«Gestis verbisque»: le parole e le azioni dei sacramenti
Avviso contenuto: battesimo. Che cos’è il battesimo? Così spiegava sant’Agostino ai fedeli in un’omelia: «Lavacro di acqua accompagnato dalla parola. Togli l’acqua, non c’è battesimo. Togli la parola, non c’è battesimo»[1]. Queste parole si ritrovano pari pari in codici ri
Che cos’è il battesimo? Così spiegava sant’Agostino ai fedeli in un’omelia: «Lavacro di acqua accompagnato dalla parola. Togli l’acqua, non c’è battesimo. Togli la parola, non c’è battesimo»[1]. Queste parole si ritrovano pari pari in codici risalenti all’epoca di Carlo Magno, dedicati all’istruzione del clero[2]. In sostanza, nei primi secoli le istruzioni sul modo di battezzare lasciavano pochi dubbi.
Il rito del battesimo stupisce tanto per la sua semplicità quanto per il suo potere. Richiede solo il più basilare degli elementi terreni – l’acqua – e una frase che riecheggia le parole di Gesù (cfr Mt 28,19). Eppure questo semplice rito significa morte e insieme rinascita: battezzati in obbedienza al comando di Gesù, i cristiani partecipano al suo mistero pasquale e alla vita eterna che esso dischiude (cfr Rm 6,3-5; Gv 3,5). Il battesimo promette qualcosa che va ben oltre ciò che può procurare il potere umano.
Sebbene la fede cristiana nel battesimo esistesse già prima che il Nuovo Testamento assumesse la forma scritta, da allora la teologia è diventata notevolmente più complessa. Se Gestis verbisque (GV), la Nota diffusa dal Dicastero per la dottrina della fede (Ddf) il 2 febbraio 2024, si addentra nelle complessità della teologia sacramentale, lo fa per affermare qualcosa di primordiale. La Nota è insolitamente energica e diretta, perché la posta in gioco è fondamentale: la natura dei sacramenti e il loro ruolo nella salvezza. Per apprezzare appieno il significato di questa Nota dobbiamo innanzitutto esaminare gli eventi che l’hanno provocata e il loro contesto teologico.
Il contesto: un’ondata di battesimi invalidi
Lo scopo esplicito di Gestis verbisque è aiutare i vescovi a garantire la validità della celebrazione dei sacramenti[3]. Nella Presentazione del cardinale Víctor Fernández, prefetto del Ddf, si spiega che la preoccupazione del Dicastero nasce da una serie di casi portati alla sua attenzione negli ultimi anni, in cui i ministri avevano alterato il rito del battesimo a tal punto da renderlo «invalido».
Il termine può sembrare tecnico, ma il suo significato è semplice. Il battesimo ha alcune caratteristiche fondamentali che lo distinguono da altre attività umane e anche da altri riti religiosi. Recitare una preghiera bruciando incenso è una legittima espressione religiosa, ma non è un battesimo. Un battesimo valido è quello che soddisfa la definizione fondamentale di ciò che è un battesimo.
Nel 2020 all’attenzione dell’allora Congregazione per la dottrina della fede (Cdf) era stato portato un caso problematico. Un prete cattolico dell’Arizona aveva affermato di battezzare con l’acqua, ma aveva cambiato le parole usate per farlo[4]. Casi analoghi erano stati segnalati a Detroit e a Oklahoma City. Il cambiamento della formulazione era così rilevante da suscitare dubbi in alcuni di coloro che avevano assistito alla cerimonia o che poi, anni dopo, avevano notato l’accaduto in video di famiglia. Alla fine il caso arrivò a Roma, che stabilì che i riti eseguiti non avevano le caratteristiche che definiscono il battesimo: non erano validi.
