REPORTAGE – CUBA. Una macchina turchese nelle mani di Yemajà
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di Valeria Cagnazzo
Pagine Esteri, 07 agosto 2023 – Il turchese perfetto – La luce è perfetta. La parete turchese del salotto si apre con una porta finestra sul palazzo di fronte, anch’esso di un turchese accecante in quest’ora del giorno. Il sole disegna la sagoma dell’intercapedine e getta sulle piastrelle ocra del pavimento della casa la forma esatta dell’infisso, un abbagliante rettangolo di luce bianca distesa per terra. Intorno alla pozza luminosa e celeste, due sedie a dondolo. L’isola è probabilmente tenuta in equilibrio sull’oceano dal dondolio incessante dei cubani sulle loro sedie preferite. E due poltrone mezzo sfondate protette dalla polvere con larghi rivestimenti beige lavorati all’uncinetto – anche lì sopra, i raggi del sole che arrivano dallo squarcio turchese si uniscono alla trama del tessuto con una tenerezza commovente. Una luce così si incontra raramente. Sarebbe da immortalare subito in una fotografia, una cartolina antica e azzurra da riceverci migliaia di gradimenti sui social o da usare come copertina per un reportage di viaggio. Ma Ada sta raccontando, la sua voce è pacata e ferma mentre, seduta composta in un angolo di penombra fresca della stanza, passa in rassegna le sue preoccupazioni per il Paese, e non la si può interrompere per fotografare la luce perfetta di questo istante nella “casa particular” in cui lavora.
Ada non è il suo vero nome. Indicando il piano superiore del palazzo, che si affaccia sul patio al centro della casa, dice che, se i vicini la sentissero adesso, mentre si lamenta del governo, del cibo che non basta più e della sanità al collasso, nel giro di due ore si troverebbe la polizia sull’uscio, allertata dal Comitato di Difesa della Rivoluzione (CDR) locale. Neanche sua è la casa, dove vive col marito e le due figlie. Per quanto per venire a dormire in questa “casa particular”, una sorta di bed and breakfast sud-americano, il passaparola sia: “A L’Avana, vai nella casa di Ada”. Un appartamento coloniale, tutto colori pastello, porte a vetro, archi, piante e santi esotici appesi agli angoli, nel cuore della città “vieja”, che appartiene in realtà a un cubano emigrato in Florida e che ogni tanto passa da Cuba per controllare i suoi affari. “L’americano”, lo chiamano. “Fino a qualche anno fa, io e la mia famiglia abitavamo in un appartamento più piccolo delle camere da letto di questa casa, vivevamo gli uni sugli altri”, dice Ada. Adesso gestiscono la casa del ricco proprietario, la tengono pulita, accolgono gli ospiti, custodiscono questo simulacro coloniale e tutto quello che rappresenta, come se la muffa azzurra alle pareti la trattenesse cent’anni indietro, insieme al resto della città.
“La gente a Cuba è disperata, ormai sarebbe disposta a tutto”, spiega per giustificare i consigli a non camminare sul bordo delle strade, specie in quelle poco affollate, né a farsi avvicinare da sconosciuti. “Chiunque oggi rivolga la parola ai turisti, lo fa per chiedere soldi”, dice stringendosi nella sua maglietta fluorescente con la scritta “Moschino”, che viene da chiedersi da dove sia arrivata a Cuba con quel marchio lì, una maglietta del genere. Da dove arrivino le cose, con l’embargo che stringe l’isola in questa inedita morsa di fame. Da dove sia arrivato persino il pappagallo sul patio, comparso oggi con la sua gabbietta troppo stretta dopo tre giorni in cui era stato segregato chissà in quale ala della casa, per non appestare con l’odore dei suoi mangimi le nostre colazioni di uova e frutta tropicale. Per i turisti, uova e frutta si tirano sempre fuori da qualche posto sconosciuto, e i pappagalli si nascondono. Per gli abitanti dell’isola, le cose vanno al contrario.
