approach to Mercury by #bepicolombo are safely on the ground! We’ll be sharing images from the closest approach tomorrow. pic.twitter.com/l2Q9bHGtC5

— BepiColombo (@BepiColombo) January 8, 2025

Lanciata il 20 ottobre 2018, BepiColombo è una missione congiunta tra Esa e Japan Aerospace Exploration Agency (Jaxa), nonché la prima missione europea dedicata a Mercurio. Fanno parte della missione i due orbiter Mercury Planetary Orbiter (Mpo) dell’Esa e Mercury Magnetospheric Orbiter (Mio) della Jaxa. Il modulo europeo di trasferimento su Mercurio (Mtm) trasporta gli orbiter verso Mercurio, fornendo loro energia elettrica grazie a due pannelli solari lunghi 14 metri. Su questo modulo sono montate le selfie-cameras M-Cam, che forniscono immagini per il pubblico a risoluzione modesta, in attesa di quelle riprese dagli strumenti scientifici.

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Infografica che illustra il sesto flyby di Mercurio di BepiColombo. Al centro si vede la sonda che passa davanti al pianeta. A sinistra si vede il Sistema solare interno in prospettiva, con indicate le posizioni di Mercurio, Venere e Terra. A destra vediamo quali strumenti di BepiColombo sono stati attivati durante il flyby. Crediti: Esa

Attualmente BepiColombo è a più di sei anni dall’inizio del suo viaggio di otto anni verso Mercurio. In totale, ha utilizzando nove flyby planetari per dirigersi verso l’orbita del piccolo pianeta roccioso: uno della Terra, due di Venere e sei di Mercurio. Su Media Inaf abbiamo seguito tutti i flyby, in particolare quelli di Mercurio, dal primo – del 5 ottobre 2021, quando è passato a soli 199 chilometri dalla superficie – all’ultimo, quello di questa mattina.

BepiColombo si è avvicinato al pianeta dal suo lato notturno, scorgendo quello illuminato dal Sole a partire dalle 7:06 circa, sette minuti dopo aver raggiunto il punto più vicino alla superficie. Non ha ricevuto luce solare diretta per più di 23 minuti e ha dovuto fare affidamento solo sulle sue batterie. Si tratta della prima volta che è rimasto così a lungo all’ombra di Mercurio. Ricordiamo che, anche se è il pianeta più vicino al Sole, di notte la sua temperatura scende fino a -180 gradi (a differenza di Venere che, sebbene sia più lontano dal Sole, ha una temperatura di circa 450 gradi per via del tremendo effetto serra che lo caratterizza). Per superare questo momento critico gli operatori della missione si sono preparati riscaldando il veicolo spaziale già dal giorno prima e interrompendo il riscaldamento solo pochi minuti prima che BepiColombo entrasse nella “zona notte” del pianeta.

L’accelerometro Isa (Italian Spring Accelerometer) – uno degli strumenti di Mpo, fornito dall’Inaf di Roma – ha registrato le accelerazioni percepite dalla navicella spaziale mentre subiva non solo l’attrazione gravitazionale del pianeta, ma anche la variazione della radiazione solare e della temperatura quando è entrata e uscita dall’ombra di Mercurio, oltre a tutti i movimenti e le vibrazioni della sonda causati, ad esempio, dal movimento dei pannelli solari.

La rotta di BepiColombo l’ha portato a transitare proprio sopra il polo nord di Mercurio. Questo ha permesso alla sonda di osservare crateri il cui interno non viene mai toccato dal Sole. Nonostante le temperature raggiungano i 450 °C sulla superficie illuminata dal Sole, le “regioni d’ombra permanente” polari sono letteralmente ghiacciate. I dati raccolti dagli strumenti della sonda Messenger della Nasa tra il 2011 e il 2015, oltre alle osservazioni radar dalla Terra, hanno fornito una forte evidenza della presenza di ghiaccio d’acqua in alcuni di questi crateri. Se ci sia davvero ghiaccio d’acqua su Mercurio è uno dei cinque misteri che BepiColombo si è proposto di risolvere.

In calce all’articolo è riportata una simulazione di ciò che la M-Cam 1 ha visto durante il flyby, effettuata utilizzando un modello di topografia digitale preparato dal team della missione Messenger. In questo modello c’è una lacuna intorno ai poli: le prossime viste del flyby di BepiColombo e le orbite polari della missione intorno a Mercurio a partire dal 2026 miglioreranno notevolmente la copertura di queste regioni.

Durante il flyby, BepiColombo ha attraversato regioni che non sono mai state campionate prima d’ora, alcune delle quali non saranno visitate successivamente. Nell’oscurità, la sonda è passata attraverso regioni in cui le particelle cariche possono fluire dalla coda magnetica del pianeta verso la sua superficie. Ai poli, in regioni chiamate cuspidi, le linee del campo magnetico planetario incanalano anche le particelle provenienti dal Sole verso la superficie di Mercurio. In particolare, la sonda è passata attraverso la cuspide settentrionale.

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Il campo magnetico di Mercurio interagisce con le particelle del vento solare, creando la magnetosfera del pianeta, una bolla nello spazio che ha la forma di una coperta di vento che si estende lontano dal Sole. Questa bolla cambia costantemente in risposta al vento solare. Qui vedete il risultato di una simulazione che illustra un possibile ambiente magnetico di Mercurio in condizioni tipiche di vento solare. L’immagine di sinistra mostra una “vista laterale” in cui il Sole è fuori dal campo a sinistra; l’immagine di destra mostra una “vista frontale” come se stessimo guardando Mercurio dalla direzione del Sole. La simulazione si basa su un modello, non mostra osservazioni reali. I colori indicano la densità delle particelle cariche intorno a Mercurio, con la densità più alta in giallo e quella più bassa in viola/nero. Le linee bianche sono linee di campo magnetico (le linee quasi verticali che si estendono dai poli del pianeta sono artefatti numerici e vanno ignorate). Il vento solare indisturbato appare di colore arancione scuro. Quando il vento solare incontra il campo magnetico di Mercurio, viene riscaldato e deviato, creando una regione più densa di particelle di vento solare, indicata in giallo. All’interno di questo strato denso, vediamo che il numero di particelle di vento solare scende molto rapidamente fino a quasi zero, a eccezione di un flusso che si estende dall’equatore. Crediti: Willi Exner – Esa & Tu Braunschweig

Due analizzatori di particelle (Serena e Mppe) studiano le particelle in queste affascinanti regioni, mentre i due magnetometri (Mpo-Mag e Mmo-Mgf) rilevano il campo magnetico di Mercurio e lo strumento Mercury Dust Monitor (Mdm) misura le particelle di polvere più grandi.

Dopo l’arrivo su Mercurio, alla fine del 2026, le sonde si separeranno e si dirigeranno verso le loro orbite polari intorno al pianeta. Inizieranno le operazioni scientifiche all’inizio del 2027, raccogliendo dati per un anno, durante la loro missione nominale, con una possibile estensione di un anno.

Tutte le immagini riprese dalle M-Cam saranno rese pubbliche nell’Archivio di Scienze Planetarie.

Guarda il video sul canale Esa Space Science Hub:

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Hera in realtà aumentata, nel vostro salotto


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Immaginate di rientrare in casa e di vedere, sopra il tavolo del soggiorno, una copia della sonda Hera dell’Esa – attualmente in viaggio verso l’asteroide Dimorphos – in tutta la sua interezza e complessità. Potete girarci attorno, smontarla e rimontarla senza il rischio di danneggiarla, e toccarla con mano. Una mano virtuale, per la verità, quella garantita dal vostro Apple Vision Pro o da un paio di cuffie Meta Quest 3 o 3S Vr. Come fare? Vi basterà scaricare un’applicazione gratuita per iOs lanciata lo scorso 20 dicembre sull’App Store, “Guardians of Earth”, sviluppata dalla startup italiana Dive in collaborazione con il team della missione Hera dell’Esa.

«La collaborazione con l’Esa è un viaggio che ci sta molto a cuore, come gli astronauti che si avventurano verso l’ignoto» dice Michelangelo Mochi, Ceo di Dive. «Siamo orgogliosi di lavorare al fianco di un’organizzazione che condivide la nostra visione e il nostro impegno per l’esplorazione».

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Ricostruzione in realtà aumentata della sonda Hera come si potrebbe vedere utilizzando la nuova App “guardian of Earth”, sviluppata dalla startup italiana Dive in collaborazione con l’Agenzia spaziale europea. Crediti: Esa/Terra Mater

Un’anteprima di quello che potreste vedere la trovate nell’immagine qui sopra. Lanciata lo scorso 7 ottobre 2024, Hera è la prima missione di difesa planetaria dell’Esa, in viaggio per visitare il primo asteroide la cui orbita è stata modificata dall’azione umana. Raccoglierà dati avvicinandosi al sistema binario 65803 Didymos (di cui Dimorphos è, appunto, il membro più piccolo), colpito dalla sonda Dart della Nasa nel 2022, per scoprire quali conseguenze ha avuto su di esso la tecnica di deviazione sperimentata dalla Nasa, con l’idea di renderla ripetibile in caso di minaccia reale per la Terra. La prossima tappa di Hera sarà uno “swingby” di Marte la prossima primavera che la porterà sulla rotta verso Dimorphos. Una manovra che, grazie alla realtà aumentata sviluppata dall’italiana Dive, potrete seguire come foste in volo accanto alla sonda. Non solo, potrete sbirciare all’interno di una navicella virtuale, assemblarne gli elementi pezzo per pezzo, scoprire la sua strumentazione avanzata, sperimentare le principali tecnologie di viaggio nello spazio e seguirne il viaggio nello spazio fino all’asteroide di destinazione.

Grazie al coinvolgimento nel progetto dello studio di videogiochi 34BigThings, infatti, l’app offre un’esperienza immersiva a 360 gradi, proiettando gli utenti nel cosmo con Hera e portandoli faccia a faccia con i corpi celesti incontrati lungo il percorso. E se ci fosse qualche curiosità che proprio non trova soddisfazione, potreste provate a chiedere direttamente alla missione, attraverso Hera Space Companion, un assistente interattivo dotato di intelligenza artificiale che fornisce informazioni sulla missione e dati in tempo reale dallo spazio. È stato sviluppato da Terra Mater Studios, Impact AI e Microsoft Austria in collaborazione con l’Esa.

«Le tecnologie della realtà virtuale (Vr) e della realtà aumentata (Ar) stanno rivoluzionando il modo in cui i ricercatori affrontano lo studio dell’astrofisica», dice a Media Inaf Laura Leonardi dell’Inaf di Palermo, che si occupa dello studio e dello sviluppo di prodotti multimediali con applicazioni in realtà virtuale, realtà aumentata e computer grafica per la diffusione della cultura scientifica. «Queste soluzioni immersive, infatti, permettono di esplorare dinamiche e strutture dell’universo con un livello di dettaglio che supera significativamente le capacità dei metodi tradizionali, aprendo nuove prospettive per la ricerca scientifica. Nello specifico, la Vr consente agli scienziati di immergersi in ambienti simulati e di osservare complesse strutture cosmiche, altrimenti difficili da individuare e osservare. L’Ar, d’altra parte, “aumenta” il proprio spazio fisico, aggiungendo informazioni alla nostra realtà. Sono due tecnologie complementari, spesso confuse tra loro».

Nel caso dell’app “Guardians of Earth” e della missione Hera, l’utilizzo di visori Quest 3 permette di integrare Vr e Ar in quella che viene definita mixed reality. Per rendere ancora più coinvolgente l’esperienza dell’applicazione, la narrazione è affidata al leggendario chitarrista, cantautore e compositore britannico dell’iconica band Queen, Brian May. Inoltre, la colonna sonora è stata composta da Matteo Ruperto, con la partecipazione di musicisti dell’orchestra di Ennio Morricone, che fonde la qualità cinematografica con un senso di stupore e meraviglia.

«È interessante notare come sempre più enti di ricerca investano e si affidino a queste tecnologie per le proprie analisi scientifiche e non solo poiché sono strumenti che hanno un impatto enorme anche nella comunicazione scientifica», continua Leonardi. «Permettono di avvicinare il grande pubblico e le nuove generazioni a concetti scientifici complessi, offrendo esperienze dirette come il viaggio attraverso l’esplosione di una stella, offerta ad esempio dall’app Inaf Starblast, o la costruzione di un telescopio, come l’esperienza che è possibile fare utilizzando l’app in realtà virtuale dedicata al Cherenkov Telescope Array Observatory (Ctao), sempre dell’Inaf e di prossima pubblicazione».



