Salta al contenuto principale


Lucia Berlin, il caleidoscopio di una vita



«Sono talmente stramba che non so neanche come si pronuncia il mio nome. Mia madre mi chiamava Lucìa, mio padre insisteva per pronunciarlo LÙSCIA, una battaglia costante nel corso della mia infanzia, che si placò solo in parte quando ci trasferimmo in Sud America e per tutti ero Lu-sì-a. Al mio secondo marito piaceva Lùscia, perciò chi mi conobbe in quel periodo (ed erano in tanti) mi chiamava così. Il mio terzo marito (rendo l’idea?) preferiva Lusìa, e dato che vivevamo in Messico ero Lusìa anche per tutti gli altri. […] Io sono tutti questi nomi»[1]. Così scriveva Lucia Berlin a un’amica poco prima di morire nel 2004.

Nata a Juneau, in Alaska, il 12 novembre del 1936, Berlin visse molteplici vite e morì relativamente giovane il giorno del suo sessantottesimo compleanno, il 12 novembre del 2004, a Marina del Rey, California. Autrice di racconti, in vita ne pubblicò 77. Pur apprezzata da alcuni scrittori come Lidya Davis, Tom Wolfe e Saul Bellow, fu sostanzialmente ignorata dal pubblico e divenne famosa solo nel 2015, 11 anni dopo la sua morte, quando Lidya Davis curò la pubblicazione di una raccolta di 43 racconti, che la fecero conoscere al grande pubblico. Da allora la sua fama è cresciuta, e oggi Berlin è considerata tra le grandi scrittrici di racconti statunitensi e nordamericane, nel canone che accoglie Grace Paley, Amy Hempel, Alice Munro, Annie Proulx, Raymond Carver e John Cheever.

In Italia, la sua notorietà è cresciuta via via con la pubblicazione delle raccolte dei suoi racconti: La donna che scriveva racconti, del 2016 e 2022; Sera in paradiso, del 2018; Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, del novembre 2024, con cui si è completata la pubblicazione dei suoi scritti, compresi due racconti inediti del 1957, che costituiscono le sue prime realizzazioni, legate a una scuola di scrittura creativa da lei frequentata.

La vita


Nota letterariamente con il cognome del terzo marito, Berlin, la scrittrice Lucia Barbara Brown nasce nel 1936 da Wendell Theodore Brown e Mary Ellen Magruder. La vita della donna è segnata da moltissimi viaggi e cambiamenti. In un’intervista del 2003 afferma di aver cambiato nella propria vita 33 abitazioni. Al seguito del padre, ingegnere minerario, solo nei primi cinque anni di vita di Lucia la famiglia si sposta nei campi minerari di Idaho, Montana, Washington e Kentucky. Durante la Seconda guerra mondiale, il padre si arruola in marina come ufficiale e parte per il Pacifico. In questi mesi la famiglia, che nel frattempo si è allargata con la nascita della sorella più piccola di Lucia, Mollie Keith, vive a El Paso, Texas, con i nonni materni[2]. Al ritorno del padre, i Brown trascorrono due anni in Arizona e poi quattro (tra il 1949 e il 1953) in Cile, dove il padre ha accettato un lavoro che darà alla famiglia sicurezza e visibilità sociale[3]. Lucia frequenta con profitto le scuole e impara fluentemente lo spagnolo. Negli anni seguenti la padronanza della lingua ispanica costituirà una risorsa economica e lavorativa importante per la donna, che non riuscirà mai a vivere di ciò che scrive[4], ma solo dei molti lavori precari che si succederanno gli uni agli altri.

Terminato il liceo, Lucia torna negli Usa per frequentare la University of New Mexico ad Albuquerque[5]. Ribelle, ma anche vittima delle attenzioni moleste del padre, Lucia si innamora e si sposa una prima volta nel 1955, a 19 anni, con Paul Suttman, uno scultore dal quale avrà i primi due figli, Mark e Jeff. Alla notizia della sua seconda gravidanza e per il suo rifiuto di abortire, il marito la abbandona[6]. Lucia inizia a scrivere a partire dal 1957, grazie a un corso di scrittura creativa al quale si è iscritta. Nel 1958 conosce il musicista Race Newton, che sposa nel giugno di quell’anno. Grazie a Race, conosce altri due uomini importanti della sua vita: il primo è il poeta Ed Dorn, che per tutta la vita ne appoggerà e sosterrà l’impegno creativo, aiutandola anche a trovare spazi di pubblicazione. Il secondo è Buddy Berlin, imprenditore e musicista jazz, che diventerà il suo terzo marito nel 1962 e adotterà i primi due figli, dando loro il cognome[7].

