Turoldo e Pasolini: poeti friulani, anime irrequiete di umanità e religiosità
P. David Turoldo definisce così la sua amicizia con Pier Paolo Pasolini: «Io con Pasolini ho sempre avuto ottimi rapporti e ho conservato sempre l’Amicizia fino al giorno della sua morte e, anzi, devo dire che, proprio due o tre giorni prima che gli capitasse quello che gli è capitato, a degli amici svedesi ha detto: “Bisogna che vada a trovare il padre David”»[1]. Qualche giorno dopo Pasolini perdeva drammaticamente la vita nell’idroscalo di Ostia: era il 1975, e quest’anno ricorrono 50 anni. Nella memoria di p. Turoldo emerge la sua familiarità con il regista: un’amicizia singolare, discreta, ai più sconosciuta, mai ostentata, che ha avuto un impatto significativo sulla vita di entrambi. Il recente volume David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Due anime friulane[2]vuole scandagliare tale amicizia, che sembra non essere stata in precedenza analizzata, nonostante la vastissima letteratura dedicata alle loro opere poetiche, letterarie, teatrali e cinematografiche.
Nel titolo, si definiscono Turoldo e Pasolini «due anime friulane»: un tratto indovinatissimo e quanto mai appropriato. Non solo perché essi sono friulani di due paesi vicini – Turoldo è nato a Coderno di Sedegliano, vicino Udine, e la famiglia di Pasolini proviene da un paese a breve distanza, Casarsa della Delizia, dove è nata la madre: paese di adozione dello scrittore, in cui egli ritornava volentieri nei soggiorni estivi –, ma per ragioni più profonde, che hanno origine dalla povertà di quella terra, dall’umano e dal religioso che ne traspira, dalla poesia che vi zampilla.
La povertà e l’emigrazione
La ragione per cui molti sono costretti a emigrare per sopravvivere è la povertà del Friuli.
Dopo le elementari, Turoldo vuole entrare in Seminario, ma la famiglia non ha i mezzi per mantenerlo: il rettore dei Serviti, tuttavia, lo accoglie ugualmente nell’Ordine, perché una vocazione sacerdotale dipende da Dio e non dal tenore di vita della famiglia. È da rilevare l’ultimo colloquio tra il giovane e i genitori, prima di entrare definitivamente in convento. La madre era contraria: «Noi siamo poveri e non possiamo offendere la gente», come se la loro povertà fosse una mancanza di rispetto verso gli altri. La famiglia di Turoldo era davvero una delle più povere del paese. Ma, alle insistenze del ragazzo, il padre disse: «Ebbene, allora vai. Ma ricordati: se vedrai che non è la tua strada, per via di difficoltà o altro, e cioè se non ti sentirai di continuare, ritorna pure: questa porta (e prese letteralmente la porta di casa, aprendola) è sempre aperta per te; se invece sarà per stupidaggini, sappi che questa porta (e la chiuse con un botto) non è più aperta per te»[3]. Il padre concluse: «Ti do un consiglio: preparati comunque al peggio, perché al meglio son tutti pronti, al peggio non è pronto nessuno. E ricordati del nostro proverbio: la madre del peggio è sempre incinta»[4].
Anche Pasolini deve emigrare da Casarsa, ma per una diversa ragione: la sua omosessualità conclamata, cui segue una denuncia per corruzione di minori, poi il processo e infine l’assoluzione. Ma viene subito rimosso dall’incarico di insegnante nelle scuole medie di un comune vicino. Cercherà lavoro a Roma, facendo anche il correttore di bozze, poi nuovamente insegnando, e diventerà romano, pur rimpiangendo il povero Friuli, a cui rimarrà sempre legato.
La poesia
Una raffinata sensibilità poetica accomuna le personalità di questi due soggetti. La vita di entrambi si può definire una poesia scomoda, difficile, a volte scontrosa, eppure vera e altissima poesia. Perché la poesia sgorga dall’intimo: è un’urgenza interiore di verità e di vita. Una raccolta di poesie di Turoldo appare con un titolo inquietante: Anche Dio è infelice![5].
