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Come è stata scritta la dichiarazione «Nostra Aetate»


Opera scultorea “Dialogo” di Michele Chiaruzzi, Cappella di Sant'Anna, San Marino.
Nel 2025 la Chiesa celebra i sessant’anni dal Concilio Vaticano II e dalla dichiarazione sulle sue relazioni con le religioni non cristiane Nostra aetate. Se fino a quel momento i non cristiani erano stati considerati smarriti nella superstizione e nell’ignoranza, Nostra aetate segnò l’inizio di un approccio che promuoveva il dialogo permanente come parte integrante della testimonianza cattolica alla verità della fede cristiana. L’elaborazione del documento porta l’impronta dell’incontro tra il gesuita tedesco Augustin Bea, nominato dal Papa presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, e Massimo IV Saigh, patriarca di Antiochia dei Melchiti. Il dialogo contemporaneo tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico conserva il segno delle prospettive da loro elaborate nel momento in cui la Chiesa cominciava a formulare una posizione che affermasse sia il dialogo con gli ebrei sia la consapevolezza della tragica sorte dei palestinesi.

Origini


La dichiarazione Nostra aetate nacque nel contesto successivo alla Shoah, cioè al tentativo, da parte della Germania nazista, di annientare gli ebrei in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, la Chiesa dovette cominciare a confrontarsi con la dolorosa questione di quanto il tradizionale discorso cristiano sul popolo ebraico potesse aver contribuito al prendere piede dell’antisemitismo contemporaneo. Il 28 ottobre 1958 Angelo Roncalli divenne papa Giovanni XXIII. Roncalli aveva trascorso gli anni precedenti e quelli della Seconda guerra mondiale in Bulgaria, Grecia, Turchia e Francia come rappresentante diplomatico della Santa Sede. Era pienamente consapevole di quanto stava accadendo agli ebrei, e gli si attribuisce il merito di averne salvati migliaia.

Inizialmente, egli non intendeva portare la questione del popolo ebraico all’attenzione del Concilio che stava progettando e che avrebbe cambiato il volto della Chiesa nel mondo moderno. L’idea di un documento sugli ebrei entrò nella mente del Papa durante un’udienza privata del 13 giugno 1960. Quel giorno, poco dopo aver nominato Augustin Bea presidente del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, egli incontrò lo storico ed educatore ebreo francese Jules Isaac, il quale gli consegnò quanto aveva scritto sull’insegnamento cristiano del disprezzo nei confronti del popolo ebraico. Più tardi, Isaac commentò: «Più volte durante il mio breve discorso egli mostrò comprensione e simpatia. […] Chiedo se posso portare via con me un po’ di speranza. Egli esclama: “Hai diritto a più che una speranza!”»[1].

Il Papa inviò Isaac da Bea, biblista anticotestamentario e suo consigliere di fiducia, e nel settembre del 1960 quest’ultimo ricevette l’incarico di preparare un documento sul popolo ebraico. Più tardi Bea scrisse, in sintonia con i sentimenti del Papa: «Il bimillenario problema, vecchio quanto il cristianesimo stesso, delle relazioni della Chiesa col popolo ebraico è stato reso più acuto, e si è quindi imposto all’attenzione del Concilio Ecumenico Vaticano II, soprattutto per lo spaventoso sterminio di milioni di Ebrei da parte del regime nazista in Germania»[2]. Egli prevedeva che il documento non solo avrebbe condannato l’antisemitismo, ma avrebbe anche richiamato l’attenzione sulle radici ebraiche della Chiesa e promosso un dialogo tra ebrei e cattolici.

Sebbene le discussioni sugli ebrei, successive all’incontro con Isaac, dovessero rimanere riservate, Bea si confidò con un giornalista, che pubblicò la notizia del cambiamento di atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei, suscitando già allora una prima reazione negativa in Medio Oriente[3].

