Gaza: la guerra e la crisi umanitaria
Avviso contenuto: Un bambino a Gaza tra le macerie di un edificio con una coperta in mano. La strategia israeliana della «terra bruciata» Alcuni mesi fa, la speranza che molti nutrivano, soprattutto in Occidente, era che con l’inizio del Ramadan sarebbe entrato in vigore i
La strategia israeliana della «terra bruciata»
Alcuni mesi fa, la speranza che molti nutrivano, soprattutto in Occidente, era che con l’inizio del Ramadan sarebbe entrato in vigore il cessare il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas, come i negoziatori riuniti prima a Parigi e poi a Doha auspicavano, in modo da dare sollievo a una popolazione, quella della Striscia di Gaza, provata da più di sei mesi di combattimenti, con oltre 34.000 morti (la maggior parte civili) e lo spettro della fame ormai diventato realtà[1]. Dopo la scadenza prevista, il governo di Tel Aviv, come aveva minacciato in precedenza, si sentiva autorizzato a invadere l’ultimo fazzoletto di terra non ancora occupato, cioè a entrare con il suo esercito nella cittadina di Rafah, dove sono accampati più di un milione di palestinesi, fuggiti dalle zone devastate dalla guerra. L’obiettivo era quello di sbaragliare gli ultimi quattro battaglioni di Hamas ancora attivi e di prendere vivo o morto Yanya Sinwar, l’ideatore del terribile attacco contro gli israeliani del 7 ottobre 2023, e i suoi collaboratori.
In ogni caso, le trattative tra Doha, il Cairo ed Amman – sotto la supervisione degli Usa – sono continuate ancora freneticamente, anche in assenza di un tavolo ufficiale: la proposta era quella di una tregua di sei settimane e della liberazione di un certo numero di prigionieri palestinesi, in cambio della liberazione di 40 ostaggi israeliani. Le richieste delle due parti erano, però, inconciliabili. Hamas chiedeva un cessate il fuoco definitivo e il ritiro dell’esercito dalla Striscia, risparmiando così la propria dirigenza, in cambio della liberazione degli ostaggi (che sarebbero ormai un centinaio). Il governo israeliano, da parte sua, si opponeva a una tregua prolungata, per la paura che i miliziani si riorganizzassero.
La strategia militare di fare «terra bruciata» – anche se finalizzata a eliminare soltanto Hamas –, portata avanti in questi ultimi tempi da Netanyahu, che ha provocato la morte di un numero eccessivamente alto di civili, appare alla maggior parte dei governi occidentali e a molti osservatori internazionali ingiustificata, sproporzionata, dannosa e anche inutile. Il presidente degli Usa, Joe Biden, che all’inizio aveva sostenuto l’azione del governo israeliano contro Hamas, il 10 marzo ha dichiarato alla tv Msnbc che «Netanyahu sta facendo più male che bene a Israele». Ha poi detto che «l’invasione di Rafah è una linea rossa che non va superata»[2], facendo riferimento ai progetti di Netanyahu di prendere la città di confine con l’Egitto. Il leader israeliano si è difeso dicendo di portare avanti una guerra nell’interesse del suo Paese. Ha poi affermato che gran parte della popolazione sostiene «le azioni che stiamo intraprendendo contro i rimanenti battaglioni di Hamas»[3].
Il vero problema per l’amministrazione statunitense è che Netanyahu non ha un vero progetto per il futuro di Gaza, cioè su come amministrare la Striscia. Per il leader israeliano, l’importante è, per il momento, raggiungere il risultato di guerra che si era proposto, ossia sradicare Hamas, e in questo modo conquistarsi un posto nella storia e possibilmente far dimenticare i suoi guai giudiziari. Il recente attacco dell’Iran al territorio israeliano ha in qualche modo riabilitato, sotto il profilo internazionale, la figura di Netanyahu, restituendole, in extremis, una certa credibilità politica, seppure per qualche ora. Ma tutto è ancora in divenire. In ogni caso, difendere Israele da un attacco più consistente e serio dell’Iran è una delle priorità della politica estera americana, e questo a prescindere da Gaza.