Nel 1948 esce per Bompiani il primo volume di poesie: Io non ho mani. Turoldo scrive: Io non ho mani / che mi accarezzino il volto, / […] non so le dolcezze dei vostri abbandoni: / ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono salvatore di ore perdute[6]. E in un altro volume scrive: Gli altri intanto / si baciavano sulla bocca, / ma io Ti mangiavo tutte le mattine. / E, allora, perché ero così triste?[7]. In questi versi sono uniti, senza contrapposizioni, amore umano e amore divino, senza tentare di attenuare il dramma di chi ama. È il gioco della propria esistenza, è la realtà della vita in cui ognuno si trova immerso. Non a caso la poesia si intitola Amore e morte. Ma, per Turoldo, tutto è problematico, perfino drammatico: Finalmente ho disturbato / la quiete di questo convento / altrove devo fuggire / a rompere altre paci[8]. Questa confessione rende ragione del perché egli sia stato definito «la coscienza inquieta della Chiesa»[9].
Ma chi può capire come va il mondo, come si possono comprendere «i segni dei tempi», per usare una formula molto cara a san Giovanni XXIII? Risponde Turoldo: «Per capire i tempi bisogna ascoltare cosa dicono i poeti. Per sapere come patisce il mondo bisogna interrogare i poeti»[10]. È sua vocazione dar voce alle aspirazioni profonde delle persone, alle fedi e alle battaglie, per cui egli cita volentieri Gregorio Magno: «Insegno quello che da voi imparo»[11]. Poi commenta: «Per me mai una predica è uguale a un’altra predica, mai un giorno è uguale a un altro giorno, mai […] una primavera a un’altra primavera. E mai Dio è uguale a Dio. Dio è sempre nuovo ed è sempre da scoprire»[12].
Pasolini redige il primo libro di poesie ambientandole a Casarsa: le scrive in friulano e le raccoglie nel 1942, in Poesie a Casarsa[13]. Il friulano non è di facile comprensione, per cui in calce a ogni poesia appare la versione italiana. Ne emerge un legame fortissimo con quella terra, una religiosità profonda, legata a un mondo arcaico, e insieme drammatica per i contrasti interiori tra fede e ricerca di sé stesso, tra invocazione del divino e rifiuto di Dio, tra senso del peccato e desiderio di libertà.
Di Pasolini, Alberto Moravia scrive: «[È] il maggior poeta italiano della seconda metà del secolo. Un poeta non vale più di un altro. Ma Pasolini ha scritto più cose e più importanti degli altri. Si è trovato a vivere in un periodo disastroso della storia d’Italia, cioè nel momento di una catastrofe senza pari, dopo una disfatta militare, con due eserciti che si combattevano, sul suo suolo. Nello stesso tempo, la rivoluzione industriale attirava nelle città milioni di uomini che provenivano da quella civiltà contadina che Pasolini amava e in cui affondava le radici la sua poesia. […] Sono due dei temi principali della poesia di Pasolini: il pianto sulla patria devastata, prostrata, avvilita, e la nostalgia della civiltà contadina»[14].
Il paradiso perduto
Per tutti e due i poeti il Friuli rappresenta qualcosa di misterioso e di paradisiaco. Per Turoldo, è memoria che diventa quasi mito. Nelle sue poesie, egli si riferisce alla sua terra come a un Eden perduto, che pure è stato per lui baricentro di orientamenti esistenziali. Così Coderno, il suo paese natale, diventa una pianura immensa che «da bambini percorrevamo scalzi, come su di un tappeto, verso le colline di S. Daniele e i monti della Carnia dove sta il rifugio dei più poveri, e poi giù verso il mare; pianura che ci pareva fosse il cuore del mondo, uno spazio dove gli occhi di tutti noi si fanno azzurri a forza di guardare»[15].
Nel tempo, queste memorie sarebbero divenute, come testimonia il titolo di un suo libro, la Mia infanzia d’oro. Ed egli confessa: «Io […] devo difendere la mia infanzia, che perciò sembra tutta d’oro, anche se è stata forse la più povera fra tutte le infanzie dei miei compagni»[16]. Si tratta di un testo particolare che, ristampato dopo la morte, è accompagnato da un «Addio» in versi di Alda Merini, da due poesie della nipote, Gioia Turoldo Malnis, e da cinque disegni di Pasolini[17]. Fra le altre, c’è una strofa dedicata «Allo zio David»: Grazie perché sei stato tu a insegnarmi / che in ogni uomo / c’è qualcosa di buono, / basta cercare[18].
Anche Pasolini, quando ripensa al suo Friuli, lo immagina come un «luogo paradisiaco», dove Casarsa diventa «un paese vergine», un rifugio «per salvarsi dalla grande decadenza e dalla corruzione, dallo sfascio del mondo»[19].
