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Donald J. Trump: i primi mesi del secondo mandato


Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump mentre firma degli ordini esecutivi, settembre 2025 (Foto: whitehouse.gov).
Il presidente Donald Trump è stato eletto un anno fa e si avvicina al compimento del primo anno del suo secondo mandato. Come sono stati i primi mesi della sua amministrazione? Quando, nel discorso pronunciato davanti al Congresso nel marzo 2025, ha descritto le prime sei settimane in carica come «azione rapida e incessante», stava in realtà anticipando i mesi successivi con un’esattezza forse ignota persino a lui stesso[1]. I primi mesi del secondo mandato sono stati caratterizzati da un’intensa attività: una raffica di ordini esecutivi, un’azione militare in Iran, dazi e guerre commerciali.

Anche con il blocco delle attività amministrative (government shutdown) negli Stati Uniti, questa accelerazione del ritmo riflette il tempo avuto a disposizione dall’amministrazione Trump per prepararsi tra il primo e il secondo mandato. Ma, più in profondità, esprime la determinazione del Presidente e di molti suoi consiglieri a trasformare il Partito Repubblicano (Grand Old Party, GOP): non più soggetto ai vincoli del proprio establishment o delle convenzioni, come ritengono sia avvenuto durante il primo mandato, bensì orientato a realizzare le politiche volute da Trump, ad ampliare i poteri del Presidente e, in ultima istanza, a consolidare i cambiamenti da lui introdotti nel GOP e nella politica americana.

Questa energia rafforza la tesi di quegli osservatori secondo i quali Trump ha acquisito un nuovo senso della missione dopo il fallito attentato alla propria vita subìto a Butler, in Pennsylvania. Egli è, più di ogni altro presidente recente, il tribuno del popolo: afferma di rappresentarne i bisogni, i desideri e soprattutto le emozioni in un modo che nessun altro eletto è in grado di fare. In quest’«era dei sentimenti», è lui il principale interprete del sentire collettivo[2].

Nel breve periodo, il Presidente e la sua amministrazione dovranno governare affrontando le persistenti difficoltà economiche e politiche, comprese le incertezze generate dai dazi. Sul lungo periodo, è troppo presto per dire se i cambiamenti da lui apportati al Partito Repubblicano e alla vita politica statunitense siano destinati a durare. Ma molte delle tendenze strutturali – in particolare, la concentrazione del potere nella presidenza e l’indebolimento del Congresso – continueranno con ogni probabilità inalterate. Nel frattempo, molti cattolici americani stanno cercando di rispondere alla sfida di un nuovo assetto politico che spesso mette alla prova l’unità dei fedeli.

Politica interna: l’agenda del secondo mandato


«Il trumpismo è una postura culturale anti-sinistra e anti-élite. Non è un programma politico», scriveva Ryan Streeter nel 2020[3]. È senz’altro vero che il fenomeno Trump è stato una reazione populista sia alla sinistra sia alla destra tradizionali, ma la sua campagna si è basata su precise proposte, soprattutto in campo economico e migratorio, che hanno trovato grande riscontro presso gli elettori. Da allora, Trump ha dato seguito a molte di tali promesse, compresa una delle meno popolari: i dazi doganali.

I primi giorni della presidenza sono stati dominati da ordini esecutivi che hanno riguardato numerose questioni emerse durante la campagna: dall’immigrazione alla sicurezza dei confini, fino alla lotta contro il «wokismo»[4]. Un ordine esecutivo è un decreto presidenziale che impone a un dipartimento governativo di intraprendere determinate azioni. Un esempio particolarmente evidente è stato quello con cui il 20 gennaio 2025 è stato istituito il DOGE (Department of Government Efficiency), affidato a Elon Musk fino al maggio successivo, con il compito di «massimizzare l’efficienza e la produttività dell’amministrazione pubblica»[5].