“I prezzi sono diventati insostenibili”. C’è un prima e un dopo nelle parole di Ada. Lei identifica nella pandemia la cesoia che ha drasticamente condannato Cuba alla fame. In un Paese sotto embargo che dipendeva principalmente dal turismo per la sua economia, gli anni di isolamento internazionale hanno lasciato conseguenze drammatiche. “Se fino a tre, quattro anni fa, con “la libreta” avevamo garantiti, per dire, sei chili di riso al mese, adesso il governo ce ne passa mezzo, ma con mezzo chilo di riso come si sopravvive?”, chiede a proposito della tessera annonaria che, dalla rivoluzione in poi, stabilisce per ogni cittadino residente a Cuba la razione di prodotti acquistabili mensilmente a prezzo politico.
Svuotati – I negozi di alimentari sono semideserti. Alcune stanze protette da sbarre metalliche si affacciano sui marciapiedi improvvisando vendite al dettaglio e illegali di “refrescos” e bottiglie d’acqua a 200 pesos l’una (circa un euro e mezzo) dal retrogusto di petrolio o di ammorbidente per i vestiti. Le farmacie hanno sempre la porta d’ingresso spalancata sulla strada per mostrare file di scaffali immancabilmente vuoti. Al bancone, c’è puntualmente un farmacista a mani vuote che guarda inerme un cliente. Fuori un cartello invita gli avventori a portarsi dietro un barattolo da casa in cui versare le compresse e gli sciroppi – se disponibili.
I beni di prima di necessità semplicemente non ci sono, e quei pochi che si trovano in commercio hanno prezzi troppo alti. “Meglio di chi vive in città ci sono sicuramente i contadini che abitano in campagna”, osserva Ada, “che possono almeno prodursi direttamente qualcosa da mangiare”, ma anche per loro la situazione è cambiata bruscamente negli ultimi anni. I prezzi del mercato ortofrutticolo, stabiliti dallo Stato, sono aumentati, infatti, di tre o quattro volte rispetto al passato, mentre è rimasta costante la retribuzione statale agli agricoltori per le stesse materie prime. Per questo sempre più contadini, piuttosto che vendere allo Stato, preferiscono dirottare i loro prodotti sul mercato nero per sperare in guadagni più equi o scelgono, addirittura, di produrre meno per assicurare quasi esclusivamente la sussistenza delle loro famiglie. Intanto, gli alimenti a disposizione sul mercato continuano a ridursi e il loro costo cresce in maniera esponenziale, una legge della domanda e dell’offerta che affama tutti.
Cuba sta combattendo con una crisi economica e umanitaria senza precedenti, paragonabile soltanto a quella del “periodo especial” – la depressione economica che Cuba affrontò a partire dal 1991 dopo la caduta dell’URSS, suo fondamentale alleato politico e commerciale. Nonostante le restrizioni internazionali e un’agricoltura per niente diversificata, basata su zucchero e tabacco, facendo affidamento soprattutto sul turismo, l’isola era riuscita a resistere dignitosamente all’embargo storico. Poi, nel giro di pochi anni, una serie di fattori l’hanno fatta sprofondare nella congiuntura attuale.
Gli anni fatali – Il primo fattore si chiama Donald Trump: durante il suo mandato, ha inasprito le misure contro Cuba che la presidenza Obama aveva alleggerito e ne ha introdotte di nuove. Ha vietato il turismo statunitense nell’isola e abbassato il tetto di denaro che gli emigrati cubani negli States possono inviare ai loro parenti a Cuba. Non solo: agli sgoccioli della sua permanenza alla Casa Bianca, l’ha reinserita nella lista dei Paesi Sponsor del Terrorismo (SSOT), dalla quale Barack Obama l’aveva rimossa nel 2015. A farle compagnia, Corea del Nord, Siria e Iran. Un veto assoluto per gli scambi commerciali con l’isola che ha influenzato anche gli altri attori internazionali, spaventati dalle sanzioni economiche di Washington nei loro stessi confronti qualora avessero continuato a trafficare con l’isoletta nei Caraibi. Da un giorno all’altro, si racconta, il porto di L’Avana si è svuotato di tutte le navi commerciali. Una larga distesa azzurra che prometteva una crisi inedita.
