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Medioevo psichiatrico


Questo mio contributo è triste, buio, in contrapposizione alla radiosa fiducia con la quale guardiamo al futuro psichedelico. Volevo descrivere con alcune pennellate, parziali e sintetiche, la situazione attuale della Psichiatria in cui si colloca la rinnovata richiesta psichedelica degli ultimi anni, denominata Rinascimento psichedelico e la pressione che sta portando avanti l’Associazione Luca Coscioni, denominata Illuminismo psichedelico.

L’attuale situazione complessiva in cui si trova la cura della salute mentale assomiglia all’epoca medioevale. Perché ho pensato al Medioevo?

Innanzi tutto perché è un’epoca storica radicata nel nostro passato, agganciata a cose vecchie.

L’uso degli psicofarmaci si basa sui piedistalli della cosiddetta psichiatria biologica. Che questo approccio riduzionista abbia portato scarsi progressi alla definizione delle cause biologiche delle malattie psichiatriche è palese, lo dicono i sacri testi di psicofarmacologia da tempo, come Stahl.1

Le attuali ipotesi che le singole malattie siano sostenute da singole lesioni biochimiche della neuro-trasmissione come causa di uno specifico disturbo è superata, ma, di fatto, gli psicofarmaci prescritti si basano su quelle teorizzazioni, agiscono sulla neuro-trasmissione.

I primi anti-psicotici appaiono negli anni 50 e, dopo il risperidone, capostipite degli atipici di cosiddetta seconda generazione, non ne sono apparsi altri di significativamente nuovi. Le formulazioni long acting anche a lunghissimo deposito non sono certo novità e innovazione. Tra l’altro i vecchi depot sono scomparsi per lasciar spazio ai nuovi farmaci deposito che non hanno dimostrato migliore efficacia dei vecchi. Il risperidone viene approvato dalla FDA nel 1993. (Tra parentesi la spesa consistente della ricerca per queste novità che non sono novità dal risperidone in poi testimoniano proprio il paradosso della loro scarsissima capacità di agire sulla riduzione della prevalenza di psicosi, a fronte di investimenti cospicui).

Il litio, farmaco stabilizzatore dell’umore tutt’ora molto in uso per la sua efficacia è stato approvato da FDA nel 1970. In seguito non sono apparse molecole di efficacia superiore al Litio, ma solo cosiddette seconde scelte. L’azione del sale a grande concentrazione nel cervello agisce quale stabilizzatore in modo non del tutto conosciuto sulla membrana della cellula nervosa, a riprova che l’efficacia dei trattamenti sulla mente, in questo caso sull’umore, non va di pari passo con un preciso conosciuto funzionamento che spieghi la stabilità umorale.

Le benzodiazepine sono antichissime. Il clordiazepossido viene scoperto nel 1957, il diazepam data 1960. Da allora si sono sintetizzate tante altre molecole, ad emivita lunga o a emivita corta, ma nessuna novità sostanziale riguardante calmanti con minori effetti collaterali, con assenza di dipendenza e assuefazione, che sono le problematiche maggiori di questa categoria di farmaci molto in uso.

Gli antidepressivi? Il Prozac, cosiddetta pillola della felicità, entra nel mercato come SSRI attorno al 1990 e segna una grande differenza rispetto agli anti-depressivi precedenti. I successivi farmaci mee too non presentano un’efficacia sostanzialmente superiore. Su questo fronte siamo fermi a 35 anni fa. Un’eccezione è rappresentata dalla sola esketamina, unica novità relativamente recente, isomero della ketamina, un’anestetico, che ha portato novità nel trattamento della depressione proprio per la sua proprietà d’azione. L’esketamina rappresenta però anche quella novità che rischia di essere inglobata nella modalità di azione classica dello psicofarmaco e di far perdere di vista la potenzialità innovativa trasformativa, avendo un’azione sulla mente di tipo parziale psichedelico e quindi non solo in senso di recupero sintomatologico di un umore depresso.

In sintesi abbiamo a che fare con una farmacopea di capostipiti antichi.