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Turoldo scrive: «La mia anima è la mia natura di friulano, di questa gente di frontiera; orgogliosi figli di una piccola patria, ricca soprattutto, allora, di villotte[20] struggenti e delicate […] dove sono narrate le infinite vicende dolorose e tristi di un popolo nobile, tanto povero quanto dignitoso»[21].
Anche Pasolini ama le «villotte»; per lui il friulano è la lingua che «rappresenta il“ritorno” al mondo materno. Un mondo autentico e puro, non ancora contaminato dagli ideali borghesi»[22].
Turoldo afferma qualcosa che può riferirsi anche a Pasolini: «La mia anima era mia madre, mio padre, quelle madri del Friuli vestite di nero, col fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento, uguali all’Addolorata sotto la croce. […] I poveri sono stati la causa della mia vocazione, i poveri sono il contenuto della mia fede, fonte di ispirazione della mia poesia e della mia predicazione. Per loro mi son fatto “voce”; sempre a sognare i grandi sogni di umanità e di giustizia. Sempre irrequieto e insoddisfatto; portando con me continuamente il senso della morte»[23]. E conclude affermando che i suoi confratelli lo chiamavano «Frate Focu»[24], e lui era felicissimo di sentirsi dentro il Cantico di Frate Sole di san Francesco.
Quando Turoldo confessa di essere un lettore fanatico di Dostoevskij e di Tolstoj, sente di dover ricordare anche Don Chisciotte, «un libro che può dirla lunga sul mio conto […], per quello che sono e per le lotte che ho ingaggiato sia in ordine alla Chiesa che alla società». Poi conclude: «E non a caso, fra i contemporanei, ho coltivato una speciale amicizia per Pier Paolo Pasolini che ritengo uno dei più incidenti testimoni di questa nostra “perduta civiltà”»[25].
La religiosità di Turoldo e di Pasolini
Dopo aver indagato a fondo le Scritture e dopo aver composto migliaia di inni sacri – inni che si usano ancora nel Breviario –, Turoldo scrive: «Il [tuo] volto ho cercato con la mente e con il cuore, ma non sono mai riuscito a dargli una figura e una immagine sicura. I miei maestri son quelli che dopo aver tanto cercato (Agostino, Pascal, Kierkegaard) sanno di non aver trovato nulla»[26]. È una confessione: l’incapacità di comunicare chi è Dio, di poterlo condividere con altri. E Turoldo lo dice in poesia, senza alcuna retorica: Fratello ateo, nobilmente pensoso, / alla ricerca di un Dio che non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre / la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso / il Nudo essere / e là / dove la parola muore / abbia fine il nostro cammino[27]. Il fratello ateo è l’amico Pasolini, con cui Turoldo si rispecchia in modo drammatico, e spiega: «Andrei molto adagio a parlare dell’ateismo di Pasolini, poche persone erano così religiosamente tormentate come Pasolini. Egli, nonostante la sua strafottenza, non aveva neanche mai accettato la sua condizione fisiologica che sappiamo e quindi era un uomo che viveva la sua tragedia fino in fondo; e quando uno vive la sua tragedia così, non è assolutamente da computarsi come ateo»[28]. Poi incalza: «Non vorrei con questo fare politica di annessione e dire che Pasolini era un cattolico, un cristiano. No. È un essere religioso anche lui e con una fame di assoluto come pochi io ho conosciuto nella mia vita. […] Pasolini non può non credere: egli è una proiezione ancestrale di sua madre. […] E sua madre è popolo, è umanità concepita nata impastata cristiana»[29].
In altre parole, Turoldo «caccia il suo Dio nel territorio della società, si isola per pregare e meditare certamente, ma deve cercarlo negli occhi della gente»[30]. Dio è nell’intimo dell’uomo, è presente nella vita di tutti, nel dramma di ogni persona. Insomma, per Turoldo la relazione con Dio è una lotta, un corpo a corpo da cui si esce sempre perdenti, perché Dio è il diverso, l’imprevedibile, colui che è sempre nuovo, l’inaccessibile che ti sorprende. Per usare una espressione di Giorgio Luzzi, ma anche di Luigi Santucci, si tratta di una «teomachia», una battaglia con Dio. Questo forse è il tema più imponente di tutta la poesia turoldiana[31].
Ma come si può definire il Signore per Turoldo? Questo è il tema di una sua poesia, Cristo, mia dolce rovina[32].È una contraddizione, uno scandaloso ossimoro. Eppure, Cristo è venuto a portare la spada, ad accendere il fuoco, a vincere la mediocrità, a rovesciare i tavoli dei mercanti del tempio, a rovinare la falsa pace degli uomini. Tutto ciò tocca la vita dei discepoli, i suoi profeti. Chi è allora il profeta? Colui che sa denunciare il presente, che sceglie sempre l’umano contro il disumano; è l’uomo che non si mimetizza con il potere, mai adulatore, mai succube, che avanza per santità ostinata.
