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Il Premio Strega 2025



L’incipit più famoso della letteratura occidentale dice: «Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Si tratta ovviamente delle prime due righe di Anna Karenina, di Lev Tolstoj. A tale esordio sembra essersi ispirato il premio Strega 2025, che quest’anno ha premiato, nelle sezioni narrative principali, due romanzi che parlano di famiglie travagliate e ferite: L’anniversario,di Andrea Bajani[1]; e Il giorno dell’ape, di Paul Murray[2].

Andrea Bajani, che era entrato nella cinquina finalista dello Strega già nel 2021 con Il libro delle case[3], quest’anno si è aggiudicato sia il premio Strega Giovani sia il principale premio Strega. È la quarta volta che ciò avviene nella storia del premio, che rappresenta l’appuntamento letterario più atteso all’inizio dell’estate; è anche il terzo anno consecutivo che si dà questa coincidenza, rivelando la significativa tendenza per la quale il gusto e la scelta dei lettori più giovani convergono con quelli dei lettori «adulti», professionisti del settore. Prima di Bajani l’accoppiata era riuscita a Donatella Di Pietrantonio, con L’età fragile nel 2024[4]; ad Ada d’Adamo, con Come d’aria nel 2023[5]; e a Paolo Cognetti, con Le otto montagne nel 2017[6].

Lo scrittore irlandese Paul Murray, invece, si è aggiudicato il premio Strega europeo con Il giorno dell’ape. Questo romanzo, pubblicato nel 2023, era entrato nel sestetto finalista del prestigioso premio inglese Booker Prize di quell’anno ed è stato pubblicato in italiano, tradotto da Tommaso Pincio, nel 2025.

Romanzi di famiglie ferite, le due opere ben rappresentano le anime della narrativa contemporanea, nella disparità della loro ampiezza. L’anniversario è lungo appena 130 pagine; Il giorno dell’ape raggiunge le 650 pagine. Da un lato, vi è la tradizione del romanzo di fiction, ossia dell’opera di finzione dove lo scrittore crea personaggi, situazioni e trame senza ricorrere alla propria biografia. Dall’altro lato, vi è la declinazione oramai imperante di quella forma letteraria che pesca a piene mani nel vissuto degli scrittori e che assume di volta in volta le forme del memoir o dell’autofiction, varianti contemporanee della biografia e parenti dell’anglosassone non fiction novel, di cui il capostipite e il più noto esempio è A sangue freddo, di Truman Capote.

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«L’anniversario», di Andrea Bajani


«L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta di casa per salutarmi». Così inizia l’ultimo libro di Andrea Bajani, sulla cui copertina campeggia la dicitura: «Un romanzo», affermazione di appartenenza al genere letterario e, al tempo stesso, sottotitolo che indica l’operazione di «individuazione» per estrazione della figura materna, protagonista della storia.

In continuità con l’opera precedente, Il libro delle case, si colloca L’anniversario, che percorre nuovamente una storia di affetti familiari. La forza dell’io narrativo fa sorgere nel lettore la domanda su quanto sia «reale» la storia della famiglia «sventurata» descritta ne L’anniversario. Messa da parte questa possibilità, emerge un testo potente, che ha la postura del saggio biografico, che ritaglia con freddezza chirurgica il vissuto emotivo della «malattia psichica» che tiene unita una famiglia, evocando i toni di quell’opera di insuperata crudeltà che fu Lettera a mio padre, di Franz Kafka. La precisione della lingua di Bajani, la sua compostezza e il tono pacato costituiscono un punto di forza (e di bellezza) del «romanzo»; inoltre, assolvono una funzione «apotropaica», tenendo a bada i fantasmi di una materia emotiva altrimenti caldissima.

Lo scrittore costruisce la geometria familiare e vi rimane fedele sino alla fine; nessun nome proprio e solo attribuzioni di ruolo: madre, padre, sorella, nonna materna, nonno materno, nonna paterna. La gerarchia chiarifica e, al tempo stesso, maschera; fornisce la tassonomia delle relazioni e oscura le persone.

Protagonista dichiarata del «romanzo» è la madre, donna timidissima, autodestinatasi all’invisibilità e al silenzio. Viene ricostruita per calco di vuoti, ipotesi di sottrazione: «Non saprei», «non so», «non credo», «non ricordo», «non vedo». Vi è poi il padre, centro decisivo e decisionale della famiglia. La sua è una «centralità» imposta, costruita per lo più con la violenza dei ricatti affettivi e talvolta anche dei gesti fisici di sopraffazione. Protagonista è anche il figlio, voce narrante che ha più a cuore esplorare la verità della famiglia che riportarne il volto reale. Protagonista è la distanza (chiamata «liberazione»), segnata dall’anniversario decennale che viene festeggiato. Ma protagonista è soprattutto una domanda, che sta all’origine del «romanzo»: è possibile «uscire» dalla famiglia? Se l’uscita, della quale nel «romanzo» vengono date le coordinate familiari che l’hanno resa necessaria, coincide con il silenzio, essa ci sembra solo temporanea e possibile in quanto ribadita.