In quegli anni Lucia si trasferisce a Santa Fe e a New York, scrive i primi racconti, lavora a due opere, Acacia e A Peaceable Kingdom, che non completerà mai, ma che forniranno il materiale per successivi racconti, che costituiranno sempre la misura migliore della sua espressione letteraria. Se con il tempo si scopre che il suo secondo marito ha problemi di alcolismo, il terzo marito si rivela un tossicomane. Il matrimonio con quest’ultimo durerà cinque anni. Nel 1967 Buddy e Lucia divorzieranno, ma lei continuerà a usarne il cognome per firmare le proprie opere. Gli anni con Buddy sono ricchi di viaggi e lunghe permanenze in Messico o ad Albuquerque. Le risorse economiche del marito consentono alla famiglia un buon tenore di vita; vi sono momenti felici, ma il problema della dipendenza di lui e dei successivi periodi di disintossicazione espongono Lucia ad alcuni episodi di vita drammatici[8]. In questi anni nascono altri due figli: David nel 1962 e Daniel nel 1965. Lucia riprende anche gli studi letterari.

Quando Lucia e Buddy divorziano, lei ha appena 32 anni, tre matrimoni alle spalle e quattro figli di cui prendersi cura. Tra il 1967 e il 1969 vive da sola con i figli, si laurea in spagnolo e prosegue con la specializzazione, ha una serie di relazioni e inizia a bere fino a diventare un’alcolista. Si tratta di un problema diffuso nella sua famiglia (anche sua madre e suo fratello lo furono per lunghi anni). L’alcolismo segnò la vita di Berlin almeno fino al 1987, quando, dopo un ultimo ricovero in ospedale, smise definitivamente di bere[9]. Sono anni di scrittura e di continui cambiamenti di lavoro. Donna delle pulizie, giardiniera, centralinista in varie strutture cliniche e ospedaliere, addetta all’accoglienza in ambulatori medici, insegnante in scuole private o in carceri minorili, in strutture di riabilitazione e disintossicazione: la lista dei lavori della scrittrice è lunga, e colpisce come sia un susseguirsi di luoghi di umanità dolente e ferita.

Certamente questa lunga e frammentata frequentazione dei luoghi del dolore, della malattia e dell’esclusione influì sullo sguardo empatico e umanissimo che Berlin rivela nei suoi racconti, che lentamente vengono composti e compaiono in riviste minori o pubblicati in edizioni di nicchia. Nel frattempo, i figli crescono, si susseguono le relazioni, accadono eventi drammatici nella sua vita: violenze, incendi, suicidi, distruzione dei suoi scritti. La salute malferma della scrittrice è l’altro elemento costante della sua vita. Fin dall’età di 10 anni le viene diagnosticata una forma acuta di scoliosi e, se per molti anni della sua gioventù lei dovette portare corsetti ortopedici, a partire dal 1995 (all’età di 59 anni) fu costretta a portare sempre con sé una bombola d’ossigeno, perché una costola le aveva perforato un polmone a causa della scoliosi. Per un anno, tra il 1991 e il 1992, vive con la sorella malata di cancro in Messico[10], assistendola quotidianamente fino alla sua morte.

A partire dagli anni Novanta, la vita di Berlin sembra farsi più stabile, così ne guadagna la scrittura. Grazie all’interessamento di Ed Dorn, amico di una vita, fra il 1994 e il 2000 insegna scrittura creativa presso l’University of Colorado, a Boulder. Questo è il periodo di maggiore stabilità nella vita della scrittrice. È molto amata e apprezzata come insegnante. Ritiratasi dall’insegnamento per problemi di salute, si trasferisce a Los Angeles per vivere vicino ai figli. Nel 2001 le viene diagnosticato un tumore, e scrive il suo ultimo racconto, «Io e B.F.». Muore nel 2004 a Marina del Rey, dove si è trasferita l’anno precedente[11].