Come Giobbe, come Geremia, Turoldo arriva a contestare Dio, ma non per il proprio dolore, bensì per il male che distrugge il mondo. Egli chiama Dio a intervenire dove ci sono le prepotenze e gli abusi, dove il potere uccide gli uomini, dove l’innocente paga per tutti, dove il dolore è un mistero infinito: Credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! Ma è al venerdì santo / quando tu non c’eri lassù / quando non una eco risponde / al suo alto grido / e a stento il Nulla dà forma / alla tua assenza[33]. Il Cristo di Turoldo è il Gesù del Venerdì Santo, sulla croce, che diventa nulla per essere servitore, che muore per salvare, che dà la vita perché si possa risorgere.
«La religione del mio tempo»
Si potrebbe dire che analoga è la ricerca religiosa di Pasolini: Tu non vuoi il canto ma solo la fedeltà, / tu pretendi il digiuno e io lo temo, / tu pretendi l’oblio e io invece tremo solo di ricordi. / Ecco perché la luce tua che è in me / a te non mi conduce[34]. Singolareè la luce tua che a te non mi conduce: è l’esperienza di chi non sa se crede o non crede, perché – commenta Turoldo – «altro è credere, altro è credere di credere»[35]. Chi ha la certezza della propria fede? La fede è un dono di Dio, ma deve essere accolta. È quanto Pasolini sa cogliere: tu vuoi la fedeltà… ecco l’accoglienza; tu vuoi il digiuno, ma io lo temo; tu pretendi l’oblio, tu esigi che dimentichiamo le cose del mondo che ci separano da te, e invece siamo pieni di ricordi, di attaccamenti, di schiavitù inutili, difficili da sradicare, di pesi da cui non riusciamo a liberarci.
Si possono accostare alla religiosità di Pasolini due sue raccolte di poesie: L’usignolo della Chiesa cattolica (1958) e La religione del mio tempo (1961). La prima raccolta vienescritta quasi contemporaneamente a Le ceneri di Gramsci (del 1957), in cui Pasolini aderisce al pensiero di Gramsci e al marxismo, ma non vede nelle borgate romane quel proletariato ideale che ha una coscienza di classe, pronta alla rivoluzione.
L’usignolo della Chiesa cattolica esprime il rimpianto per la vita perduta, il Friuli del mondo contadino con la sua religiosità semplice e autentica, «un profumo»: è l’Usignolo del materno Friuli, dolceodorante della Chiesa cattolica[36]. Ma qui ne sancisce la morte: E con lui è morta una terra arrisa / da religiosa luce, col suo nitore / contadino di campi e casolari; / è morta una madre ch’è mitezza e candore. […] Ed è morta un’epoca della nostra esistenza[37].
Accanto al rimpianto, c’è la delusione per la Chiesa, che – a suo parere – non trasmette più quella religiosità antica e autentica, forse troppo scomoda. Su tutto prevale la poesia, tra l’invocazione del divino e il suo rifiuto, tra il senso del peccato e il desiderio di libertà. Qui la confessione della propria omosessualità rivela una drammatica sofferenza interiore, perché, da un lato, Pasolini è legato alla fede cristiana e quindi al bisogno di comprensione, di perdono e di redenzione; dall’altro, si sente rifiutato da una Chiesa istituzionale e formale. Scrive ne «Il fresco sguardo»: Nessuno mi sentiva / impazzire, all’alba, / desto da sogni / che un MAI malediva. / Ma l’odiata purezza / e i peccati sognati / erano il fresco sguardo / dei miei occhi bruciati[38]. Il poeta non nasconde il sogno di un’altra Chiesa, meno autoritaria, quasi profezia del Concilio Vaticano II, che fa sperare in tempi nuovi.