Gaza e l’emergenza umanitaria
Il problema che in questo periodo è sotto i riflettori della stampa internazionale è quello dell’emergenza umanitaria, cioè degli aiuti alimentari e medici, a una popolazione da mesi stremata dalla fame. Di fatto le concessioni dell’esercito sugli ingressi per i convogli di cibo, acqua e medicinali arrivavano dopo settimane – se non mesi – di pressioni della comunità internazionale. A tale riguardo, il 13 marzo il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha ripetuto che «Israele deve fare degli aiuti e della protezione dei civili la priorità più importante»[4]. Il caos è tale che anche le consegne più tempestive rischiano di non poter essere fatte. La Gran Bretagna ha interrotto i lanci di aiuti dagli aerei, come da giorni facevano gli statunitensi, per il timore di colpire gli abitanti, cosa che qualche volta di fatto è accaduta.
A causa delle pressioni continue degli Usa nei confronti del governo israeliano in materia di aiuti alimentari da assicurare a tutti i costi, il 14 marzo un portavoce militare aveva dichiarato che a breve termine Israele avrebbe inondato la Striscia di Gaza di aiuti umanitari, cioè di cibo, medicinali e tutti i generi di prima necessità, cosa mai avvenuta[5]. Restava aperto il problema della distribuzione, anche perché non si voleva che tali beni venissero incamerati dai funzionari di Hamas o destinati al mercato nero. Per sostenere questo difficile compito, funzionari israeliani hanno contattato, oltre che le agenzie umanitarie presenti sul territorio, i capifamiglia, in modo da assicurare una distribuzione più equa. Pare che alcuni di questi capifamiglia che si erano dimostrati disponibili siano stati uccisi da Hamas, con l’accusa di collaborare con il nemico.
Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il 7 marzo, Biden, scosso dalla situazione umanitaria a Gaza – ma anche per ingraziarsi l’elettorato musulmano che vive negli Stati Uniti –, ha annunciato che le forze armate statunitensi avrebbero costruito un molo sulla costa mediterranea di Gaza[6]. Gli aiuti, è stato precisato, sarebbero stati caricati sulle navi a Cipro, dove i funzionari israeliani li avrebbero controllati, per evitare che merci proibite arrivassero a destinazione. La rotta marittima potrebbe portare ogni giorno a Gaza migliaia di tonnellate di aiuti, l’equivalente di circa 200 camion. All’iniziativa hanno poi partecipato sia i Paesi dell’Ue sia gli Stati del Golfo. Ma essa potrà entrare pienamente in funzione soltanto in estate[7].
I funzionari ciprioti avevano promosso per mesi l’idea di un corridoio umanitario di questo tipo. Adesso il progetto ha preso forma, anche se ci vorrà del tempo per costruire il molo galleggiante. Secondo l’Onu, centinaia di migliaia di persone sono a rischio carestia, soprattutto nella zona Nord, dove la popolazione è quasi completamente tagliata fuori dagli aiuti. Il World Food Programme afferma che Gaza ha bisogno ogni giorno di più di 300 camion di generi di prima necessità. Le spedizioni attraverso i due valichi di frontiera terrestri – quello di Rafah e quello di Karem Shalon – sono molto inferiori. Da qui la necessità di portare cibo e medicinali per mezzo di navi capienti. Secondo gli analisti, il problema però non è solo quello di recare gli aiuti alimentari a Gaza, ma di distribuirli nel territorio[8]. Inoltre, alcune scorte alimentari sono state distrutte dalle bombe, proprio per affamare la popolazione.
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Intanto, mentre si attendono aiuti, molti bambini sono morti per disidratazione e per malnutrizione, e la maggior parte delle persone si alimenta con orzo, mais e varie erbe del luogo[9]. Un report presentato il 19 marzo da 15 organizzazioni umanitarie internazionali, coordinate dall’Onu, ha affermato che a Gaza è in atto una crisi umanitaria senza precedenti. La carestia sta avanzando a una velocità mai vista: a dicembre i palestinesi denutriti erano 300.000, ora sono più che raddoppiati, mentre quelli che faticano a nutrirsi sono circa un milione. «Le restrizioni israeliane sull’ingresso di aiuti a Gaza – afferma l’ufficio dell’Onu per i diritti umani – potrebbero configurarsi come crimini di guerra»[10].