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

I racconti di Lucia Berlin e la relazione con altre scrittrici di racconti


Berlin ha scritto 81 racconti. Di questi, due sono andati dispersi[12] e due sono stati pubblicati postumi[13]. Gli altri 77 sono stati pubblicati distribuiti in varie raccolte. La fama della scrittrice è però legata all’antologia pubblicata postuma nel 2015, dal titolo A Manual for Cleaning Women, che gioca su un duplice e ambiguo significato. Letteralmente, infatti, il titolo può essere tradotto sia «Un manuale per donne delle pulizie», sia «Un manuale per pulire le donne». Il titolo scelto dalla traduzione italiana «tradisce» il gioco di parole e preferisce un più anodino La donna che scriveva racconti[14]. Se la pubblicazione del più recente Una nuova vita, del novembre 2024, ha riportato l’attenzione sulla scrittrice statunitense, è certamente al precedente La donna che scriveva racconti che si deve la sua vasta notorietà. Se per descrivere l’insieme dell’opera dei suoi racconti si può usare l’aggettivo «jazzistico», per quanto appare di riscrittura nelle «variazioni» di alcuni temi ricorrenti, vi sono almeno tre nuclei o cicli di narrazione più evidenti. Il più chiaro è quello legato alla malattia della sorella e all’assistenza di lei in Messico. Un altro risale alla sua esperienza in contesti ospedalieri, clinici e ambulatoriali. Infine, il terzo è la condizione di giovane madre e di donna afflitta dal problema dell’alcol.

Il nome di Berlin viene spesso affiancato a quello di Grace Paley, di Tillie Olsen, di Amy Hempel e di Alice Munro, come se esistesse un canone femminile del racconto breve. A noi sembra impropria e scivolosa la categoria di scrittura al femminile, perché nega l’unicità di ogni autore e in qualche modo attribuisce alla letteratura etichette di genere che ne impoveriscono il carattere universale. È sufficiente considerare che la maggior parte dei racconti delle scrittrici che abbiamo citato ha come protagoniste delle donne per poter parlare di «genere femminile»?

Qual è la nota propria della scrittura di Berlin? Molti racconti di Munro esplorano e rivelano le pieghe della vita: il lettore che la conosce attende l’intuizione finale che raccoglie ciò che è stato seminato invisibilmente nelle pagine precedenti. Grace Paley è vitale, mobile, politicamente impegnata, profondamente ironica; usa in modo unico la lingua per creare un mondo sonoro di accenti newyorchesi e dà voce al mondo femminile nel contesto degli anni Sessanta[15]. Tillie Olsen vibra di impegno civile e sociale; ogni pagina è strappata a una vita di attività politica, sindacale e di idealità socialista[16]. I racconti di Berlin mostrano altro: è il racconto della sua vita cristallizzata in schegge di parole, forse per capirla, forse per sopravvivervi. È l’immagine del caleidoscopio cui ci riferiamo nel titolo. La penna della scrittrice mostra passaggi e spazi di vita. Lo stile veloce e solo apparentemente semplice, la ricchezza e la precisione dei dettagli li rendono estremamente attraenti, così che il lettore ne viene facilmente coinvolto. Berlin vuole trasformare la sua esistenza in una pagina universale di umanità, e ci riesce rimanendo fedele all’unicità del suo punto di vista. La forza è nello stile: l’autrice è capace di riprendere il clima umano di un contesto, di riprodurre il ritmo della conversazione quotidiana, di porre attenzione ai dettagli concreti di un ambiente.