Benché La religione del mio tempo abbia questo titolo, la raccolta tratta del rapporto tra poesia e scelte di vita. Il testo ha una prima parte dal titolo La ricchezza, una seconda incentrata sulla religiosità, e una terza che riunisce le Poesie incivili. Ma il titolo non è casuale, perché La religione del mio tempo è la denuncia del poeta contro i cristiani che si ritengono credenti ma non testimoniano la loro fede. Non c’è dubbio che l’Italia, da un punto di vista religioso, si sia progressivamente allontanata dal Vangelo e la nuova religione laica sia frutto di tale deriva. Eppure, Pasolini sa tradurla in poesia vera, con una fisionomia definita. Per dare un nome a tale religiosità, si richiama al marxismo, ma nello stesso tempo sembra allontanarsene: Per essere poeti, bisogna avere molto tempo: / ore e ore di solitudine […] / Io tempo ormai ne ho poco: per colpa della morte / che viene avanti, al tramonto della gioventù. / Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano, / che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace[39]. Sono cose vere, ma la nostalgia della solitudine non si addice a chi fa professione di marxismo.
Per Pasolini, l’ispirazione emerge dalla miseria del sottoproletariato, quello di innumerevoli vite che si aggirano nei mucchi di tuguri, / nei luoghi sconfinati dove credi / che la città finisce, e dove invece / ricomincia, nemica, ricomincia / per migliaia di volte, con ponti / e labirinti, cantieri e sterri / dietro mareggiate di grattacieli, / che coprono interi orizzonti[40]. Si tratta di un’esistenza che va avanti giorno dopo giorno, senza mai arrivare a una vera coscienza di libertà. Pasolini la confronta con la sua coscienza e con la libertà che segna la poesia e la riflessione intellettuale: Ma in questo mondo che non possiede / nemmeno la coscienza della miseria, / allegro, duro, senza nessuna fede, / io ero ricco, possedevo![41].
Egli assimila al sottoproletariato anche le persone a cui la salute, il denaro, la facilità di vita hanno dato un cuore arrogante e hanno cancellato il bisogno di Dio. In definitiva, La religione del mio tempo unisce chi è povero perché non ha davvero nulla e chi è povero per il troppo benessere e per il vuoto che ne deriva. Pasolini vuole stabilire una solidarietà tra queste due zone diverse dell’animo umano. Tuttavia, la vera fede di questa umanità, se così si può dire, va ricercata tra i ripiegamenti del sesso, dove il sesso non è solo una semplice consolazione della miseria[42], ma diviene paradossalmente illusione di libertà e falsa pienezza di vita.
Pasolini e la Chiesa
La religione del mio tempo ha pagine vere e intense, segnate dal contrasto con la Chiesa. In questa raccolta l’autore si rivolge soprattutto contro il Papa, che muore senza essersi accorto del povero che vive miseramente per strada vicino al Vaticano ed è travolto da un tram. Di qui l’accusa specifica a Pio XII per il bene che lui e i cristiani dovrebbero fare e non fanno: Peccare non significa fare il male: / non fare il bene questo significa peccare[43].
Podcast | IL PREZZO DELLA DISUGUAGLIANZA
Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.
Questo atteggiamento però nasconde qualcosa: è il rovesciamento dell’amore che il poeta sente di non aver ricevuto da nessuno, con la sola eccezione della madre. Un’eccezione imbarazzante, non facilmente irrisolta, tanto che ne La religione del mio tempo l’unico posto che trova per la madre è nell’Appendice, che tuttavia egli qualifica con un nome splendido: Una luce[44].
Per capire il senso del sacro che emerge dalla poetica di Pasolini, va colta la particolare sensibilità nei confronti della figura di Cristo, quasi una forza che lo fa immedesimare in lui. Singolare è la poesia «La Crocifissione»: Noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna, tra le pupille / limpide di gioia feroce, / scoprendo all’ironia le stille / del sangue dal petto ai ginocchi, / miti, ridicoli, tremando / d’intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco, / per testimoniare lo scandalo[45].
La poesia e il cinema
Sia Pasolini sia Turoldo dalla poesia approdano al cinema. Ricca e complessa la produzione dell’uno, una breve parentesi per l’altro: un solo film, Gli ultimi, uscito nel 1962. L’idea nasce a Turoldo da un racconto, Ma io non ero un fanciullo[46], e il film può definirsi interamente suo. Suo è il soggetto, sua la sceneggiatura, suo l’impegno estenuante accanto a Vito Pandolfi, il regista, sul set prima, e poi a Roma per il montaggio. Film interamente friulano sia nell’ambientazione sia nel cast, scelto nella gente di Coderno, con la sola eccezione di un bambino della comunità di Nomadelfia. Purtroppo questo film fu un fallimento sul piano commerciale, tanto da uscirne in passivo. Favorevole invece fu il parere della critica. Tra le tante voci, a noi interessa il giudizio positivo di Pasolini, perché costituisce un segno di attenzione, di amicizia, di solidarietà: egli parla di «assoluta severità estetica», di linguaggio di verità, di passione per il Friuli[47].