Reazioni in Medio Oriente


La resistenza a un documento sugli ebrei si manifestò in tre forme diverse. Anzitutto, quella degli antisemiti classici, contrari a qualsiasi mitigazione dell’insegnamento della Chiesa, perché consideravano il popolo ebraico nemico dell’umanità e della fede cristiana. Ad essa si aggiungeva l’opposizione dei tradizionalisti, che per principio rifiutavano ogni cambiamento nella dottrina ecclesiale. Infine, vi erano quanti respingevano un riavvicinamento agli ebrei a causa del conflitto ancora in corso in Medio Oriente. Costoro facevano notare che al centro di quel conflitto vi era uno Stato, Israele, che si definiva ebraico, e un popolo, quello palestinese, che era diventato senza patria in seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, una tragedia che aveva gettato l’intero Medio Oriente nel caos. In alcuni casi antisemitismo, resistenza al cambiamento e preoccupazione per la giustizia e la pace in Medio Oriente andavano a braccetto.

In effetti, nella storiografia successiva al Concilio, alcuni hanno accusato Massimo IV e i vescovi del Medio Oriente di antisemitismo o tradizionalismo a causa della loro opposizione alla formulazione del documento sugli ebrei[4]. Altri hanno spiegato tale opposizione come radicata nel timore delle reazioni, da parte dei musulmani, a un atteggiamento positivo verso gli ebrei: reazioni che avrebbero potuto provocare persecuzioni contro i cristiani nei Paesi arabi in guerra con Israele[5]. Da parte loro, i Paesi arabi e Israele esercitarono pressioni per assicurarsi un esito favorevole alle rispettive cause, mantenendo contatti con i partecipanti al Concilio che sostenevano opzioni politiche convenienti ai loro interessi.

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Tutti questi fattori influenzarono in parte le posizioni espresse dai prelati mediorientali durante il Concilio; tuttavia, le opinioni di Massimo IV e la loro evoluzione nel corso dei lavori mostravano il tentativo di affrontare la formulazione di una posizione ecclesiale che tenesse conto della complessità dell’insieme. All’interno della Chiesa, Massimo IV (insieme ai suoi colleghi mediorientali) e Bea (con i suoi collaboratori europei e nordamericani) condussero un dialogo costruttivo che trasformò il documento sugli ebrei nella Nostra aetate. L’incontro tra Bea, alfiere dell’impegno verso un nuovo rapporto con il popolo ebraico, e Massimo IV, che rappresentava la preoccupazione per il Medio Oriente e per i palestinesi, ha segnato la relazione ebraico-cattolica degli ultimi sessant’anni.

Massimo IV, nominato membro della Commissione centrale preparatoria incaricata da papa Giovanni XXIII di gettare le basi per il Concilio nel giugno 1960, è stato senza dubbio la figura più rappresentativa tra i Padri conciliari del mondo arabo[6]. Il suo atteggiamento verso la questione ebraica non era dettato solo dalla sua prospettiva di arabo siriano e di guida spirituale della comunità greco-cattolica, che comprendeva anche greco-cattolici palestinesi sfollati nel 1948; egli era anche portavoce dei cattolici non europei e non latini, che rivendicavano il diritto di essere ascoltati dai vertici ecclesiali ancora prevalentemente europei e latini. Rifiutando di parlare in latino, Massimo IV intervenne con forza, in francese, per difendere i diritti e gli interessi non solo dei greco-cattolici, ma anche dei non europei in generale. Al tempo stesso, fu sostenitore delle richieste di riforma volte a condurre la Chiesa nel mondo moderno.