È importante comprendere i confini del quesito a cui alla Cdf è stato chiesto di rispondere. La Congregazione non giudicava se coloro che avevano preso parte alla cerimonia fossero persone buone o cattive, se fossero colpevoli di quanto accaduto, o se alla fine avrebbero raggiunto la salvezza[5]. La Cdf ha espresso solo una diagnosi fattuale, pronunciandosi in merito alla domanda se in quella circostanza fosse avvenuto o meno un battesimo. Inoltre, il caso del 2020 non è stata la prima sentenza di questo tipo che la Cdf si è vista costretta a emettere negli ultimi decenni. Nel 2008 la Congregazione aveva dichiarato che i battesimi avvenuti utilizzando formule alternative come «Io ti battezzo nel nome del Creatore e del Redentore e del Santificatore», oppure «Nel nome del Creatore, e del Liberatore e del Sostenitore», non erano validi. Il caso dell’Arizona, tuttavia, comportava una modifica ancora più sottile. Invece di dire: «Io ti battezzo», il sacerdote aveva cercato di evidenziare il ruolo della comunità, dicendo: «Noi ti battezziamo». Questa nuova formula veniva talvolta preceduta da un preambolo: «Nel nome del padre e della madre, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, nel nome della comunità, noi battezziamo…»[6].
A uno studente laico di «studi religiosi» il cambiamento delle parole usate in un sacramento non pone alcun problema, perché egli le intende come semplici espressioni sociali. Perché non adattarle per adeguarsi meglio agli impulsi del momento? Gestis verbisque, dal canto suo, parte da una prospettiva diversa e quindi si preoccupa di sottolineare che i sacramenti fanno parte della rivelazione di Dio, sicché qualsiasi improvvisazione è presuntuosa[7]. Nel 2020 la Cdf ha pubblicato una breve spiegazione della sua sentenza, in cui sottolineava l’antica convinzione secondo cui è Cristo ad agire attraverso i sacramenti. Facendo eco al Concilio Vaticano II e a sant’Agostino, ha ribadito che la formula battesimale della Chiesa esprime la fede che «quando uno battezza, è Cristo stesso che battezza»[8]. La differenza tra «io» e «noi» è significativa, perché il battesimo viene eseguito da uno.
Ma quella spiegazione della Cdf nel 2020, pur rimarcando un problema, era laconica. Le reazioni che provocò rivelarono ulteriori malintesi sui sacramenti, anche fra i teologi. Alcuni osservatori furono comprensibilmente turbati dalle conseguenze di tanti battesimi non validi: migliaia di persone erano state danneggiate dalle azioni di pochi ministri. Parte di questa rabbia era rivolta contro la stessa Cdf, sebbene ciò fosse come prendersela con il medico perché ha diagnosticato una malattia.
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Alcuni s’interrogavano su come mitigare i danni causati dai battesimi non validi. Il Papa non avrebbe potuto usare la sua autorità per risolvere il problema? Altri cercavano soluzioni nelle sottigliezze del diritto canonico: si poteva invocare il principio ecclesia supplet? Secondo tale principio, nelle questioni di giurisdizione ecclesiastica poco chiare la Chiesa «supplisce» la «potestà di governo esecutiva» necessaria per il bene dei fedeli[9]. Il principio riguarda le «facoltà» necessarie per celebrare alcuni sacramenti – per esempio, l’autorizzazione a ricevere le confessioni in una determinata diocesi –, ma non molto altro. Se manca il vino necessario per celebrare la Messa, la Chiesa non può «supplire» a esso. Nemmeno il Papa, se in una celebrazione è disponibile soltanto della Coca-Cola, può dichiararla vino. E di fatto il tentativo di cercare soluzioni ai problemi sacramentali tra le pieghe della giurisprudenza è di per sé la riprova di un malinteso più profondo. L’autorità della Chiesa ha lo scopo di salvaguardare la rivelazione divina, non di aggirarla. Il Papa è il vicario di Cristo, non il suo successore. Come afferma Gestis verbisque, «la Chiesa è “ministra” dei Sacramenti, non ne è padrona» (GV 11).