Una settimana prima, un incidente aveva scosso la comunità internazionale: più di 100 persone erano state uccise mentre cercavano di assaltare dei camion carichi di cibo, che stavano risalendo dal valico di Kerem Shalom. Sull’accaduto le testimonianze erano abbastanza discordi. Secondo i militari israeliani, le morti sarebbero state causate dal parapiglia: alcune persone sarebbero state travolte dai camion, altre dalla gente che cercava di salire sui tir o di fuggire dalla calca. Secondo Hamas, sarebbero state le truppe israeliane ad aver sparato sui civili e ad averli bombardati con l’artiglieria[11].
Intanto, su pressione statunitense, Netanyahu ha iniziato a cedere sul tema degli aiuti umanitari: il 7 aprile è stato aperto il valico di Erez a nord della Striscia, e alcune centinaia di camion carichi di cibo hanno iniziato a entrare quotidianamente. Questo, però, non rivolve il problema della carestia.
Biden in disaccordo con Netanyahu su Rafah
Dal punto di vista politico, il recente disaccordo tra il governo di Netanyahu e quello statunitense concerne due questioni molti importanti: l’occupazione militare di Rafah e la messa a punto di un progetto, per il dopoguerra, per l’amministrazione di Gaza e in generale per la risoluzione dell’annoso problema palestinese.
Per quanto riguarda la prima questione, il progetto strategico del leader israeliano, come si è detto, è quello di portare avanti «l’operazione su Rafah», per sconfiggere definitivamente Hamas e prendere i suoi capi. E ciò a prescindere da una possibile tregua nei combattimenti, in vista di uno scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, e dalla protezione di un milione di profughi accampati nella città di confine. Chi critica l’invasione di Rafah, dice Netanyahu, in realtà è contro la sconfitta dei terroristi e non vuole la sicurezza di Israele. L’amministrazione Biden si è detta ormai stanca di questi falsi argomenti: si può volere la sconfitta di Hamas e allo stesso tempo essere contro l’invasione militare di Rafah. L’operazione bellica, ha affermato Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, in una conferenza stampa, il 18 marzo, sarebbe un errore, porterebbe a ulteriori morti tra i civili palestinesi, aggraverebbe la crisi umanitaria, aumenterebbe il livello di anarchia dentro la Striscia e accrescerebbe l’isolamento internazionale di Israele. «Gli stessi obiettivi possono essere raggiunti con altri mezzi»[12].
Intanto, il 25 marzo il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato – con 14 sì e con l’astensione degli Stati Uniti – una risoluzione che metteva in causa Israele. Un fatto di tale portata non era mai avvenuto prima: gli Usa, infatti, si sono sempre opposti, anche recentemente, a tutti i provvedimenti di censura nei confronti dello Stato di Israele. Il testo, a lungo dibattuto e corretto, chiedeva «un cessate il fuoco immediato per il mese di Ramadan che conducesse poi ad uno durevole e sostenibile», e «il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi»[13]. Riguardo alla crisi umanitaria presente a Gaza, sottolineava «l’urgente necessità di espandere il flusso di assistenza umanitaria e rafforzare la protezione dei civili sull’intera Striscia»[14]. Il testo non presentava né censure né ultimatum nei confronti dello Stato israeliano, ma ne intaccava il prestigio e il buon nome nella comunità internazionale. Nel mondo musulmano la risoluzione è stata salutata come una vittoria. Netanyahu ha criticato il mancato veto degli Usa, che ha considerato un dietrofront rispetto alle posizioni precedenti di Washington. Biden, ormai impegnato nella campagna presidenziale, deve fare i conti anche con l’opinione pubblica interna e conquistarsi il voto dei musulmani che, in alcuni «Stati in bilico», sono importanti.