L’Osservatorio Cta diventa un Eric


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Oggi, martedì 7 gennaio 2025, la Commissione europea ha istituito il Cherenkov Telescope Array Observatory (Ctao) come Consorzio europeo di infrastrutture di ricerca (Eric), rafforzando così la sua missione di diventare l’osservatorio per l’astronomia dei raggi gamma più grande e potente al mondo. La creazione del Ctao Eric accelererà la costruzione dell’Osservatorio e fornirà un quadro di riferimento per la distribuzione globale dei dati, accelerandone significativamente il progresso verso nuove scoperte scientifiche.

«L’Eric snellirà la costruzione e la gestione dell’Osservatorio in un modo che, senza dubbio, aiuterà il Ctao ad attrarre nuovi talenti e investimenti mentre continua a crescere», ha dichiarato Aldo Covello, presidente del Consiglio dei rappresentanti governativi. «Lo status di Eric fornisce al Ctao la stabilità legale e i vantaggi amministrativi necessari per essere sostenibile nelle proprie operazioni e nell’impatto a livello globale».

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Un rendering dei telescopi dell’Osservatorio Cta (Ctao) Nord e Sud. Crediti: Ctao

Il Ctao Eric è stato istituto con il supporto internazionale di 11 paesi e un’organizzazione intergovernativa che contribuiscono allo sviluppo tecnologico, alla costruzione e alle operazioni dell’Osservatorio. Il Consiglio dei rappresentanti governativi rappresenta questo gruppo ed è stato responsabile della preparazione dell’Eric.

«Siamo grati ai nostri membri fondatori per il loro supporto e alla Commissione europea per aver riaffermato la propria fiducia nel Ctao come infrastruttura di ricerca di classe mondiale», ha dichiarato Stuart McMuldroch, direttore generale del Ctao. «Questo traguardo rappresenta il culmine di anni di pianificazione da parte dei vari gruppi che hanno contribuito al successo dell’Osservatorio. Con il Ctao Eric, ora abbiamo uno strumento potente per consolidare i nostri sforzi e progredire nel progetto».

L’Eric non solo fornisce all’organizzazione centrale un quadro formale per accettare e gestire gli attuali prototipi dei telescopi, ma consente anche l’avvio immediato della costruzione dell’intera schiera di oltre 60 telescopi distribuiti nei due siti, in Spagna e in Cile. A Ctao-Nord, dove il prototipo dei telescopi grandi, cosiddetti Large-Sized Telescope o Lst, è in fase di collaudo, si prevede che nei prossimi 1-2 anni saranno costruiti altri tre LSt e un Medium-Sized Telescope (Mst), telescopio di media dimensione. Nel frattempo, a Ctao-Sud, si prevede che i primi cinque telescopi piccoli, denominati Small-Sized Telescopes (Sst), e due Mst saranno consegnati all’inizio del 2026. Così, grazie all’Eric, l’Osservatorio potrà gestire configurazioni intermedie di telescopi già a partire dal 2026.

L’impatto dell’Eric non li limiterà al solo hardware, ma influenzerà altre aree chiave. Nei prossimi mesi, l’Osservatorio si preparerà a integrare e operare software avanzato progettato per controllare i telescopi e i relativi dispositivi di supporto, nonché per gestire l’elaborazione dei dati. Inoltre, proseguirà la campagna di reclutamento per tutte le strutture del Ctao, tra cui il Quartier generale in Italia e il Centro di gestione dei dati scientifici in Germania, garantendo un forte supporto per questi sviluppi.

Il Ctao è stato riconosciuto come “Punto di riferimento” nella Roadmap 2018 del Forum europeo strategico sulle infrastrutture di ricerca (Esfri) ed è stato classificato come la principale priorità tra le nuove infrastrutture da terra nella Roadmap 2022-2035 di Astronet. Ora, dopo anni di intenso lavoro preparatorio e con l’entità giuridica finale in funzione, il Ctao consolida la propria posizione nella comunità scientifica globale, facilitando sinergie con altre organizzazioni e osservatori internazionali.

«Lo status di Eric rafforza la presenza del Ctao in Europa e il suo ruolo come attore chiave nello spazio europeo della ricerca, ma il supporto ricevuto e l’ambito di influenza del Ctao Eric vanno ben oltre i confini europei», ha spiegato Federico Ferrini, co-direttore generale. «Per costruire e gestire il più grande osservatorio di raggi gamma al mondo, che soddisfi le ambiziose esigenze della comunità scientifica globale, contiamo su un numero crescente di partner da tutto il mondo».

«Con questa importante tappa», ha commentato Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), «continuiamo a lavorare alla costruzione di un nuovo osservatorio per la comprensione dei fenomeni dell’universo che coinvolgono quantità di energia inimmaginabili in laboratorio o nei dintorni del nostro Sistema solare: dai raggi cosmici più potenti ai buchi neri, passando per la natura della materia oscura».

I membri del Ctao Eric sono Austria, Francia, Germania, Italia, Osservatorio europeo australe (Eso), Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia e Spagna. Inoltre, la Svizzera è Osservatore, il Giappone è partner strategico mentre l’Australia, gli Stati Uniti e il Brasile parteciperanno come terze parti.

Per saperne di più:

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube di Ctao:

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Galassie d’ogni sorta nella Macchina pneumatica


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L’immagine che vediamo qui di seguito è stata acquisita dalla Dark Energy Camera (DeCam), una fotocamera da 570 megapixel montata sul telescopio Víctor M. Blanco, in Cile. Mostra in grande dettaglio l’ammasso della Macchina pneumatica (noto anche come Antlia cluster, o Abell S636), situato in direzione dell’omonima costellazione, a circa 130 milioni di anni luce da noi – da non confondere con la galassia nana che ha lo stesso nome.

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L’ammasso di galassie Abell S636 ripreso con la DeCam del telescopio Víctor M. Blanco. Crediti: Dark Energy Survey/Doe/Fnal/Decam/Ctio/Noirlab/Nsf/Aura. Image processing: R. Colombari & M. Zamani (Nsf NoirLab)

Il nome ‘macchina pneumatica’, si legge su Wikipedia, è un omaggio al dispositivo inventato da Denis Papin per ricreare il vuoto in laboratorio. Tutt’altro che vuota è però la regione d’universo che denota: l’ammasso è infatti formato da almeno 230 galassie d’ogni sorta.

Le principali sono le due massicce galassie ellittiche – Ngc 3268 e Ngc 3258 – che troviamo, rispettivamente, al centro dell’immagine e in basso a destra. Gli astronomi sospettano che queste due galassie siano in procinto di fondersi: ipotesi suffragata da osservazioni a raggi X che mostrano la presenza, fra le due, di una sorta di “corda” formata da ammassi globulari. Se l’interpretazione è corretta, è probabile che lo stesso ammasso possa essere, a sua volta, il risultato della combinazione di due ammassi più piccoli.

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Una piccola porzione della miriade di pittoresche galassie che si trovano all’interno dell’Ammasso della Macchina pneumatica, un gruppo di almeno 230 galassie situate a circa 130 milioni di anni luce da noi. Questa immagine è stata scattata con la Dark Energy Camera (DeCam) da 570 megapixel montata sul telescopio di 4 metri Víctor M. Blanco della National Science Foundation (Nsf) statunitense, situato all’Osservatorio interamericano di Cerro Tololo, in Cile. La vista ultra-profonda di DeCam mostra la varietà di galassie all’interno e all’esterno dell’ammasso in modo incredibilmente dettagliato. Crediti: Dark Energy Survey/Doe/Fnal/Decam/Ctio/Noirlab/Nsf/Aura. Image processing: R. Colombari & M. Zamani (Nsf NoirLab)

Si possono poi notare numerose galassie lenticolari (galassie a disco povere di materia interstellare, dunque con attività di formazione stellare molto ridotta), alcune galassie irregolari e una pletora di rare galassie nane a bassa luminosità, fra le quali alcune nane ultracompatte, ellittiche compatte e nane compatte blu. L’ammasso sembrerebbe poi contenere anche galassie nane sferoidali e galassie ultra-diffuse, ma per confermarne la presenza saranno necessarie ulteriori osservazioni.

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube del NoirLab:

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Individuata l’origine di un lampo radio veloce


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I lampi radio veloci – in inglese fast radio burst (Frb) – sono brevi e brillanti esplosioni di onde radio emesse da oggetti estremamente compatti, come stelle di neutroni e forse buchi neri. Questi fugaci fuochi d’artificio durano appena un millesimo di secondo e possono trasportare un’enorme quantità di energia, sufficiente a sovrastare la luminosità di intere galassie. Da quando è stato scoperto il primo fast radio burst nel 2007, gli astronomi ne hanno rilevati migliaia, la cui posizione varia dall’interno della Galassia fino a 8 miliardi di anni luce di distanza. Nonostante ne siano stati scoperti così tanti, il modo in cui avvengono è ancora oggetto di diatribe.

Ora, gli astronomi del Massachusetts Institute of Technology (Mit) hanno individuato le origini di almeno un fast radio burst utilizzando una tecnica innovativa che potrebbe risultare promettente anche per altri Frb. Nel nuovo studio, pubblicato il primo gennaio sulla rivista Nature, il team si è concentrato su Frb 20221022A, un fast radio burst già conosciuto e rilevato in una galassia distante circa 200 milioni di anni luce.

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Il Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment (Chime), un radiotelescopio interferometrico situato presso il Dominion Radio Astrophysical Observatory nella Columbia Britannica, in Canada. Crediti: Chime

In particolare, il team si è focalizzato sulla determinazione della posizione precisa del segnale radio analizzando la sua scintillazione, un fenomeno simile a quello per cui le stelle sembrano sfavillare nel cielo notturno. Gli scienziati hanno studiato le variazioni di luminosità dell’Frb e hanno stabilito che il burst deve aver avuto origine nelle immediate vicinanze della sorgente, piuttosto che molto più lontano, come previsto da alcuni modelli.

Il team stima che Frb 20221022A sia esploso da una regione estremamente vicina a una stella di neutroni rotante, a una distanza massima di 10mila chilometri, meno della distanza tra New York e Singapore. A distanza così ravvicinata, l’esplosione è probabilmente emersa dalla magnetosfera della stella di neutroni, una regione altamente magnetica che circonda la stella ultracompatta. «In questi ambienti delle stelle di neutroni, i campi magnetici sono davvero ai limiti di ciò che l’universo può produrre», spiega Kenzie Nimmo del Kavli Institute for Astrophysics and Space Research, primo autore dello studio. «Si è molto discusso sul fatto che questa emissione radio luminosa possa anche solo sfuggire da quel plasma estremo».

«Intorno a queste stelle di neutroni altamente magnetiche, note anche come magnetar, gli atomi non possono esistere: verrebbero semplicemente fatti a pezzi dai campi magnetici», spiega Kiyoshi Masui, professore associato di fisica al Mit. «La cosa eccitante è che abbiamo scoperto che l’energia immagazzinata in quei campi magnetici, vicino alla sorgente, si sta torcendo e riconfigurando in modo tale da poter essere rilasciata sotto forma di onde radio che possiamo vedere attraverso l’universo».

I rilevamenti di lampi radio veloci sono aumentati negli ultimi anni grazie al Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment (Chime). L’array di radiotelescopi comprende quattro grandi semi-cilindri di 100 x 20 metri su cui sono installati 1024 ricevitori radio a doppia polarizzazione sensibili alle frequenze tra 400-800 MHz. Dal 2020, Chime ha rilevato migliaia di Frb provenienti da tutto l’universo.

Sebbene gli scienziati siano generalmente d’accordo sul fatto che i burst provengano da oggetti estremamente compatti, la fisica esatta che guida gli Frb non è chiara. Alcuni modelli prevedono che i fast radio burst provengano dalla magnetosfera turbolenta che circonda un oggetto compatto, mentre altri prevedono che i burst abbiano origine molto più lontano, come parte di un’onda d’urto che si propaga lontano dall’oggetto centrale.

Per distinguere i due scenari e determinare dove nascono i fast radio burst, il team ha preso in considerazione la scintillazione, ovvero l’effetto che si verifica quando la luce di una sorgente puntiforme, come una stella, passa attraverso un mezzo, come il gas di una galassia, e viene deflessa in modo da apparire, a un osservatore distante, come se la stella stesse scintillando. Più un oggetto è piccolo o lontano, più scintilla. La luce di oggetti più grandi o più vicini, come i pianeti del Sistema solare, subisce una deflessione minore e quindi non sembra scintillare.

Il team ha pensato che se si potesse stimare il grado di scintillazione di un Frb, si potrebbe determinare la dimensione relativa della regione da cui il lampo ha avuto origine. Più piccola è la regione, più il burst è vicino alla sua sorgente e più è probabile che provenga da un ambiente magneticamente turbolento. Più grande è la regione, più lontano sarebbe il burst, a sostegno dello scenario secondo il quale gli Frb derivano da onde d’urto lontane.

