Là dove la turbolenza viene meno
Distribuzione sul piano galattico delle nubi molecolari analizzate da Lingrui e dai suoi collaboratori (cliccare per ingrandire). Il cerchio giallo e la croce rossa individuano rispettivamente il Sole e il Centro galattico. Le stelle viola, i triangoli rossi e i punti verdi rappresentano le nubi molecolari del disco esterno osservate rispettivamente con Alma, il telescopio Iram da 30 metri e l’Smt. Gli esagoni grigi indicano invece le nubi molecolari del disco interno. Le distanze sono espresse in kiloparsec (kpc): un kpc corrisponde a circa 3200 anni luce. Crediti: Lingrui Lin et al. Nature Astronomy, 2025
Anche per le stelle, come per noi esseri umani, le caratteristiche di una popolazione risentono moltissimo dell’ambiente nel quale gli individui vengono al mondo. Prendiamo per esempio la funzione iniziale di massa stellare, vale a dire il modo in cui si distribuisce la massa delle stelle al momento della loro formazione: le percentuali di stelle small, medium e large, insomma. Gli astronomi ritengono che non sia una distribuzione universale, ma che al contrario dipenda molto dalle caratteristiche della nube molecolare – dunque dell’ambiente, della “culla” – nella quale hanno origine: caratteristiche quali metallicità, rotazione, turbolenza e campi magnetici. Ma quale sia esattamente il ruolo giocato da questi parametri e come si influenzino fra loro è tutt’altro che chiaro.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, uno studio pubblicato il mese scorso su Nature Astronomy mostra come la dinamica delle nubi molecolari e la loro stabilità siano influenzate dalla metallicità – vale a dire dalla percentuale di elementi più pesanti di idrogeno ed elio presenti nella nube stessa. In particolare, mostra come l’intensità della turbolenza si riduca man mano che diminuisce la metallicità. E suggerisce che nelle nubi a bassa metallicità, dove la turbolenza non è più in grado di offrire un supporto sufficiente contro la gravità, a contrastare il collasso gravitazionale della nube siano essenzialmente i campi magnetici.
Per giungere a questa conclusione, gli autori dello studio, guidato da Lingrui Lin, dottorando all’Università di Nanchino, in Cina, e da Zhi-Yu Zhang, docente presso la stessa università, hanno osservato e misurato la riga del monossido di carbonio – in particolare quella del 13CO – in una cinquantina di nubi molecolari nel disco esterno della Via Lattea – dove la metallicità è drasticamente ridotta (gli elementi più pesanti dell’elio sono solo il 20 per cento di quelli che si trovano nei dintorni del Sole) – con i radiotelescopi Iram da 30 metri, Alma ed Smt. Il 13CO è un isotopologo del monossido di carbonio: i nuclei dei suoi atomi di carbonio sono formati da sei protoni e sette neutroni, diversamente dal più comune carbonio-12, dove i neutroni sono soltanto sei.
«Gli isotopologhi del monossido di carbonio – come quelli di altre molecole – sono degli strumenti formidabili in astrofisica», commenta Donatella Romano dell’Inaf di Bologna, coautrice dello studio pubblicato su Nature Astronomy. «Ci consentono infatti di discriminare i diversi canali di nucleosintesi stellare responsabili della produzione degli elementi CNO (carbonio, azoto ed ossigeno), inclusi i loro isotopi secondari, cosa importantissima, perché questi sono non solo gli elementi più abbondanti nell’universo dopo l’idrogeno e l’elio, ma anche costituenti essenziali delle biomolecole, importanti per la vita. Inoltre, unitamente ad altri indicatori, sono usati come traccianti della storia evolutiva della nostra e di altre galassie – una branca dell’astrofisica nota come archeologia galattica. Per finire, come dimostrato in questo studio, ci aiutano a capire meglio le proprietà del gas molecolare da cui si formano le stelle. In particolare, qui si sono utilizzate le transizioni rotazionali del 13CO come traccianti della massa e della dispersione di velocità dell’idrogeno molecolare».
Donatella Romano (Inaf di Bologna) e Zhi-Yu Zhang (Università di Nanchino, Cina), coautori dello studio pubblicato su Nature Astronomy
È così che gli autori dello studio sono riusciti a calcolare, per ciascuna nube, il cosiddetto parametro viriale, definito come il doppio del rapporto tra energia cinetica ed energia gravitazionale nella nube. Poi lo hanno confrontato con quello – derivato da dati d’archivio – di nubi molecolari del disco interno della Via Lattea, dove la metallicità è elevata, e di quattro galassie nane vicine di bassa metallicità – più simili, dunque, alle nubi molecolari del disco esterno. Ciò che è emerso dal confronto è una significativa diminuzione del parametro viriale passando da nubi di alta metallicità a nubi di bassa metallicità.
«L’analisi dei dati mostra che, mentre le nubi molecolari nel disco interno si trovano in uno stato cosiddetto superviriale, cioè, la turbolenza è abbastanza forte da controbilanciare l’auto-gravità del gas, nel disco esterno le nubi sono in uno stato subviriale”, cioè, l’energia cinetica dominata dalla turbolenza non è sufficiente a controbilanciare il potenziale gravitazionale», spiega Romano.
«Nel disco esterno», continua la ricercatrice, «la metallicità del gas è pari a circa il 20 per cento della metallicità del Sole ed è simile a quella misurata in alcune galassie nane vicine alla Via Lattea. Abbiamo quindi raccolto dati di archivio di nubi molecolari in queste galassie, scoprendo che anch’esse si trovano in uno stato subviriale. Alla fine, dallo studio è emerso un andamento sistematico del parametro viriale, ossia, una sua significativa diminuzione passando da nubi di alta metallicità a nubi di bassa metallicità. Questo indica che la metallicità gioca un ruolo cruciale nella regolazione dell’intensità della turbolenza e dello stato dinamico delle nubi molecolari».
Ma, allora, come fanno le nubi in stato subviriale a restare stabili per lungo tempo e a non collassare immediatamente? Gli autori ritengono, come dicevamo, che in ambienti di bassa metallicità il contributo dei campi magnetici diventi essenziale: là dove la turbolenza viene meno, sarebbero proprio i campi magnetici a controbilanciare l’auto-gravità, impedendo il collasso subitaneo delle nubi.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Inadequate turbulent support in low-metallicity molecular clouds”, di Lingrui Lin, Zhi-Yu Zhang, Junzhi Wang, Padelis P. Papadopoulos, Yong Shi, Yan Gong, Yan Sun, Yichen Sun, Thomas G. Bisbas, Donatella Romano, Di Li, Hauyu Baobab Liu, Keping Qiu, Lijie Liu, Gan Luo, Chao-Wei Tsai, Jingwen Wu, Siyi Feng e Bo Zhang