Circa l’amministrazione di Gaza e la risoluzione del problema palestinese, la questione è più difficile e complicata. Negli ultimi mesi, Biden in diverse circostanze ha affermato che, «quando questa crisi sarà finita, dovrà esserci una visione di ciò che verrà dopo, e a nostro avviso deve essere una soluzione a due Stati»[15], uno israeliano e l’altro palestinese. Di questa opinione sono anche i maggiori leader occidentali. Ma il governo israeliano attuale non sembra essere di questo parere. Netanyahu vorrebbe conservare anche in seguito il controllo su Gaza, per motivi di sicurezza nazionale, e continuare a estendere gli insediamenti dei coloni nella Cisgiordania. L’estrema destra, presente nell’attuale governo, spera che una vittoria definitiva su Hamas possa offrire la possibilità di occupare Gaza e ricostruire gli insediamenti ebraici smantellati nel 2005.
Biden spera, invece, che la fine della guerra offra la possibilità di rilanciare il comatoso processo di pace israelo-palestinese, interrotto nel 2014. Per ora questo è solo un sogno lontano, tanto più che i generali israeliani si aspettano mesi di combattimenti prima di iniziare un qualsiasi processo di pacificazione. I maggiori Paesi occidentali – Stati Uniti in primis – sperano alla fine di affidare il controllo su Gaza all’Autorità palestinese che governa la Cisgiordania, probabilmente con l’aiuto di una «forza di mantenimento» – sotto il controllo dell’Onu –, incaricata di favorire la transizione. Naturalmente si parla di un’Autorità palestinese riformata e al momento giusto legittimata da un voto popolare. A marzo, il presidente palestinese Abu Mazen ha scelto il nuovo primo ministro nella persona di Mohammad Mustafa, un economista che ha lavorato alla Banca mondiale. Sembra che tale nomina, peraltro inaspettata, sia un tentativo di riforma e di ammodernamento dell’Autorità nazionale palestinese, al fine di ridarle una nuova legittimità.
Sul fronte di guerra, il 7 aprile le truppe della 98a divisione – circa 15.000 soldati – hanno lasciato l’area che si trova a sud di Gaza, acquartierandosi poco lontano dal confine. Il che vuol dire che in questo momento in tutta la Striscia sono rimaste soltanto unità combattenti della brigata Nahal, concentrate a nord di Gaza City. La decisione è arrivata dopo settimane di pressione degli Usa e di fronte a una crescente minaccia di rappresaglia da parte dell’Iran, dopo l’uccisione di sette militari iraniani che si trovavano in una sede consolare di Damasco – tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Quds –, operata da droni israeliani[16].
La spiegazione ufficiale del ritiro, così come l’ha presentata il comandante in capo dell’esercito, spegne la speranza di vedere a breve termine la fine di un’occupazione che ha stremato la popolazione[17]. Non è, però, da escludersi la possibilità che l’esercito, dopo una breve pausa, entri, come minacciato, a Rafah, unico luogo della Striscia non ancora calpestato dagli stivali israeliani. Biden ha fatto capire di non essere d’accordo con tale soluzione, ma il governo di Tel Aviv non intende recedere su questo punto[18]. Il problema è come proteggere i civili presenti nel territorio, molti dei quali si sono spostati nella cittadina di Khan Yunis. Insomma, la guerra continua, e al momento, nonostante la diplomazia stia lavorando, non si vede una via di uscita. La situazione si è ulteriormente complicata con il minaccioso attacco sferrato il 13 aprile dall’Iran nei confronti dello Stato israeliano.