Il fatto che, a quanto pare, ci siano stati ripetuti casi di battesimi non validi rivela la portata di questi malintesi, e le problematiche affrontate da Gestis verbisque vanno oltre quei casi estremi di battesimi non validi. La Nota evidenzia il dovere dei ministri di aderire fedelmente ai riti liturgici della Chiesa in ogni circostanza (cfr GV 2). Non si tratta di una questione di rigorismo liturgico, insiste la Nota, esprimendo la sua preoccupazione nei termini del «diritto dei fedeli» a ricevere i sacramenti della Chiesa. Quando un sacerdote modifica di propria iniziativa la liturgia, si frappone tra i fedeli e ciò che la Chiesa offre loro. Chi cambia la liturgia per adattarla alle proprie preferenze teologiche compie un abuso di potere, un atto di clericalismo.
Il Concilio Vaticano II considera la fedeltà ai riti liturgici ufficiali come un principio fondamentale: nemmeno un sacerdote può di sua iniziativa «aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (Sacrosanctum Concilium, [SC], n. 22). Come sottolinea Gestis verbisque, fedeltà non significa celebrazione meccanica: gli stessi libri liturgici indicano dove e come adattarsi alle circostanze della comunità locale. Purtroppo, però, abbondano esempi di preti e comunità che vanno ben oltre la flessibilità offerta dai riti. Abbiamo assistito a casi di parrocchie che eliminavano le letture della Messa domenicale o sostituivano il salmo responsoriale con canzoni di Simon e Garfunkel. Entrambi gli esempi vanificano l’esplicito obiettivo del Concilio che si garantisca ai fedeli un più largo accesso alla Sacra Scrittura. Altri esempi approdano al sacrilegio: un prete che celebra la Messa in acqua, su un materassino, in una spiaggia italiana; comunità che si mettono in costume o cambiano le parole del Credo. Grazie a Internet, lo scandalo causato da simili abusi diventa ben presto globale. Gestis verbisque ha ragione a considerare gli abusi liturgici come una minaccia per l’unità della Chiesa, tema ricorrente nel documento.
La Nota, tuttavia, non si chiude con un monito, ma con un appello urgente a maturare «l’arte del celebrare» e con un riferimento a Romano Guardini, uno dei più grandi teologi liturgisti del Novecento, stimato sia da papa Benedetto sia da papa Francesco (cfr GV 27). Per apprezzare come i moniti del documento s’inseriscano nella sua più positiva visione dei sacramenti, dobbiamo fare un passo indietro, che ci porterà a dare uno sguardo allo sviluppo della moderna teologia liturgica.
Il Movimento liturgico oltre il minimalismo sacramentale
A partire dalla fine del XIX secolo, i teologi, soprattutto quelli che si riferivano all’abbazia benedettina di Santa Maria Laach in Germania, iniziarono a percepire una crisi strisciante che minacciava la fecondità della liturgia cattolica. Correnti culturali che affondavano le loro radici nella Riforma protestante – l’enfasi sulla parola a scapito del sacramento, del soggettivo a scapito dell’oggettivo, dell’individuo a scapito della comunità – rendevano la liturgia sempre più estranea alla sensibilità occidentale. Se nei secoli precedenti – e praticamente in tutte le culture – l’importanza dei riti religiosi era stata evidente, nel XIX secolo la predisposizione istintiva al culto non poteva più essere data per scontata[10]. Immanuel Kant, pur essendo in sintonia con l’etica cristiana, sminuiva i riti sacramentali; secondo lui, lo scopo del battesimo, se ne aveva uno, era solo quello di insegnare l’etica[11].
