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La Terra che rileva la Terra



Un team di ricerca guidato Sofia Sheikh del Seti Institute, in collaborazione con il progetto Characterizing Atmospheric Technosignatures e il Penn State Extraterrestrial Intelligence Center, ha cercato di rispondere a una semplice domanda: se esistesse una civiltà extraterrestre con una tecnologia simile alla nostra, sarebbe in grado di rilevare la Terra e le prove dell’esistenza della specie umana? In caso affermativo, quali segnali rileverebbe e da quale distanza?

Per rispondere, i ricercatori hanno usato un approccio teorico, basato su formule matematiche e una stima realistica dei parametri in gioco (risoluzione angolare e sensibilità in primis, ma non solo), rappresentativa dello stato dell’arte degli strumenti attualmente presenti sulla Terra o in volo – come il James Webb Space Telescope (Jwst) o, per i manufatti sulla superficie di altri pianeti, il Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro).

Nello studio, gli autori si concentrano sui tecnosegnali di origine terrestre che potrebbero essere osservabili a distanze interstellari utilizzando la nostra attuale tecnologia – ecco il motivo del curioso titolo, Earth detecting Earth – per stabilire standard quantitativi per la loro rilevabilità. È il primo lavoro ad analizzare più tipi di segnali tecnologici (trasmissioni radio, tecnofirme atmosferiche, emissione ottica e infrarossa, isole di calore, oggetti nello spazio o sulla superficie di altri pianeti) e a fornire un quadro chiaro e piuttosto completo.


Rappresentazione artistica di alcuni tecnosegnali di origine terrestre. Crediti: Jacob Haqq-Misraa, Edward W. Schwieterman, Hector Socas-Navarro, Ravi Kopparapu, Daniel Angerhausen, Thomas G. Beatty, Svetlana Berdyugina, Ryan Felton, Siddhant Sharmaa, Gabriel G. De la Torre, Dániel Apai, TechnoClimes 2020 workshop participants – sciencedirect.com/science/arti…, CC BY 4.0

Come c’era da aspettarsi, la prima (e più rilevante) tecnologia analizzata è quella delle trasmissioni radio, ampiamente usata anche in ambito Seti. L’uomo utilizza le radiofrequenze per comunicare, al fine di trasmettere in modo efficiente le informazioni alla velocità della luce su lunghe distanze, anche attraverso i comuni fenomeni atmosferici, come le nubi. In particolare, i ricercatori hanno calcolato la rilevabilità di quattro classi di emissioni radio: 1) trasmissioni radio intermittenti e puntate verso il cielo, come quella impiegata dai segnali Meti (Messaging Extraterrestrial Intelligence) trasmessi intenzionalmente, come il messaggio di Arecibo e le trasmissioni radar su scala planetaria per la caratterizzazione di asteroidi e pianeti; 2) trasmissioni radio persistenti e puntate verso il cielo, come la Deep Space Network (Dsn) della Nasa, utilizzata per la comunicazione tra le sonde spaziali e le stazioni di terra; 3) emissioni radio persistenti e omnidirezionali, come ad esempio torri cellulari, emittenti televisive e stazioni radio; 4) segnali radio provenienti da risorse spaziali, come il downlink da orbiter planetari.

I risultati hanno rivelato che i segnali radio come quello inviato da Arecibo nel 1974 sono quelli più rilevabili, potenzialmente visibili fino a 12mila anni luce. I segnali della Deep Space Network sono rilevabili a 65 anni luce, mentre il terzo caso è rilevabile a 4 anni luce. Infine, il Voyager, è rilevabile solo a 0,97 anni luce. Si noti come le distanze dei primi due casi superino lo spazio percorso dalla trasmissione dei segnali stessi; pertanto, anche se questi segnali fossero rilevabili a queste distanze, non le hanno ancora raggiunte.

Lo studio presenta quindi i risultati ottenuti per i tecnosegnali di origine atmosferica. Sicuramente, uno dei contributi tecnologici dell’umanità alla composizione atmosferica della Terra è quello dell’anidride carbonica (CO₂). Tuttavia, poiché la CO₂ ha molteplici fonti – alcune di origine tecnologica, altre biotiche e altre ancora abiotiche – viene studiata anche come una potenziale biofirma. Esistono tecnofirme nell’atmosfera terrestre che hanno pochissime, o addirittura nessuna, fonti non tecnologiche conosciute. Ad esempio, i clorofluorocarburi (Cfc) sono prodotti direttamente dalla tecnologia umana (con solo piccolissime fonti naturali) e la loro presenza nell’atmosfera terrestre costituisce una tecnofirma quasi inequivocabile. Il diossido di azoto (NO₂), come la CO₂, ha fonti abiotiche, biogeniche e tecnologiche, ma la combustione nei veicoli e nelle centrali elettriche alimentate a combustibili fossili rappresenta un contributo significativo alla presenza di NO₂ nell’atmosfera terrestre. Lo studio prende in considerazione proprio questa molecola. La più alta concentrazione di NO₂ si è rilevata nel 1980, con 113 ppm. Assumendo 300 ore di osservazione con l’imminente Habitable Worlds Observatory (Hwo) e un’atmosfera senza nubi, hanno trovato che la massima distanza dalla quale può essere rilevabile è 5,71 anni luce, ossia appena oltre Proxima Centauri.