L’Iran attacca Israele
Nella notte del 13 aprile, più di 300 tra droni e missili iraniani sono stati lanciati contro Israele. Dopo decenni di lotta contro Israele condotta per procura, questa è la prima volta che l’Iran ha attaccato il nemico dal suo stesso territorio. Un attacco che è stato ideato per fallire, soprattutto per la modalità con cui è stato condotto. Circa il 99% dei droni (o missili) lanciati contro Israele sono stati intercettati e distrutti. Molti di essi sono stati colpiti, durante il tragitto nei Paesi arabi, dai sistemi di difesa attivati dagli Usa, dall’Inghilterra e della Francia. Quelli atterrati hanno causato solo danni molto lievi. Secondo Biden, in questa occasione Israele ha dimostrato una notevole capacità di difendersi e di scoraggiare anche attacchi senza precedenti. Queste parole, in realtà, volevano convincere Tel Aviv a non rispondere all’attacco, evitando una escalation, che potrebbe incendiare l’intera regione. Gli Usa, infatti, non intendono in nessun modo intraprendere una guerra contro l’Iran, o sostenere Israele in una guerra contro gli ayatollah e i loro alleati.
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Secondo molti interpreti, questo attacco è stato per Teheran un grave errore strategico, che non lo avvantaggia per nulla nella sua contrapposizione a Israele[19]. Finora, infatti, l’Iran è stato uno dei maggiori beneficiari indiretti della guerra a Gaza. Le sue milizie per procura – Hezbollah, Houthi e altri – hanno dato un’incredibile dimostrazione di forza in tutta la regione. Allo stesso tempo, l’Iran, nonostante il blocco navale sul Mar Rosso, era riuscito a mantenere buoni rapporti con la maggior parte dei Paesi arabi sunniti desiderosi di evitare nuovi conflitti. Nel frattempo Israele si andava sempre di più impantanando nel sud della Striscia, e gli Usa, pur in disaccordo su molti aspetti con il governo di Tel Aviv, sentivano il bisogno di difendersi, anche in patria, dall’accusa di armare Netanyahu. L’attacco iraniano del 13 aprile potrebbe aver vanificato questi guadagni e, sul piano internazionale, fatto passare l’idea dell’Iran come Paese aggressore, a tutto vantaggio di Israele.
Gli esperti sottolineano due punti critici di tale strategia. In primo luogo, questo attacco ha riunito gli Stati occidentali e quelli arabi sunniti in una sorta di «coalizione ibrida» a sostegno di Israele. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno messo da parte per qualche giorno le critiche nei confronti del governo Netanyahu per il modo con cui veniva condotta la guerra e sono venuti in soccorso del vecchio alleato. Anzi, hanno utilizzato i loro aerei da combattimento e i loro sistemi di difesa per abbattere i droni iraniani prima ancora che raggiungessero Israele.
In secondo luogo, questa azione bellica contro lo Stato di Israele ha avuto come conseguenza quella di far retrocedere, nell’agenda politica globale, la guerra di Gaza – per la quale l’Iran aveva agito –, portando in primo piano la crisi provocata dall’attacco iraniano, per scongiurare una temuta estensione del conflitto, e quindi una rovinosa guerra in Medio Oriente. Una settimana prima, gran parte dei Paesi occidentali e arabi erano uniti nella comune indignazione per lo spaventoso numero di vittime civili e l’aggravarsi della situazione umanitaria a Gaza. Alcuni Paesi addirittura pensavano di imporre restrizioni nella vendita di armi a Israele. Ma, da questo momento, la difficile situazione di Gaza diventa secondaria rispetto alla prospettiva di una guerra regionale più ampia.
Gli attacchi iraniani con droni e missili hanno causato pochi danni materiali, innescando però una rinnovata simpatia, sul piano internazionale, per Israele. «Eppure non è affatto chiaro se il Governo disfunzionale di Israele possa trarre vantaggio dall’errore dell’Iran mostrando moderazione, mantenendo gli alleati a bordo ed evitando una guerra totale che avrebbe conseguenze disastrose per l’economia mondiale e per decine di milioni di persone»[20].