Nemmeno la teologia cattolica era immune da simili influssi. A proposito dei sacramenti, la teologia scolastica, con la sua insistenza sulle distinzioni precise e i casi limite, si era concentrata sul minimo necessario per definire valida una celebrazione. In effetti, i concetti utilizzati dalla Cdf per determinare quando un battesimo non è valido sono il risultato di secoli di controversie scolastiche. L’inquadramento scolastico utilizza le categorie di «materia», «forma» e «intenzione» per definire le caratteristiche essenziali di un sacramento. La materia necessaria per il battesimo è l’acqua; la forma, le parole della formula sacramentale; e l’intenzione – a sua volta definita in poche parole – è la volontà di fare ciò che fa la Chiesa con il battesimo. La maggior parte della discussione intorno alla sentenza della Cdf del 2020 si è concentrata sulla formula usata per celebrare il battesimo, ovvero le parole «Io ti battezzo…». Gestis verbisque, invece, pone l’accento sull’intenzione del ministro: un cambiamento che probabilmente è il più significativo sotto il profilo teologico nel documento, e sul quale torneremo.
Innanzitutto, però, è importante riconoscere sia l’utilità del metodo scolastico, sia i suoi limiti. I teologi che nel primo Novecento sostenevano la necessità di un rinnovamento della sensibilità liturgica – quello che divenne noto come «Movimento liturgico» – intuirono che certi atteggiamenti neoscolastici avevano un effetto mortificante sullo spirito con cui veniva celebrata la liturgia. Fare il minimo necessario per la validità non è certo una guida sufficiente su come celebrare i sacramenti, né per il discepolato in generale. Non c’è niente di minimale nel comandamento del Signore di amare Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente e le forze (cfr Mc 12,30), né c’è alcunché di minimale nell’amore che Gesù ha dimostrato negli eventi pasquali che la liturgia rende presenti. Dal Concilio di Trento a questa parte, le rubriche liturgiche esigono la fedeltà ai riti sotto pena di peccato mortale, ma non spiegano perché tale fedeltà sia intrinseca alla natura della liturgia. Il caos liturgico per cui sono divenuti famigerati gli anni Settanta derivava, almeno in parte, dall’aver attraversato una fase in cui le punizioni erano state rimosse, ma ancora restavano da assorbire le ragioni più profonde dell’obbedienza.
I padri del Movimento liturgico sapevano che la liturgia è, per sua stessa natura, formale. Uno dei suoi effetti è per l’appunto formare coloro che vi prendono parte, sia come individui sia come Chiesa. In una certa misura, quindi, il rito è sempre stilizzato. La critica del Movimento liturgico, tuttavia, sosteneva che tale stilizzazione fosse stata spinta troppo in là. Ridotti al minimo, gli atti della liturgia non incarnavano più ciò che dovevano rappresentare. Una «Messa vigiliare» celebrata alle sette del mattino non è propriamente vigiliare. Una lettura della Scrittura che nessuno capisce è una formalità, non un annuncio. La frase «Il Signore sia con voi», se borbottata leggendola da un libro, non è certo un saluto. Formalità non significa artificiosità. Al riguardo, possiamo considerare un altro problema circa le formule battesimali invalide discusse sopra: le parole «Noi battezziamo» sono letteralmente false. Genitori, amici e familiari non hanno versato acqua sulla testa del bambino. Quelle parole non corrispondevano all’atto.
I grandi teologi liturgisti del primo Novecento, come Guardini e il benedettino Odo Casel, cercarono di fornire una base di comprensione più solida, rispetto a quella offerta dalla scolastica, del perché celebriamo la liturgia. Incontrarono ben presto la resistenza dei teologi neoscolastici, i quali insistevano sul fatto che la liturgia è un mero contenitore di verità dogmatiche, una sorta di aiuto visivo per amplificare le proposizioni del Credo[12]. Per ironia, tale posizione è dogmaticamente dubbia: quando i sacramenti vengono ridotti a sussidi visivi di princìpi dogmatici – o etici –, si perde il senso della loro efficacia. I sacramenti, insiste il cattolicesimo, sono efficaci, operano ciò che significano. La concezione neoscolastica si avvicinava alla visione kantiana dei sacramenti come strumenti didattici.