Ed ecco che entra in gioco Frb 20221022A, il veloce burst radio rilevato da Chime nel 2022. Il segnale dura circa due millisecondi ed è un Frb relativamente comune, in termini di luminosità. Tuttavia, un gruppo di collaboratori della McGill University ha scoperto che Frb 20221022A presentava una proprietà particolare: la luce del burst era altamente polarizzata, con l’angolo di polarizzazione che tracciava una curva regolare a forma di S. Questo fatto è stato interpretato come la prova che il burst è altamente polarizzato e che il sito di emissione dell’Frb sta ruotando, una caratteristica precedentemente osservata nelle pulsar, stelle di neutroni altamente magnetizzate e in rotazione.

La presenza di una polarizzazione simile nei fast radio burst è una novità assoluta, che suggerisce che il segnale possa provenire da regioni molto vicine alla stella di neutroni. I risultati del team della McGill sono riportati in un articolo di accompagnamento pubblicato su Nature.

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Rappresentazione artistica di una magnetar in un antico ammasso globulare (in rosso) vicino alla galassia a spirale Messier 81 (M81). Il misterioso ed estremamente rapido lampo radio veloce proverrebbe da questa regione. Crediti: Daniëlle Futselaar, artsource.nl

A questo punto, il team del Mit ha intuito che, attraverso l’eventuale rilevamento di una scintillazione, sarebbe stato possibile verificare se l’Frb 20221022A avesse avuto origine nelle vicinanze di una stella di neutroni. E così è stato: nel loro nuovo studio, Nimmo e i suoi colleghi hanno individuato nei dati di Chime forti variazioni di luminosità indicative di una scintillazione. Hanno confermato la presenza di gas tra il telescopio e l’Frb, capace di deviare e filtrare le onde radio. Analizzando la posizione di questo gas, il team ha stabilito che parte della scintillazione osservata era attribuibile al gas presente nella galassia ospite dell’Frb. Questo gas, agendo come una lente naturale, ha permesso ai ricercatori di “ingrandire” il sito di origine dell’Frb e di determinare che il burst proveniva da una regione estremamente piccola, con un diametro di circa 10mila chilometri. «È molto vicino», afferma Nimmo. «Per fare un paragone, se il segnale provenisse da un’onda d’urto, ci aspetteremmo di trovarci a oltre decine di milioni di chilometri di distanza e non vedremmo alcuna scintillazione».

«Fare uno zoom su una regione di 10mila chilometri, da una distanza di 200 milioni di anni luce, è come poter misurare la larghezza di un’elica di Dna, che è larga circa 2 nanometri, sulla superficie della Luna», aggiunge Masui.

Questi risultati, combinati con quelli del team McGill, escludono la possibilità che Frb 20221022A sia emerso dalle zone più periferiche di un oggetto compatto. Al contrario, gli studi dimostrano per la prima volta che i fast radio burst possono avere origine molto vicino a una stella di neutroni, in ambienti magnetici altamente caotici.

«Il modello tracciato dall’angolo di polarizzazione era così sorprendentemente simile a quello osservato dalle pulsar nella nostra galassia, la Via Lattea, che inizialmente abbiamo temuto che la sorgente non fosse in realtà un Frb ma una pulsar classificata in modo errato», afferma Ryan Mckinven, coautore dello studio della McGill University. «Fortunatamente, queste preoccupazioni sono state messe a tacere con l’aiuto dei dati raccolti da un telescopio ottico che ha confermato che l’Frb ha avuto origine in una galassia distante milioni di anni luce».

«La polarimetria è uno dei pochi strumenti che abbiamo per sondare queste sorgenti lontane», conclude Mckinven. «Questo risultato probabilmente ispirerà studi successivi su un comportamento simile in altri Frb e stimolerà gli sforzi teorici per riconciliare le differenze nei loro segnali polarizzati».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature l’articolo “Magnetospheric origin of a fast radio burst constrained using scintillation” di Kenzie Nimmo, Ziggy Pleunis, Paz Beniamini, Pawan Kumar, Adam E. Lanman, D. Z. Li, Robert Main, Mawson W. Sammons, Shion Andrew, Mohit Bhardwaj, Shami Chatterjee, Alice P. Curtin, Emmanuel Fonseca, B. M. Gaensler, Ronniy C. Joseph, Zarif Kader, Victoria M. Kaspi, Mattias Lazda, Calvin Leung, Kiyoshi W. Masui, Ryan Mckinven, Daniele Michilli, Ayush Pandhi, Aaron B. Pearlman, Masoud Rafiei-Ravandi, Ketan R. Sand, Kaitlyn Shin, Kendrick Smith e Ingrid H. Stairs


Swelto e la tempesta geomagnetica di Capodanno


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Dati registrati dal nuovo magnetometro del progetto Swelto in occasione della tempesta geomagnetica di inizio 2025 (cliccare per ingrandire). Crediti: Swelto/Inaf Torino

Uno degli obiettivi del progetto Swelto (Space Weather Laboratory in Turin Observatory) è predisporre presso l’Inaf di Torino nuovi sensori che forniscano misure dei disturbi nello spazio circumterrestre collegati all’attività solare. Già alcuni anni fa un sensore utilizzato nell’ambito del progetto Swelto aveva rilevato un cosiddetto “evento Sid” (Sudden Ionospheric Disturbance) associato al primo brillamento di classe X del ciclo solare 25esimo attualmente in corso. Si tratta di misure relativamente semplici, che sfruttano un’antenna radio passiva che misura l’intensità di segnali radio proveniente da trasmettitori a bassa frequenza utilizzati per le comunicazioni sub-ionosferiche: segnali che sono quindi disturbati quando la densità di elettroni liberi in ionosfera è modificata improvvisamente dal flash nell‘estremo ultravioletto (Euv) associato a un brillamento solare.

Altrettanto interessanti nell’ambito della meteorologia spaziale sono le misure dei disturbi del campo magnetico terrestre (il campo geomagnetico) che possono generalmente essere dovute a correnti addizionali indotte in ionosfera oppure in magnetosfera durante una tempesta geomagnetica. A livello nazionale, questo tipo di misure vengono acquisite attualmente dalle stazioni gestite dall’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) e situate a Castello Tesino (TN), L’Aquila (AQ), Duronia (CB) e Lampedusa (AG), che gestisce anche degli osservatori geomagnetici in Antartide. Questi dati sono anche standardizzati e utilizzati per contribuire alla rete globale di osservatori geomagnetici denominata InterMagnet (International Real-time Magnetic Observatory Network).

Considerando le basse latitudini cui si trovano gli osservatori nazionali che forniscono le misure rispetto all’equatore magnetico, questi disturbi sono generalmente associati all’intensificazione delle cosiddette correnti magnetosferiche ad anello, che scorrono nella parte più interna della magnetosfera terrestre in senso opposto alla rotazione del pianeta e in prossimità dell’equatore magnetico. Queste correnti, presenti anche in assenza di un disturbo, sono particolarmente intensificate durante una tempesta geomagnetica, producendo una componente addizionale del campo magnetico diretta verso sud che viene tipicamente quantificata in termini del cosiddetto “indice-Dst”. La misura dell’indice-Dst fornisce una stima indiretta dell’intensità di queste correnti e quindi della tempesta geomagnetica, e a livello mondiale l’istituto di riferimento per questo tipo di misure è il World Data Center for Geomagnetism di Kyoto, in Giappone.

A fine novembre 2024, è stato installato presso l’Inaf di Torino un nuovo sensore, ossia un magnetometro di tipo FluxGate con lo scopo di misurare in tempo reale i disturbi del campo geomagnetico associati all’attività solare. Il dispositivo è stato installato in prossimità della cupola Marcon (coordinate Gps: 45° 02 ‘27.18” N, 7° 45’50.58” E, altitudine 665 m s.l.m.) all’interno di un pozzetto in pvc, a circa un metro di profondità per ridurre al minimo le perturbazioni esterne sulla misura (vibrazioni, effetti termici, eccetera). La stazione geomagnetica è stata progettata per poter misurare variazioni di campo magnetico con un’accuratezza di circa 0.5 nT.

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Il nuovo magnetometro di tipo FluxGate installato all’Inaf di Torino (la porzione di paesaggio a dx della torre è stata generata artificialmente con Adobe Photoshop AI). Crediti: Swelto/Inaf Torino

Le prime misure che sono state acquisite da fine novembre hanno permesso di ricavare una curva preliminare di riferimento locale in condizioni non disturbate, curva che è stata quindi utilizzata per misurare il disturbo indotto giornalmente nel campo geomagnetico locale, seguendo una procedura simile a quella descritta da Sugiura e Kamei nel 1991. Gli eventi solari che si sono verificati all’inizio del 2025 hanno generato una tempesta geomagnetica inaspettatamente intensa di classe G4 proprio il primo dell’anno, portando alla formazione di intense aurore osservate anche dall’Italia nella notte tra l’1 e il 2 gennaio. Questo evento ha rappresentato un’occasione unica per verificare il corretto funzionamento del nuovo magnetometro dell’Inaf di Torino acquisito nell’ambito del progetto Swelto.

I dati ottenuti dal magnetometro Swelto (vedi immagine di apertura) mostrano chiaramente la rilevazione locale del disturbo geomagnetico, con un valore minimo dell’indice-Dst locale pari a – 277 nT alle ore 17:25 Ut del primo gennaio, in ottimo accordo con il valore ufficiale pari a – 215 nT alle ore 17 Ut dello stesso giorno. La curva ottenuta dal sensore Inaf mostra inoltre correttamente tutte le fasi della tempesta geomagnetica, sia la fase di rapida diminuzione dell’indice-Dst (denominata “main phase”) che la successiva fase di recupero del valore iniziale del campo geomagnetico (denominata “recovery phase”) attualmente ancora in corso.

Il magnetometro Swelto dell’Inaf è quindi già in grado di rilevare localmente in tempo reale il verificarsi di tempeste geomagnetiche. Nel prossimo futuro prevediamo di pubblicare le misure in quasi tempo reale sul portale dedicato del progetto Swelto, dove già vengono mostrati gli ultimi dati acquisiti in situ dalla sonda Ace nel punto lagrangiano L1 e le ultime misure dell’indice-Dst fornite da Kyoto. Maggiori dettagli sulla strumentazione saranno forniti a breve in una nota tecnica in fase di preparazione e sul portale del progetto Swelto.



Filippina Caputo ci ha lasciato


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Filippina Caputo

In ricordo di Filippina

Giuseppe Bono

Abbiamo appreso pochi giorni fa che la collega Filippina Caputo è passata a miglior vita. È una notizia particolarmente dolorosa per me, avendo avuto la fortuna di essere stato suo collaboratore per molti anni. Filippina lascia un vuoto non solo dal punto di vista accademico ma anche di guida per le diverse generazioni di astrofisiche, astrofisici e di amministrativi che hanno avuto il privilegio di interagire con lei. Accademicamente Filippina si è laureata in fisica nella seconda metà degli anni Sessanta sotto la guida di Livio Gratton all’Università Sapienza di Roma e ha iniziato a collaborare con gli astrofisici dell’Istituto di astrofisica spaziale di Frascati, dove è diventata ricercatrice nel 1970. Quell’istituto è stato un centro nevralgico dell’astrofisica italiana ed è lì che la conobbi sul finire degli anni ‘80, avendo da poco iniziato a collaborare con Vittorio Castellani e con gli altri ricercatori del gruppo. L’empatia con lei fu immediata e tale è rimasta negli anni a seguire.

Da quegli incontri emerse un programma di ricerca incentrato sulle proprietà evolutive e pulsazionali delle stelle variabili che venivano utilizzate come indicatori di distanza e come traccianti di popolazioni stellari. L’idea era quella di costruire uno scenario teorico che fornisse predizioni solide sugli osservabili stellari e pulsazionali al variare della composizione chimica delle stelle. Filippina ha avuto un ruolo determinante nello sviluppo di questo progetto che toccava le proprietà intrinseche degli ammassi globulari e delle galassie nane del gruppo locale. Tra questi mi piace ricordare la dicotomia di Oosterhoff, un problema astrofisico rimasto aperto per diversi decenni, su cui lei ha dato contributi fondamentali.

I risultati più importanti dal punto di vista astrofisico che Filippina ha lasciato sono quelli inerenti la topologia della striscia di instabilità delle Cefeidi e dei diagnostici che vengono utilizzati per la determinazione delle distanze e delle età delle stelle variabili. In una serie di articoli venne messa in discussione l’universalità della relazione tra periodo e luminosità delle Cefeidi classiche di Henrietta Leavitt, attualmente al centro della tensione sulla misura della costante di Hubble. In questi articoli sono anche state aperte nuove strade per l’uso delle variabili (RR Lyrae, Cefeidi) per vincolare i gradienti di metallicità nelle galassie vicine e l’abbondanza di elio primordiale. Nel frattempo gli interessi dei gruppi di variabilisti di Capodimonte e di Roma si sono ampliati anche dal punto di vista sperimentale: fotometria prima e spettroscopia dopo per le variabili di ammasso e di campo. Questi risultati hanno contribuito alla visibilità Internazionale dell’astrofisica stellare italiana e hanno dato vita a numerose collaborazioni nazionali e internazionali che hanno visto Filippina come protagonista.