Riguardo al documento sugli ebrei, egli dichiarò nel 1962, in una nota alla commissione centrale che organizzava il Concilio: «Comprendiamo molto bene le ragioni che hanno motivato la proposta di questo “decreto” [sugli ebrei]. La Chiesa ha il dovere verso sé stessa di riconoscere le glorie, le promesse e la missione del popolo ebraico. Ha anche il dovere verso sé stessa di eliminare dalla sua liturgia, dai pensieri e dalle azioni dei suoi fedeli ogni traccia di disprezzo, vendetta o discriminazione razziale contro il popolo ebraico»[7]. Ciò nonostante, Massimo IV insisteva sul fatto che si dovesse operare una netta distinzione tra gli ebrei e lo Stato d’Israele; quest’ultimo «deve essere trattato secondo gli stessi criteri che regolano le relazioni tra la Chiesa e le società civili, senza alcun privilegio o considerazione speciale da parte della Chiesa»[8]. Inoltre, egli proponeva che «un decreto analogo venisse preparato riguardo all’Islam e alle altre religioni monoteiste. I cristiani che intrattengono frequenti rapporti con i seguaci di queste religioni sarebbero lieti di conoscere qualche insegnamento positivo della Chiesa su di esse, che vada oltre la pura e semplice condanna come “errori”»[9]. Nell’agosto 1962, il Sinodo greco-cattolico pubblicò un manifesto in cui si affermava che la fede in Cristo imponeva ai cristiani di non «nutrire alcun odio né rancore contro chicchessia»; tuttavia, «la giustizia, l’umanità e il patriottismo impongono loro il dovere di stare al fianco dei loro fratelli, gli arabi di Palestina, riconoscendo il loro diritto a ritornare nella loro terra e nella terra dei loro antenati»[10].

L’incontro tra la convinzione, prevalente in Europa e in Nord America, secondo cui la Chiesa dovesse promuovere un insegnamento di rispetto per il popolo ebraico e la resistenza prevalente in Medio Oriente, dove gli ebrei venivano identificati con la potenza militare dello Stato d’Israele e con la tragedia dei palestinesi, costituisce un esempio rilevante della globalizzazione della Chiesa. Il teologo cattolico Karl Rahner ha sostenuto che il Concilio Vaticano II fu «il primo grande evento ufficiale in cui la Chiesa ha attuato sé stessa precisamente come Chiesa universale […]; una Chiesa universale in quanto tale inizia ad agire grazie all’influsso reciproco esercitato da tutte le sue componenti»[11].

Un dialogo difficile


Il documento sugli ebrei fu presentato soltanto nella seconda sessione del Concilio, nel 1963[12]. Alla morte di Giovanni XXIII, il 3 giugno 1963, il suo successore, Paolo VI, ne confermò il progetto. Divenne tuttavia evidente che il nuovo Pontefice aveva una visione più ampia di ciò che il dialogo poteva significare nel mondo moderno. Nel settembre 1963, aprendo la seconda sessione del Concilio, Paolo VI affermò che la Chiesa «punta i suoi occhi al di là delle comunità cristiane e vede le altre religioni che conservano il concetto e la nozione di un Dio unico, creatore, provvido, sommo e trascendente la natura delle cose; che praticano il culto di Dio con atti di sincera pietà e che derivano da queste usanze e credenze i princìpi della vita morale e sociale»[13]. Il suo impegno per il dialogo era in parte guidato dall’intuizione del grande islamologo francese Louis Massignon, la cui influenza sul Concilio, per quanto riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, può essere paragonata a quella esercitata da Isaac riguardo alla posizione della Chiesa verso il popolo ebraico.

Nel novembre 1963, Bea presentò il documento sugli ebrei come parte dello schema sull’ecumenismo. Essendo ormai consapevole della sensibilità dei mediorientali, assicurò al Concilio che il testo sul popolo ebraico non faceva alcun riferimento alla questione nazionale o politica: «Non si tratta – egli disse – di una questione nazionale o politica, e in special modo non si tratta di un riconoscimento dello Stato di Israele da parte della Santa Sede. Nessuna di tali questioni né è trattata né toccata in alcun modo nello schema, ma si affronta una questione di ordine puramente religioso»[14]. Nonostante ciò, i prelati del Medio Oriente espressero la loro opposizione e presero la parola, uno dopo l’altro, nella sessione. Tra loro vi era anche Massimo IV, il quale ribadì: «Se si parla degli ebrei, si deve parlare anche delle altre religioni non cristiane, e soprattutto dei musulmani, che sono 400 milioni e tra i quali noi viviamo come minoranza»[15]. Più tardi Bea avrebbe ammesso: «Furono soprattutto i Padri Conciliari del Vicino Oriente a chiedere che si parlasse anche dell’Islam. Altri però, andando più oltre, chiesero un’impostazione del tutto generale, in modo da comprendere tutte le religioni non cristiane»[16].