Tre ragioni per amare e frequentare le pagine di questa scrittrice


Il primo motivo per leggere le pagine di Berlin è la «verità» che vi si respira. I racconti non sono reali, sono «veri». Chi conosce qualche passaggio della vita di questa scrittrice può facilmente ritrovare moltissimo materiale biografico nei suoi racconti. Prima che l’autofiction diventasse una declinazione costante della narrativa contemporanea, quasi un inevitabile ancoraggio, Berlin attingeva già dalla propria straordinaria esperienza umana personaggi, panorami, ambienti, colori e profumi per immetterli nel proprio mondo narrativo. «Per me l’atto di scrivere è non verbale, il piacere del processo si colloca in quello che Charlie Parker[17] ha definito “il silenzio tra le note”. Spesso i miei racconti sono come poesie o diapositive che illustrano un sentimento, un’epifania, il ritmo di un’epoca o di una città. Un aroma o una risata può scatenare ricordi che si cristallizzano in una storia»[18].

La varietà dei contesti delle vicende riflette la personale esperienza della scrittrice: che sia il Messico di Puerto Vallarta o di Città del Messico, New York o Albuquerque, la casa di argilla con il tetto di lamiera[19] nella campagna secca e arida del New Mexico di Corrales, o la stanza delle centraliniste di un ospedale, la vicenda si svolge in un luogo che Berlin ha conosciuto e frequentato. «In qualunque opera scritta, l’elemento appassionante non è l’identificazione con una situazione, ma questo riconoscimento della verità»[20]. A fronte di questa facile trasparenza, vi è come un gesto di ritrosia della scrittrice, che usa nomi di fantasia per nascondere sé stessa, i figli, i parenti, gli amici. Le vicende sono presentate e al tempo stesso nascoste. Il figlio primogenito Mark ha scritto, a proposito dello stile della madre, autrice di racconti: «Mamma scriveva storie vere; non necessariamente autobiografiche, ma neanche troppo distanti. Le storie e i ricordi della nostra famiglia sono stati via via rimodellati, abbelliti e adattati al punto che non sono sicuro di cosa sia realmente successo in tutto quel tempo. Lucia diceva che non aveva importanza: quello che conta è la storia»[21].

Quel che opera la letteratura è ciò che avviene anche nella memoria: la memoria trasforma, e la letteratura trasforma. Scrive Berlin: «Il più delle volte la mia fonte d’ispirazione è visiva […], ma l’immagine deve necessariamente collegarsi a un’esperienza specifica e intensa. Molte volte l’emozione che affiora è dolorosa, l’evento rammentato orribile. Perché la storia “funzioni” la scrittura deve sciacquare o congelare l’impulso iniziale. In qualche modo deve verificarsi la più impercettibile alterazione della realtà. Una trasformazione, non una distorsione della verità. La storia in sé diventa la “verità” non solo per lo scrittore ma per il lettore»[22].

Lungi dai trionfalismi di chi fa di sé stesso materia di narrazione, la scrittura di Berlin è un esercizio di composta umiltà, nel senso etimologico di «vicino alla terra», alla polvere, alla terrestrità. Nel noto racconto «La lavanderia a gettoni di Angel», del 1972, pubblicato dall’Atlantic Monthly nel 1976, Berlin scrive della protagonista: «Alla fine non potei fare a meno di fissare anch’io le mie mani. […] Nel mio sguardo, il panico. Mi fissai nello specchio, poi abbassai gli occhi sulle mani. Orrende macchie di vecchiaia, due cicatrici. Mani per nulla indiane, nervose, sole. Ci vedevo bambini, uomini e giardini, nelle mie mani»[23]. Vi è un profondo rispetto per il dolore e la fatica del vivere. In «Dolore fantasma», in cui ricorda il padre in ospedale, la cui memoria viene progressivamente erosa dalla demenza senile, un malato vicino di letto urla di dolore per l’amputazione delle gambe, e Berlin scrive: «John lo ignorava, leggeva la Bibbia o si contorceva e urlava nel suo letto: “Le mie gambe! Signore Gesù, fammi passare questo dolore alle gambe!”. “Càlmati John”, diceva Florida, “solo un dolore fantasma”. “Ma è vero?”, le ho chiesto io. Lei si è stretta nelle spalle. “Il dolore è sempre vero”»[24].