Il film Il Vangelo secondo Matteo è del 1964 e segna un primo contatto documentato tra Turoldo e Pasolini in occasione della sua proiezione al Centro culturale San Fedele, il 23 ottobre 1964. La dedica può essere una chiave di lettura: «Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII».
Il Vangelo secondo Matteo ha una storia non semplice, frutto di una appassionata ricerca spirituale del regista. Leggendo il testo di Matteo, Pasolini ha l’impressione di incontrare «quel Cristo mite nel cuore, ma “mai” nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo»[48]. Insomma, un Cristo che si fa verità e contraddice radicalmente la vita dell’uomo moderno, fatta di compromessi, di conformismo, di brutalità, di mancanza di responsabilità per il bene comune[49].
Prima di girare il film, Pasolini visita Israele, in particolare la Galilea, e ne torna deluso dal fatto che in quelle regioni, brulle e desolate, nulla parla di Cristo. Tuttavia è confortato in una sua convinzione di fondo: «Le cose, quanto più sono piccole e umili, tanto più sono profonde e belle»[50], in consonanza piena con san Paolo: «La potenza di Dio si rivela pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Tanto da confessare: «Mi sono accorto che questa mia idea è ancora più vera di quanto io immaginassi»[51].
L’originalità del film è dovuta all’assoluta fedeltà con cui il testo è tradotto in immagini, esempio unico nelle produzioni di soggetto biblico[52]. Il Vangelo secondo Matteo rappresenta il punto di arrivo di una ricerca poetica nel linguaggio cinematografico: letteratura, pittura e musica concorrono a creare un «cinema di poesia»[53]. Non è un caso che il giovane Pier Paolo, a Bologna, sia stato allievo di Roberto Longhi[54].
La scelta non facile del protagonista ha una storia singolare. Enrique Irazoqui, un ragazzo spagnolo di 19 anni, vuole conoscere Pasolini per coinvolgerlo nella lotta antifranchista. Quando lo incontra, il regista è alla ricerca di un volto per rappresentare Gesù e, appena lo vede, ha una folgorazione: è lui![55] Alla richiesta del regista, il giovane risponde che non ha alcun interesse per il cinema, e tanto meno desidera figurare in un film: l’unica cosa che gli sta a cuore è il rovesciamento del potere di Franco. Per di più, non ha interesse a dar voce a una Chiesa che egli detesta in quanto complice di un regime di oppressione. Ma un amico che è con lui lo convince ad accettare: devolverà i proventi del film per la causa della rivoluzione. Il problema ora è questo: come rappresentare fedelmente la figura di Cristo.
Il regista tiene conto delle motivazioni del ragazzo. Quando dovrà parlare di scribi e farisei, gli dirà di pensare alla borghesia franchista contro cui ha ingaggiato la lotta clandestina. «Il Cristo che ho imparato ad amare – dirà più tardi il protagonista – è proprio quello del Discorso della montagna, il centro del film»[56]. Ma ciò che più lo meraviglia è «l’impressione che Pasolini volesse essere al mio posto mentre interpretavo Gesù. […] Era innamorato del Vangelo, nel quale vedeva incarnarsi quella “bellezza assoluta” di cui ha parlato in una lettera a Bini», il produttore del film. In quella lettera, il regista afferma: «Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo»[57]. Per Pasolini, è fondamentale questa fede nella bellezza, traccia dell’infinito, dell’assoluto, come apertura a ciò che è oltre, l’inconoscibile, il mistero.
Alla sua uscita, il film suscitò scandalo tra i benpensanti, mentre i Padri conciliari, a cui fu presentato in anteprima durante una pausa del Vaticano II, lo apprezzarono e lo applaudirono. Il film fu anche insignito del premio Ocic del Centro cattolico cinematografico. Pasolini, pur dichiarando di non essere credente, asserisce di aver voluto parlare, nel film, a nome di un ipotetico credente, di ciò che toccava l’intimo della propria coscienza[58].
Nonostante tutto questo, quando il film fu presentato alla stampa al Festival di Venezia nel 1964, fu organizzata, ad arte, una grande gazzarra contro il regista, per motivazioni facilmente intuibili. Pochi giorni dopo la presentazione del film a San Fedele, il Priore generale dei Serviti richiamò con durezza p. Turoldo: «A prescindere dal fatto che sia opportuno o meno che Ella si immischi in una polemica così pericolosa quale è quella relativa a Pasolini, mi vien riferito che Ella ne avrebbe addirittura prese le difese e le vengono attribuite le seguenti parole: “L’ateo ha coraggio ed è anch’egli un credente. L’ateismo è un aspetto nobile dell’uomo e non bisogna essere fanatici contro gli atei”»[59].