Uno degli aspetti dell’attività di ricerca di Filippina importante da ricordare è che insieme a Vittorio ha avviato alla ricerca almeno tre generazioni di astrofisiche e astrofisici. Era lei che spronava a fare nuove esperienze e che riusciva a mantenere i contatti anche quando i suoi collaboratori trascorrevano lunghi periodi all’estero. Filippina aveva ben chiaro quali fossero le priorità professionali e personali, e in particolare, capire quando gli impegni accademici dovevano cedere il passo a quelli familiari.

Anche dal punto di vista istituzionale la carriera di Filippina è stata brillante e intensa. È diventata astronoma ordinaria dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte (1996-1999), dove negli stessi anni ha ricoperto il ruolo di vice direttrice. Si è trasferita all’Osservatorio astronomico di Roma nel 1999, e dal 2000 al 2003 è diventata membro del Consiglio direttivo del nascente Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), unica donna a essere eletta come rappresentante del personale di ricerca degli osservatori astronomici italiani. È stata anche membro del Consiglio direttivo di diversi osservatori astronomici (Capodimonte, Catania, Roma) e della Società astronomica italiana (Sait). Da sempre sensibile al ruolo femminile nel campo della ricerca astronomica, ha sostenuto e partecipato al Comitato per le pari opportunità nell’Inaf e curato la rubrica “A come astronomA” sul Giornale di astronomia della Sait. Filippina lascia un grande vuoto sia umano che accademico, ma rimarrà per sempre una fonte di ispirazione per le attuali e future generazioni.


Addio alla nostra “Miss Leavitt”

Marcella Marconi, Ilaria Musella, Vincenzo Ripepi e Massimo Dall’Ora

Il gruppo di stelle variabili e popolazioni stellari dell’Inaf di Napoli, addolorato per la scomparsa di Filippina Caputo, ne ricorda con immensa riconoscenza il contributo scientifico e umano. Nel 1996 Filippina è divenuta astronoma ordinaria del nostro Osservatorio e ha iniziato subito con impegno la costruzione di un nuovo gruppo impegnato nel campo della variabilità stellare e della scala delle distanze. Ha organizzato congressi e scuole di dottorato, creato nuove collaborazioni, e si è dedicata al tutoraggio di studenti di laurea e dottorato.

È anche entrata a far parte del Consiglio direttivo dell’Osservatorio con il ruolo di vice-direttrice, impegnandosi con zelo alla creazione di nuove opportunità per i giovani del suo gruppo e non solo. Fino al 1999, anno in cui otterrà il trasferimento all’Osservatorio astronomico di Roma, ha partecipato a tutte le attività di Capodimonte, interagendo con il personale di ricerca, tecnico e amministrativo con spirito di collaborazione e sensibilità all’ascolto delle esigenze e delle problematiche di tutti.

«Grazie a Filippina ho iniziato ad interessarmi delle variabili Cefeidi e alla scala delle distanze extragalattiche, filone di ricerca tuttora molto importante e che occupa ancora gran parte della mia attività scientifica», afferma Vincenzo Ripepi, primo collaboratore e ricercatore staff del gruppo guidato da Filippina a Capodimonte. In quegli anni, grazie a Filippina, Capodimonte è diventato anche un polo di sviluppi teorici nel campo della pulsazione stellare applicata al problema della scala delle distanze extragalattiche con particolare attenzione alla dipendenza delle proprietà delle Cefeidi Classiche dalla metallicità. «Quando Filippina ci convocava nel suo ufficio era sempre per renderci partecipi delle sue intuizioni, dei suoi risultati e delle sfide che aprivano, trasmettendoci passione, entusiasmo e desiderio di conoscenza», ricordano Marcella Marconi e Ilaria Musella.

«Era molto attenta ai rapidi cambiamenti dell’astronomia da Terra», ricorda Massimo Dall’Ora. «Proprio in quegli anni iniziavano ad apparire i primi strumenti per immagini a grande campo, come il Wide Field Imager. La Prof ne intuì subito il grande potenziale, e fu capofila dei primi progetti osservativi focalizzati sulle galassie satelliti della Via Lattea. Un’intuizione che ha caratterizzato ormai un quarto di secolo della ricerca di pulsazione stellare e della Near-Field Cosmology di Capodimonte, e che continua ancora oggi con i più giovani».

Di Filippina non possiamo non ricordare l’empatia. Filippina sapeva comprendere i pensieri che affollavano le menti dei giovani e delle giovani che si avvicinavano al mondo della ricerca, le incertezze, le paure e le difficoltà. Sosteneva le giovani ricercatrici incoraggiandole a mantenere il giusto equilibrio tra attività scientifiche e impegni familiari e si batteva per il superamento di ogni forma di discriminazione o di svantaggio.


Ciao, Prof

Giuliana Fiorentino

Ci tengo a condividere il mio ricordo di Filippina Caputo, la Prof, come l’ho sempre chiamata. Non sono qui a ricordarne il merito scientifico, che senza dubbio è riconosciuto da tanti, ma sono qui a ringraziarla per il ruolo decisivo che ha avuto nel nostro essere qui oggi.

È stata la mia supervisor della tesi di dottorato, nello stesso Osservatorio dove oggi lavoro. Al tempo, ne avevo un po’ di timore per la sua indubbia autorevolezza. Delle volte restavo senza fiato quando mi piombava in ufficio a chiedermi i risultati di qualche esperimento che mi aveva indicato. L’ho vista discutere le sue tesi alle conferenze di settore, sbandierare articoli e difendere i nostri risultati con una tenacia che a quei tempi mi sembrava impossibile da raggiungere.

Mi ha indicato la strada tante volte, come mentore e come donna di scienza. Non ha mai celato le sue idee, anzi le ha sempre difese e promosse agli occhi dei suoi colleghi e di noi giovani studenti. Ha difeso i diritti di tutti ed in particolare delle donne, il diritto a costruirsi una famiglia e ad avere una vita privata oltre la scienza e il lavoro. Trent’anni fa sembrava quasi un’eresia, mentre oggi è un diritto che difendiamo tutte e tutti. Ha sempre avuto fiducia nelle nuove generazioni, pronta al confronto e all’ascolto. Persone come lei hanno permesso a noi studenti di crescere in un ambiente sano, dove la parità di genere non era un’illusione ma la realtà, ho scoperto solo dopo anni quanto quella fosse un’isola felice, l’ho capita e apprezzata dopo molto tempo.

Mi sono sentita smarrita quando alla pensione ha deciso di fare la nonna. Anni dopo ci siamo incontrate a una conferenza e, con una delle sue frasi che restano scritte nella memoria, mi ha incoraggiata, dicendomi che non aveva dubbi che ce l’avrei fatta ad entrare nel mondo della ricerca: “hai le spalle larghe”, mi disse senza esitazione. Da allora credo sia stato così. Oggi la ringrazio per aver scelto di fare la nonna, perché l’esempio si dà con le proprie azioni e non con le parole.

Grazie Filippina, sei nei nostri cuori e nelle nostre azioni.



Jwst ha studiato Trappist-1 b: ecco le novità


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Trappist-1 b è uno dei sette pianeti rocciosi che orbitano attorno alla stella Trappist-1, a soli 40 anni luce di distanza da noi, nella costellazione dell’Aquario. Questo sistema planetario è affascinante e unico perché permette agli astronomi di studiare ben sette pianeti simili alla Terra da una distanza relativamente contenuta, di cui tre si trovano nella cosiddetta zona abitabile. A oggi, dieci programmi di ricerca hanno puntato lo sguardo del James Webb Space Telescope (Jwst) verso questo sistema per un totale di 290 ore di osservazione.

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Impressione artistica del pianeta Trappist-1 b poco prima che transiti dietro la stella nana rossa e fredda Trappist-1. Queste stelle sono note per la loro attività, con grandi macchie stellari ed eruzioni. Trappist-1 b potrebbe sperimentare un intenso vulcanismo. Crediti: Thomas Müller (HdA/Mpia)

Lo studio in questione – guidato dalla ricercatrice francese Elsa Ducrot del Commissariat aux Énergies Atomiques (Cea) di Parigi – utilizza le misurazioni della radiazione infrarossa (essenzialmente radiazione termica) del pianeta Trappist-1 b effettuate con lo strumento Miri (Mid-Infrared Imager) del Jwst ed è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.

La pubblicazione riporta anche i risultati dello scorso anno, sui quali si basava la precedente conclusione secondo la quale Trappist-1 b fosse un pianeta roccioso privo di atmosfera. «Tuttavia, l’idea di un pianeta roccioso con una superficie fortemente degradata da agenti atmosferici e priva di atmosfera non è coerente con le misurazioni attuali», dice l’astronomo Jeroen Bouwman, del Max Planck Institute for Astronomy (Mpia) di Heidelberg.

Di solito, la superficie dei pianeti viene erosa dalle radiazioni emesse dalla stella e dagli impatti dei meteoriti. Tuttavia, i risultati suggeriscono che la roccia sulla superficie ha al massimo mille anni, un’età significativamente inferiore a quella del pianeta stesso, che si stima risalga a diversi miliardi di anni fa. Ciò potrebbe indicare che la crosta del pianeta è soggetta a drastici cambiamenti, che potrebbero essere riconducibili a un vulcanismo estremo o alla tettonica a placche. Anche se questo scenario è ancora ipotetico, risulta plausibile. Il pianeta è abbastanza grande e il suo interno potrebbe aver conservato il calore residuo della sua formazione, come nel caso della Terra. L’effetto mareale della stella e degli altri pianeti potrebbe deformare Trappist-1 b in modo tale che l’attrito interno risultante generi calore – come accade su Io, la luna di Giove. Inoltre, è ipotizzabile anche un riscaldamento induttivo da parte del campo magnetico della stella vicina.

Ma c’è di più. «I dati consentono anche una soluzione completamente diversa», spiega Thomas Henning, direttore emerito dell’Mpia, uno dei principali progettisti dello strumento Miri. «Contrariamente alle idee precedenti, esistono condizioni in cui il pianeta potrebbe avere un’atmosfera spessa e ricca di anidride carbonica (CO2)». In questo scenario un ruolo chiave è rappresentato dalla foschia dovuta a composti di idrocarburi – lo smog – presente nell’alta atmosfera.

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Rappresentazione della luminosità infrarossa emessa da Trappist-1 b a 12,8 e 15 micrometri per diversi scenari superficiali, con e senza atmosfera. I quattro casi indicano quali concordano con i dati attuali e quali no. (a) La roccia nuda e scura produce una luminosità infrarossa superiore a quella osservata. (b) La luminosità infrarossa osservata è ben compatibile con una superficie di roccia magmatica solo leggermente o per nulla esposta agli agenti atmosferici. (c) Anche un’atmosfera di anidride carbonica e un alto velo di foschia potrebbero spiegare i dati osservati, in quanto gran parte della radiazione infrarossa proviene dagli strati atmosferici superiori. (d) Le atmosfere simili alla Terra assorbono parte della radiazione infrarossa generata dalla superficie, il che porterebbe a intensità non osservate in Trappist-1 b. Credit: Elsa Ducrot (Cea) / Mpia

I due programmi osservativi (Jwst 1177 e 1279), che si completano a vicenda, sono stati progettati per misurare la luminosità di Trappist-1 b a diverse lunghezze d’onda nell’intervallo spettrale dell’infrarosso termico (12,8 e 15 micrometri). La prima osservazione (a 15 micrometri) era sensibile all’assorbimento della radiazione infrarossa del pianeta da parte di uno strato di CO2. Ma poiché non era stato misurato alcun oscuramento, i ricercatori avevano concluso che il pianeta fosse privo di atmosfera.

Tuttavia, ora hanno dimostrato che la foschia può invertire la stratificazione della temperatura di un’atmosfera ricca di CO2. In genere, gli strati inferiori (a livello del suolo), sono più caldi di quelli superiori a causa della pressione più elevata. Ma la foschia, assorbendo la luce delle stelle e riscaldandosi, riscalda gli strati atmosferici superiori, sostenendo un effetto serra. Di conseguenza, anche l’anidride carbonica emette radiazioni infrarosse. Su Titano, la luna di Saturno, lo strato di foschia si forma molto probabilmente sotto l’influenza delle radiazioni ultraviolette del Sole e dei gas ricchi di carbonio presenti nell’atmosfera. Un processo simile potrebbe verificarsi su Trappist-1 b a causa della forte emissione di radiazioni ultraviolette della sua stella.