In «El Tim», Berlin mostra la potenza dell’empatia come agente di trasformazione, nella relazione della protagonista, insegnante di una scuola superiore, con un ragazzo intelligente ma problematico, tolto temporaneamente dal riformatorio per avere una possibilità ulteriore di riscatto. È un momento di profondissima empatia, vissuta e mostrata. «“Perché mi hai dato uno schiaffo?”, mi chiese Tim piano. Cominciai a rispondergli, volevo dirgli: “Perché sei stato insolente e scostumato”, ma vidi il suo sorriso di disprezzo mentre si aspettava che pronunciassi proprio quelle parole. “Ti ho dato uno schiaffo perché ero arrabbiata. Per Dolores e per il sasso. Perché mi sono sentita ferita e stupida”. I suoi occhi mi scrutarono. Per un istante il velo scomparve. “Allora siamo pari”, disse. “Sì”, dissi io, “Andiamo in classe”. M’incamminai per il corridoio con Tim, evitando il ritmo della sua andatura»[25].

Il secondo motivo per dedicare tempo alla lettura dei racconti di Berlin è la «santità» che si nasconde e a tratti traluce in essi. La vita della scrittrice fu travagliata, al tempo stessa vittima e carnefice di sé stessa, delle sue scelte affettive, delle sue fragilità e delle sue dipendenze. Scrive in un racconto del 1996: «Adesso va tutto bene. Amo il mio lavoro e i miei colleghi. Ho dei buoni amici. Vivo in un bell’appartamento appena sotto il monte Sanitas. […] Sono profondamente grata per la vita che conduco oggi. Perciò perdonami, Dio, se confesso che ogni tanto ho il diabolico impulso di mandarla tutta a rotoli. Non riesco nemmeno a credere che mi vengano certi pensieri, dopo tanti anni di tribolazioni»[26]. Non sono racconti che parlano di vite sante, ma in essi emerge la santità della vita, la sua insopprimibile dignità[27]. Lo sguardo leggero, che alcuni definiscono «ironico e divertito»[28], comunica una sorta di inalienabile speranza nella vita e nel futuro, dentro grandi dolori.

In «Carpe diem», del 1984, Berlin scrive, quasi all’inizio del racconto: «E le lavanderie a gettoni. Ma quelle erano un problema anche quando ero giovane. Richiedono troppo tempo, persino quelle della catena Speed Queen. Mentre stai seduto lì, tutta la vita ti passa davanti agli occhi, come se stessi affogando. Naturalmente se avessi un’auto potrei andare dal ferramenta o all’ufficio postale per poi tornare e infilare i pantaloni nell’asciugatrice. Le lavanderie senza assistenti sono anche peggio. Mi sembra sempre di essere l’unica persona lì dentro. Ma tutte le lavatrici e le asciugatrici sono in funzione… gli altri sono andati dal ferramenta»[29]. La quotidianità che stranisce e isola viene descritta con un tocco di ironia.

Podcast | SUD SUDAN. «UN CONFLITTO CHE NON È MAI FINITO»


Quattro milioni di sfollati, oltre 350mila morti, fame e povertà. Il Sud Sudan è il paese più giovane del mondo, con una storia già segnata dalle violenze. Oggi lo spettro della guerra torna a far paura, come racconta mons. Christian Carlassare, vescovo della diocesi di Bentiu. Ascolta il podcast

Scopri di più

Oppure il notissimo «Manuale per donne delle pulizie», del 1975, che racconta le varie esperienze di una donna delle pulizie (è la stessa Berlin) in case e con datrici di lavoro diverse, solo apparentemente è un racconto ironico, soprattutto nei passaggi in cui la scrittrice fornisce una serie di suggerimenti ad altre donne delle pulizie, ponendo le sue gemme di esperienza tra parentesi: «(Consiglio per le donne delle pulizie: prendete tutto quello che la vostra padrona vi offre e ringraziatela. Potete sempre lasciarlo sull’autobus)»[30]. Oppure questo: «(Donne delle pulizie: Fate capire che siete coscienziose. Il primo giorno rimettete a posto i mobili nel modo sbagliato… spostati di quindici-venti centimetri, o girati dalla parte sbagliata. Quando spolverate, invertite i gatti siamesi, mettete il bricco del latte a sinistra dello zucchero. Cambiate l’ordine degli spazzolini da denti). […] Fare le cose nel modo sbagliato non solo le rassicura sul fatto che siete coscienziose, ma fornisce loro l’opportunità di farsi valere e comandare. Molte donne americane non si sentono a loro agio all’idea di avere una domestica. Non sanno che cosa fare mentre tu sei in casa»[31].