Turoldo non fa attendere la risposta: dice di aver fatto tutto in regola, secondo l’enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI, appunto secondo le indicazioni della Chiesa per il dialogo con i lontani. Afferma pure di essere pronto a rispondere di persona per non aver fatto nulla né contro la dottrina né contro lo spirito della Chiesa. Benché il Priore non si ritenesse soddisfatto della risposta, occorre dargli atto che difese il confratello di fronte al Sant’Uffizio e al cardinale Ottaviani, rassicurandolo sulla sua condotta sacerdotale e morale, sebbene ci fossero «intemperanze di espressione»[60]. Per Turoldo, era chiaro che si trattava di riproporre in primo piano la missione della Chiesa quale annunciatrice del Vangelo e quale segno vivo di salvezza per ogni persona.
In occasione della morte di Pasolini
Alla morte di Pasolini, nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, Turoldo scrisse due lettere aperte: una alla madre del poeta e l’altra alla madre del giovane assassino. Fu l’unico sacerdote a officiare il funerale, a Casarsa, dopo quello laico svoltosi a Roma. Definiva l’amico «un “umile” figlio dell’“umile” Friuli, in “esilio” in una città “violenta” e disumana, da ricondurre ora “a casa” dalla madre che assurgeva a simbolo della sua “vera patria” e “vera fede”»[61]. Le due lettere non furono pubblicate, perché rifiutate dal direttore del Corriere della Sera. Ma Turoldo lesse, nell’omelia della Messa, come orazione funebre, la lettera alla madre di Pasolini, che – non occorre ricordarlo – aveva svolto la parte della Madre di Gesù nel film Il Vangelo secondo Matteo.
Qualche anno dopo, nel 1987, Turoldo stesso rievoca l’amicizia con Pasolini. Gli incontri personali non erano stati molti, ma i due si erano sempre stimati da lontano. Turoldo faceva un ritratto vivo di Pasolini: in lui vedeva il profeta «“che sapeva benissimo definire le categorie emergenti della nuova coscienza individuale e nazionale” attraverso immagini e formule come “gente del Palazzo”, scomparsa delle “lucciole”, “questione morale”, portate “a uno stato incandescente” negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane; il “missionario” che avvertiva l’urgenza di “denunciare il male”, che sognava “la liberazione dal peccato” perché per primo “grande peccatore”, segnato da un senso “tragico” del negativo; “l’anima religiosa” di “credente senza fede”, inquieto “perché non trovava assolutamente il punto folgorante e totalmente persuasivo di tutte le cose che cercava”»[62]. Si tratta dunque di una chiave di lettura assolutamente religiosa. Turoldo vede in Pasolini una ricerca del senso e del valore della vita che glielo rende fratello: è la sua stessa ricerca. Il servita dichiara il valore profetico della parola dell’amico e ne apprezza la capacità di resistenza alla deriva in atto nella società.
In tale contesto, vanno ricordate le parole con cui l’arcivescovo di Milano, card. Carlo Maria Martini, concluse l’omelia al funerale di p. Turoldo: era il «poeta che aveva sentito il silenzio di Dio, l’abbandono dell’uomo, l’urlo della disperazione presente in ciascuno di noi. […] Era poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini»[63]. La biografia di p. Turoldo si può riassumere così in una vita spesa per il bene dell’uomo. Proprio L’uomo è il nome emblematico di una testata clandestina da lui ideata nella Milano della Resistenza e poi nella Firenze di Giorgio La Pira, guadagnando molti consensi e suscitando altrettanti dissensi.
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[1] «Intervista» di Antonio Devetag e Romano Remigio, ottobre 1989, in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini. Due anime friulane, Rovato (Bs), Aldebaran Editions, 2023, 153.
[2] Cfr la nota precedente. Il volume fa seguito a un documentario del 2022, Stare al mondo: Turoldo e Pasolini, apparso nel trentesimo anniversario della morte di p. Turoldo (1916-1992) e nel centenario della nascita di Pasolini (1922-1975).
[3] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Milano, Mondadori, 2001, 97.
[4] Ivi.
[5] Cfr D. M. Turoldo, Anche Dio è infelice, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1991.