Il «romanzo» non si sottrae a questo equivoco. Costruire un racconto per verificare se sia umano e umanizzante il suo porsi in antitesi con la parola biblica «Onora il padre e la madre» ha dei costi anche narrativi elevati. A fronte di alcuni passaggi di violenza «normalizzata» che addolorano e sbigottiscono, i «genitori di carta» risultano a tratti un po’ monocordi e spiritualmente piatti: lei (quasi) solo invisibile, lui (quasi) solo violenta manipolazione. In un passaggio, Bajani dichiara che la vita familiare è stata anche molto altro: «E persino la bellezza, che naturalmente ricordo, le pizze estive, le camminate in montagna con mio padre, le sere dopo le gare di nuoto, la delicatezza che a tratti gli scorgevo nelle mani, vederlo ballare da solo – certo di non essere visto – davanti allo stereo che suonava, le lettere che ci spediva al mare, la sua dedizione, il suo portarmi sulle spalle, il mio nome pronunciato da mia madre, la spensierata normalità del mio sedermi insieme a lei, in cucina, e dirci cose di nessuna importanza, senza intenzione, quel calore»[7].

Perché non dar voce anche a questa dimensione? Paura di indebolire le ragioni del distacco? Non è per rispetto del tabù del vincolo di sangue o del genus «cattolico e italiano» che timidamente ci arrischiamo a dire che anche le «vie» della letteratura (non solo quelle della vita) si costruiscono più saldamente sui passi della compassione e della tenerezza, che non è collusione, ma sguardo più ampio capace di accogliere il «patologico» in una prospettiva più estesa.

«Il giorno dell’ape», di Paul Murray


Paul Murray, classe 1975, è lo scrittore irlandese che quest’anno si è aggiudicato il premio Strega europeo con il romanzo titanico Il giorno dell’ape. Titanico nelle dimensioni e nelle aspirazioni. L’autore, nato a Dublino nel 1975, ha scritto appena quattro romanzi nell’arco di 20 anni: An Evening of Long Goodbyes (2003); Skippy Dies (2010), tradotto in italiano Skippy muore nel 2010; The Mark and the Void (2015); e The Bee Sting (2023), che è stato tradotto in italiano con il titolo Il giorno dell’ape.

Qual è il momento determinante? Qual è la scelta che inconsapevolmente segna una vita umana? Quando inizia la fine? Di chi è la colpa? Di chi è la responsabilità? In queste domande, che fanno tremare i polsi, ci sembra possa racchiudersi la ricerca narrativa di Murray sui punti di svolta di una vita umana, in un romanzo nel quale si parla della forza dell’amore e della furia della morte, del sacrificio di sé, del disordine tellurico e spietato a cui conducono il dolore e il peccato. Storia irlandese nelle vesti, greca nell’anima, cattolica per radicate convinzioni, e precristiana per l’istinto di difesa contro la violenza del mondo, a cui pur bisogna cercare risposta, forse rifugio, in ogni caso qualche indicazione per non esserne schiacciati.

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Romanzo nel quale, di fronte alla tentazione di un’avventura extraconiugale, si leva la voce interiore del personaggio, che con chiarezza dentro di sé dice: «Ma è peccato!». Nella lettura delle foglie del tè viene annunciato un destino; nell’immagine del crocifisso, nella notte di fango e di pioggia, si cerca un barlume di salvezza.

Storia contemporanea nei contenuti, il libro affronta il tema della crisi ambientale e delle teorie complottiste, il «survivorismo» di quegli ambienti che diffidano di ogni informazione ufficiale e si preparano alla fine del mondo; dei pericoli del mondo virtuale e dell’accoglienza e dello stigma dell’affettività omosessuale. Storia antica e barbara nell’energia ctonia, terrena e terrestre, che infonde nelle vicende, attraverso alcuni personaggi, potenti nella loro oscurità brutale, nella loro grettezza fisica e morale e nella loro estraneità ai canoni di normalità: condannano e tracciano vie.

Il giorno dell’ape è la storia di una famiglia, composta dal padre Dickie, dalla madre Imelda, dalla figlia diciottenne Cassandra e dal figlio decenne PJ. In modo graduale lo sguardo del lettore è sospinto sotto la superficie apparentemente felice e benestante del nucleo familiare. Nel piccolo paese di provincia, essi costituiscono una famiglia di riferimento sociale e sono invidiati per le loro possibilità economiche. Ciò che però appare in superficie è appena lo smalto di un benessere che non esiste più. La crisi economica ha colpito duramente il paese e la concessionaria di autovetture Volkswagen che costituiva il polmone economico della famiglia.