Anche se i dati sembrano adattarsi a questo scenario, gli astronomi lo considerano comunque il meno probabile. Da un lato è più difficile, anche se non impossibile, produrre composti idrocarburici che formano una foschia a partire da un’atmosfera ricca di CO2. L’atmosfera di Titano, invece, è costituita principalmente da metano. D’altra parte, rimane il problema che le stelle nane rosse attive, tra cui Trappist-1, producono radiazioni e venti che possono facilmente erodere le atmosfere dei pianeti vicini nel corso di miliardi di anni.

Trappist-1 b è un chiaro esempio di quanto sia difficile rilevare e determinare le atmosfere dei pianeti rocciosi, anche per Jwst. Rispetto a quelle dei pianeti gassosi, sono sottili e producono solo deboli firme misurabili. Le due osservazioni per studiare Trappist-1 b, che hanno fornito valori di luminosità a due lunghezze d’onda, sono durate quasi 48 ore, un tempo insufficiente per determinare con certezza se il pianeta ha un’atmosfera.

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Questa illustrazione mostra l’osservazione di Trappist-1 b durante un transito. Lungo la sua orbita vengono rivelate diverse regioni della sua superficie. Il lato rivolto verso la stella è molto più caldo ed emette luce termica infrarossa. Il segnale complessivo (stella e pianeta) viene catturato appena prima e dopo l’occultazione del pianeta, mentre durante l’evento viene registrata solo la luminosità della stella. Nel pannello inferiore, il grafico mostra le misure di luminosità della stella da sola e in combinazione con il lato giorno del pianeta, sottolineando i cambiamenti di luminosità nel tempo. Crediti: Elsa Ducrot (Cea) / Mpia

Le osservazioni hanno sfruttato la leggera inclinazione del piano orbitale dei pianeti rispetto alla nostra linea di vista su Trappist-1. Questo orientamento fa sì che i sette pianeti passino davanti alla stella e la oscurino leggermente durante ogni orbita. Di conseguenza, è possibile conoscere la natura e l’atmosfera dei pianeti in diversi modi, tra i quali la cosiddetta spettroscopia di transito si è dimostrata un metodo affidabile. Si tratta di misurare l’oscuramento di una stella da parte del suo pianeta, alle varie lunghezza d’onda. Oltre all’occultazione da parte del corpo planetario opaco, da cui gli astronomi determinano le dimensioni del pianeta, i gas atmosferici assorbono la luce stellare a lunghezze d’onda specifiche. Da ciò si può dedurre se un pianeta abbia o meno un’atmosfera e, nel caso, da cosa sia composta. Sfortunatamente, questo metodo presenta degli svantaggi, soprattutto per i sistemi planetari come Trappist-1: le stelle nane rosse e fredde presentano spesso grandi macchie stellari e forti eruzioni, che influenzano in modo significativo la misurazione.

Questo problema può essere aggirato osservando il lato dell’esopianeta riscaldato dalla stella nell’infrarosso. Il lato illuminato è particolarmente facile da vedere appena prima e appena dopo la scomparsa del pianeta dietro la stella. La radiazione infrarossa rilasciata dal pianeta contiene informazioni sulla sua superficie e sulla sua atmosfera. Tuttavia, queste osservazioni richiedono più tempo rispetto alla spettroscopia del transito.

Dato il potenziale di queste osservazioni delle cosiddette eclissi secondarie, la Nasa ha recentemente approvato un vasto programma di osservazione per studiare le atmosfere dei pianeti rocciosi intorno a stelle vicine e di bassa massa. Questo programma, chiamato “Mondi rocciosi”, prevede 500 ore di osservazione con il Jwst. I ricercatori si aspettano così di poter avere una conferma definitiva utilizzando un’altra variante di osservazione: registrando l’intera orbita del pianeta intorno alla stella, comprese tutte le fasi di illuminazione, dal lato buio della notte quando passa davanti alla stella al lato luminoso del giorno poco prima e dopo essere stato coperto dalla stella. Questo approccio consentirà di creare una curva di fase, che indica la variazione di luminosità del pianeta lungo la sua orbita, e sarà possibile dedurre la distribuzione della temperatura superficiale del pianeta. Tale misurazione è già stata effettuata con Trappist-1 b e, analizzando la distribuzione del calore sul pianeta, si può dedurre la presenza di un’atmosfera. Questo perché un’atmosfera aiuta a trasportare il calore dal lato del giorno a quello della notte. Se la temperatura cambiasse bruscamente al passaggio tra i due lati, non dovrebbe esserci alcuna atmosfera.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Combined analysis of the 12.8 and 15 μm JWST/MIRI eclipse observations of TRAPPIST-1 b” di Elsa Ducrot, Pierre-Olivier Lagage, Michiel Min, Michaël Gillon, Taylor J. Bell, Pascal Tremblin, Thomas Greene, Achrène Dyrek, Jeroen Bouwman, Rens Waters, Manuel Güdel, Thomas Henning, Bart Vandenbussche, Olivier Absil, David Barrado, Anthony Boccaletti, Alain Coulais, Leen Decin, Billy Edwards, René Gastaud, Alistair Glasse, Sarah Kendrew, Goran Olofsson, Polychronis Patapis, John Pye, Daniel Rouan, Niall Whiteford, Ioannis Argyriou, Christophe Cossou, Adrian M. Glauser, Oliver Krause, Fred Lahuis, Pierre Royer, Silvia Scheithauer, Luis Colina, Ewine F. van Dishoeck, Göran Ostlin, Tom P. Ray e Gillian Wright


Quando Fontana vide la Luna mangiarsi Saturno


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Occultazione di Saturno del 4 gennaio 2025: tempi, in ora locale, di inizio e fine occultazione nelle città italiane con sedi Inaf

Il nuovo anno inizia con un evento astronomico molto interessante. Come ha già scritto Fabrizio Villa nella rassegna astronomica di questo mese, la sera di sabato 4 gennaio ci sarà l’occultazione di Saturno a opera della Luna, visibile da quasi tutto il territorio italiano a esclusione della parte est della Sicilia e della punta della Calabria. Il 4 di gennaio la Luna sarà una falce crescente e Saturno scomparirà dietro la parte oscura verso le ore 18:30, per ricomparire poco più di un’ora dopo, verso le 19:37, da dietro la parte illuminata. La tempistica esatta dipende naturalmente dal posto di osservazione. La Luna e Saturno saranno vicinissimi e facili da osservare, appena dopo il tramonto del Sole, a una trentina di gradi sopra l’orizzonte in direzione sud-ovest. Saturno ora mostra gli anelli di taglio e il 23 di marzo del 2025 raggiungeranno il minimo, quando gli anelli scompariranno completamente senza nemmeno mostrare l’ombra, perché il Sole si troverà alle nostre spalle.

Sotto la Luna ci sarà, molto più brillante, anche Venere, che sarà vicinissima alla Luna venerdì 3 gennaio, a completare una spettacolare congiunzione. Chi osserverà l’occultazione con un telescopio potrà provare a osservare anche l’occultazione di Titano, la luna maggiore di Saturno, che ha una magnitudine V=8.7, che seguirà di poco l’occultazione del pianeta. È anche sperabile che l’occultazione avvenga in presenza di una forte luce secondaria, dovuta – come ha spiegato Galileo Galilei, e prima di lui indipendentemente Leonardo da Vinci – alla luce solare riflessa dalla Terra sulla superfice lunare.

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Francesco Fontana (Napoli, 1589-90 – Napoli, 1656). Autore ignoto

Occultazione di Saturno del 19 giugno 1630

La Luna si muove in un’orbita che è inclinata poco più di 5 gradi rispetto all’eclittica e in una fascia di circa 10 gradi. Questo determina che le occultazioni dei pianeti siano un fenomeno abbastanza raro, perché le orbite del pianeta, della Luna e della Terra devono essere complanari. Un’occultazione di Saturno da parte della Luna di particolare interesse per la storia dell’astronomia, e forse la prima a essere accuratamente documentata, è quella fatta da Francesco Fontana nel giugno del 1630.

Francesco Fontana (Napoli, 1589-90 – Napoli, 1656) è stato un astronomo napoletano particolarmente versato nella costruzione di strumenti ottici e probabilmente il primo a realizzare un telescopio con due lenti convesse (quello di Galileo era formato da una lente obiettivo convessa e una lente oculare concava). Fontana incomincia a documentare le sue osservazioni della Luna nel 1629 e nel 1630, di cui una riguardante l’occultazione di Saturno, che poi raccoglierà insieme a molte altre fatte successivamente nel suo unico libro Novae Coelestium, Terrestriumque rerum observationes, et fortasse hactenus non vulgate a Francisco Fontana specillis a se inventis, et ad summam perfectionem perductis, editae, (Nuove osservazioni di cose celesti e terrestri, finora poco conosciute, fatte da Francisco Fontana con uno strumento da lui inventato e portato alla massima perfezione), pubblicato nel 1646, di fatto il primo libro astronomico illustrato. Fontana era un costruttore di telescopi e usava queste incisioni lunari per dimostrare le qualità dei suoi strumenti, che poi vendeva nelle corti di tutta Europa.

L’osservazione del 20 giugno 1630 (vedi incisione qui a lato) registra una rara occultazione di Saturno da parte della Luna, fatta con tutta probabilità dal tetto della sua casa nel centro di Napoli nel Basso Decumano (Spaccanapoli), vicino alla chiesa di San Gennaro all’Olmo. Da notare come Saturno, indicato con la lettera B, sia rappresentato come una stella tripla, come descritta da Galileo. Da notare inoltre come la Luna sia capovolta, esattamente come vista da un telescopio fatto da due lenti convesse. Fontana è il primo a disegnare la vera forma sia dei mari che dei principali crateri lunari con la loro struttura a raggiera e a osservare i movimenti lunari.

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Occultazione di Saturno da parte della Luna del 19 giugno 1630 fatta da Fontana dal tetto della sua casa nel centro di Napoli. Saturno è indicato dall la lettera ‘B’ e rappresentato galileianamente come una stella tripla. Da notare, inoltre, come la Luna sia capovolta, esattamente come vista da un telescopio fatto da due lenti convesse. il cratere Tycho è da lui battezzato giocando con il proprio nome come Fons Major, cioè ‘Fontana Maggiore’. Fonte: Francesco Fontana, Novae coelestium, terrestriumque rerum observationes, 1646

La descrizione di Fontana però contiene diverse apparenti inesattezze che sono state spesso usate come dimostrazioni dell’inaffidabilità delle sue affermazioni, e in particolare in riferimento a quella di aver inventato il telescopio a due lenti convesse. Fontana scrive infatti che l’occultazione ebbe luogo il 20 giugno 1630, iniziò circa 3 ore dopo il tramonto e durò meno di due ore. Oggi sappiamo invece che l’occultazione ebbe luogo il 19 giugno, iniziò alle 22:10 e durò circa 49 minuti.

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Osservazione del 19 giugno 1630 (al centro) che riporta l’occultazione di Saturno da parte della Luna. Ai lati la simulazione dell’evento con SkyGazer come visto da Napoli nel 1630 fatta da Simone Zaggia dell‘Inaf di Padova. Come si può vedere, la simulazione – che è stata capovolta, per riprodurre l’osservazione con il telescopio di Fontana – riproduce in modo assolutamente fedele anche la posizione di ingresso e uscita di Saturno da dietro la Luna

In realtà, queste possono essere spiegate semplicemente considerando che Fontana prende il tramonto come l’inizio della giornata e usa le ore romane. La terza ora dopo il tramonto del 20 giugno corrispondeva quindi alla sera del 19 giugno, e dato che siamo vicino al solstizio d’estate le ore notturne sono di circa 28 minuti e in questo modo anche l’inizio e la durata dell’occultazione tornano in accordo con la descrizione di Fontana. Finalmente si è fatta giustizia per un grande scienziato italiano che ha osservato i crateri principali della Luna, la loro struttura a raggiera e il cambiamento delle loro posizioni a causa del moto lunare. Ha osservato le fasi di Mercurio, quelle parziali di Marte e scoperto le bande di Giove. Dalle osservazioni ha dedotto la rotazione di Marte, Venere, Giove e Saturno, e osservato come questa fosse incompatibile con la visione tolemaico-aristotelica. Fu vicinissimo a rivelare la struttura degli anelli di Saturno, risolta pochi anni dopo da Huygens grazie anche alle sue osservazioni. Ha suggerito la presenza di ulteriori lune intorno a Venere e Saturno, iniziando un dibattito durato più di cento anni. Fontana ha anche costruito uno dei primi microscopi e contribuito alle prime osservazioni con questo strumento. Non a caso a riconoscimento delle sue scoperte a lui sono dedicati due crateri, uno sulla Luna e uno su Marte.