In realtà, è la chiusura del racconto a rivelarne il cuore segreto, dolorosissimo, la sofferenza nell’elaborare il lutto di un ragazzo che l’amava e si è suicidato: «“Be’… chi vivrà vedrà”, ho detto io, e ci siamo messe a ridere. Ter, io non voglio affatto morire, in realtà. […] È una giornata fredda e tersa di gennaio. All’angolo della Ventinovesima compaiono quattro ciclisti con le basette, come un filo d’aquilone. Una Harley in folle alla fermata dell’autobus; dal pianale di un pick-up Dodge del ’50 i ragazzini salutano con la mano il motociclista. E finalmente piango»[32]. In molti racconti il sentimento della dignità della vita e della persona, nella sua fragile e persino drammatica imperfezione, permane e appare tra le righe.

Il terzo motivo per amare le pagine della scrittrice statunitense è che lei riesce a mantenersi nel difficile e precario equilibrio di dar voce a situazioni drammatiche senza giudicarle. Non prende posizione etica sulla pagina (sarebbe moralismo), ma aiuta noi a farlo nell’intimo della coscienza come lettori, lascia a noi il compito e la responsabilità di compiere questo passo «mostrando» l’ingiustizia, la violenza e la drammaticità della vita. Sono molteplici i racconti che riescono a compiere questo «miracolo» di coinvolgimento. Di sé stessa Berlin afferma: «Non sono mai stata realmente presente, l’unico posto in cui vado davvero sono i libri, dentro i libri. Di rado riesco a creare un’emozione autentica sulla pagina, e solo a quel punto si potrebbe dire che esisto sul serio. In Dolore fantasma, Temps perdu, Manuale per donne delle pulizie, ruota tutto intorno a questo»[33].

Sono molteplici i racconti dedicati alla complicata condizione femminile, a volte carica di vere angosce e drammi. Ad esempio, quando, in «Silenzio», la scrittrice allude alle molestie del nonno su di lei e sulla sorella più piccola; quando, in «La vie en rose», racconta l’esperienza del primo bacio da adolescente estorto da un ragazzo più grande e per il quale viene invece accusata dal padre con il terribile termine «sgualdrina»; quando, in «Cara Conchi», ricorda di come sia stata lasciata sola su un ponte in mezzo al niente, come fosse un pacco, per aver espresso le sue opinioni, ugualmente ignorata dal padre e dal ragazzo dell’epoca: per l’uno non contano i pareri, per l’altro non contano i sentimenti. Oppure possiamo ammirare la levità con cui riesce a portare il lettore alla molestia raccontata in «Sex appeal»,che accade improvvisa e inaspettata e gela il lettore come la ragazzina protagonista.

Il sentimento religioso e la maternità


Berlin non può essere presentata come scrittrice credente che affronta esplicitamente temi di fede e spiritualità cristiana, come Marilynne Robinson e Flannery O’Connor, o come Jon Fosse. Tuttavia, quando appare, il sentimento religioso è vero. Nel racconto «Randagi», del 1985, Berlin scrive: «La luna. Non esiste luna come quella di una notte limpida del New Mexico. […] Il mondo continua ad andare avanti. Alla fine non c’è molto altro che conti. Che conti davvero, voglio dire. Ma poi qualche volta ti capita, per un secondo, di essere toccato da questa grazia, dalla certezza che invece ci sia qualcosa che conta, che conta davvero»[34].

Il sentimento religioso è legato alla maternità e al senso di profonda vicinanza alla Vergine Maria in «Fool to Cry», del 1992. Berlin assiste al battesimo di molti bambini e scrive, a proposito dei parenti presenti: «I genitori erano seri, pregavano con solennità. Mi sarebbe piaciuto che il prete benedicesse anche tutte le madri, che facesse questo gesto, desse loro qualche protezione. Nei paesini messicani, quando i miei figli erano molto piccoli, qualche volta gli indios gli facevano il segno della croce sulla fronte. Pobrecito! Dicevano. Era un peccato che una creatura tanto graziosa fosse destinata a soffrire nella vita! […] Uscendo dalla chiesa accendo una candela davanti alla statua della Beata Vergine Maria. Pobrecita»[35].

