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Periferie


Sono insieme spazio fisico, esperienza personale e collettiva. Un vissuto complesso, stratificato e in continuo movimento. Sono anche forme di invisibilità nate da urbanità frammentate, spesso attraversate da solitudini che non si misurano e non si colmano.

Condizioni non agevoli, in cui alcuni talvolta l’umano e il simbolico sono più vivi che altrove. Nelle periferie nascono nuove estetiche, spazi di solidarietà, laboratori di innovazione e molto altro.

Queste sono forme di resistenza, espressioni vitali e segnali positivi. Ci ricordano che un benessere più ampio e diffuso è necessario.

Perché, quando viene meno l’accesso a ciò che è essenziale – una scuola, un medico, un autobus che arriva – la vita si restringe.

Perché, quando si è esclusi dalle decisioni che modellano lo spazio comune, i sogni delle persone diventano problemi da gestire.

Perché, nell’impossibilità di immaginare un futuro il tempo degenera in mera ripetizione.


Marginalità, esclusione e abbandono consumano la vitalità del corpo e le energie necessarie a proiettarsi nel futuro.

L'esclusione

Le periferie non dispongono di reti di trasporto adeguate, e questo ostacola l’accesso a scuole, università e lavoro. Sono escluse dai servizi pubblici essenziali, spesso assenti o mal funzionanti. Anche chi opera in questi ambiti si scontra con condizioni difficili. Da decenni vivono una condizione cronica di disinvestimento: l’occupazione è precaria o del tutto assente.

L'abbandono

Salvo rare eccezioni, queste aree sono abbandonate dalle istituzioni, che faticano a comprenderle e non vi investono in modo continuativo. Sono ignorate dagli attori economici e – nel migliore dei casi – assediate da centri commerciali. Non vengono considerate territori su cui scommettere: troppo rischiose, troppo poveri i loro abitanti. Sono abbandonate anche dalla società, quando il discorso pubblico le riduce a ghetti o dormitori.

Infine, stigmatizzare le periferie è un modo per marginalizzarle.

E così, a problemi strutturali si risponde con misure emergenziali: più forze dell’ordine, più controlli. Ma ciò che serve davvero è un approccio trasformativo, basato sull’empowerment, sull’educazione come leva di cittadinanza attiva, sulla rigenerazione urbana partecipata e sul rafforzamento delle reti solidali.

Le periferie non vanno “salvate”, vanno riconosciute per ciò che sono: luoghi abitati, complessi e vitali, attraversati da potenzialità, relazioni, culture ibride e capacità di resilienza.

Per costruire percorsi solidi di autonomia, emancipazione e benessere, servono alleanze e un quadro di riferimento stabile. Occorrono condizioni strutturali: un ecosistema di supporto educativo, culturale, urbano e politico – solido, accessibile, duraturo.

Intervenire, allora, non è un atto di salvataggio, ma un gesto di giustizia sociale.


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