Sei giorni dopo, Israele ha lanciato un attacco soft con droni contro l’Iran, come rappresaglia per quando accaduto il 13 aprile. Questa azione, peraltro, non è stata rivendicata ufficialmente. È stata colpita la zona di Isfahan, che ospita una grande base militare e alcuni siti nucleari[21]. L’attacco non distruttivo rispetta le sollecitazioni di Usa e alleati a non aumentare la tensione nella regione. Esso non ha prodotto danni rilevanti, e le autorità iraniane si sono adoperate per minimizzare l’accaduto, affermando che i droni lanciati da Israele sono stati colpiti e che la situazione ad Isfahan è tornata alla normalità[22]. Lo spazio aereo iraniano è stato immediatamente riaperto. Inoltre, sono stati colpiti anche alcuni siti in Siria e in Iraq, da dove erano partiti attacchi contro Israele. Questo è un segnale esplicito lanciato da Israele agli alleati di Teheran.
Con tale azione, ampiamente prevista, Israele ha voluto salvare il principio del diritto a rispondere a eventuali attacchi sul suo territorio, sebbene lo abbia fatto con un atto puramente dimostrativo. In realtà, come ha dichiarato una fonte israeliana, questo voleva essere un segnale, lanciato all’Iran, che Israele ha la capacità di colpire all’interno del Paese e di poterlo fare in ogni momento. Preavvisando gli Usa dell’imminente attacco in territorio iraniano, Tel Aviv aveva assicurato Washington che non avrebbe colpito i siti nucleari, e così di fatto è stato. Alcuni segnali lanciati dalle autorità iraniane, con lo scopo di tranquillizzare la popolazione, fanno presumere che Teheran non intenda rispondere all’attacco. Ma in questo momento nulla è sicuro.
In molti ritengono che attualmente non sia nell’interesse di Israele combattere contemporaneamente su due fronti, tanto più che Hezbollah ha ripreso a bombardare con più forza la Galilea. Il che porterebbe in secondo piano la lotta contro Hamas, che oggi rappresenta il vero pericolo per Israele.
Piani per il dopoguerra
Secondo le potenze occidentali e molti Paesi arabi, qualsiasi piano per il dopo Gaza deve considerare la possibilità di una soluzione a due Stati. Lo Stato palestinese, di cui si parla, includerebbe sia la Striscia di Gaza sia la Cisgiordania, nei confini previsti dalle risoluzioni dell’Onu. Sui territori controversi, si dovrebbe procedere in questo modo: «Israele scambierebbe parti del suo territorio con porzioni della Cisgiordania dove ha costruito grandi e popolosi insediamenti. Gerusalemme Est sarebbe divisa, con una sorta di controllo congiunto sulla città vecchia»[23]. Inoltre, un certo numero di rifugiati palestinesi potrebbe tornare in Israele, mentre il resto si stabilirebbe in Palestina o altrove. Ovviamente, Israele si aspetterebbe che uno Stato palestinese nascesse smilitarizzato.
Il problema più serio per dare concretezza a tale piano è di natura politica. Di fatto, per il momento non ci sarà alcun processo di pace con la coalizione di politici di estrema destra, guidata da Netanyahu. Ma è improbabile che questa coalizione sopravviva a lungo dopo la guerra. Va sottolineato che, secondo recenti sondaggi, il 70% degli israeliani vorrebbe, dopo la conclusione del conflitto, nuove elezioni politiche, che ordinariamente dovrebbero tenersi nel 2026.
Ci sono tre modi in cui un governo israeliano può essere sostituito prima della scadenza naturale della legislazione[24]. Innanzitutto, per le dimissioni del primo ministro. Netanyahu, nonostante abbia portato Israele a uno dei periodi più tristi della sua storia e sia quasi quotidianamente contestato per la sua politica sugli ostaggi ancora in mano ad Hamas, non ha alcuna intenzione di dimettersi, anche perché in questo caso dovrebbe rispondere alla giustizia del suo Paese. In secondo luogo, la Knesset può sostituire il primo ministro attraverso una mozione cosiddetta «costruttiva», a cui seguirebbe una procedura abbastanza complessa. L’opzione più facile e praticabile è invece la terza, che si ha quando un certo numero di deputati abbandona la coalizione, unendosi all’opposizione per votare lo scioglimento del Parlamento e indire nuove elezioni anticipate. In questo caso, però, Netanyahu rimarrebbe primo ministro per altri tre mesi, che è la scadenza minima consentita dalla legge per una campagna elettorale. Ora se egli fosse in grado di licenziare dal governo i suoi rivali centristi – tra cui Binyamin Gantz – prima di un voto alla Knesset, il risultato sarebbe l’esistenza di un governo interamente dominato da Netanyahu e sostenuto dall’estrema destra, il che sarebbe disastroso per il Paese e per la guerra in corso. Questa opzione non sarà in ogni caso praticata, perché, come ha detto un deputato del centro, «questo è il Governo più terribile che Israele abbia mai avuto, ma sarebbe ancora peggio se lo perdessimo adesso»[25].
