L’AI non ci potenzia: ci usa. Cory Doctorow smonta la grande bugia del 2025
Cory Doctorow lo dice con la lucidità di chi ha studiato per anni le derive del capitalismo digitale: l’AI, così come viene venduta oggi, non mira a potenziare l’essere umano. Mira a usarlo.
Ed è una differenza enorme.
Doctorow parla di centauri e reverse-centauri.
Il centauro è l’immagine romantica della tecnologia che amplifica l’uomo: l’essere metà umano e metà macchina che, grazie all’ibridazione, diventa più competente, più veloce, più efficace.
Il reverse-centauro, invece, è l’incubo moderno:
la macchina al comando e l’umano relegato al ruolo di appendice correttiva, l’elemento organico necessario solo per:
- firmare,
- controllare,
- prendersi la colpa quando il sistema sbaglia.
E questo, purtroppo, è esattamente il modello verso cui sta correndo il mercato.
La bolla dell’AI: speculazione travestita da innovazione
Doctorow lo dice chiaro: il capitalismo delle piattaforme sopravvive solo se riesce a gonfiare nuove bolle narrative.
- Il Web.
- La Crypto.
- Il Metaverso.
- Ora l’AI.
Non c’è industria che non stia venendo travolta da questa retorica messianica, dove ogni limite umano è considerato “inefficienza” da eliminare.
Il paradosso?
L’AI non sostituisce il lavoro umano: lo sposta, lo peggiora, lo rende più responsabilizzante e meno controllabile.
Nel 2025, molte aziende non stanno implementando l’AI per aumentare la qualità dei processi, ma per tagliare costi lasciando agli umani l’onere di controllare, correggere e giustificare le allucinazioni della macchina.
- Un reverse-centauro non produce valore.
- Produce fragilità.
- Produce rischio.
E produce una dipendenza cieca da sistemi che non comprendiamo, non controlliamo e che spesso non sappiamo nemmeno verificare.
Il lato tecnico che non piace ai vendor
Oggi l’AI viene integrata dovunque con lo stesso entusiasmo con cui negli anni ’90 si infilava il “tasto Internet” anche sui tostapane.
Il problema è che questa integrazione non è neutrale, lo si vede subito:
- modelli opachi, non verificabili;
- pipeline di addestramento che sono una nuova supply chain non auditabile;
- dati sensibili usati come carburante;
- automazioni che amplificano l’errore umano invece di ridurlo;
- supervisione umana trasformata in un atto di responsabilità giuridica più che tecnica.
L’AI “messa così” non riduce il rischio: lo aumenta.
E spesso in maniera non lineare, non intuibile e impossibile da stimare con precisione.
La verità è che gran parte degli LLM e dei sistemi di automazione generativa sono strumenti probabilistici che molti stanno trattando come decision support system deterministici.
Confondere questi due piani è un invito aperto al disastro.
L’impatto socio-economico: quando la macchina decide e l’umano firma
La narrazione del “lavoro potenziato dall’AI” somiglia molto a quella della delocalizzazione industriale degli anni 2000:
nelle promesse era un vantaggio per tutti, nella pratica è stata una compressione salariale mascherata.
Oggi accade lo stesso:
la vera funzione economica dell’AI non è sostituire il lavoro umano, ma dequalificarlo.
Prima un radiologo analizzava 100 immagini, ora ne analizza 100 comunque… ma con in mezzo un algoritmo che sbaglia e che lui deve correggere.
E nel dubbio, la responsabilità legale resta sua.
Lo stesso vale per avvocati, tecnici IT, giornalisti, consulenti, medici, progettisti… e perfino SOC analyst che si trovano sommersi da alert generati da sistemi che non comprendono il contesto operativo.
L’umano non viene potenziato:
viene messo al guinzaglio da una macchina che decide, sbaglia, e lui deve ripulire.
È questo il reverse-centauro in tutta la sua crudezza.
La normativa europea lo ha capito benissimo: l’AI Act non vieta l’AI, vieta gli abusi
La cosa interessante è che l’Europa sta cercando di fermare questa deriva.
Non contro la tecnologia, ma contro i modelli di business tossici che la circondano.
L’AI Act introduce:
- obblighi di trasparenza,
- valutazioni d’impatto sul rischio,
- controlli sulla supply chain,
- responsabilità chiara su errori e danni,
- registri obbligatori per gli AI di alto rischio,
- tracciabilità e auditabilità tecnica.
E accanto all’AI Act arrivano altre norme che chiudono il cerchio:
- NIS2, che impone governance, processi e supervisione reale degli strumenti.
- Cyber Resilience Act, che schiaccia i produttori di tecnologia di fronte alle proprie responsabilità.
- Data Act, che regola accesso, portabilità e uso dei dati.
L’Europa manda un messaggio semplice:
la macchina non può sostituire l’umano nella responsabilità, né usarlo come scudo legale.
Ed è un messaggio che alle big tech non piace per niente.
Il problema non è l’AI. Sono le aspettative tossiche che le costruiamo intorno
In RHC lo diciamo spesso:
la tecnologia non è né buona né cattiva. È neutrale.
Diventa pericolosa quando la usiamo senza capire cosa realmente fa.
L’AI può essere uno strumento potentissimo.
Ma deve restare un mezzo, non un fine.
Un’estensione dell’intelligenza umana, non un commissario politico dell’efficienza.
Perché il giorno in cui smetteremo di essere centauri e inizieremo a essere reverse-centauri, sarà troppo tardi per invertire la rotta.
l’AI deve potenziare l’umano, non sostituirlo. E soprattutto non usarlo.
La vera sfida non è costruire modelli più grandi, più veloci o più “agenti”.
La sfida è costruire sistemi che rispettino il lavoro umano, la sua dignità, la sua intelligenza, i suoi limiti e le sue responsabilità.
Il futuro appartiene alle aziende che sapranno usare l’AI per far crescere le persone, non per stritolarle.
A quelle che sapranno distinguere tra innovazione e speculazione.
A quelle che capiranno che l’automazione non è un dogma, ma un rischio che va gestito con criterio.
Se non vogliamo diventare reverse-centauri, dobbiamo tornare al punto di partenza:
l’AI deve amplificarci.
Non sostituirci.
E tantomeno usarci come stampelle per coprire i suoi limiti.
Perché una macchina che ha bisogno dell’uomo solo per firmare gli errori…
non è progresso.
È un inganno ben confezionato.
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