Una nuova prospettiva


La seconda sessione del Concilio si concluse con un annuncio clamoroso: Paolo VI si sarebbe recato in Terra Santa nel gennaio 1964. Era la prima volta che un Papa lasciava l’Italia da oltre 150 anni. La terza sessione del Concilio – da settembre a novembre 1964 – sarebbe stata fortemente influenzata dalla visione di Paolo VI sul dialogo con il mondo intero. Nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam, pubblicata nell’agosto 1964, il Papa tratteggiava i cerchi concentrici dell’umanità con i quali la Chiesa è chiamata a entrare in dialogo interreligioso. Egli scriveva: «Poi intorno a noi vediamo delinearsi un altro cerchio, immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora ai seguaci delle grandi religioni afroasiatiche»[17].

Poco prima della convocazione della terza sessione del Concilio Vaticano II, il Sinodo greco-cattolico inviò una nota alla commissione organizzatrice del Concilio riguardo al documento sugli ebrei, in cui si diceva: «Non abbiamo alcuna obiezione fondamentale, sul piano teologico, contro questa bozza di dichiarazione. Ma, da un punto di vista pratico, riteniamo che si debba aggiungere […] un ultimo paragrafo con la seguente formulazione: “Questo santo Concilio tiene a sottolineare che la presente dichiarazione – che è un atto puramente religioso, ispirato unicamente da considerazioni teologiche – non ha alcuna motivazione né alcuno scopo politico. Questo santo Concilio condanna in anticipo qualsiasi interpretazione tendenziosa che cerchi di attribuire alla presente dichiarazione un qualsiasi significato politico, a favore o contro chicchessia”»[18]. Durante la sessione, l’arcivescovo greco-cattolico di Damasco Joseph Tawil, collaboratore stretto di Massimo IV, osservò che era inopportuno, quando «precisamente un milione di arabi furono ingiustamente e violentemente cacciati dalle loro terre», che la Chiesa si concentrasse sulla questione ebraica[19]. Sottolineò che «la Chiesa deve […] trattare l’ebraismo in un contesto spirituale e religioso. Il Concilio non deve intervenire in questioni civili e politiche»[20].

Il 25 settembre 1964 Bea tornò a prendere la parola davanti al Concilio. Sostenne che il documento sugli ebrei era «richiesto primariamente dalla fedeltà della Chiesa nel seguire l’esempio dell’amore di Cristo e degli Apostoli verso questo popolo. Tuttavia […] queste ragioni piuttosto esterne non si devono trascurare»[21]. Sebbene gran parte del suo intervento fosse dedicato a questioni teologiche, in particolare all’uso del termine «deicidio» per descrivere il popolo ebraico, spiegò anche le aggiunte al testo relative ai musulmani. Il documento, che andava ormai prendendo forma, sarebbe stato pubblicato come dichiarazione separata, non più come parte della dichiarazione conciliare sull’ecumenismo. Inoltre, Bea precisò che la posizione dei prelati mediorientali veniva tenuta in considerazione. Spiegò che la questione del popolo ebraico era religiosa e non politica: «Qui non parliamo del Sionismo né dello Stato politico d’Israele, ma dei seguaci della religione mosaica, dovunque si trovino nel mondo. Né si tratta di caricare di lodi e di onori il popolo ebraico, di esaltarlo sopra le altre genti, e di attribuirgli certi privilegi»[22]. Tuttavia insistette sul fatto che la questione era talmente importante «che val la pena di esporci anche al pericolo che alcuni forse abusino per fini politici di questa Dichiarazione. Si tratta infatti dei nostri doveri verso la verità e la giustizia»[23].