Il DOGE rivela molte delle ambiguità insite nel governare tramite ordini esecutivi. Un ordine esecutivo non è una legge, e quindi non passa dal Congresso; di conseguenza, le attività avviate in base a un provvedimento di questa natura sollevano spesso interrogativi sulla legittimità e sull’autorizzazione parlamentare, come è accaduto, appunto, per il DOGE. Inoltre, quando l’ordine affida a un dipartimento un compito generico, si pone il problema di definirne concretamente gli obiettivi. Nel caso concreto, qual è lo scopo del DOGE? Ridurre i costi? Snellire la regolamentazione? Disarticolare la burocrazia per indebolire il cosiddetto Deep State? I presidenti spesso sono accusati di ricorrere agli ordini esecutivi per aggirare il Congresso. Pertanto, quando il numero di tali provvedimenti diventa elevato, non è un buon segno per chi teme la crescita incontrollata del potere esecutivo negli Stati Uniti[6].

Le politiche di Trump si discostano frequentemente dal libertarismo fiscale in stile Reagan, pur senza abbracciare del tutto il populismo economico che egli stesso proclama. Anche nel secondo mandato si osserva tale ambivalenza. Il traguardo legislativo più significativo finora è stata l’approvazione dell’OBBBA (One Big Beautiful Bill Act), così denominato perché fondeva in un’unica legge «omnibus» misure su tasse, stanziamenti e politiche pubbliche. Con essa, il Presidente ha mantenuto la promessa di estendere i tagli fiscali approvati nel suo primo mandato, nel 2017: probabilmente è stato il suo provvedimento più reaganiano. Al tempo stesso, però, l’aumento del debito federale dimostra che a Washington ormai sono pochi i veri sostenitori del «governo leggero», nonostante alcune riforme parziali in materia di spesa sociale.

Se le politiche fiscali di Trump si allontanano dalla dottrina del fusionismo, lo zelo protezionista in tema di dazi lo avvicina invece ad altri presidenti repubblicani del passato, tra cui Calvin Coolidge. Peraltro, i dazi evocano un protezionismo che, per buona parte del Novecento e oltre, era stato associato più alla sinistra che alla destra, come già la legge tariffaria Smoot-Hawley del 1930, approvata dal presidente Herbert Hoover e considerata una delle cause della Grande Depressione. A questo punto, le problematiche legate ai dazi sono ben note[7]. La vera domanda, tuttavia, è se i dazi finiranno per aggravare proprio uno dei problemi principali che Trump si era impegnato a risolvere, vale a dire l’inflazione[8]. Se così fosse, essi potrebbero spianare la strada a nuove vittorie democratiche alle prossime elezioni e mettere a rischio i recenti successi del Partito Repubblicano tra gli elettori ispanici[9].

L’immigrazione è stata un tema centrale per l’amministrazione Trump sin dalla sua prima campagna del 2015, ispirata a un «populismo nazionale» favorevole alla sicurezza dei confini e alla protezione dei lavoratori americani rispetto alla manodopera immigrata. Questo approccio si inserisce in una lunga tradizione statunitense di restrizioni all’immigrazione, rappresentata negli ultimi decenni dalla figura di Patrick Buchanan[10]. Finora, l’amministrazione ha rivendicato due successi principali: l’aumento significativo delle espulsioni e la drastica riduzione degli ingressi e degli arresti al confine. È probabile che le nuove politiche abbiano scoraggiato molti dall’attraversare la frontiera senza autorizzazione[11]; tuttavia Trump e i suoi collaboratori stanno anche mettendo alla prova i limiti del potere presidenziale in materia di diritto dell’immigrazione, spesso attraverso iniziative mediaticamente molto visibili, pensate per attrarre l’attenzione e stimolare contenziosi. È il caso, ad esempio, della vicenda giudiziaria di Kilmar Ábrego García, che ha generato una forte esposizione mediatica: da un lato, ha rafforzato l’appoggio dei sostenitori di Trump, convinti della sua determinazione sul tema dell’immigrazione; dall’altro, ha mobilitato le proteste dei suoi oppositori.

Le politiche migratorie hanno attirato critiche da molteplici fronti, compresa la Conferenza episcopale degli Stati Uniti, che, pur riconoscendo la necessità di «azioni di polizia volte a garantire l’ordine e la sicurezza delle comunità per il bene comune» e di riformare «un sistema migratorio gravemente carente», ha fatto notare che le azioni intraprese sono ben lontane dalla «comunione di vita e di amore» cui dovrebbe tendere una nazione di immigrati[12]. Parole che riecheggiano la lettera inviata da papa Francesco ai vescovi statunitensi nel febbraio 2025, interamente dedicata al tema dell’immigrazione[13].