Al contrario, il fondamentale libro di Guardini Lo spirito della liturgia parla della «liturgia come gioco». Lo studioso ammette che uno degli effetti della liturgia è pedagogico, ma insiste sul fatto che il culto non può essere ridotto a questo fine: «La liturgia non ha “scopo”, o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l’angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì – almeno in una certa misura – fine a sé»[13]. Odo Casel ha fondato la sua teologia liturgica sulla concezione che ne avevano i Padri della Chiesa. Il suo Il mistero del culto cristiano inizia con il riferimento all’omelia di san Leone Magno sull’Ascensione: «Ciò che era visibile nel nostro Salvatore è passato nei misteri», ha affermato Leone, usando il termine greco «mistero» per quello latino «sacramento»[14]. In altre parole, i sacramenti si radicano nell’Incarnazione.
Sebbene Gesù abbia insegnato sia la morale sia la dottrina, egli è più di tali insegnamenti. Nessuna persona può essere ridotta a un insieme di princìpi o di dati. Gli apporti dottrinali sono necessari per spiegare chi è Gesù, ma non sono sufficienti, così come leggere il curriculum vitae di qualcuno non sostituisce l’incontro con quella persona. A volte una stretta di mano è più eloquente di una biografia. Se pensiamo alle persone che conosciamo a fondo, spesso ciò che ci viene in mente è impossibile esprimerlo a parole: un modo di ridere, un gesto caratteristico. La nostra umanità è costituita da tali connotati ineffabili.
La convinzione fondamentale della Chiesa è che la redenzione del mondo si opera nell’umanità di un uomo, Gesù Cristo, e che la nostra salvezza dipende dall’entrare in un particolare tipo di rapporto – comunione – con lui. Benedetto XVI ha espresso questa convinzione all’inizio del suo pontificato: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona»[15]. Queste parole sono state ripetute spesso da papa Francesco e sono in profonda consonanza con il personalismo di Giovanni Paolo II. Rappresentano anche una convinzione profondamente liturgica. I sacramenti rendono presente l’umanità di Gesù nel nostro «qui e ora».
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Questa convinzione significa che nei sacramenti ci deve essere sempre qualcosa di irriducibile, così come c’è qualcosa di irriducibile in ognuno di noi. Siamo costituiti da caratteristiche specifiche che riflettono la particolarità della nostra esistenza – la nostra educazione, le nostre relazioni, il nostro genere, la nostra dieta – e sotto questo aspetto Gesù non era diverso. Se lo fosse stato, non sarebbe stato pienamente umano.
C’è qualcosa di paradossale in tale credenza, perché i sacramenti, sebbene non possano essere ridotti a princìpi generali, permettono altresì all’umanità di Gesù di rendersi presente attraverso il tempo e lo spazio. Gestis verbisque suggerisce come la liturgia sostenga questo paradosso. I ministri che modificano le parole dei riti, afferma, rivelano una mancata comprensione del «valore dell’agire simbolico» (GV 3). La liturgia è capace di «dire» ciò che va oltre le parole, anche ciò che è paradossale, perché parla il linguaggio dei simboli. Non simboli utilitaristici come i segnali stradali, ma il linguaggio ricco e dinamico della poesia e dell’arte, un linguaggio che va oltre le parole. Una grande poesia non trasmette un unico significato univoco: le parole nei suoi versi – sempre specifiche – schiudono significati quasi inesauribili. Altrettanto concreto e inesauribile è il linguaggio con cui celebriamo i sacramenti. Non arriviamo alla fine della Messa affermando: «Ho capito che cosa dice il rito. Non c’è bisogno di rifarlo».