Legati all’esperienza della maternità, non si possono non citare «Morsi di tigre»[36], del 1989, e «Mijito»[37], del 1998, intensissimi racconti di maternità travagliate. Nel primo, Berlin racconta il momento in cui la giovane protagonista del racconto, che si è recata in Messico per abortire, decide di non farlo, tenendo il secondo figlio, che attende a soli 22 anni, e per questo accettando che il marito la abbandoni, forma ulteriore di violenza che una donna può subire. Nel secondo racconto, la scrittrice inserisce nel contesto clinico ospedaliero la vicenda di una giovanissima ragazzina messicana immigrata, che si ritrova sola ad accudire il bambino appena nato in un contesto estraneo, nemico, senza conoscere l’inglese, senza riferimenti affettivi e relazionali. È un racconto crudo e pesante come una pietra.

Lo sfondo dei figli è presente anche nel racconto «Incontrollabile»[38], del 1992, racconto che mostra con luce livida la sete che consuma la protagonista, divisa tra la necessità di procurarsi degli alcolici e il buon senso di non uscire di notte lasciando i figli piccoli a casa da soli.

La maternità minacciata dalla dipendenza affettiva della donna nei confronti del marito è lo sfondo del crudo «Carmen»[39], del 1996, nel quale Berlin riprende l’episodio autobiografico in cui lei fu spinta dal marito eroinomane a prestarsi per andare a prendere della droga, pur essendo in gravidanza inoltrata.

Conclusioni


Lucia Berlin ha vissuto una vita che esce dagli schemi della normalità. Nella varietà dei luoghi e delle situazioni attraversate, il filo rosso che l’accompagna è l’amore per la letteratura e per la scrittura. Se si potesse immaginare una figura che riassuma l’opera di uno scrittore, per Berlin potremmo dire che essa coincide con il «caleidoscopio», che ben rappresenta e sintetizza la bellezza dei suoi racconti, tratti da «pezzi di vita», talvolta da finestre su «una vita a pezzi».

Nella brevità e semplicità della presentazione di questo articolo, emergono tre elementi che, a nostro parere, raccolgono i migliori tratti della scrittura di Berlin. Il primo è l’autenticità delle situazioni di vita e la prossimità alle fragilità; il secondo è la santità, o dignità della vita umana, che emerge oltre le ferite e le ombre che possono segnarla; il terzo è il coinvolgimento emotivo e la chiamata etica che i racconti suscitano, che possiamo intendere anche come una chiamata alla «compassione», interpretata in senso etimologico come un «patire insieme» a lei e ai personaggi femminili, dietro i quali lei racconta la vita, creando pagine di intensa letteratura.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1] L. Berlin, «Buoni e cattivi», in Id., La donna che scriveva racconti, Torino, Bollati Boringhieri, 2022, 148.

[2] Nei racconti, i nonni compaiono come Mamie e il dr. Moynihan, al cui terribile ritratto è dedicato il racconto omonimo «Il dottor H. A. Moynihan», del 1981. La datazione di questo e dei successivi racconti si riferisce all’anno di completamento, non a quello di pubblicazione. Per la cronologia dei racconti, cfr la «Bibliografia» in L. Berlin, La donna che scriveva racconti, cit., 248-250.

[3] Agli anni cileni si ispirano i racconti «La vie en rose», del 1987, e «Buoni e cattivi», del 1992. Quest’ultimo in particolare riflette le tensioni sociali e politiche di quegli anni.

[4] I primi introiti per i diritti delle sue pubblicazioni arriveranno infatti solo nel 2000 e ammonteranno alla cifra di 980 dollari, secondo la scheda cronologica del figlio Jeff.

[5] Il trasferimento dal Cile al New Mexico costituisce lo sfondo del racconto «Cara Conchi», del 1992.

[6] Questa situazione costituisce lo sfondo del racconto «Morsi di tigre», del 1989.