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È molto probabile che l’amministrazione Trump continuerà a mantenere una linea dura sull’immigrazione e sulla sicurezza delle frontiere, e che la questione migratoria resterà una delle più divisive nella politica americana, in attesa che emerga uno statista capace di proporre un nuovo consenso.

L’assassinio di Charlie Kirk il 10 settembre ha messo tragicamente in evidenza la fragilità della società americana e le questioni irrisolte che hanno alimentato l’elezione di Trump nel 2024. Kirk, attivista di spicco del movimento MAGA e voce autorevole nei campus universitari, è stato ucciso nel mezzo di un’ondata di violenza politica, sollevando interrogativi sullo stato di salute della società statunitense. La violenza politica è recentemente aumentata nella sinistra, ma non è chiaro se l’amministrazione Trump o i repubblicani saranno in grado di affrontarne le cause. In particolare, molti hanno cercato di «cancellare» i critici di Kirk dopo la sua morte, nonostante la sua reputazione di strenuo difensore della libertà di parola della destra.

Politica estera: la «dottrina Trump»?


Trump ha sempre sostenuto che spetta a lui definire cosa significhi davvero «MAGA» o America First, e forse in nessun ambito questo è più vero che in politica estera. I primi mesi del secondo mandato hanno mostrato che, secondo il Presidente in carica, il principio di sovranità nazionale insito in America First non implica affatto isolamento o disimpegno globale: può benissimo includere un coinvolgimento militare statunitense all’estero, purché serva le priorità dell’America.

I commentatori già da tempo hanno difficoltà a definire con precisione la visione trumpiana in politica estera. A complicare le cose contribuisce il fatto che anche i consiglieri del Presidente appaiono divisi tra le correnti più interventiste e quelle più isolazioniste della destra americana, come ha rivelato lo scandalo «Signalgate», relativo alla fuga di conversazioni riservate su operazioni militari contro gli Houthi nello Yemen[14]. Sebbene sia difficile parlare di una vera e propria «dottrina Trump», non vi è dubbio che nel suo secondo mandato egli sia stato influenzato da convinzioni di lunga data: una grande fiducia nelle proprie capacità negoziali, la ferma opposizione al nucleare iraniano, il sostegno a Israele, l’avversione agli accordi multilaterali che vincolino gli Stati Uniti a difendere altri, e la volontà di aprire nuove opportunità commerciali e di investimento per il capitale statunitense[15].

Come la maggior parte dei presidenti repubblicani, Trump nutre una forte simpatia per Israele, ma a modo suo. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto ogni sforzo per mantenere un buon rapporto con lui, ma la profonda convinzione del leader Usa nel potere della negoziazione – sua o del suo emissario Steve Witkoff – ha portato a un tentativo di mediazione tra Iran e Israele. Tuttavia Trump si sarebbe convinto che gli iraniani non stavano negoziando in buona fede, e che Israele aveva concrete possibilità di vittoria militare contro Teheran[16]. In ogni caso, la sua ostilità verso un Iran che potrebbe dotarsi di armi nucleari ha finito per convergere con il desiderio di lunga data di Netanyahu di arginare l’influenza iraniana. Mentre Trump ha dichiarato conclusa la guerra tra Israele e Hamas nell’ottobre 2025 con il cessate il fuoco, la questione sarà se e in che misura egli eserciterà pressioni su tutte le parti per risolvere i problemi di fondo e promuovere una pace giusta e duratura.

Quanto alla Russia e all’Ucraina, il Presidente ha più volte espresso la propria insofferenza per le logiche da «Guerra fredda», spostando il Partito Repubblicano verso una posizione critica nei confronti dell’Ucraina. Come altri presidenti statunitensi precedenti, sembra che egli abbia pensato di poter negoziare con Vladimir Putin, nonostante la propria impazienza dichiarata verso il protrarsi della guerra. Il vertice di agosto 2025 in Alaska tra il presidente statunitense e quello russo ha rappresentato un caso emblematico: da un lato, Trump si è mostrato fiducioso nella propria abilità negoziale, ignorando i fallimenti del passato e le preoccupazioni dei leader europei; dall’altro, la frustrazione nei confronti di Putin lo ha spinto a ribadire un ambiguo sostegno all’Ucraina. Il presidente Trump e il vicepresidente J. D. Vance hanno entrambi manifestato un sostegno più forte all’Ucraina nei mesi di settembre e ottobre, con Vance che ha affermato che la Russia deve «svegliarsi e accettare la realtà» della necessità della pace[17]. Restano quindi aperti alcuni interrogativi: «Quanto Trump è disposto a fare pressione su Putin? E fino a che punto è disposto a sostenere Zelensky?»[18].