All’effetto Trump si è aggiunta poi la pandemia, una catastrofe per un Paese dipendente dal turismo. Secondo Bloomberg News, il numero di turisti è crollato dai quattro milioni del 2019 ai 356.000 del 2021. Un danno inestimabile. Per richiamarli, è stata abolita la moneta per gli stranieri, il CUC, ed è stato loro concesso di utilizzare la moneta dei cubani, il CUP, a cambi ballerini – prima di 1 dollaro a 25 CUP, poi di 1 a 120, poi a un’arbitrarietà che i turisti li stravolge (ma lo racconterò più avanti). E’ stato persino lanciato un programma di ristrutturazioni per favorire il turismo, ma in assenza di materie prime gli sforzi edilizi non si possono realizzare.
La guerra tra Russia e Ucraina non ha, infine, migliorato la situazione, riducendo ulteriormente le esportazioni e gli aiuti all’isola, un rubinetto ormai asciutto. Anche il soccorso umanitario – le ONG non sono legali, ma lavorano nell’ombra integrandosi con il sistema – si è drasticamente impoverito anche qui, come nel resto del mondo.
Nel maggio 2022, l’amministrazione Biden aveva lanciato “una serie di misure di supporto per la popolazione cubana”, in linea con la nuova politica promessa dal Presidente nei confronti dell’isola. Poco o niente, però, è cambiato nei rapporti tra i due Paesi e le restrizioni per l’economia cubana restano ancora pressoché tutte in vigore. Né Biden ha ancora cancellato Cuba dalla lista degli SSOT.
Il risultato è questa “mancanza”, che assedia tutto. Mi domando molte volte, camminando per le strade di L’Avana, sorseggiando un refresco al mamey (impareggiabile frutto scoperto sull’isola) o gettandomi addosso acqua che sa di ammorbidente, cosa resterebbe se a quest’isola togliessero il turchese e le auto d’epoca. Il Campidoglio che imita quello statunitense, certo, i viali alberati, la Chiesa di San Francesco, ma si tratta di soggetti “inanimati”. Le Lada, forse, le automobili dell’industria russa fondata nel ’66 a Togliatti, scatoline mobili con la classica forma della macchina nei disegni dei bambini: il cofano, i quattro sportelli, il portabagagli, definiti da linee geometriche precise. Mi appassionano forse di più delle auto d’epoca del periodo americano – indubbiamente più fotogeniche, ma affidate ai turisti per giri di mezz’ora a non meno di 50 dollari. Serie, le Lada, sovietiche, con le loro famiglie proletarie dentro, i bambini sui sedili posteriori con le teste tonde, che mi immagino silenziosi o capaci solo di domande di algebra o sull’autobiografia certificata di Bakunin. Un viavai di Lada, forse, ma tutto intorno, comunque, la fame. Una fame che non è giusta mai, in nessuna parte del mondo. E qui o la si affronta o ci si affida a Yemajà.
Nelle mani di Yemajà – Le statue degli Orisha sono disposte lungo le pareti delle due sale al secondo piano del museo Yoruba, nel centro di L’Avana, poco lontano dal Campidoglio. Sono di gesso grigio, forme stilizzate e morbide, avvolte in una semi-penombra afosa. Talvolta il loro altarino è circondato da posticce piante di plastica. Yemajà è in un angolo sulla parete sinistra della prima sala, tiene le mani incrociate sul petto, il suo corpo emerge da un mare stilizzato – non c’è acqua. Gli Orisha sono le divinità ereditate dai cubani dalla mitologia yoruba, che gli schiavi deportati dall’Africa diffusero sull’isola tra il XVII e il XVIII secolo. A contatto con il cristianesimo dei coloni spagnoli, il pantheon degli Orisha si fuse e si integrò con quello dei santi cattolici, dando origine per sincretismo alla cosiddetta “santeria”, una religione che conosce ancora molti adepti tra i cubani, spesso riconoscibili per le loro tuniche bianchissime in giro per l’Avana o Trinidad.