[7] Race Newton e Buddy Berlin compaiono con altri nomi in molti racconti. Uno per tutti, ad esempio, è «Ci vediamo», del 1992.

[8] I racconti più significativi che ritraggono l’altalenanza di questo periodo sono «La barca de la Ilusiόn», del 1990, e il cupo «Carmen», del 1996.

[9] Molti sono i racconti che descrivono questa condizione: «La fossa», del 1981; «La prima disintossicazione», del 1981; «Passo», del 1986; «Incontrollabile», del 1992; «502», del 1996.

[10] I racconti legati a questo periodo di vita e alla relazione con la sorella costituiscono il nucleo più consistente di storie all’interno della sua produzione letteraria. Ricordiamo «Polvere alla polvere», del 1986, e «Aspetta un attimo», del 1997.

[11] I riferimenti biografici sono estrapolati dalla scheda cronologico-biografica scritta dal figlio Jeff Berlin, in L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, Torino, Bollati Boringhieri, 2024, 217-242.

[12] «The Beisbol Game» e «A Token of Esteem», entrambi del 1959.

[13] Durante la sua vita, Berlin perse i suoi scritti due volte. La prima fu quando dei ladri entrarono in casa e, portando via tutto quello che vi avevano trovato, rubarono anche i suoi racconti. La seconda fu quando scoppiò un incendio in casa, e le fiamme distrussero anche i testi autografi che vi si trovavano.

[14] Cfr L. Berlin, La donna che scriveva racconti, cit.

[15] Per una presentazione di Grace Paley, cfr anche D. Mattei, «Grace Paley: un esercizio di ascolto», in Civ. Catt. 2025 II 95-107.

[16] Per una presentazione di Tillie Olsen, cfr anche Id., «Tillie Olsen e “Le vite dei più”», in Civ. Catt. 2025 I 456-465.

[17] Charlie Parker fu un noto sassofonista, musicista jazz, nato a Kansas City nel 1920 e morto a New York nel 1955. La sua figura ispirò anche un altro scrittore di racconti brevi, Julio Cortázar. Il protagonista della nota novella Il persecutore è un alias di Parker. Per approfondire, cfr D. Mattei, «Julio Cortázar e il racconto delle pieghe “velate” del reale», in Civ. Catt. 2024 IV 445-458.

[18] L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 165.

[19] Riferimento al racconto con il medesimo titolo, «Una casa d’argilla con il tetto di lamiera», del 1988. Si riferisce al periodo trascorso da Berlin a Corrales, piccolo centro alle porte di Albuquerque, dopo il divorzio da Buddy Berlin.

[20] L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 165.

[21] Id., Sera in paradiso, Torino, Bollati Boringhieri, 2018, 272.

[22] Id., Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 165.

[23] Id., La donna che scriveva racconti, cit., 10.

[24] Id., «Dolore fantasma», ivi, 78.

[25] Id., «El Tim», ivi, 63.

[26] Id., «502», ivi, 413.

[27] «Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi» (Dicastero per la dottrina della fede, Dichiarazione Dignitas infinita, n. 1).

[28] L’ironia è il tratto che, secondo alcuni, accomuna Berlin a Paley. Ci sembra che l’ironia usata da Paley sia una forma di trasfigurazione della realtà, mentre in Berlin sia la distanza minima dai fatti, che permette di «respirare». In quell’interstizio si crea letteratura e agisce la speranza.

[29] L. Berlin, «Carpe diem», in Id., La donna che scriveva racconti, cit., 127.

[30] Id., «Manuale per donne delle pulizie», ivi, 37-39.

[31] Ivi, 46.

[32] Ivi, 50.

[33] L. Berlin, Una nuova vita. Racconti, saggi, diari, cit., 192.

[34] Id., «Randagi», in Id., La donna che scriveva racconti, cit., 202-203.

[35] Id., «Fool to cry», ivi, 262 s.

[36] Id., «Morsi di tigre», ivi, 83-104.

[37] Id., «Mijito», ivi, 385-411.

[38] Id., «Incontrollabile», ivi, 177-180.

[39] Id., «Carmen», ivi, 359-368.

The post Lucia Berlin, il caleidoscopio di una vita first appeared on La Civiltà Cattolica.