I leader mondiali hanno reagito a queste mosse con strategie diverse. Gli analisti osservano spesso che Trump tende a essere più duro con gli alleati storici degli Stati Uniti che con i nemici tradizionali. Eppure, sono proprio gli alleati a impegnarsi maggiormente per mantenere relazioni positive con Washington, anche a costo di forti sacrifici[19]. Questo è particolarmente evidente nei rapporti con l’Unione europea e la Nato.

Claudia Sheinbaum, presidente del Messico, è riuscita a instaurare una collaborazione proficua con Trump, anche grazie alla cooperazione sul fronte del traffico di fentanyl verso gli Stati Uniti, che è una delle priorità dell’amministrazione Usa. Tuttavia, la minaccia di azioni militari statunitensi in territorio messicano ha rappresentato una costante fonte di tensione[20]. Similmente, il primo ministro canadese Mark Carney – la cui vittoria alle elezioni del 2025 è stata in gran parte motivata dall’opposizione a Trump – ha cercato di convincere la Casa Bianca che l’accordo commerciale USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement) esenta la maggior parte dei beni canadesi dai dazi introdotti da Trump[21]. Ne potrebbe derivare un rafforzamento della cooperazione tra Canada e Messico, nel tentativo di evitare l’innalzamento delle barriere commerciali con gli Stati Uniti[22].

Il Regno Unito, dal canto suo, ha cercato di salvaguardare la «relazione speciale» con gli Stati Uniti, tanto più importante dopo che la Brexit lo ha distanziato dall’Unione europea. Il premier britannico Keir Starmer si è mosso in tal senso, puntando sulla storica alleanza tra Londra e Washington.

Altri Paesi, come l’India e il Brasile, hanno assunto atteggiamenti più apertamente ostili. Per quanto riguarda il Brasile, il caso è reso più complesso dall’amicizia personale tra Trump e l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro.

La maggiore opposizione che Trump ha incontrato sul piano internazionale riguarda Israele: alcuni Paesi europei hanno proposto alle Nazioni Unite di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. L’escalation del conflitto tra Israele e Hamas iniziato il 7 ottobre 2023 ha accentuato le fratture tra gli Stati Uniti e gli alleati europei sulla questione palestinese e sulla difesa israeliana: una divergenza profonda che il Presidente non sembra in grado di sanare. In ogni caso, è certo che l’opinione pubblica di molti Paesi europei – e della sinistra americana – si è ulteriormente allontanata da Israele.

L’avvio del secondo mandato di Trump ha riacceso il dibattito sulla possibilità di un nuovo ordine mondiale senza gli Stati Uniti o, quantomeno, di un Occidente costretto ad andare avanti senza il loro apporto. Al momento, questo scenario sembra improbabile. Per alcuni anni, l’Europa tenderà a rimilitarizzarsi; Messico e Canada cercheranno di rafforzare le relazioni commerciali con altri partner; e la Cina si adatterà, anche grazie alla cronica incoerenza statunitense nei suoi confronti. Infatti, data la necessità degli Stati Uniti di negoziare un accordo commerciale più vantaggioso con la Cina, le guerre tariffarie potrebbero finire per avvantaggiare questo Paese, forse a scapito di Taiwan[23].

Tuttavia, gran parte del mondo sembra determinata a fare ciò che è necessario per restare comunque nelle grazie degli Stati Uniti.