Se Marte si oppone, Saturno si occulta


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Nella prima parte della notte, il cielo di gennaio è abbellito dalle costellazioni del Toro, di Orione, dell’Auriga e di Perseo. Andromeda e Pegaso, al tramonto verso ovest, lentamente stanno abbandonando il cielo notturno. La stella Sirio, la più luminosa del cielo, è ben visibile prolungando verso il basso le tre stelle della cintura di Orione. Con lo scorrere delle ore, l’Orsa Maggiore si alzerà sempre più in cielo e sarà ben visibile nella seconda parte della notte. Verso mezzanotte troveremo le costellazioni dei Gemelli e del Cancro. ben alte quasi allo zenit, e nella seconda parte della notte, guardando verso est, quella del Boote con la luminosa stella Arturo.

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Marte in opposizione il giorno 16 gennaio 2025 ben visibile per tutta la notte tra la costellazione del Cancro e quella dei Gemelli

Venere sarà ben visibile verso ovest dopo il tramonto del Sole. Brillerà di magnitudine -4 guadagnandosi l’attributo di pianeta del tramonto. Anche Saturno, molto meno luminoso di Venere, sarà visibile per qualche ora sull’orizzonte sud-ovest, anch’esso appena dopo il tramonto del Sole. Raggiunta l’opposizione il mese scorso, Giove sarà ancora ben visibile per tutta la notte, tramontando a fine mese poco dopo le 3 del mattino. Marte sarà anch’esso visibile per tutto il mese e per tutto l’arco della notte. Raggiungerà l’opposizione il 16 gennaio, quando sarà visibile dal tramonto all’alba, e raggiungerà la massima altezza verso mezzanotte e mezza circa.

Da non perdere, questo mese, l’osservazione dello sciame delle Quadrantidi. Sono meteore particolari con scie corte che producono bellissime palle di fuoco in cielo. Il picco è aspettato durante la sera del 3 gennaio. In questa notte la Luna non disturberà le osservazioni, soprattutto dopo il suo tramonto e, nei casi più fortunati e in cieli bui, è possibile osservare fino a oltre cento meteore all’ora. Normalmente possiamo accontentarci di un tasso di venticinque meteore all’ora. Le Quadrantidi, durante le ore del massimo, si mostrano mediamente brillanti e non di rado appaiono dei bolidi colorati. Questo sciame meteorico prende il nome da un’antica costellazione, ora in disuso, chiamata Quadrans Muralis. Fu definita dall’astronomo francese Jerome Lalande nel 1795. Insieme a poche altre costellazioni, la Quadrans Muralis fu rimossa dalla lista delle costellazioni moderne nel 1922. Gran parte delle stelle che componevano la Quadrans Muralis confluì nella costellazione di Boote, ma nonostante questo cambiamento le Quadrantidi hanno conservato il loro nome originale.

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Occultazione di Saturno del 4 gennaio 2025: tempi, in ora locale, di inizio e fine occultazione nelle città ialiane con sedi Inaf.

L’evento di questo mese è sicuramente l’occultazione di Saturno ad opera della Luna. Sarà visibile la sera del 4 gennaio in quasi tutto il territorio italiano, ad esclusione delle zone più a sud-ovest della Sicilia e della punta della Calabria. Tuttavia in queste zone si potrà osservare ugualmente lo spettacolo di una congiunzione radente molto stretta, con Saturno che si troverà nel lembo della Luna non illuminato dal Sole. In questa serata la Luna mostrerà una bellissima falce e l’ora dell’occultazione è particolarmente comoda, iniziando nel territorio italiano alle 18:30 ora locale e terminando alle 19:37. I due astri saranno facilissimi da osservare già visibili appena dopo il tramonto del Sole e a una trentina di gradi dall’orizzonte sud-ovest. Poco sotto il nostro satellite, Venere completerà la bellissima vista del cielo serale. Per chi ha un telescopio sarà emozionante osservare il pianeta mentre viene occultato dal lembo oscuro della Luna e vederlo riapparire da quello luminoso. Con un binocolo, o solo a occhio nudo, l’occultazione sarà ugualmente interessate da osservare. Occorre prepararsi all’osservazione con largo anticipo per vedere i due astri avvicinarsi prospetticamente sempre più e per essere preparati nell’istante di inizio e fine occultazione vera e propria.

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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Vita, morte e miracoli (delle stelle, s’intende)


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Francesco R. Ferraro. Figli delle Stelle. Bietti, 2024. 217 pagine, 18 euro

Erano i primi anni Settanta, tra le luci psichedeliche, la disco music e gli echi della controcultura, quando l’astronomo statunitense Carl Sagan scrisse che “siamo fatti della stessa materia delle stelle”, riassumendo le principali ricerche dell’epoca sull’origine dei vari elementi chimici che compongono il nostro pianeta e pure i nostri corpi. Un’immagine ammaliante, formidabile, che ci lega indissolubilmente a quel cosmo distante ed etereo di cui nostro malgrado siamo parte. A renderla ancor più memorabile, quanto meno sulle piste da ballo del Belpaese, sarebbe stato qualche anno più tardi Alan Sorrenti, cantando – forse inconsapevolmente – che siamo non solo “figli delle stelle” ma anche “della notte che ci gira intorno”. Dell’universo, per capirci.

Proprio di questo concetto tratta il saggio Figli delle stelle. Un viaggio tra spazio e tempo, alla scoperta delle nostre origini e del nostro futuro di Francesco R. Ferraro, professore ordinario di astrofisica all’Università di Bologna, edito dai tipi di Bietti. All’intramontabile hit della disco italiana prende in prestito il titolo e l’immaginario pop, che affiora di tanto in tanto tra le approfondite descrizioni scientifiche per ricordare a chi legge la dimensione cosmica della nostra ordinaria quotidianità. Già, perché tutto ciò che siamo, che abbiamo mai incontrato e che mai potremo mettere in atto su questo effimero pianeta roccioso attorno a una stella periferica di una sperduta galassia non potrebbe esistere se non fosse per la storia di miliardi d’anni che ne ha plasmato ogni singola componente.

Il libro si struttura in cinque capitoli, tracciando in dettaglio tutte le varie fasi dell’evoluzione delle stelle e, su scala più grande, dell’intero universo. Il primo capitolo, una summa della conoscenza astronomica odierna, fornisce alcune idee fondamentali che accompagneranno lettrici e lettori nel corso delle pagine successive, dalla gravità alle enormi distanze cosmiche, a cui corrispondono scale temporali estremamente più estese rispetto alle fuggevoli ore umane. Presenta anche i “postini cosmici”, ovvero i fotoni, le particelle di luce – non solo quella visibile ma su tutto lo spettro elettromagnetico: messaggeri indefessi su cui tutta questa conoscenza si basa, chiamati in causa anche nei capitoli a seguire.

Dopo questa introduzione, si entra subito nel vivo della questione, per scoprire le reazioni di fusione termonucleare che nelle fucine stellari forgiano molti degli elementi chimici della tavola periodica: dall’idrogeno, che produce elio durante tanta parte della vita delle stelle, ai (più rapidi) passi seguenti, che a partire dall’elio confezionano carbonio, ossigeno, silicio, neon, magnesio e molto altro, fino al ferro. Il tutto senza trascurare la fisica delle particelle che sottende queste reazioni, la termodinamica che governa gli interni stellari e il “codice genetico” che determina il destino di una stella: la sua massa. Dalla nascita, attraverso il collasso gravitazionale di una nebulosa, fino alle ultime fasi, caratterizzate anch’esse dal collasso gravitazionale, il testo esplora i diversi scenari con cui le stelle terminano il loro ciclo di vita, dando luogo a timidi “fiori cosmici” – le splendide nebulose planetarie – o fragorose esplosioni di supernova che arricchiscono di elementi sempre più pesanti il mezzo interstellare, materia prima per le nuove generazioni di astri.

Seguendo il canto del cigno delle stelle, l’autore ripercorre i meccanismi che portano alla formazione di tutti gli elementi, passando per i resti compatti dell’evoluzione stellare – buchi neri, stelle di neutroni e nane bianche – e i loro possibili processi di “ringiovanimento”. L’ultimo capitolo, con uno sguardo cosmologico, estende il lasso di tempo coperto dal volume fino al Big Bang, sottolineando l’importanza di quei primi tre minuti in cui l’universo era estremamente caldo e denso: è infatti in quei fatidici frangenti che presero forma l’idrogeno e la maggior parte dell’elio che osserviamo oggi e che, centinaia di milioni di anni più tardi, diedero vita alle prime stelle del cosmo. Ogni capitolo è corredato da un pratico sommario, una paginetta al massimo, che riassume agilmente i concetti chiave sciorinati in precedenza, per chi avesse smarrito il filo tra diagrammi, equazioni (poche, in verità) e aneddoti storici. Al termine del volume, tre appendici presentano ulteriori informazioni su alcune reazioni e calcoli accennati nel testo, per chi desiderasse invece una trattazione più approfondita.

Un libro per chi ha voglia di tuffarsi a capofitto nella nostra storia, la Storia con la “esse” maiuscola, quella del cosmo, che da una manciata di particelle ha dato vita alla pluralità di pianeti, stelle e galassie che osservano i moderni telescopi. Un viaggio spazio-temporale sulle tracce lasciate dalle stelle, quelle che ancora brillano nel cielo e quelle che non ci sono più, i cui resti (im)mortali hanno fatto emergere la vita sulla Terra e, chissà, forse anche su molteplici altri mondi. Per scoprire “vita, morte e miracoli” delle stelle, insomma. Senza troppi miracoli, chiaramente, perché quei prodigi che hanno dato origine a tutti gli elementi della tavola periodica sono stati compresi con gli strumenti della scienza, e vengono presentati nel volume con tutta la dovizia di dettagli che vi si addice. E pure qualche sorpresa: per esempio, quale tipo di supernove – e dunque di stelle – ha contribuito maggiormente a sintetizzare il ferro con cui abbiamo costruito le nostre città e che permette all’emoglobina di trasportare l’ossigeno nel nostro sangue (spoiler alert: non sono quelle che ci si aspetterebbe).



Per cercare la vita, bisogna cambiare prospettiva


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Nathalie A. Cabrol, “L’alba di nuovi orizzonti. Alla ricerca della vita nell’universo”, Castelvecchi, 2024, 352 pagine, 20 euro

L’alba di nuovi orizzonti di Nathalie A. Cabrol (Castelvecchi Editore, 2024) è un affascinante viaggio tra scienza, filosofia e speranza, incentrato sulle sfide e sulle opportunità che l’umanità si trova ad affrontare nel contesto di un futuro incerto, dominato dai cambiamenti climatici e dalle crisi ambientali.

Con una narrazione che mescola esperienze personali e riflessioni scientifiche, l’autrice ci guida verso un orizzonte nuovo, in cui l’esplorazione spaziale e la ricerca della vita si intrecciano con le urgenti questioni terrestri. Nathalie Cabrol è una scienziata planetaria e astrobiologa di origini francesi, nota per il suo lavoro pionieristico nella ricerca di vita extraterrestre, direttrice del Carl Sagan Center for Research presso il Seti Institute (Search for Extraterrestrial Intelligence), negli Stati Uniti, dove coordina ricerche interdisciplinari sullo studio della vita nell’universo. «Ho fatto dell’astrobiologia, la ricerca della vita nell’universo, lo scopo della mia vita, tenendo gli occhi puntati sulle stelle mentre esploravo paesaggi planetari già familiari».

Nel libro si esplorano vari sistemi planetari dove in qualche modo la vita potrebbe aver lasciato una traccia. «Ancora oggi non sappiamo esattamente quali fossero le condizioni ambientali che hanno portato alla comparsa della vita, ma una cosa è certa: i suoi mattoni sono ovunque… la chimica prebiotica sembra possibile in più di uno scenario. I mattoni della vita si formano con facilità e possono agglomerarsi in una moltitudine di ambienti estremamente diversi».

La sua esperienza in ambienti estremi, come deserti e ghiacciai, fornisce una base solida per discutere di come la vita possa sopravvivere in condizioni dure. Infatti Cabrol è particolarmente conosciuta per i suoi studi sugli analoghi terrestri di Marte, come gli altipiani del deserto dell’Atacama, in Cile, e i laghi ipersalini delle Ande. Questi ambienti estremi ricordano le condizioni che potevano esistere su Marte miliardi di anni fa e offrono preziose informazioni sull’evoluzione della vita e sulla possibilità che essa possa esistere al di fuori della Terra. Ma non c’è solo Marte: le possibilità planetarie sono infinite, dalle più “vicine” lune di Giove, a sistemi più complessi come Trappist-1.

