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Quando l’IA scrive poesie: il futuro della creatività umana è finito?


Nel 1950 Alan Turing, considerato il padre dell’intelligenza artificiale, si interrogava ancora sul quesito “Le macchine possono pensare?”. Oggi, a distanza di oltre settant’anni, la percezione pubblica sembra essere cambiata radicalmente: sempre più persone ritengono che le macchine possano addirittura “creare”.

Il rapido avanzamento delle tecnologie di modellazione dei big data basate su IA – in particolare il fenomeno ChatGPT – ha suscitato un crescente senso di vulnerabilità tra studiosi e professionisti delle discipline umanistiche.

Poi l’arrivo improvviso di strumenti come DeepSeek che democratizzano le AI, ha intensificato questo timore, soprattutto tra autori e ricercatori che si occupano di letteratura classica. Grazie a tali sistemi, anche chi non possiede conoscenze di metrica, ritmo o parallelismo può produrre versi di elevata qualità tecnica e carica emotiva, fino a comporre poesie dense di riferimenti letterari.

Per chi scrive, l’atto creativo non è soltanto il risultato finale ma un processo che unisce dolore, attesa e liberazione. Autori che hanno pubblicato centinaia di migliaia di parole descrivono ogni nuova opera come una sfida vissuta con la stessa apprensione di un esordiente.

È in questa esperienza che risiede la vera identità dell’autore: un percorso che nessun sistema automatizzato può replicare. Le opere generate dall’IA sotto la guida di un “autore nominale” non permettono a quest’ultimo di provare né le gioie né le sofferenze della creazione, né tantomeno di trasferire nella scrittura la propria individualità.

Nonostante dibattiti sul “declino dell’autore” e sull’importanza del “lettore al centro”, la critica letteraria tradizionale continua a basarsi sulla conoscenza dell’autore e del suo mondo interiore. La vitalità di un testo nasce dalla vita unica di chi lo scrive.

Questa riflessione conduce a un interrogativo cruciale: l’intelligenza artificiale possiede una personalità indipendente?

Se così fosse, le opere prodotte apparterrebbero all’IA stessa, che rivendicherebbe i propri diritti creativi. Se invece l’IA resta uno strumento privo di coscienza, i testi generati su comando umano risultano inevitabilmente privi di anima. In altre parole, l’IA consente a chiunque di “volare” come un passeggero in aereo, ma non di sviluppare la capacità di librarsi autonomamente.

Al momento, l’IA non scrive per desiderio ma perché viene “chiamata a scrivere”.

Non prova emozioni né formula pensieri originali.

Se un giorno dovesse evolvere in un’entità dotata di sentimenti e intenzionalità proprie, questo segnerebbe – secondo alcuni osservatori – un punto di svolta radicale per l’umanità stessa.

Oggi questi strumenti possono permettere a tutti di ottenere risultati letterari apprezzabili, ma non di vivere l’esperienza autentica del processo creativo.

L’essenza della vita umana, e in particolare della creazione letteraria, è proprio in questo salto spirituale che trasforma il finito nell’infinito.

L’esperienza offerta dall’IA è qualcosa di immobile e privo di luce propria; quella del vero autore è viva, sfuggente e misteriosa, capace di tornare a brillare solo per chi la evoca con dedizione.

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