Gli altri poteri: Congresso e magistratura


L’amministrazione Trump continua a sostenere la sua visione della presidenza come potere dominante all’interno del sistema federale statunitense, in linea con l’immagine che il Presidente ha di sé e con la teoria cesarista dell’«esecutivo unitario», condivisa da molti suoi consiglieri. Questa impostazione, resa possibile dal controllo repubblicano di entrambe le Camere del Congresso, tuttavia non ha finora prodotto conflitti con la magistratura così gravi come alcuni temevano. La presidenza Trump ha soltanto accentuato la relegazione del Congresso degli Stati Uniti a un ruolo relativamente marginale nella politica americana: quello di sostenitore o critico fazioso del Presidente. È difficile individuare, oggi, dove le prerogative istituzionali del Congresso stiano effettivamente bilanciando il potere della presidenza o i legami di partito tra i due poteri, sia che si tratti di permettere a Trump di ignorare una legge approvata dallo stesso Congresso sul caso TikTok, sia di assecondare la richiesta dell’amministrazione di accorpare un’enorme quantità di provvedimenti eterogenei in un unico, grande e bellissimo disegno di legge, da approvare in blocco senza un dibattito adeguato; oppure di rinunciare a contestare la decisione di Trump di esautorare il Congresso dai poteri che gli spettano, secondo l’Articolo I, sezione 8 della Costituzione, in materia di dazi e regolazione del commercio estero.

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Papa Leone XIV ha lanciato un monito sulla crescente disuguaglianza economica globale. Ma quali sono le ragioni di questo fenomeno e quali i rischi? Lo abbiamo chiesto a due economisti che hanno curato la voce “disuguaglianza” nel Dizionario della Dottrina sociale della Chiesa: Andrea Boitani e Lorenzo Cappellari.

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Non è un’esagerazione affermare che molti membri del Congresso non hanno alcuna esperienza diretta del suo funzionamento costituzionale originario. Tuttavia, come ha osservato Philip Wallach, è altrettanto facile esagerarne l’impotenza[24]. Non sarebbe corretto definire il Congresso un semplice «timbro di approvazione» per l’agenda trumpiana, dal momento che sussistono pur sempre dei limiti alla sua passività. Nel bene o nel male, «la legislazione di partito unico – resa possibile soprattutto grazie alla procedura di riconciliazione di bilancio che aggira l’ostacolo dell’ostruzionismo – è diventata la modalità dominante dell’attività legislativa nel XXI secolo»[25]. Secondo Wallach, il problema del Congresso è persino più grave: non tanto la sua passività, quanto la sua acclarata decadenza.

In The Federalist No. 70, il 5 marzo 1788, Alexander Hamilton scriveva che «l’energia dell’esecutivo è caratteristica essenziale di un buon governo». Proprio questa energia complica oggi il rapporto tra l’amministrazione Trump e il potere giudiziario, che per sua natura si muove a ritmi più lenti. Diverse azioni dell’amministrazione sono finite in tribunale, comprese quelle legate all’invocazione dell’International Emergency Economic Powers Act del 1977 per giustificare lo stato di emergenza a fondamento dei dazi[26]. Ancora più clamorose sono le cause intentate contro l’amministrazione per contestare i trasferimenti forzati e le deportazioni, in alcuni casi avvenuti senza garanzie di un giusto processo, e per essersi appellata all’Alien Enemies Act del 1798 per legittimare tali provvedimenti. Questi sono stati alcuni dei fattori alla base del government shutdown, insieme alla rinnovata convinzione dei democratici che sia necessario negare i fondi governativi all’amministrazione Trump per ostacolare il suo programma[27].

Alcuni osservatori ritengono che l’amministrazione Trump agisca con palese disprezzo verso la magistratura; altri parlano di un piano ben congegnato per indebolire il potere giudiziario in quanto parte integrante del Deep State. La verità sta probabilmente nel mezzo: l’amministrazione adotta spesso un atteggiamento ostile verso ampie parti del sistema giudiziario, ma non sempre riesce a imporre le proprie strategie, nemmeno di fronte a giudici nominati da Trump, né si rifiuta sistematicamente di riconoscere le sconfitte. Inoltre, molte delle modalità con cui si rapporta alla magistratura non differiscono in modo sostanziale da quelle adottate da altri presidenti recenti. Finora le preoccupazioni per una possibile «crisi costituzionale» appaiono esagerate, ma è innegabile che la magistratura fatichi a tenere il passo e che la sua capacità di bilanciare il potere esecutivo sia limitata[28]. E l’amministrazione Trump ne è ben consapevole.