L’autrice esplora in maniera affascinante la possibilità di trasferire la nostra esistenza su altri mondi, ma anche di riflettere sul nostro comportamento nei confronti della Terra, il nostro unico pianeta abitabile. Cabrol ci invita dunque a considerare l’esplorazione spaziale non come una via di fuga dalle difficoltà terrestri, ma come un’opportunità per evolverci come specie, migliorando la nostra comprensione dell’universo, cercando di cambiare prospettiva.

«Il principio è semplice: quando analizziamo dei campioni, riconosciamo ciò che è familiare. Ma supponiamo che la vita sia apparsa più di una volta sulla Terra attraverso diversi processi biochimici. In questo caso, i microrganismi non standard potrebbero non apparire mai nei risultati dei nostri test perché questi ultimi sono concepiti unicamente per la biologia quale la conosciamo». Uno degli aspetti più potenti del libro, infatti, è la capacità di far pensare fuori dagli schemi, unico modo di decifrare la genetica della vita.«Questi approcci hanno il potere di cambiare il paradigma attuale e potrebbero rivoluzionare completamente la nostra visione dell’origine della vita in un futuro prossimo».

In conclusione, All’alba dei nuovi orizzonti è una lettura stimolante e accessibile a tutti, agli appassionati di scienza, di astrobiologia, o anche solo a chi ha voglia di guardare alla vita da un punto di vista diverso.



Alla scoperta dell’universo con Jwst


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Maggie Aderin-Pocock, “La scoperta dell’universo.
Il telescopio spaziale James Webb e la nostra storia cosmica”, Apogeo, 2024, 224 pagine, 35 euro

La prima, e unica, visione del James Webb Space Telescope dopo il lancio, nel giorno di Natale 2021, ci ha mostrato una compatta struttura scintillante che conteneva tutti i sottosistemi del telescopio spaziale ripiegati con cura per entrare nell’ogiva del lanciatore Ariane 5.

Poi lo strumento ha iniziato il viaggio per raggiungere il suo punto di osservazione a 1,5 milioni di km dalla Terra. Nel corso del tragitto, durato un mese, il telescopio si è aperto con una sequenza di oltre 300 manovre. Appena terminata la complessa procedura sono iniziati i test per verificare le capacità del nuovo osservatorio sul quale si concentravano le attese di tutta la comunità astronomica mondiale.

Con il suo specchio segmentato di 6,5 m di diametro, tenuto sempre in ombra da un gigantesco parasole, e un piano focale a temperature bassissime, Jwst è stato progettato per osservare nell’infrarosso vicino e lontano permettendoci di vedere i primi oggetti che si sono formati nell’universo. Conquistare l’infrarosso è una dura battaglia ma è un passo fondamentale perché l’espansione dell’universo, oltre ad “allargare” lo spazio, aumenta la lunghezza d’onda della radiazione prodotta dalle stelle e dalle galassie facendola scivolare dal visibile, dove naturalmente emettono le stelle, nell’infrarosso. Si tratta di una lunghezza d’onda più lunga del rosso alla quale né i nostri occhi né i telescopi ottici sono sensibili. Il processo di arrossamento, che gli astronomi chiamano redshift, è tanto maggiore quando più guardiamo indietro nel tempo, quando l’universo aveva dimensioni molto più piccole di quelle attuali.

Ma, per cogliere le potenzialità di Jwst, non è necessario andare così lontano. Dal momento che la polvere, nemica dell’astronomia ottica, è brillante in infrarosso, Jwst ci offre una finestra per studiare tutti gli oggetti polverosi del nostro universo. Si comincia dai pianeti del nostro Sistema solare, si passa agli esopianeti in orbita attorno ad altre stelle, si arriva alle nubi dove nascono le stelle e alle nebulose prodotte dalle stelle morenti per finire nello studio della struttura delle galassie.

Un menù vastissimo che coniuga la valenza scientifica con quella estetica. In effetti, ben prima che il James Webb Space Telescope fosse pronto al lancio, la Nasa si era posta il problema di come veicolare al pubblico le straordinarie capacità del suo nuovo grandioso e costosissimo osservatorio. Occorreva scegliere con cura gli oggetti celesti da osservare. Dovevano permettere agli scienziati di apprezzare la profondità della visione offerta dal nuovo telescopio ma dovevano anche risultare affascinanti per il pubblico che troppo volte aveva sentito parlare dei ritardi del progetto conditi da inevitabili sforamenti del budget.

Per non deludere le aspettative del pubblico, le immagini raccolte alle lunghezza d’onda infrarosse, intrinsecamente senza colori, sarebbero state colorate dagli esperti di grafica dello Space Telescope Science Institute a Baltimore (dove vengono gestiti sia Jwst, sia il veterano Hst) che, grazie ad anni di esperienza con Hst, sanno combinare i filtri dando alle immagini colori straordinari.

La agenzie spaziali avevano deciso che le prime immagini sarebbero state presentate il 12 luglio 2022. Si trattava di due nebulose della nostra galassia, di un famoso quintetto di galassie nel nostro vicinato cosmico e di un ammasso di galassie piuttosto lontano. Poi, per dimostrare le capacità spettroscopiche, ci sarebbe stato lo spettro di un esopianeta colto mentre passava davanti alla sua stella. Ma all’ultimo minuto, con un colpo di scena, il presidente Biden, vecchio amico dell’amministratore della Nasa Bill Nelson, ha deciso di fare da testimonial alla presentazione in anteprima dell’immagine di Smacs 0723, un ammasso di galassie che amplifica, moltiplica e distorce gli oggetti più lontani la cui luce deve attraversarlo. È un effetto ben noto chiamato lente gravitazionale ma la straordinaria sensibilità di Jwst lo ha portato a livelli mai visti che, per l’occasione, hanno assunto una dimensione politica.

Dopo le celebrazioni, accertato che il telescopio funzionava anche meglio delle più rosee aspettative, sono iniziate le osservazioni che erano state richieste da scienziati di tutto il mondo per studiare tutti i tipi di oggetti celesti. Le riviste scientifiche sono piene dei risultati ed era tempo di portare queste informazioni al grande pubblico. Un compito ambizioso che ha visto protagonista Maggie Aderin-Pocock, scienziata, conduttrice televisiva, educatrice e autrice del libro La scoperta dell’universo, Il telescopio spaziale James Webb e la nostra storia cosmica. Oltre ad avere lavorato nel team che ha costruito uno degli strumenti del telescopio, Maggie Aderin-Pocock conduce sulla Bbc una fortunata trasmissione di divulgazione intitolata The Sky at Night.

Nel libro la scienziata si mescola alla divulgatrice per parlare al pubblico della straordinaria qualità scientifica dei dati raccolti dai vari strumenti del Jwst che hanno già permesso di confermare il valore della costante di espansione dell’universo, oggetto di un’annosa disputa tra astronomi e cosmologi, mentre le immagini dell’universo giovanissimo hanno evidenziato la presenza di numerose galassie di grandi dimensioni che, secondo le teorie comunemente accettate, avrebbero avuto bisogno di molto più tempo per formarsi. Scienza di punta accompagnata da immagini straordinariamente belle dove l’astronomia riesce a colorare l’invisibile.



Nane bianche: più son calde più son gonfie


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Non saranno estreme quanto le stelle di neutroni – la cui materia è talmente densa che un cucchiaino da tè arriverebbe a pesare, qui sulla Terra, un miliardo di tonnellate – ma anche le “comuni” nane bianche di comune hanno ben poco, almeno rispetto ai nostri standard. Stelle in origine simili al Sole giunte al termine del proprio percorso evolutivo, le nane bianche sono, infatti, comunque dense al punto che un cucchiaino della sostanza di cui sono fatte pesa una tonnellata. Quanto basta per piegare in modo sensibile lo spaziotempo, insomma. Costringendo così la luce che emettono a fare un certo sforzo, per abbandonarle: ecco così che, nel corso della fuga dalla forte gravità della stella, la luce perde energia e si “allunga”, diventando gradualmente più rossa: un fenomeno – previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein – che gli astrofisici chiamano redshift gravitazionale.

Ed è sfruttando questo fenomeno che un team d’astrofisici guidato da Nicole Crumpler, della Johns Hopkins University, è riuscito a trovare una conferma osservativa di un effetto previsto da molto tempo ma che non si era mai riusciti a verificare: la dipendenza dalla temperatura della stella della relazione fra massa e raggio delle nane bianche. Maggiore è la massa d’una nana bianca, dice questa relazione, minore sarà il suo raggio – e dunque più una stella è massiccia e più sarà compatta. Ma questa “compattezza” – conferma il nuovo studio, pubblicato questo mese su The Astrophysical Journal – dipende anche dalla temperatura. In particolare, a parità di massa le nane bianche fredde risultano più compatte – e dunque avranno un raggio minore – di quelle calde. Detto altrimenti, a parità di massa le nane bianche più calde sono un po’ più “gonfie”.

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Rappresentazione artistica di due nane bianche con la stessa massa ma con temperature diverse. La stella più calda (a sinistra) è leggermente più gonfia, mentre quella più fredda (a destra) è più compatta. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

La conferma è a arrivata combinando le osservazioni di oltre 26mila nane bianche ottenute dalla Sloan Digital Sky Survey, che si avvale di telescopi in Cile e nel Nuovo Messico (Usa), e dalla missione Gaia dell’Agenzia spaziale europea. Per ogni stella sono state misurate la velocità radiale, la temperatura effettiva, la gravità superficiale e il raggio. Da queste misure, raggruppando le sorgenti per raggio e gravità superficiale così da poter eliminare statisticamente la componente di moto casuale delle velocità radiali, gli autori dello studio sono arrivati a isolare il contributo dovuto al redshift gravitazionale, riuscendo così a ottenere una misura diretta della relazione fra massa e raggio delle stelle del campione. E a verificare, appunto, che a parità di raggio – o di gravità superficiale – le nane bianche più calde hanno sistematicamente redshift gravitazionali maggiori rispetto agli oggetti più freddi.

Già nel 2020 lo stesso team di astrofisici, studiando tremila nane bianche, aveva ottenuto la conferma che le stelle si restringono man mano che guadagnano massa a causa della cosiddetta “pressione di degenerazione degli elettroni”, un processo quantistico che – se la massa è inferiore al limite di Chandrasekhar – arresta il collasso gravitazionale di una stella giunta “a fine vita”, consentendo così alle nane bianche di mantenere stabili i propri nuclei ultradensi per miliardi di anni senza la necessità di fusione nucleare. Fino a oggi, però, ricorda Crumpler, non si avevano dati sufficienti per confermare con certezza anche il piccolo ma importante effetto della temperatura sulla relazione massa-dimensioni.

Un risultato, sottolineano gli autori dello studio, che segna un passo avanti nel possibile utilizzo di questi oggetti stellari come laboratori naturali per sondare gli effetti della gravità estrema e per cercare tracce di particelle esotiche di materia oscura.

«Le nane bianche sono fra le stelle meglio caratterizzate che abbiamo a disposizione per verificare le teorie alla base della fisica ordinaria, nella speranza di trovare qualcosa di strano che indichi la strada per una nuova fisica fondamentale», dice Crumpler a questo proposito. «Se vogliamo cercare la materia oscura, la gravità quantistica o altre cose esotiche, ci conviene anzitutto capire la fisica normale. Altrimenti ci potrebbe apparire come nuovo qualcosa che in realtà è soltanto una nuova manifestazione di un effetto che già conosciamo».

Per saperne di più:



Ultime notizie da Chirone


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Si chiama (2060) Chirone ed è un oggetto unico nel Sistema solare. Piccolo corpo celeste la cui orbita irregolare è situata fra quelle dei giganti gassosi Saturno e Urano, è grosso quanto un asteroide – le sue dimensioni sarebbero nell’ordine del centinaio di chilometri – adornato però dalla chioma tipica di una cometa, scoperta verso la fine degli anni ’80. Ce ne sarebbero altri di oggetti ibridi, un po’ asteroidi un po’ comete, i cui giri si svolgono fra l’orbita di Giove e quella di Nettuno, e che sono stati denominati centauri in virtù della loro duplice natura. Ma Chirone sembrerebbe proprio un oggetto speciale.

«È stravagante quando lo confrontiamo alla maggior parte degli altri centauri,» dice l’astronomo Charles Schambeau, della University of Central Florida. «Ha periodi in cui si comporta come una cometa, è circondato da anelli di materiale, e potenzialmente ha anche un’area di detriti di polvere o materiale roccioso che orbita attorno a esso. Perciò sorgono diverse domande riguardo alle proprietà di Chirone che consentono questi comportamenti unici».