Ciò non vuol dire che i simboli – quelli liturgici come gli altri – possano significare tutto quello che vogliamo. Le parole «Padre» e «Figlio» esprimono una relazione che è assente nelle parole «Creatore» e «Liberatore». Il significato dinamico non ammette autocontraddizioni, proprio allo stesso modo in cui John Henry Newman ha riconosciuto che lo sviluppo dottrinale è incompatibile con la contraddizione dei credo precedenti[16]. Il linguaggio simbolico della liturgia – azioni, colori, odori, materia, parole – è, come ogni altra lingua, qualcosa che dobbiamo assorbire per essere in grado di padroneggiarlo. Come sa chiunque si sia sforzato di imparare una lingua straniera, quando si ritiene di essere più esperti di quanto si sia realmente, si può finire per perdersi in balbettii incoerenti.
Il significato che il rito rivela si approfondisce man mano che cresciamo e ne veniamo formati, man mano che ne cogliamo le sfumature o lo sperimentiamo con nuove persone e in nuove circostanze. Inoltre la liturgia, poiché viene trasmessa attraverso la tradizione, porta con sé il significato che in essa hanno trovato anche le generazioni che ci hanno preceduto. Ma il rito non si limita a insegnarci questo significato: ci inserisce nel dinamismo di una relazione. Al suo centro c’è una Persona e le sue azioni.
Ciò che è in gioco, in definitiva, in Gestis verbisque è la comunione con questa Persona, l’unione alla sua azione. L’unione con Cristo è ciò che dà forma alla celebrazione e unità alla Chiesa: «Il Capo della Chiesa, e dunque il vero presidente della celebrazione, è solo Cristo. Egli è il “Capo del Corpo cioè della Chiesa” (Col 1,18)» (GV 24).
Partecipazione e intenzione: le chiavi del documento
È in questa immagine biblica – Cristo come capo del suo corpo, la Chiesa – che s’incontrano i diversi fili teologici di Gestis verbisque. Quando parliamo dei sacramenti che ci rendono membri della Chiesa, non dobbiamo immaginarli come biglietti d’ingresso. Nei sacramenti Cristo non è presente passivamente; agisce attraverso di essi. Noi diventiamo il suo corpo condividendo le sue azioni. Il concetto centrale che emerge dalla Costituzione del Vaticano II sulla liturgia Sacrosanctum Concilium è la partecipazione. Questo concetto significa molto di più che svolgere compiti durante la liturgia. Invece, illumina il legame tra i sacramenti e la salvezza in una maniera che va più in profondità della mera obbedienza. Celebrare i sacramenti significa partecipare all’atto di donazione di sé compiuto dalla Trinità, che Gesù Cristo rende presente sulla Terra. I sacramenti non sono semplici mezzi per la salvezza: sono partecipazione a ciò che è la salvezza.
La terminologia tecnica impiegata da Gestis verbisque – materia, forma, validità – è solo un’espressione di una fede ancora più fondamentale. Paolo dice che mediante il battesimo partecipiamo al mistero pasquale (cfr Rm 6,3-5) e, mediante l’Eucaristia, al Corpo e al Sangue di Gesù (cfr 1 Cor 10,16). Quando la Chiesa celebra i sacramenti, si unisce a un’azione che non trae origine dai suoi membri (cfr GV 11). Guardini, quindi, individuava nell’umiltà l’atteggiamento essenziale richiesto a ogni cattolico – ministro o laico che sia – per celebrare i misteri: «Quanto la liturgia richiede si può pertanto esprimere con una sola parola: umiltà»[17]. Lo studioso proseguiva chiarendo che c’è qualcosa che la celebrazione esige da tutti: «Dal temperamento individualistico [si esige] ch’esso accetti il sacrificio di stare con altri, così al temperamento socievole si chiede che si adatti al contenuto riserbo»[18].
Qui, in modo molto generale, Guardini coglie la posta in gioco in ciò che il linguaggio tecnico della teologia sacramentale chiama «intenzione». La forma e la materia dei sacramenti esprimono qualcosa di oggettivo. Se non ci fosse oggettività, invece che l’incontro con un’altra Persona, i sacramenti diventerebbero le nostre proiezioni. Allo stesso tempo, come sottolinea Gestis verbisque, i sacramenti non sono atti di macchine, ma di uomini: è necessaria una certa partecipazione della volontà umana, «rendendo l’azione sacramentale un atto veramente umano» (GV 18).