Al termine della terza sessione, Massimo IV pubblicò una reazione dettagliata riguardo ai lavori conciliari: «La Chiesa cattolica – scrisse – oggi è in posizione di dialogo: dialogo con sé stessa, dialogo con le altre Chiese, dialogo con il mondo che ha i suoi molteplici problemi umani e sociali, dialogo con chiunque cerchi Dio a suo modo. E questo dialogo mira a rafforzare la solidarietà umana e l’unità della famiglia di Dio, nel cammino verso il fine della sua esistenza». Poi aggiunse: «I Paesi arabi, da quando il sionismo si è costituito come Stato in Palestina, hanno saputo distinguere l’ebraismo come religione dall’ebraismo sionista come movimento politico. Hanno rispettato il primo e combattuto il secondo»[24]. In un comunicato del 31 dicembre 1964, Massimo IV ribadì: «Il Segretariato [per la promozione dell’unità dei cristiani] e l’episcopato mondiale non possono ignorare che esiste uno Stato che si definisce Israele; che questo Stato pretende di incarnare l’ebraismo; che quanto si dice sull’ebraismo come religione è inevitabilmente interpretato da Israele come detto di sé stesso in quanto Stato e movimento sionista mondiale; che ogni dichiarazione a favore dell’ebraismo come religione è sfruttata da Israele come un appoggio indiretto alla politica imperialista ed espansionista del sionismo mondiale contro i Paesi arabi». Inoltre il Patriarca affermò: «Nessuno dubita che il Concilio non desideri questa interpretazione, ma Israele la desidera, e i Padri del Concilio, in quanto responsabili e realisti, non devono prestarsi a tale manovra, soprattutto nelle circostanze in cui la tensione tra gli Stati arabi e Israele è al massimo livello»[25].

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Il frutto del dialogo

Nel periodo tra la terza e la quarta sessione del Concilio Vaticano II rimaneva ancora molto da fare, sia per affermare la necessità di pubblicare il documento che avrebbe segnato un nuovo inizio nei rapporti con il popolo ebraico, sia per rassicurare gli arabi sul fatto che esso non costituiva un’approvazione delle aspirazioni politiche israeliane in Medio Oriente.

Subito dopo la chiusura della terza sessione, Paolo VI si recò in India. Ufficialmente il viaggio era motivato dalla partecipazione a un Congresso Eucaristico, ma esso segnalava anche il nuovo spirito di dialogo con induisti, buddhisti e musulmani. Durante il viaggio, il Papa si fermò un’ora a Beirut, per incontrare leader politici e religiosi, alcuni dei quali seguivano con profonda preoccupazione la discussione sul documento sugli ebrei e le sue implicazioni per il Medio Oriente. Poco dopo, il Pontefice inviò una lettera ai patriarchi cattolici e ortodossi d’Oriente, lodando le loro Chiese ed esprimendo rispetto per la civiltà araba e per il ruolo del dialogo cristiano-musulmano[26].

Nella primavera e nell’estate del 1965, Paolo VI inviò una delegazione guidata dal vescovo Johannes Willebrands, segretario del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, in Medio Oriente per incontrare i leader cristiani a Beirut, Damasco, Gerusalemme e Il Cairo e cogliere il clima generale. Al suo ritorno, il presule olandese redasse un ampio rapporto, che successivamente fu comunicato ai Padri conciliari. Willebrands non solo riferì il rifiuto del documento sugli ebrei da parte di tutti i leader ecclesiali, cattolici e non cattolici, ma indicò anche il contesto mediorientale di tale rifiuto. Parlando di coloro che in Europa e nel Nord America sostenevano il documento, scrisse: «Non si ha conoscenza delle tensioni politiche e religiose in Medio Oriente, né consapevolezza della gravità della situazione in quei Paesi. È troppo facile ridurre il problema all’opposizione politica di qualche leader arabo. Siamo convinti che, vent’anni dopo Auschwitz, la Chiesa – e in particolare il Concilio – non possa rimanere in silenzio sull’antisemitismo. Riconosciamo le motivazioni religiose dell’antisemitismo e auspichiamo un nuovo sviluppo teologico riguardante il mistero d’Israele, un dialogo con la teologia ebraica e una collaborazione con gli ebrei. Poiché la grande maggioranza degli ebrei si trova in Occidente, questo riavvicinamento tra cristiani ed ebrei è facilmente distinguibile dalla questione politica posta dallo Stato di Israele e dal movimento sionista»[27]. Willebrands disse ai suoi colleghi europei e nordamericani che forse occorreva rivalutare l’intero progetto.