Con le difficoltà economiche crescenti si fanno più evidenti le crepe nelle relazioni familiari, di coppia tra i genitori e tra figli e genitori. Cassandra – Cass per amici e parenti – e PJ vivono diverse forme di solitudine all’interno delle pareti di casa. Pur amati, la distrazione dei genitori li getta in forme diverse di isolamento. Con lo scorrere delle pagine, un senso crescente di pericolo si insinua e incombe sulla famiglia. L’ampiezza del disordine, mascherato sino a quel momento dal buon nome di famiglia, soprattutto del padre di Dickie, Maurice, un self-made man che vive la dorata pensione in Portogallo, e dal consumismo vorace di Imelda, si rivela e amplifica l’angoscia che, pur nella lettura sempre agile e avvincente, coglie il lettore. Un pezzo dopo l’altro, cadono le scaglie del presente ed emergono le ferite del passato, che sono state solo nascoste e mai curate in profondità, in un crescendo di disfacimento economico, relazionale ed esistenziale.

Il titolo si ispira alla giornata del matrimonio tra Dickie e Imelda, quando accidentalmente un’ape punge sul volto la sposa mentre sta andando alla cerimonia, e per questo per tutto il giorno rimane velata, e non viene scattata nessuna foto.

La struttura dell’opera è peculiare e rende avvincente la lettura. Il romanzo è infatti diviso in cinque capitoli di disuguale lunghezza. Ogni capitolo è segnato dal punto di vista di uno dei protagonisti.

Il primo segue le inquietudini e le ribellioni della giovane Cass, alla scoperta di sé durante l’ultimo anno del liceo, in quella fase della vita nella quale le amicizie danno regola a tutto, umori, scelte, obiettivi.

Il secondo capitolo è invece scritto dal punto di vista di PJ, oggetto di bullismo a scuola e chiuso nel suo mondo di giochi elettronici e messaggi nelle chat dei gruppi che a tali giochi sono legati, nei quali si annidano pericoli e minacce.

Il terzo, il più ampio, è quello caratterizzato dal punto di vista di Imelda. È il più originale a livello stilistico, perché costruito come un flusso di sensazioni e di pensieri senza punteggiatura, e solo il segnale delle lettere maiuscole è l’indicazione della fine delle frasi, tutte brevissime. Questo capitolo, che copre quasi un terzo del romanzo, contiene il lunghissimo flashback che spiega le origini della condizione attuale della famiglia protagonista.

Il quarto capitolo prende in carico il punto di vista di Dickie. La figura scialba, dimessa e ritratta che abbiamo incontrato nei racconti precedenti assume spessore, e del pacifico e un po’ impacciato imprenditore di provincia scopriamo il grande segreto e insieme i sacrifici compiuti.

Il quinto capitolo, infine, raccoglie tutti i protagonisti, e la scelta della seconda persona singolare permette all’autore di presentarceli in parallelo, con una visione quasi panottica. Il senso del dramma incipiente si costruisce nel seguire le quattro schegge, divise e lontane, che convergono, mosse da una tykē (o destino) greca, che porterà alla resa dei conti finale. L’effetto di vertigine come fiamma ascendente è dato dall’abbreviarsi dei paragrafi, cosicché nelle ultime pagine è tutto un saltare da un personaggio all’altro, da uno sguardo e un pensiero all’altro.

Il giorno dell’ape è un unico romanzo, oppure è un romanzo di romanzi? Nei primi quattro capitoli, infatti, il punto di vista è così caratterizzato e l’arco narrativo così sviluppato da poter suggerire al lettore di leggere il libro come la raccolta di quattro romanzi, raccordati nel capitolo finale dalla voce narrante in seconda persona singolare, che esprime una vibrante varietà di toni e sfumature, in distacco e tenerezza. È una voce ipnotica. Si rivolge a ciascuno di loro con affetto e prossimità; sembra voler spiegare a ciascuno dei personaggi come si sono svolte le vicende altrimenti incomprensibili a loro livello. Non è la voce di Dio, ma piuttosto quella del fato, perché vi è anche un fondo di indifferenza. È vicina, ma non partecipa; è intima, ma non è compassionevole. Il giorno dell’ape è un libro tragico, dove la speranza è solo un’attesa della capitolazione finale.

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[1] Cfr A. Bajani, L’anniversario, Milano, Feltrinelli, 2025.

[2] Cfr P. Murray, Il giorno dell’ape, Torino, Einaudi, 2025.

[3] Cfr A Bajani, Il libro delle case,Milano, Feltrinelli, 2021.

[4] Cfr D. Di Pietrantonio, L’età fragile, Torino, Einaudi, 2023.

[5] Cfr A. D’Adamo, Come d’aria, Roma, Elliot, 2023.

[6] Cfr P. Cognetti, Le otto montagne, Torino, Einaudi, 2016.

[7] A. Bajani, L’anniversario, cit., 74.

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