Tuttavia, definire la giusta intenzione è complicato. Tale intenzione non può richiedere troppo, altrimenti farla propria sarebbe impossibile per qualsiasi persona. I sacramenti sono espressioni del sacrificio che Cristo ha compiuto di sé, e nessuno può veramente sapere e intendere tutto ciò che questo significa nella prospettiva della soggettività. Avere la giusta intenzione non può significare né una conoscenza sovrumana né uno stato morale perfetto. Celebrare i sacramenti significa, invece, volere un’azione che va oltre le nostre conoscenze e capacità.
L’espressione usata da secoli dai teologi e dai Concili ecclesiali per definire l’intenzione necessaria per celebrare i sacramenti riflette questa apertura. Quando celebra un sacramento, un ministro deve avere l’intenzione di fare «ciò che fa la Chiesa» (GV 18). Nel caso del battesimo, questo significa che in una situazione di emergenza anche un non cristiano può battezzare, purché intenda fare quello che fa la Chiesa quando battezza. In una certa misura, quando partecipiamo ai sacramenti, tutti desideriamo qualcosa che possiamo comprendere solo in parte. Neanche il teologo più dotto può pretendere di capire appieno tutto ciò che s’intende per battesimo o Eucaristia. Lo stesso tipo di significato sconfinato presente nei simboli liturgici è all’opera anche nell’intenzione di un ministro.
Ma come nella materia e nella forma c’è una concretezza ineludibile, così occorre avere l’intenzione di fare ciò che intende fare la Chiesa. I battesimi celebrati da alcune comunità religiose, come i mormoni o i testimoni di Geova, sono considerati non validi, perché questi gruppi considerano Dio in un modo così differente dalla dottrina cattolica della Trinità che in un contesto mormone le parole «Padre, Figlio e Spirito Santo» significano qualcosa di diverso. Gestis verbisque sottolinea che tale esigenza non costituisce una mera regolamentazione ecclesiale, bensì è intrinsecamente necessaria affinché i sacramenti conservino il loro significato oggettivo (cfr GV 22).
Quando tratta dell’intenzione, la Nota offre la sua visione più significativa sui battesimi giudicati invalidi dalla Cdf nel 2020. L’intenzione della Chiesa, sottolinea, è incarnata nell’azione concreta del sacramento stesso. I libri liturgici della Chiesa che descrivono come celebrare il battesimo esprimono la sua intenzione. Quindi un modo sicuro per determinare se qualcuno intende fare ciò che intende la Chiesa è se fa ciò che i libri liturgici prescrivono di fare. Se un sacerdote o un altro ministro modifica deliberatamente i riti, allora non intende fare ciò che intende la Chiesa, ma ciò che fa lui. La sua intenzione può essere buona o cattiva, ma non è ciò che intende la Chiesa.
Nei casi portati all’attenzione della Cdf negli ultimi decenni non si tratta di errori di pronuncia involontari[19]. In questi casi, i ministri alteravano i riti della Chiesa perché credevano di poterli migliorare. In un caso, cambiando le parole «Padre» e «Figlio» con alternative neutre rispetto al genere, coloro che eseguivano i riti ritenevano che ciò che la Chiesa fa – e ha fatto per secoli – fosse così contaminato dal sessismo da richiedere un aggiornamento. Allo stesso modo, il sacerdote che battezzava con il «noi» pensava che la sua formulazione fosse teologicamente superiore – più inclusiva, accogliente e comunitaria – rispetto a quella trasmessa dalla tradizione cattolica. Non intendeva fare ciò che fa la Chiesa, ma ciò che lui pensava fosse meglio.