Chiesa cattolica e segni di speranza


Qualunque sia il giudizio su Joe Biden o su Donald Trump, è evidente che l’attuale clima politico statunitense rappresenta una sfida seria per i cattolici. Ma forse la criticità più profonda è interna: la difficoltà della comunità cattolica a superare le proprie appartenenze ideologiche e partigiane. Nella Bolla di indizione del Giubileo della Speranza 2025 Spes non confundit, papa Francesco ha rivolto un duplice invito ai cattolici: «porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo» ed essere «segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio»[29].

Negli Stati Uniti non mancano i segni di speranza, sia all’interno della Chiesa cattolica sia nella società, in particolare con le iniziative promosse dai laici. Tuttavia, anche questi segnali positivi risultano spesso controversi tra i cattolici americani. Il dissenso di per sé non è un male, ma, quando i momenti di speranza nella vita ecclesiale vengono sistematicamente letti come vittorie di una parte e sconfitte dell’altra, si incrina la communio. Le differenze politiche tra i cattolici non dovrebbero irrigidirsi in fratture, ma spesso accade proprio questo, impedendo loro di essere «segni tangibili di speranza» per gli altri fratelli e sorelle.

Sotto molti aspetti, la vita della Chiesa cattolica negli Usa riflette quella della società statunitense: le voci più influenti tendono a esprimersi nei termini propri dell’ideologia politica, mentre pochi si soffermano a riconoscere i segni della grazia, che dovrebbero alimentare la speranza. Data la logica di mercato che regola la comunicazione pubblica negli Stati Uniti, non sorprende che molte delle voci cattoliche più in vista godano di tale importanza non tanto per la loro capacità di rappresentare la fede, quanto per la loro credibilità presso determinate fazioni. Questi commentatori inquadrano la realtà ecclesiale in termini di vittorie e sconfitte del proprio schieramento, trascurando un’analisi teologica autentica, capace di orientare lo sguardo verso la speranza. Il risultato, per troppi cattolici disillusi, è una conferma implicita della sensazione che la Chiesa non abbia più nulla da offrire alla società o alla politica.

Il Giubileo della Speranza rappresenta ancora un’occasione propizia per invertire tale tendenza. Una riflessione teologica autentica sulla condizione statunitense richiede di recuperare il dialogo tra fede e ragione, per contrastare l’ideologia di parte e resistere alla tentazione di piegare il Vangelo a sostegno delle proprie opinioni.

A ciò si accompagna un compito teologico classico, risalente almeno a sant’Agostino: contrastare l’apocalitticismo[30]. Alla politica americana il cristianesimo può offrire un antidoto prezioso: non solo tramite il dialogo tra fede e ragione, ma anche attraverso la denuncia dell’apocalitticismo «fuori luogo», ovvero dell’uso sacrale e totalizzante della politica.

Molti cattolici negli Stati Uniti continuano a concepire il momento presente come una battaglia per far trionfare le proprie idee politiche. Le conseguenze di un mancato successo, a loro dire, sarebbero catastrofiche. Tuttavia, paradossalmente, questa visione non è abbastanza ambiziosa: non riconosce la sfida più profonda che è posta ai cattolici, quella a cui si riferiva papa Francesco, quando affermava che «appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù»[31]. Ed è proprio questa la speranza di cui la politica statunitense ha urgente bisogno.

Una tale teologia, però, non può basarsi solo su un apparato concettuale adeguato: ha bisogno di comunità vive, che offrano un’alternativa concreta a esperienze falsate di appartenenza. Ed è qui, ancora una volta, che il compito decisivo ricade sui laici[32].

Conclusione: una Costituzione della libertà?