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Rappresentazione artistica di un centauro attivo come Chirone. I diversi colori si riferiscono alle diversa composizione di gas, ghiacci e polvere nella chioma. Crediti: William Gonzalez Sierra

In virtù della sua straordinarietà, un gruppo internazionale di astronomi ha deciso di approfondirne la natura puntando su di esso il James Webb Space Telescope. Riuscendo, per la prima volta, a rivelare la composizione chimica della sua superficie. A differenza degli altri membri della sua famiglia, Chirone possiede ghiacci sia di monossido che di diossido di carbonio in superficie e gas di metano e di diossido di carbonio nella sua chioma. La loro scoperta è stata presentata in uno studio uscito su A&A la scorsa settimana.

Noemí Pinilla-Alonso, dell’Università di Oviedo in Spagna e precedentemente alla University of Central Florida, prima autrice dell’articolo, racconta qualcosa in più su Chirone e sulle differenze – questa volta – con gli oggetti transnettuniani (Tno), così denominati perché consumano la maggior parte della loro gelida esistenza oltre l’orbita di Nettuno. Tno sono i membri della fascia di Kuiper e della nube di Oort. Più lontani dei centauri, dunque. Pure sembra che Chirone e colleghi fossero in passato Tno che, sballottati dall’interazione coi giganti gassosi del Sistema solare, sono stati catapultati su orbite più interne. «Ciò che è unico riguardo a Chirone è che possiamo osservare sia la superficie, dove si trova la maggior parte dei ghiacci, che la chioma, dove vediamo i gas che provengono dalla superficie o da poco sotto di essa», spiega la scienziata. «I Tno non hanno questo tipo di attività perché sono troppo distanti e troppo freddi. Gli asteroidi non hanno questo tipo di attività perché non hanno i ghiacci. Al contrario le comete mostrano attività come i centauri, ma sono tipicamente osservate più vicino al Sole, e la loro chioma è così spessa da complicare l’interpretazione delle osservazioni dei ghiacci sulla superficie. Scoprire quali gas sono parte della chioma e le loro relazioni con i ghiacci sulla superficie ci aiuta a imparare le proprietà fisiche e chimiche, come lo spessore e la porosità dello strato di ghiaccio, la sua composizione e come l’irraggiamento lo sta modificando».

Uno studio sui Tno dello stesso gruppo di ricercatori è uscito su Nature Astronomy la scorsa settimana.

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Lo spettro di (2060) Chirone ottenuto con NirSpec che mostra le diverse molecole rinvenute nel centauro. Crediti: William Gonzalez Sierra

Le molecole sulla superficie e nella chioma di Chirone sono state rivelate dallo spettrografo NirSpec. L’utilizzo di Webb è stato fondamentale per studiare il gas della chioma di un oggetto così distante dal Sole. Studiare i centauri fornirebbe delle indicazioni importanti sulle origini del Sistema solare. Alcuni dei ghiacci ritrovati su Chirone come il metano, il diossido di carbonio e l’acqua, potrebbero derivare dalla nebulosa dalla quale si formò il Sistema solare. Altri invece, come l’acetilene, il propano, l’etano e il monossido di carbonio potrebbero essersi formati successivamente sulla sua superficie a causa di processi di riduzione e ossidazione.

«Tutti i piccoli corpi nel Sistema solare ci dicono qualcosa rispetto a com’era in passato, che è un periodo di tempo che non possiamo più osservare», dice Pinilla-Alonso. «Ma i centauri con la loro attività ci dicono molto di più. Essi stanno subendo una trasformazione guidata dal riscaldamento del Sole e forniscono un’opportunità unica per imparare qualcosa sulla loro superficie e sugli strati che si trovano sotto di essa».

Per il futuro gli astronomi programmano di osservare nuovamente Chirone quando sarà un po’ più vicino alla Terra, in modo da studiare più accuratamente i suoi diversi costituenti e capire come variazioni dell’illuminazione da parte del Sole influenzi le riserve di ghiacci di questo interessante oggetto.

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Per misurare tutto ciò che esiste basta il secondo


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George Emanuel Avraam Matsas

Qualunque grandezza fisica misurabile, ovvero qualunque unità di misura vi venga in mente, può essere espressa usando solamente metri, chilogrammi e secondi in una opportuna combinazione. Ma sono davvero necessari tutti e tre? La risposta diplomatica è “dipende”. La risposta fisica invece è “non se si utilizza un opportuno sistema di misura, in gergo chiamato spazio-tempo”. A dare questa risposta, in un articolo pubblicato recentemente su Nature, quattro ricercatori brasiliani. A porsi la domanda, più di vent’anni fa, tre fisici che si trovarono in disaccordo e pubblicarono le loro opinioni divergenti per lasciare ai posteri l’ardua sentenza.

«Questa storia comincia nel 1992», racconta a Media Inaf George Emanuel Avraam Matsas, ricercatore all’istituto di fisica teorica dell’Università di San Paolo, in Brasile, e primo autore dell’articolo uscito su Nature, «quando tre eminenti fisici teorici, Michael Duff, Lev Okun e Gabriele Veneziano, si incontrarono sulla terrazza della famosa caffetteria del Centro europeo per la ricerca nucleare (Cern) e, in una conversazione informale, si resero conto di non essere d’accordo su quale dovesse essere il “numero di costanti fondamentali”. Per “numero di costanti fondamentali” intendevano il “numero minimo di norme” necessarie per esprimere tutti gli osservabili della natura. Dieci anni dopo, i due erano ancora in disaccordo e decisero di scrivere un articolo per spiegare i loro punti di vista».

In che termini si trovavano in disaccordo?

«Okun sosteneva che, per poter esprimere tutte le grandezze della natura, sarebbero stati necessari tre standard fissati da righelli, masse e orologi per definire il metro, il chilogrammo e il secondo. Veneziano, influenzato dalla teoria delle stringhe, sosteneva che tutte le grandezze potevano essere espresse solo in termini di metri e secondi. Infine, Duff sosteneva che, a seconda della grandezza da misurare, si potevano utilizzare standard diversi (ma non si opponeva al metro-chilogrammo-secondo – MKS – come sistema di unità, almeno sufficiente, per esprimere le grandezze fisiche)».

Una questione di opinioni?

«Lungi dall’essere una questione di opinioni, la questione sollevata da Duff, Okun e Veneziano deve avere una risposta univoca, perché sarebbe come conoscere il numero minimo di linee di produzione che una fabbrica di standard cosmici dovrebbe avere. Quindi, in ultima analisi, si tratta anche di un problema economico. Possiamo invocare l’ignoranza su questioni scientifiche ben poste, ma mai “concordare di non essere d’accordo” (come talvolta si sente dire): una volta fissate le premesse e il linguaggio matematico, la risposta a ogni domanda deve convergere verso un consenso; è questo che rende la scienza scienza. Detto questo, visti tutti i successi scientifici che vanno dalla scala microscopica a quella cosmologica, sarebbe strano ammettere la sconfitta di fronte a una domanda che potrebbe essere compresa da un adolescente».

Ed è questo il punto di partenza del vostro lavoro?

«Esatto. Questo “piccolo scandalo” era tra gli argomenti discussi da alcuni fisici (questi brasiliani) in un caffè (per nulla famoso) a 10mila chilometri dal Cern nei primi anni Duemila. Quasi due decenni dopo, abbiamo pubblicato una risposta quasi ovvia, che può essere compresa da qualsiasi giovane studente pre-universitario».

Leggendo il titolo del vostro articolo, sembrerebbe che si potrebbe riscrivere qualunque sistema di misura arrivando a esprimere qualunque grandezza fisica in “secondi”.

«Sì. Abbiamo dimostrato che tutti gli osservabili definiti negli spazi relativistici possono essere espressi in unità di tempo, ad esempio in secondi. In particolare, abbiamo mostrato come convertire esplicitamente le unità del Sistema Internazionale di misura (che sono sufficienti per esprimere tutte le osservabili) in questo sistema (dove tutte le osservabili sono espresse in secondi). Ne consegue che, negli spazi relativistici, la costante di Boltzmann, la costante di Coulomb, la costante gravitazionale e la velocità della luce non sono altro che fattori di conversione».

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Fisici del National Institute of Standards and Technology (Nist) con l’orologio atomico al cesio Nist-F2, che stabilisce il nuovo standard di tempo civile per gli Stati Uniti. Crediti: Nist/Wikimedia Commons

Quindi le “costanti fondamentali della fisica” non servono più?

«Dopo il 2019, ogni unità del Sistema Internazionale è stata definita fissando il valore di una costante. Duff, Okun e Veneziano, sebbene abbiano scritto il loro articolo prima del 2019, avevano ipotizzato proprio questa identificazione tra il numero di unità per esprimere tutto e il numero di costanti “fondamentali”. Ad esempio, un secondo è attualmente definito come il tempo necessario affinché una certa radiazione emessa dal Cesio oscilli 9.192.631.770 volte (il che elegge implicitamente l’intervallo di tempo associato a un’oscillazione di questa radiazione come costante fondamentale). Quali siano le costanti da eleggere come fondamentali è una questione di convenienza, ma il numero di costanti “fondamentali” non lo è perché corrisponderebbe al numero minimo di norme necessarie per esprimere tutti gli osservabili».

Se capisco bene, lei tiene sempre a precisare che si parla di “spazi relativisitici”.

«Con il senno di poi, abbiamo capito che gran parte della confusione derivava dal non aver capito che la risposta alla domanda di Duff, Okun e Veneziano dipende dallo spazio-tempo sottostante su cui sono definite le teorie e le loro grandezze fisiche. Nella scuola secondaria, l’enfasi è posta sulla fisica newtoniana, che è costruita sul presupposto dello spazio-tempo di Galileo Galilei. Lo spazio-tempo di Galileo è quello della nostra intuizione quotidiana, ma dal 1915 sappiamo, grazie ad Albert Einstein, che lo spazio-tempo in cui viviamo è molto meglio modellato dallo spazio-tempo relativistico».

Precisiamo quindi che una delle differenze fondamentali fra i due è che nello spazio-tempo di Galileo (o newtoniano) lo spazio e il tempo sono due entità distinte, mentre nello spazio-tempo relativistico sono interconnessi, e anche la forza di gravità diventa un’accelerazione in un campo gravitazionale. Quest’ultimo, dunque, è il punto di partenza del vostro lavoro.

«Partendo dal sistema MKS ci siamo chiesti, inizialmente, se lo standard di massa dato dal chilogrammo sia necessario per esprimere le grandezze fisiche. Okun sosteneva che lo fosse, ma la risposta è no. La forza di attrazione di un corpo, che Newton chiamava massa M, può essere misurata con righelli e orologi a partire dall’accelerazione a con cui una particella di prova posta a una distanza L cade verso di esso, utilizzando la formula Massa = accelerazione x distanza al quadrato. Quindi, una volta fissata la distanza L, la massa M del corpo sarà tanto maggiore quanto maggiore è l’accelerazione a con cui il corpo attrae la particella di prova. Nel sistema MKS, l’unità di M (la massa), che è m3/s2 (metri al cubo diviso secondi al quadrato, secondo la formula sopra), viene convertita in kg moltiplicando M per un fattore di conversione. Questo fattore di conversione è noto come costante di gravitazione universale ed è indicato con G».

Quanto peserebbe un uomo di 70 chili in secondi, quindi?

«Utilizzando le equazioni riportate nel nostro articolo (la numero 13 e 20), si può calcolare abbastanza facilmente che un uomo di 70 chili pesa 1.7 x 10-34 secondi (ovvero zero virgola, 33 zeri e poi 17 secondi, ndr)».

Totalmente controintuitivo. E la temperatura superficiale del Sole, assumendo che sia circa 5500 K, quanto sarebbe in secondi?

«Usando l’equazione numero 9 del nostro articolo per fare la conversione, sarebbe 2.1 x 10-72 secondi».

Quale sarebbe il vantaggio dell’adozione di un’unica unità di misura per tutto? Non pensa che sarebbe un metodo fuorviante e privo di riferimenti nella vita quotidiana?

«Non dovrebbe essere fuorviante, purché si comprenda che il fatto che due grandezze abbiano la stessa unità di misura non implica che abbiano lo stesso significato concettuale. Ma devo ammettere che sarebbe orribile compilare un modulo medico dicendo che il mio peso è 2 x 10-34 secondi. In effetti, questo potrebbe addirittura diventare un problema di salute pubblica (considerando l’analfabetismo matematico che c’è, almeno da queste parti)».

È qualcosa che deve rimanere confinato agli addetti ai lavori, dunque. Pensa che aiuti a capire meglio il funzionamento dell’universo?

«Penso di sì! Se c’è qualcosa che questo esercizio ci ha insegnato, è che la risoluzione della controversia di Duff, Okun e Veneziano dipende dallo spazio-tempo in cui le quantità sono definite e misurate. Credo sia importante tenerlo a mente quando si pensa alla gravità quantistica; almeno, lo è stato per noi».


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