Gestis verbisque evidenzia senza mezzi termini la follia di tale presunzione. È profondamente ingiusto che un ministro dia qualcosa di diverso da ciò che la Chiesa offre a persone che, con umiltà, si sono affidate al ministero della Chiesa stessa. A volte Gestis verbisque assume un tono tagliente, ma è giusto che sia così. Il documento non tratta di cerimonialismi o formalità, bensì dell’accesso all’umanità di Gesù Cristo, alla partecipazione alla sua azione salvifica, al divenire membra del suo corpo. Nel Vangelo, Gesù s’indigna quando i suoi discepoli impediscono ai più piccoli di toccarlo: «Non glielo impedite», li rimprovera (Mc 10,14). Gestis verbisque contiene un analogo rimprovero, perché è consapevole che le parole e i gesti di Gesù – visibili quando camminava sulla Terra – non sono meno presenti nei suoi sacramenti.
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[1]. Agostino di Ippona, s., Omelie, 15,4.
[2]. Cfr S. A. Keef, Water and the Word: Baptism and the Education of the Clergy in the Carolingian Empire, Notre Dame, IN, University of Notre Dame Press, 2002.
[3]. Cfr Dicastero per la dottrina della fede, Gestis verbisque, n. 4.
[4]. Cfr R. Treisman, «An Arizona priest used one wrong word in baptisms for decades. They’re all invalid», in NPR (www.npr.org/2022/02/15/1080829813/priest-resigns-baptisms), 15 febbraio 2022.
[5]. In effetti, un caso sorprendentemente simile del XII secolo – in cui di un uomo creduto sacerdote si scoprì solo dopo la sua morte che non era stato battezzato – contribuì a stabilire la dottrina del battesimo di desiderio. Cfr A. Lusvardi, Baptism of Desire and Christian Salvation, Washington, DC, Catholic University of America Press, 2024, 158 s.
[6]. Le formule sacramentali usate nei riti orientali si discostano leggermente dalla formulazione del rito romano, ma tali variazioni non comportano i problemi che stiamo per osservare.
[7]. Vale la pena notare che, tra le fonti di GV, la Costituzione del Vaticano II Dei Verbum sulla divina rivelazione viene citata prima della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia (SC).
[8]. Congregazione per la dottrina della fede, «Nota dottrinale» sulla modifica della formula sacramentale del Battesimo, 24 giugno 2020; SC 7.
[9]. Cfr Codice di Diritto Canonico, can. 144, §1.
[10]. Cfr A. Grillo, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, Padova, Messaggero, 2011.
[11]. Cfr I. Kant, Religion within the Boundaries of Mere Reason and Other Writings, Cambridge, Cambridge University Press, 2019, 222 (in it. La religione entro i limiti della sola ragione, Roma – Bari, Laterza, 1980, 223).
[12]. Per un esempio di tale pensiero, cfr J.-J. Navatel, «L’apostolat liturgique et la piété personnelle», in Études, n. 137, 1913, 455 s.
[13]. R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia, Morcelliana, 2007, 75.
[14]. Cfr O. Casel, The Mystery of Christian Worship, New York, Herder & Herder, 2016, 7 (in it. Il mistero del culto cristiano, Roma, Borla, 1985, 59).
[15]. Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est (2005), n. 1.
[16]. Cfr J. H. Newman, «An Essay on the Development of Christian Doctrine», in Id., Conscience, Consensus, and the Development of Doctrine, New York, Image Books, 1992, 195.
[17]. R. Guardini, Lo spirito della liturgia, cit., 40.
[18]. Ivi, 45.
[19]. Tommaso d’Aquino affronta la questione in modo simile. Un lapsus verbale, un balbettamento o una pronuncia errata, dice, renderebbero la forma non valida solo se distruggessero il senso delle parole. Ma se qualcuno cambia le parole intenzionalmente, aggiunge Tommaso, non fa ciò che fa la Chiesa (cfr Summa Theologiae, III, q. 60, a. 7, ad 3).
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