Tuttavia, per Israele questo è un momento molto difficile. In ottobre il governo aveva lanciato un’operazione di autodifesa contro Hamas, i cui terroristi avevano commesso atrocità inenarrabili e messo in discussione l’idea di Israele come terra dove gli ebrei avrebbero dovuto essere al sicuro. Sebbene l’esercito israeliano abbia distrutto più della metà delle forze dei miliziani, per molti aspetti la sua missione è fallita. In primo luogo a Gaza, dove la riluttanza a fornire e distribuire aiuti ha provocato una crisi umanitaria che poteva essere evitata. Il recente attacco iraniano allo Stato israeliano, come si è detto, ha garantito a Tel Aviv, dopo mesi di contrasti, l’appoggio politico ed economico dei suoi maggiori alleati, che non permetteranno che gli ayatollah vincano questa lotta. Tanto più che la risposta israeliana all’attacco del 13 aprile è stata puramente dimostrativa, secondo le raccomandazioni statunitensi. Va però ricordato che Israele in questa guerra ha perso parte della credibilità che aveva guadagnato presso l’opinione pubblica occidentale. Ciò, purtroppo, in alcuni Paesi ha fomentato l’antisemitismo.
In questi anni, la soluzione dei due Stati è andata progressivamente perdendo consenso in entrambe le parti. Un sondaggio condotto nel settembre 2022 dall’Israel Democracy Institute ha rilevato che solo il 22% degli ebrei israeliani sarebbe favorevole a questa soluzione, rispetto al 47% di cinque anni prima[26]. Il sostegno a tale soluzione politica è crollato anche tra i palestinesi. Un altro sondaggio del giugno 2023, condotto da specialisti palestinesi, ha accertato che soltanto il 28% degli intervistati era d’accordo con la teoria dei due Stati (10 anni fa essa era sostenuta da più del 50% della popolazione palestinese). Questa scelta si spiega con il principio che le persone di solito non sostengono qualcosa che ritengono impossibile. La vera sfida per il futuro è guadagnare la maggior parte dei palestinesi – e soprattutto la loro classe politica – alla convinzione che con un negoziato serio e con la mediazione della comunità internazionale, nonostante i fallimenti del passato, si possa costruire una vera entità statale nazionale per i palestinesi, che hanno il diritto di vivere in pace nel loro Stato.
La guerra in atto tra Israele e Hamas, sebbene in ambito internazionale abbia ridato forza, dopo anni di scetticismo e di diffidenza, alla soluzione dei due Stati, in realtà, a livello dell’opinione pubblica, ha scavato ancora di più un abisso che separa le due popolazioni. «Questo abisso – ha scritto l’intellettuale marocchino Tahar Ben Jelloun – è riempito di odio. Prima era riempito di paura; oggi l’odio, un odio secco, senza parole, senza colore, senza pietà regna tra Israele e Palestina». Eppure, continua lo studioso, «è questo il momento per proporre agli israeliani l’arresto della colonizzazione e la creazione di due Stati»[27]. Tanto più che la causa palestinese, accantonata per anni sia dai Paesi arabi sia dai partiti di sinistra in Occidente, è tornata al centro della scena internazionale, e centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo sono scese in piazza per protestare contro la carneficina che l’esercito israeliano sta conducendo a Gaza. Questo a condizione che il recente conflitto tra l’Iran e Israele non si estenda ulteriormente, incendiando l’intera regione mediorientale. Il che nuocerebbe molto alla causa della pace e in primis a quella palestinese.