In questa assenza di novità farmacologiche vere si apre l’offerta degli psichedelici. Se andiamo a vedere in quali disturbi questa nuova modalità di fare medicina e psicoterapia è più efficace, scopriamo che sono aree di sofferenza in cui ben poco sono stati efficaci i farmaci classici, per non dire per nulla anche se prescritti comunque

Nel disturbo post traumatico da stress non ci sono indicazioni farmacologiche, solo indirizzi di tipo psicologico. L’angoscia del trauma antico ri-attualizzato si spegne, usando farmaci, spegnendo la persona interamente, non esiste una chimica specifica che spenga solo il tasto del trauma pregresso.

Nella depressione farmaco-resistente è indicata nelle linee guida quale alternativa l’elettroshock, la stimolazione magnetica transcranica, gli ormoni tiroidei, un mescolamento con altri farmaci e l’esketamina.

L’angoscia di morte nel fine vita viene trattata non come entità a sé, ma coi sedativi a disposizione, minori o maggiori.

Nelle dipendenze e nel craving impulsivo si usa quello che abbiamo secondo sintomatologia astinenziale e prove empiriche. Nei SerD si usano un sacco di farmaci, ma ben sappiamo la difficoltà di distogliere l’attenzione mentale sul contenuto del desiderio compulsivo. Bupropione, un antidepressivo, per il tabacco; valproato di sodio, un anti epilettico, per il craving alimentare; la clonidina, un anti-ipertensivo, per gli oppioidi sono esempi di una varietà di magazzino estremamente ampia.

Come imperava nel Medioevo, abbiamo a che fare nella Psichiatria attuale con una “verità” metafisica, fuori dal mondo, un concetto sospeso per aria che è quello delle malattie mentali. Le malattie mentali non esistono, amici coscioniani. Esistono categorie dove incasellare le forme di espressione della sofferenza e del disagio e questo per motivi di ricerca, per parlare un linguaggio comune tra psichiatri, come ci hanno insegnato. Dicendo che le malattie mentali non esistono sto rischiando l’ennesimo rogo entro il quale sono stati già bruciati anti-psichiatri, sociologi spinti e antropologi vari. Le malattie mentali sono una nostra astrazione, come l’occhio di Dio, la mano di Dio, astrazioni utilissime per guidare il popolo, ma fra di noi, amici, dobbiamo dircelo: secondo la metodologia della scienza in Psichiatria abbiamo a che fare non con quello che chiamiamo patologia, ma con un insieme di segni e sintomi che chiamiamo complesso sindromico, non una vera malattia, come lo è la polmonite da pneumococco, un tumore del cervello o l’infarto del miocardio. Impostare la cosa così non significa negare la sofferenza della mente e attribuire tutte le colpe alla società, sbrigativamente, ma significa proprio nel rigore scientifico: stiamo attenti che quello che vediamo nel cervello non sia qualcosa di parziale, vedi la neurotrasmissione, o l’esito della malfunzione e non la causa, vedi le placche di amiloide nella demenza. Le cause delle cosiddette malattie mentali sono molteplici e integrate fra loro, vedi modello bio psico sociale, concetto che fatica a tradursi nella pratica, come il concetto di complessità non era presente nel medioevo, dove prevaleva invece l’unicità del punto di vista.

La povertà epistemologica fondamentale della Psichiatria, come dice bene Benedetto Saraceno, non ha impedito costruzioni diagnostiche o categorie, che significano cosa fare e come andrà a finire quella persona ammalata di quella malattia, cioè fare terapia e fare prognosi. “La pretesa stabilità e coerenza dei sistemi diagnostici, dice Saraceno2 è un delitto di superbia in quanto scotomizza la fluidità, occulta il dubbio, asserisce la certezza”.

È del 1992 uno studio pionieristico dell’istituto Mario Negri3 dove si evidenziava come in una popolazione di pazienti dimessi da un servizio ospedaliero il più potente determinante di ri-ammissione, di ri-ospedalizzazione, di ricaduta, di necessità di ricovero era la tipologia organizzativa del servizio psichiatrico che aveva in carico il paziente, come dire sono altri i fattori che incidono, non quelli della presunta verità diagnostica.