La visita al museo degli Yoruba prevede questo: un giro intorno alle sue sale con sosta e descrizione davanti a ogni statua della divinità che rappresenta e delle sue caratteristiche. Eshù è l’orisha degli incroci della vita, dei bivi, dell’instabilità, ma è anche il messaggero degli dei, una specie di Mercurio; corrisponde a San Michele o a Sant’Antonio – la santeria mi sembra molto devota a Sant’Antonio. Ogun è il dio del fuoco, del ferro e dell’agricoltura, corrispondente a San Paolo e a San Giovanni Battista. Chango è il dio macho della giustizia e del tuono, una sorta di Zeus pronto ad accoppiarsi con qualsiasi creatura divina o terrestre, e così via. Il tour in passato prevedeva probabilmente la visita di altre sale, ma un’intera ala dell’edificio è stata distrutta nel maggio del 2022, quando una fuga di gas provocò l’esplosione del vicino Hotel Saratoga. Almeno 22 persone persero la vita nell’incidente, oltre 60 rimasero ferite. Le macerie di quello che rimane dello storico albergo di lusso formano ancora una montagnetta al lato del museo.
Yemajà è la madre degli dei e la divinità del mare. Può proteggere i naviganti o scatenare tempeste con la sua furia distruttrice. Accanto a lei, la guida del museo, un anziano habanero che schiuma nella sua camicia a maniche lunghe e che porta avanti la visita con un ininterrotto eloquio impastato senza mai concedersi un goccio d’acqua, si ferma con uno sguardo più commosso. “In questo Paese, abbiamo tutti creduto nell’Utopia. Ma quando l’utopia si sgonfia, rimane la realtà. E da questa realtà, le persone scappano”. Yemajà è la divinità dei migranti che si gettano in mare, dei barchini lanciati contro l’oceano in tutte le stagioni dell’anno, di chi preferisce affrontare le tempeste piuttosto che morire di fame. Parla con tono complice, il guardiano del museo, come a strizzare l’occhio a chi, provenendo dal Paese nel cuore del Mediterraneo, sa bene di che carico di morte si parli. “Le stime ufficiali”, dice, “parlano di almeno 250.000 cubani che hanno cercato di raggiungere gli Stati Uniti nell’ultimo anno. I numeri ufficiosi di questi viaggi clandestini, però, sono molto più alti”.
Tra il 2021 e il 2022, il numero di cubani fuggiti negli Stati Uniti è passato da 33.000 a oltre 250.000 persone. Circa il 2% della popolazione cubana, che conta 12 milioni di abitanti, sarebbe emigrata nell’ultimo anno verso gli Stati Uniti. Lasciare Cuba per vie legali è molto complicato, perché il governo applica restrizioni nei confronti di chi entra ed esce dal Paese in nome della “sicurezza nazionale”. Per ottenere un visto bisogna imbarcarsi in una giostra di burocrazia, controlli, indagini famigliari, che spesso si conclude con un diniego da parte delle autorità supportato da argomenti arbitrari. Spesso, l’unica soluzione è fuggire clandestinamente e affidarsi ai trafficanti di esseri umani, investendo nel viaggio tutti i propri risparmi.
Si affronta il mare e poi si viaggia via terra, attraverso le foreste, verso gli Stati Uniti. I confini tra Colombia e Panama e quelli con il Messico sono le zone più pericolose. Da quando il governo del Nicaragua ha sospeso l’obbligo dei visti per i cittadini cubani, molti preferiscono prendere un volo e poi cominciare il loro cammino verso gli Stati Uniti da lì. Nella foresta sono in molti a perdere la vita. Una volta arrivati negli Stati Uniti, i cubani possono, però, sperare di ottenere la nuova cittadinanza nel giro di un anno. La Ley de Ajuste Cubano (Legge di Aggiustamento Cubao), risalente al 1966, permette, infatti, agli immigrati cubani che testimoniano di aver lasciato il Paese d’origine per motivi politici di ottenere la cittadinanza statunitense dopo un anno e un giorno di permanenza negli USA.