Le preoccupazioni dei vertici ecclesiali del Medio Oriente furono dunque recepite. Durante la quarta sessione dei lavori conciliari, il vescovo svizzero François Charrière dichiarò che il Concilio stava realmente prestando ascolto a tali preoccupazioni: «Non dobbiamo dare l’impressione di imporre decisioni alle altre Chiese solo perché siamo la maggioranza numerica. L’unanimità dei patriarchi orientali e il rapporto di monsignor Willebrands sono impressionanti. L’esistenza delle Chiese orientali ci obbliga a non basarci solo sui numeri. Conta una sola realtà: le Chiese orientali sono contrarie alla dichiarazione. Non possiamo costringerle ad accettare le nostre idee… Il nostro Concilio non è un Concilio latino: è un Concilio ecumenico»[28]. Massimo IV, gratificato dal fatto che la voce dei prelati mediorientali veniva ascoltata, cominciò a moderare la propria posizione e sostenne l’approvazione di un testo riformulato, facendo opera di persuasione in tal senso anche presso i suoi colleghi mediorientali[29].

Il frutto del dialogo tra Bea (e i suoi collaboratori) e Massimo IV (e i suoi colleghi) fu considerevole. In particolare, il documento sugli ebrei fu inserito in un contesto più ampio, relativo all’atteggiamento della Chiesa verso la pluralità delle religioni non cristiane. Il lungo paragrafo 4 sugli ebrei fu preceduto da un paragrafo 3, più breve ma non meno rivoluzionario, sull’atteggiamento della Chiesa verso i musulmani, definito di «stima». Uno dei principali redattori del paragrafo sui musulmani fu Georges Anawati, un domenicano egiziano che Bea aveva voluto nel Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani come consulente per le Chiese orientali. Egli svolse un ruolo essenziale nello sviluppo del dialogo con i musulmani[30]. Inoltre, il paragrafo 4 della Nostra aetate, sull’atteggiamento verso il popolo ebraico, affermava che «la Chiesa […], memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque». L’atteggiamento della Chiesa verso il popolo ebraico è radicato nel Vangelo e non può essere ricondotto a motivazioni politiche. Espressa in poche parole – «non per motivi politici» –, questa prospettiva fondamentale ha orientato il successivo dialogo della Chiesa con il popolo ebraico.

Quando, il 14 ottobre 1965, presentò il testo riformulato, Bea riconobbe il processo di apprendimento che si era svolto nel dialogo interno tra i vescovi europei-nordamericani e quelli mediorientali: «Tutti questi sforzi miravano a due cose: 1) ovviare, per quanto possibile, a qualsiasi interpretazione meno esatta riguardo alla dottrina teologica proposta nello schema; 2) assicurare che la natura esclusivamente religiosa dello schema fosse chiaramente espressa, in modo che con ogni mezzo fosse preclusa la strada a qualsiasi interpretazione politica»[31]. Il lungo processo, nel corso del quale i vescovi arabi giunsero ad accettare un documento che trattava dell’ebraismo tra le religioni e i vescovi europei si disposero ad ascoltare le preoccupazioni della Chiesa in Medio Oriente, culminò con la promulgazione della dichiarazione nota come Nostra aetate, il 28 ottobre 1965.