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[1]. Cfr M. Moench, «How experts believe starvation is being utilized in Gaza», in Time,6 gennaio 2024.
[2]. F. Caferri, «Inizia il Ramadan di guerra, pressing finale per la tregua. Si teme un mese sacro di sangue», in la Repubblica,11 marzo 2024.
[3]. Ivi.
[4]. D. Frattini, «Pioggia di missili dal Libano. Israele insiste invaderemo Rafah», in Corriere della Sera,14 marzo 2024.
[5]. Cfr F. Caferri, «Israele: “Inonderemo la Striscia di aiuti”. Ma conferma il piano per invadere Rafah», in la Repubblica, 15 marzo 2024.
[6]. Cfr «Will Joe Biden’s new plan bring relief at Gaza?», in The Economist,8 marzo 2024.
[7]. Cfr V. Bergengruen, «Biden Will Order Us Military to Build Gaza Port for Aid Delivery», in Time,8 marzo 2024.
[8]. Cfr «Will Joe Biden’s new plan bring relief at Gaza?», cit.
[9]. Cfr A. Hass, «La disperazione non è propaganda», in Internazionale, 8 marzo 2024; N. Del Gatto, «Incubo carestia. Le voci dei palestinesi all’inferno: “Mangiare è la sfida più grande”», in La Stampa,20 marzo 2024.
[10]. A. Nicastro, «L’Onu sulla crisi a Gaza: “Una carestia mai vista”. Sinwar tratta per Hamas», in Corriere della Sera, 20 marzo 2024.
[11]. Cfr M. Srivastava – N. Zilben – H. Saleh, «A Gaza la fame diventa un’arma», in Internazionale,8 marzo 2024, 16.
[12]. D. Raineri, «Trattativa tra Biden e Netanyahu sull’operazione militare a Rafah», in la Repubblica,19 marzo 2024.
[13]. A. Nicastro, «Onu, sì al cessate il fuoco con l’astensione Usa. L’ira di Netanyahu», in Corriere della Sera,26 marzo 2024.
[14]. Ivi.
[15]. «Is a two-state solution possible after the Gaza war?», in The Economist,1° novembre 2023.
[16]. Cfr «With its latest assassination, Israel is testing Iran», in The Economist, 2 aprile 2024; R. Gramer, «Israele fa salire la tensione con l’Iran», in Internazionale, 5 aprile 2024, 18.
[17]. F. Tonacci, «Gaza, Israele ritira le truppe dal Sud: “Ora caccia mirata ai capi di Hamas”», in la Repubblica,8 aprile 2024.
[18]. Biden, in un’intervista, ha detto che «Natanyhau sta sbagliando» a Gaza e che non sta facendo molto per proteggere i civili e per l’arrivo degli aiuti umanitari. Ma ha anche dichiarato «l’impegno ferreo degli Usa per la sicurezza di Israele contro la minaccia di Teheran e alleati» (D. Frattini, «Gli Usa: imminente attacco dell’Iran. Gaza uccisi i figli e i nipoti di Haniyed», in Corriere della Sera,11 aprile 2024).
[19]. Cfr «Iran and Israel’s shadow war explodes into the open», in The Economist,14 arile 2024.
[20]. Ivi.
[21]. Cfr P. Brera, «Israele, attacco soft all’Iran. Si sgonfia la crisi più grave», in la Repubblica,20 aprile 2014.
[22]. Teheran ha derubricato l’attacco, affermando che si è trattato di pochi droni lanciati dal territorio iraniano, con l’aiuto di infiltrati. Niente di più che un attentato, insomma. Cfr ivi.
[23]. «Is a two-state solution possible after the Gaza war?», cit.
[24]. «Deposing the King of Israel», in The Economist,17 marzo 2024.
[25]. Ivi.
[26]. Gli arabi israeliani, che costituiscono un quinto della popolazione, sostengono ancora la soluzione dei due Stati (71%).
[27]. T. B. Jelloun, «Lo Stato di Palestina urgenza ineludibile», in la Repubblica, 15 novembre 2023.
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