“Prendono il mare e partono, muoiono nel viaggio, non diventano nemmeno dei numeri, restano dispersi nell’oceano, per sempre. Ma la gente continua a scappare, perché dopo l’utopia c’è sempre la realtà”, ci dice la nostra guida. Poi si rivolge alla statua e alza le mani verso di lei, mormora o forse è solo il suo gesto a dircelo: “Che li protegga Yemajà!”.
Sopravvivenza o muerte – Sul Malecon, il lungomare di L’Avana lungo 9 chilometri, gli habaneri vengono a pescare non appena il sole insopportabile del giorno inizia ad abbassarsi nella tregua del tramonto. Continuano a lanciare i loro ami nell’oceano almeno fino al suono del “Canonazo” delle 21, la cerimonia dello sparo di cannone dalla fortezza di San Carlos, di fronte alla costa. Noi siamo intenti a fare un conto mentale dei CUP che abbiamo e di quelli che ci serviranno fino alla fine del viaggio, un esercizio che ripeteremo ancora molte volte. Prelevare del contante non è possibile ovunque, le banconote a volte non sono disponibili e lo schermo del bancomat si colora di arancione annunciando un non precisato “errore”, e il cambio per i turisti è arbitrario come il clima nella stagione delle piogge. Quello ufficiale delle banche è di un dollaro o un euro a 125 CUP, ma se ci si è portati degli euro da casa saranno cambiati per 170 CUP a L’Avana, per 200 a Matanzas, per 180 a Santa Clara, e così via. Una peculiare Monopoli dei cambi che disorienta e svantaggia i turisti, formalmente illegale ma gestita alla luce del sole e col tacito benestare del governo.
Siamo quindi lì a ripassare la questione dei cambi, che ci troviamo di fronte, dall’alto lato del Malecon, all’imponente palazzone sovietico dell’Hospital Clinico Quirurgico Hermanos Ameijeiras, il più importante ospedale di tutta Cuba. I piani si accavallano gli uni sugli altri nel monocolore e si confondono. Le finestre tutte uguali e strette forano stanze d’ospedale nelle quali scarseggiano le garze, il disinfettante, il paracetamolo. La sanità gratuita e d’eccellenza è stata uno dei fiori all’occhiello della rivoluzione castrista. Solo tre anni fa, come esempio dell’alto livello della formazione medica di questo Paese, i medici cubani arrivavano in Italia per aiutarla a fronteggiare la pandemia, nel frattempo gli scienziati cubani producevano un vaccino contro il Covid. Se nei porti cubani, però, non arrivano le merci, a farne le spese sono anche i malati.
Ada è stata costretta a fare una colletta con i suoi parenti per comprare i bisturi, i fili di sutura, le garze e i medicinali, quando sua zia è caduta e si è rotta il femore. Quando sua cognata ha partorito con un taglio cesareo, Ada ci racconta che in reparto scarseggiavano i cateteri vescicali e che coi parenti le hanno procurato un tubo di gomma da collegare a una tanica e da infilarle su per l’uretra. I medici sono sottopagati, circa trenta dollari al mese, insufficienti con il caro prezzi dell’inflazione, “E non possono neanche arrotondare lo stipendio investendo in una casa particular o in un’altra attività commerciale”, aggiunge Ada. Malgrado questo, continuano a lavorare – sono gli strumenti che mancano.