Se una diagnosi medica non incornicia completamente il processo che spiega la sofferenza mentale e se ci sono altri determinanti, oltre a quelli che abbiamo rintracciato come alterazioni nel cervello sinora, significa che dobbiamo aprirci a conoscere tutto quello che concorre al bene e al male di una mente, ricordandoci che la mente non è il cervello.

Ha a che fare col Medioevo anche un altro aspetto, che ho battezzato col binomio di contrasto: umiltà e potere. Credo che l’epoca medioevale della nostra storia così come ce l’hanno riportata, sia stata costellata da persone piene di umiltà, i santi e non solo, e in netta contrapposizione con loro, i potenti, i Papi ma non solo. Riflettendo sulle buone pratiche in salute mentale, mi è venuta la parola umiltà, in contrapposizione a pratiche prevaricatorie, personalistiche, narcisistiche ahinoi presenti nei contesti organizzati di un Dipartimento di salute mentale.

Non è forse l’umiltà che sta alla base dell’armata quasi cavalleresca che porta avanti la pratica della de-prescrizione psicofarmacologica? Meglio togliere, aiutare le persone a ridurre gli psicofarmaci, a pensare di assumere qualcosa per un periodo limitato, non per tutta la vita, meglio andare in accordo con l’interessato che non li assume volentieri ‘sti farmaci, affrontando assieme la desistenza, contro un accanimento che non è sicuro che dia risultati. Ne ha parlato il dott. Giuseppe Tibaldi, presente al webinar precongressuale del 17 settembre scorso sulla salute mentale.

Non è qualcosa che ha a che fare con umiltà quello che fa dire al dott. Raffaele Barone, presente pure lui al webinar, “gli psichiatri devono non essere più esperti”, togliere cioè loro il camice bianco del sapere potente come nella spoliazione di certi umili; soprattutto di umile ci trovo questo: importare dalla Finlandia, dove è nato il Dialogo aperto, qualcosa che là funziona, studiarlo, formarsi e applicarlo da noi. Tollerare l’incertezza, uno dei principi ispiratori del modello del Dialogo aperto, mi pare molto umile.

La presenza in tutti i contesti di cura della salute mentale degli esperti per esperienza, degli esperti in supporto fra pari, i cosiddetti ESP, sono uno spazio di eccellente umiltà, rosicchiano con gentilezza il marmoreo statuario indiscutibile fare dello strizzacervelli. Il fare-assieme-tutto-attaccato partito da Trento mi pare sia una pratica collaborativa che sta da tutt’altra parte rispetto alla gestione autoritaria o paternalistica o educativa verso chi ha bisogno di aiuto. L’utente alla pari funge da garante di un equilibrio tra chi ha bisogno e chi offre aiuto che deve essere assicurato nel rispetto reciproco di competenza ed esperienza, senza sopraffazione alcuna nelle varie relazioni complementari che il paziente incontra nel suo percorso di cura.

L’elenco di buone pratiche potrebbe continuare perché esistono in Italia, nel senso trasformativo auspicato anche di recente dall’OMS4. Ma la scarsa capillarità, nonostante le società nazionali varie, di queste buone pratiche fa pensare ai castelli medioevali, belle realtà chiuse non diffuse e poco conosciute anche dagli addetti ai lavori.

Note


1Stephen Stahl, Psicofarmacologia essenziale, Centro Scientifico Editore, 2002, pag.102

2 Benedetto Saraceno, Sulla povertà della psichiatria, Ed comunità concrete, 2017

3 Barbato, Terzian, Saraceno, Montero Barquero, Tognoni, Patterns of aftercarefor psychiatric patients discharged after short inpatient treatment: an italian collaborative study, Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, n.27, 1992

4 Luke Taylor, One billion people have mental health conditions, WHO says, BMJ 2025 del 04/09/2025

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