Avvicinandosi ancora di più alla Terra, si potrebbero rilevare simultaneamente sempre più firme prodotte dall’uomo, tra cui luci cittadine, laser, isole di calore e satelliti, offrendo una visione completa della nostra presenza.

Attualmente, lo 0,05 per cento della superficie del pianeta è coperto da centri urbani con un forte inquinamento luminoso. Per rilevare l’emissione di questo livello di urbanizzazione, un sistema analogo alla Terra dovrebbe trovarsi a una distanza di 0,036 anni luce, cioè vicino al bordo interno della nube di Oort.


Temperatura della superficie terrestre a Milano il 18 giugno 2022. Crediti: Esa/Nasa/Jpl

Per quanto riguarda il calore, la maggior parte delle principali città sono più calde rispetto all’ambiente rurale o naturale circostante. Questo effetto di isola di calore urbana le rende più emissive nell’infrarosso e può essere quantificato con l’indice di calore urbano (Uhi), che indica di quanti gradi una città è più calda rispetto all’ambiente circostante. La città con l’Uhi più elevato sembra essere Hong Kong. Individuare queste isole di calore a distanza è una sfida. Tuttavia, se il disco di un pianeta è risolto spazialmente, i “pixel caldi” delle isole di calore potrebbero essere potenzialmente misurabili rispetto allo sfondo termico. Considerando Hong Kong, con un valore di Uhi pari a 10,5°C e un’area urbana di 1104 chilometri quadrati, osservata da uno strumento analogo a Miri del Jwst, la città riempirebbe circa un singolo pixel se osservata da una distanza di 0,416 unità astronomiche. Oltre questa distanza, il flusso in eccesso della città nel pixel sarà diluito dai pixel vicini non facenti parte dell’isola di calore. Tenendo conto del flusso diluito, gli studiosi hanno trovato che Miri potrebbe distinguere l’isola di calore di Hong Kong da un pixel vicino fino a una distanza 30 unità astronomiche, pari alla distanza di Nettuno dalla Terra.

Per “vedere” oggetti nello spazio o sulla superficie di altri pianeti occorre avvicinarsi molto di più. Una distanza massima dalla quale possono essere rivelati gli artefatti sulla superficie planetaria è di 8600 chilometri con la tecnologia attuale, come Lro.


Le distanze massime a cui ciascuna delle tecnofirme della Terra potrebbe essere rilevata utilizzando la moderna tecnologia di ricezione, in forma visiva. Sono inoltre contrassegnati vari oggetti astronomici di interesse. Crediti: Sheikh et al.

«Il nostro obiettivo con questo progetto era quello di riportare il Seti “sulla Terra” per un momento e pensare a dove siamo realmente oggi con le caratteristiche tecnologiche e le capacità di rilevamento della Terra», commenta Macy Huston, co-autrice presso il Dipartimento di Astronomia dell’Università della California, Berkeley. «Nel Seti non dobbiamo mai dare per scontato che la vita e la tecnologia degli altri siano proprio come le nostre, ma quantificare il significato di “nostre” può aiutare a mettere in prospettiva le ricerche Seti».

«Uno degli aspetti più soddisfacenti di questo lavoro è stato usare il Seti come uno specchio cosmico: che aspetto ha la Terra per il resto della galassia? E come verrebbero percepiti gli impatti attuali sul nostro pianeta», dice Sheikh. «Anche se naturalmente non possiamo conoscere la risposta, questo lavoro ci ha permesso di estrapolare e immaginare cosa potremmo pensare se mai scoprissimo un pianeta con, ad esempio, alte concentrazioni di inquinanti nella sua atmosfera».

Questo studio dimostra come i tecnosegnali terrestri possano fornire un quadro a più lunghezze d’onda per comprendere la rilevabilità della tecnologia su altri pianeti e dare forma alla nostra ricerca di vita intelligente oltre la Terra. I telescopi e i ricevitori futuri potrebbero migliorare la nostra sensibilità di rilevamento o permetterci di identificare nuovi tipi di tecnosegnali, come altre firme atmosferiche di inquinamento. Ripetere questo tipo di studio nel corso degli anni, con il progredire della tecnologia astronomica e l’evolversi dell’impatto umano sul pianeta, potrebbe fornire nuove intuizioni e perfezionare il nostro approccio alla scoperta della vita extraterrestre.

Per saperne di più:

Guarda il video su Media Inaf Tv:

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