La figlia di Ada studia infermieristica. Nel primo pomeriggio tutti i giorni torna dall’ospedale a casa nell’afa di luglio e si ripara al fresco della cucina della casa dell’”americano”. Ada ci racconta che vuole diventare una brava infermiera, ma è sempre più frustrata. Le sue mansioni sono semplici, è al primo anno: prendere la temperatura dei pazienti, misurarne la pressione, e trascrivere i parametri sulla loro scheda. “Ma nell’ambulatorio in cui fa adesso tirocinio non c’è neanche lo sfigmomanometro. Così l’altro giorno ha chiesto al medico come potesse misurare la pressione senza avere lo strumento. Sapete che le ha dovuto rispondere? “Inventatela”. I parametri si prendono così, a occhio.”.
L’Hospital Hermanos Ameijeiras svetta poco dietro alla fila di palazzi storici che sul Malecon stanno cadendo a pezzi uno alla volta per fare spazio ai nuovi hotel di acquirenti privati internazionali. Potrebbe iniziare a cambiare volto proprio da questa costa la Cuba del Presidente Diaz Canel, che con la nuova Carta Costituzionale del 2019 ha riconosciuto la proprietà privata come parte dell’economia del Paese. Il volto dell’Ospedale è, invece, ancora quello sovietico del secolo scorso. La struttura è dedicata ai fratelli Ameijeiras: María Luisa (detta Mara), Manuel Melquíades (Chonchón), Gustavo, Salvador (soprannominato Nené), Enma, Ángel (Machaco), José (Pepincito), Evangelista, Efigenio (detto Ulisse) e Juan Manuel (il Mel). Quest’ultimo partecipò insieme al giovane avvocato Fidel Castro all’assalto alla Caserma Moncada, nella lotta contro il tiranno Batista. Vi rimase ferito e fu giustiziato nei giorni successivi. Suo fratello Efigenio fu tra i fondatori del movimento 26 luglio e partecipò alla spedizione della nave Granma nella Baia dei Porci. Anche Gustavo partecipò alla lotta clandestina contro la dittatura, nella quale perse la vita nel maggio del 1958. Pochi mesi dopo, perse la vita anche il Fratello Angel, anch’egli membro del movimento 26 luglio. Per il Paese, i fratelli Ameijeiras sono eroi nazionali, martiri della resistenza. “Un po’ come i fratelli Cervi da noi”, commentiamo, poco prima che il Canonazo esploda il suo cannone.
Le iguane silenziose della rivoluzione – Dalle città si scappa, a Cuba. Prima che i loro edifici decrepiti ti crollino addosso o che il caldo ti soffochi. I colori pastello delle case vuote non bastano a trattenere, i musei della rivoluzione sono chiusi per ristrutturazione. L’afa spinge verso il mare. Verso Matanzas, col suo nome di sangue, popolata di avvoltoi. Veri padroni del cielo cubano, volano in gruppo, a bassa quota. Vigilano in cerchio sui bambini che nei 45° gradi del mattino si allenano giocando a baseball, “beisbòl”, lo sport nazionale. O camminano nei giardini delle case o sotto gli alberi al bordo delle strade, con le loro teste rosse che emergono come braci dalle pellicce nere. Matanzas, col suo nome di massacri, i suoi ponti e con la sua minuscola casa editrice nella pacifica piazza centrale, che pubblica libri stampati a torchio e rilegati a mano in edizioni uniche, esposte nelle bancarelle in mezzo a quelle dei souvenir.
Si cerca il mare a Cienfuegos, città coloniale francese. Nella cattedrale della città, c’è la statua di una madonna – l’isola comunista è piena di chiese e di santi – alla quale le devote hanno la tradizione di regalare girasoli. Di fronte alla città, dalla parte opposta dell’anello costiero che forma un piccolo abbraccio nel mar dei Caraibi, si intravede il sito di Juraguà. Lì Fidel Castro aveva deciso di fondare il suo sogno nucleare, una centrale che avrebbe dovuto produrre almeno il 15% dell’energia dell’isola. Era l’inizio degli anni ‘80 e con il supporto economico e tecnico dell’URSS si iniziò a costruire sulla costa una vera e propria città nucleare, ma l’impresa era destinata a fallire. Con il crollo dell’Unione Sovietica e il “periodo especial”, i lavori si interruppero, finché nel 1992 Castro annunciò il definitivo abbandono dell’opera, nella quale Cuba aveva investito 1,1 miliardi di dollari. La cittadella, però, oramai esisteva, e continua a farlo: le famiglie degli operai che vi si trasferirono circa 30 anni fa popolano ancora la città occupata da edifici abbandonati e le sue strade deserte. Circa 9.000 abitanti dimenticati dal resto dell’isola, che vivono di pesca recintati nell’antico sogno nucleare.