Conclusione


Bea affermò: «A questa Dichiarazione si può applicare a buon diritto l’immagine biblica del granello di senape. Dapprima infatti si trattava di una semplice dichiarazione breve che concerneva l’atteggiamento dei cristiani verso il popolo ebraico. Col trascorrere del tempo poi, e soprattutto a motivo della discussione tenuta in quest’aula, quel granello, per vostro merito, è riuscito quasi un albero, su cui molti uccelli già trovano il loro nido, cioè in essi, almeno in qualche modo, tutte le religioni non cristiane occupano il loro posto quasi nello stesso modo in cui il Sommo Pontefice felicemente regnante nell’Enciclica Ecclesiam Suam abbraccia tutti i non cristiani»[32].

Non meno importante della formulazione della Nostra aetate per la vita della Chiesa fu il processo attraverso il quale la Chiesa latina si aprì a un fecondo dialogo con le varie Chiese orientali, ampliando la comprensione che la Chiesa ha di sé stessa come veramente cattolica. Nel novembre 1964 il Concilio pubblicò un decreto sulla comunione tra la Chiesa latina d’Occidente e le Chiese cattoliche d’Oriente, Orientalium Ecclesiarum, affermando che «il santo Concilio molto si rallegra della fruttuosa e attiva collaborazione delle Chiese cattoliche d’Oriente e d’Occidente»[33]. Massimo IV e Bea furono tra i pionieri di questo continuo processo di ascolto e apprendimento reciproco.

Nel 1985, vent’anni dopo la pubblicazione della Nostra aetate, la Chiesa chiarì ulteriormente come l’impegno in un dialogo costruttivo con il popolo ebraico dovesse essere distinto dalle questioni diplomatiche e politiche relative allo Stato d’Israele e al popolo palestinese. I cattolici possono certamente comprendere l’attaccamento religioso degli ebrei alla terra d’Israele, ma Israele in quanto Stato deve essere soggetto al diritto internazionale. «I cristiani sono invitati a comprendere questo vincolo religioso che affonda le sue radici nella tradizione biblica, pur non dovendo far propria un’interpretazione religiosa particolare di tale relazione. […] Per quanto si riferisce all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un’ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale»[34].

Questa tensione tra il dialogo religioso, spirituale e teologico con il popolo ebraico e il conflitto tra Israele e Palestina è tuttora al centro dei rapporti tra ebrei e Chiesa cattolica. Nel suo discorso ai cristiani non cattolici e ai rappresentanti delle altre religioni, il giorno dopo l’inaugurazione del suo pontificato, papa Leone XIV ha affermato: «A motivo delle radici ebraiche del cristianesimo, tutti i cristiani hanno una relazione particolare con l’ebraismo. La Dichiarazione conciliare Nostra aetate (n. 4) sottolinea la grandezza del patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, incoraggiando alla mutua conoscenza e stima. Il dialogo teologico tra cristiani ed ebrei rimane sempre importante e mi sta molto a cuore. Anche in questi tempi difficili, segnati da conflitti e malintesi, è necessario continuare con slancio questo nostro dialogo così prezioso»[35].

La soluzione dei «conflitti e malintesi» nel rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico sarà notevolmente facilitata quando gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi sapranno trovare un modo di convivere in condizioni di uguaglianza, giustizia e pace. Paolo VI, nel suo messaggio natalizio del 1975, lanciò un appello in tal senso: «Benché consapevoli delle tragedie non lontane che hanno spinto il Popolo Ebraico a ricercare un sicuro e protetto presidio in un proprio Stato sovrano e indipendente, […] vorremmo invitare i figli di questo Popolo a riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni di un altro Popolo, che ha anch’esso lungamente sofferto, la gente palestinese»[36]. Tutti i Pontefici successivi hanno ripreso più volte questo appello.

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[1] J. Isaac, «Notes about a crucial meeting with John XXIII», in Council of Centers on Jewish-Christian Relations (ccjr.us/dialogika-resources/documents-and-statements/jewish/isaac1960), 13 giugno 1960.

[2] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia, Morcelliana, 2015, 7.