[6] Id., Io non ho mani, Milano, Bompiani, 1948, 55.
[7] Id., «Amore e morte», in Id., O sensi miei… Poesie 1948-1988, Milano, Rizzoli, 1990, 145.
[8] Id., «Vicenda», in Id., Io non ho mani, cit., 41.
[9] Cfr L. Santucci, «Turoldo David Maria», in Dizionario biografico dei friulani: cfr dizionariobiograficodeifriulan…
[10] M. Garzonio, «Il racconto di un uomo della speranza», in D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici…, cit., 214.
[11] Ivi, 215.
[12] Ivi.
[13] P. P. Pasolini, Poesie a Casarsa, Bologna, Mario Landi, 1942.
[14] Id., Un cinema di poesia, Roma, s.i.e. e d., 6.
[15] M. Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992), Brescia, Morcelliana, 2016, 20; D. M. Turoldo, Lo scandalo della speranza, Napoli, G. A. Benvenuto, 1978, 16.
[16] D. M. Turoldo – A. Merini – G. Turoldo Malnis, Mia infanzia d’oro, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1992, 33.
[17] I disegni si trovano nell’edizionefuori commercio del 1991.
[18] D. M. Turoldo – A. Merini – G. Turoldo Malnis, Mia infanzia d’oro, cit., 39.
[19] Cfr R. Beano, «Due voci, una terra», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 126.
[20] La «villotta» è un canto popolare polifonico; il nome deriva forse da «veglia», perché questi canti venivano fatti intorno al fuoco, nelle serate importanti.
[21] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.
[22] D. Clapasson, «La seduzione del nulla», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 92.
[23] D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.
[24] Ivi.
[25] Ivi, 47.
[26] Id., Il dramma è Dio. Il divino, la fede, la poesia, Milano, Fabbri, 1997, 150-153.
[27] E. Ronchi, «Turoldo e la lotta con Dio», in AA.VV., David Maria Turoldo e Pier Paolo Pasolini…, cit., 39.
[28] D. M. Turoldo, «La mia lettura di Pasolini», ivi, 153.
[29] R. Beano, «Due voci, una terra», ivi, 126.
[30] Ivi, 125.
[31] Cfr L. Santucci, «Prefazione», in D. M. Turoldo, Poesie, Vicenza, Neri Pozza, 1971, XVI.
[32] E. Ronchi, «Turoldo e la lotta con Dio», cit., 40 s.
[33] Ivi, 42.
[34] Ivi, 39.
[35] Ivi.
[36] P. P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961, 103 s.
[37] Ivi, 104.
[38] Id., L’usignolo della Chiesa Cattolica, Milano, Longanesi, 1958, 81.
[39] Id., La religione del mio tempo, cit., 116.
[40] Ivi, 42.
[41] Ivi, 26.
[42] Ivi, 42.
[43] Ivi, 125.
[44] Ivi, 105.
[45] Id., L’usignolo della Chiesa Cattolica, cit., 114.
[46] Cfr D. M. Turoldo, La mia vita per gli amici, cit., 35.
[47] Cfr M. Maraviglia, David Maria Turoldo…, cit., 266 e nota 69.
[48] P. P. Pasolini, «Il Vangelo di Matteo. Una carica di vitalità», in Id., Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Corriere della Sera, 2015, 23.
[49] Cfr V. Fantuzzi, «Il Vangelo secondo Matteo», in Id., Pasolini, Roma, La Civiltà Cattolica, 2022, 43.
[50] Ivi, 37.
[51] Ivi, 49.
[52] In tal senso, va menzionata anche la sceneggiatura di un film su san Paolo, che non ha visto la luce, ma che riprende quella fedeltà al testo biblico trasferito in uno scenario moderno: cfr P. P. Pasolini, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977.
[53] Cfr Id., Un cinema di poesia, cit., nel frontespizio.
[54] Cfr il capolavoro di R. Longhi, Caravaggio, Roma, Editori Riuniti, 1968.
[55] Cfr V. Fantuzzi, «Enrique Irazoqui: un ragazzo che non voleva essere Gesù», in Id., Pasolini, cit., 90.
[56] Ivi, 92.
[57] Ivi, 99.
[58] Cfr V. Fantuzzi, «Pasolini sulla via del Vangelo», ivi, 74.
[59] M. Maraviglia, David Maria Turoldo…, cit., 293.
[60] Ivi.
[61] Ivi, 359.
[62] Ivi, 359 s.
[63] Ivi, 417.
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