Nel mare arancione del tramonto di Cienfuegos, di fronte alla sagoma lontana della città fantasma, gli abitanti si immergono in costume a mezzo busto per pescare con la lenza e le mani nude pesci piccoli da farci il brodo. Quando ne prendono uno, lo infilzano intorno a una cannuccia insieme agli altri, poi lanciano di nuovo il filo e aspettano trattenendolo con le dita, mentre i bambini intorno si fanno il bagno. Nel fuoco annacquato di un altro giorno che muore, sembrano lontani i malesseri dell’entroterra. Le carenze che uccidono, l’embargo che isola, la solitudine e le utopie sgonfiate. Nel mare, tutte le energie sono concentrate nel raccogliere pescetti e nell’ammirare le sagome dei figli che si tuffano.
Nella fuga universale verso il mare, poi, i turisti si rifugiano negli “all inclusive” dei Cayos, le isolette disseminate tutte attorno a Cuba e sacrificate alle vacanze dei ricchi occidentali. Lì tutto è miracolosamente disponibile. Sui buffet c’è la carne e ci sono le verdure, c’è il pane fatto a fette e anche in paninetti morbidi al latte, c’è la menta per i Mohito e il cocco per infinite pinacolada – si può avere tutto, all’infinito, finché l’esperienza del soggiorno non è esaurita. La penuria degli alimentari del Vedado o di l’Habana Vieja (due quartieri della città) sembra inverosimile, se a pochi chilometri di distanza, nella stessa terra, gli stranieri possono abbuffarsi di tutto, serviti da accaldatissimi cubani. Esattamente come doveva accadere prima del 1959 nella capitale, negli hotel di lusso per gli americani. Quella stessa disparità rivoltante che portò a mettere a ferro e fuoco l’isola per farne un simbolo, un emblema per generazioni di sinistra in tutto il mondo. Adesso, direttamente da Santa Clara, dove il Che riposa sotto al suo monumento, con un Viazul, un autobus per stranieri, si arriva a Cayo Santa Maria, dove come in un reportage di Wallace donne grassissime e bianche trascorrono le loro giornate affondate in un salvagente in piscina, collegate in videochiamata con qualche amica in Russia o negli States, sorseggiando pigramente un daiquiri.
Per lenire e dimenticare, a Cuba si viaggia sempre verso il mare. Mentre i dondoli incessanti sugli usci di Trinidad e di Matanzas evitano che l’isola vi anneghi dentro. Si fugge verso il mare di Varadero, altra lingua di terra attira-turisti per le sue spiagge abbacinanti, coi suoi cartelli segnaletici in spagnolo e in cirillico. Nella parte cubana della penisola, ogni tanto la realtà spaventosa del Paese si affaccia, quando alla sera nei ristoranti sono rimasti solo i “negros y cristianos” di contorno a piatti vuoti. Il resto, però, è ancora facile dimenticanza. Le famiglie cubane, mescolate ai cristianos stranieri, possono anche qui abbandonarsi a un silenzio pacifico che ottunde le domande. Lasciarsi cullare dalle onde e gettare nell’acqua tutte le lattine di birra che vogliono, senza paura di provocare le ire di Yemajà, perché qui il sentimento ecologico è molto molto più lontano dello spettro del capitalismo. Intanto, intorno tutto è placido. A debita distanza dai resort, continuano a moltiplicarsi le iguanine dalle code arricciate, organizzano congressi notturni nella lingua delle specie in estinzione e si confidano i loro sentimenti proletari, tramando una rivoluzione. Pagine Esteri
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