[3] Cfr J. Borelli, «Correcting the Nostra Aetate Legend: The Contested, Minimal, and Almost Failed Effort to Embrace a Tragedy and Amend Christian Attitudes Toward Jews, Muslims, and the Followers of Other Religions», in K. Ellis (ed.), Nostra Aetate, Non-Christian Religions and Interfaith Relations, Cham, Palgrave Macmillan, 2021, 31.

[4] Esempi di questa categorizzazione si trovano nell’importante storia del Concilio di G. Caprile (ed.), Il Concilio Vaticano II: Cronache del Concilio Vaticano II. Quarto Periodo, Roma, La Civiltà Cattolica, 1965, 277 s.

[5] Un esempio di questa posizione è il libro di A. Melloni, L’altra Roma. Politica e S. Sede durante il Concilio Vaticano II (1959-1965), Bologna, il Mulino, 2000, 310-318.

[6] Cfr P. Doria, Il contributo del patriarca Maximos IV Saigh e della Chiesa greco-melchita al Concilio Vaticano II, Todi (Pg), Tau, 2023.

[7] Cfr Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», in L’Église Grecque Melkite au Concile, Rabweh, Dar al-Kalima, 1967; traduzione inglese e presentazione di R. Taft (melkite.org/faith/faith-worship/chapter-14).

[8] Ivi.

[9] Ivi.

[10] Citato in S. Shofani, The Melkites at the Vatican Council II: Contribution of the Melkite Prelates to Vatican Council II, Bloomington, AuthorHouse, 2005, 106 s.

[11] K. Rahner, «Towards a Fundamental Theological Interpretation of Vatican II», in Theological Studies 40 (1979/4) 717.

[12] I contatti ebraici di Bea annunciarono che avrebbero nominato un funzionario civile israeliano, Chaim Wardi, come referente presso la Chiesa a Roma, con l’approvazione del governo israeliano. Il passo suscitò indignazione sia in Vaticano sia in Medio Oriente. La conseguenza fu il ritiro del documento sugli ebrei dall’agenda della prima sessione del Concilio.

[13] Paolo VI, s., Allocuzione nel solenne inizio della seconda sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963.

[14] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 141.

[15] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.

[16] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 22.

[17] Paolo VI, s., Enciclica Ecclesiam Suam, 6 agosto 1964, n. 111.

[18] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.

[19] Cfr «Liban – Chronique», in Proche-Orient Chrétien, 14 (1964) 368.

[20] S. Shofani, The Melkites at the Vatican Council II, cit., 107.

[21] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 147.

[22] Ivi, 152.

[23] Ivi, 153 s.

[24] Il comunicato venne riprodotto in Proche-Orient Chrétien, 14 (1964) 393-396.

[25] Maximos IV, «Chapter 14: The Church and Other Religions», cit.

[26] Cfr «Una Lettera del Santo Padre ai Patriarchi con sede nei Paesi Arabi», in L’Osservatore Romano, 6 gennaio 1965.

[27] Acta synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, V/3, 319 (archive.org/details/ASV.3/page/318/mode/2up?view=theater).

[28] C. Stackaruk, «Retrieving MENA Catholics’ Contributions to Nostra Aetate», tesi di dottorato, University of St. Michael’s College, 2022, 193.

[29] Un resoconto affascinante e puntuale del ruolo di Maximos IV si trova in P. Doria, Il contributo del patriarca Maximos IV Sajgh…, cit., 75-103.

[30] Cfr J.-J. Pérennès, Georges Anawati (1905-1994): Un chrétien égyptien devant le mystère de l’Islam, Paris, Cerf, 2008.

[31] A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, cit., 160.

[32] Ivi, 155.

[33] Paolo VI, s., Decreto sulle Chiese cattoliche orientali Orientalium Ecclesiarum, 21 novembre 1964, n. 30.

[34] Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, 1985 (tinyurl.com/bdshvbcb).

[35] Leone XIV, Discorso ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali e di altre religioni, 19 maggio 2025.

[36] Paolo VI, s., Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura romana, 22 dicembre 1975, in vatican.va/feed/rss

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