Nel suo libro The Right: The Hundred-Year War for American Conservatism, Continetti sostiene che il conservatorismo statunitense oggi si trova attratto da due poli[33]. Da un lato, vi è il nucleo tradizionale: la difesa delle strutture sociali e politiche tradizionali, che negli Stati Uniti si esprime spesso nella venerazione per il governo limitato, delineato nella Dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione. Dall’altro, vi è un’opposizione viscerale al progressismo, particolarmente accentuata a partire dalla presidenza di Woodrow Wilson e dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Il conservatorismo americano è dunque anzitutto una difesa delle istituzioni storiche statunitensi o una reazione al progressismo? La risposta è che è entrambe le cose. Tuttavia, il conservatorismo tradizionale ha sempre rappresentato una componente relativamente minoritaria della destra americana, inserita all’interno di una coalizione – o «fusione» – di movimenti diversi, uniti da progetti comuni, in particolare l’anticomunismo durante la «Guerra fredda»[34]. Continetti sostiene che dal 1989 la destra americana è alla ricerca di un nuovo collante che possa sostituire l’anticomunismo. In quest’ottica, la centralità di Trump dal 2015 in poi può essere letta come il tentativo di compattare la destra attorno a una visione favorevole alla politica personalistica del Presidente e contraria al progressismo contemporaneo. La vera questione aperta, dunque, non è solo se esista un «trumpismo» dopo Trump, ma se esso possa essere integrato in una concezione del conservatorismo con cui il Presidente intrattiene un rapporto così ambivalente.

Questo rapporto è complesso anche perché Trump ha sempre dichiarato esplicitamente di non condividere la tradizione politica americana del governo limitato che molti conservatori si propongono di tutelare. Per lui, così come per molti progressisti, la Costituzione non è tanto una «Costituzione della libertà», quanto un ostacolo all’operato del Paese. Il che non significa che Trump aderisca a una teoria costituzionale precisa; significa però che la sua figura risulta funzionale a promuovere l’agenda di molti suoi collaboratori, i quali manifestano un’insofferenza per i vincoli costituzionali che in passato era più spesso attribuita ai movimenti progressisti. Come ha dichiarato Trump stesso nel 2019: «C’è l’Articolo 2, che mi dà il diritto di fare tutto quello che voglio come presidente»[35].

Al di là delle iperboli sulle crisi e sugli eventi «senza precedenti», la situazione attuale è davvero unica nella storia degli Usa: nel 2025, la tradizione politica statunitense non conta praticamente più alcun vero sostenitore tra coloro che detengono il potere politico. Chiunque pensi di poter prevedere con sicurezza i prossimi anni, farebbe bene a ricordare la celebre risposta dell’ex primo ministro britannico Harold Macmillan a chi gli chiedeva quale fosse la maggiore difficoltà in politica: «Gli eventi, ragazzo mio, gli eventi». È ragionevole aspettarsi che il potere presidenziale continuerà a espandersi, che il Congresso difficilmente recupererà un ruolo centrale, e che i partiti politici interpreteranno le proprie piccole vittorie come mandati per svolte ideologiche radicali, esponendosi così al malcontento degli elettori nel ciclo elettorale successivo. Al di là di questo, tutto dipende dagli eventi.

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[1] Cfr «Full Transcript of President Trump’s 2025 Speech to Congress», in The New York Times (nytimes.com/2025/03/04/us/poli…), 4 marzo 2025.

[2] Cfr R. P. George, «The Age of Feelings», in National Review (nationalreview.com/magazine/20…), 12 giugno 2025.

[3] R. Streeter, «Trumpism Is More about Culture Than Economics», in The Dispatch (thedispatch.com/article/trumpism-is-more-about-culture-than), 23 novembre 2020.

[4] Cfr The White House, sezione Executive Orders (whitehouse.gov/presidential-ac…).

[5] Id., Executive Order on Establishing and Implementing the President’s Department of Government Efficiency (whitehouse.gov/presidential-ac…), 20 gennaio 2025.

[6] Cfr J. Levin, «A Rule of Thumb for the Executive Power Debates», in National Review (nationalreview.com/corner/a-ru…), 5 febbraio 2025.

[7] Cfr D. E. Sanger, «Trump’s Big Bet: Americans Will Tolerate Economic Downturn to Restore Manifacturing», in The New York Times (nytimes.com/2025/03/13/us/poli…), 13 marzo 2025.

[8] Cfr J. Bernstein – R. Cummings, «The Economy Is Starting to Pay for Trump’s Chaos», in The New York Times (nytimes.com/2025/08/10/opinion…), 10 agosto 2025.

[9] Cfr E. Findell, «Hispanic Voters in Texas Are Starting to Turn on Trump», in The Wall Street Journal (wsj.com/politics/elections/his…), 21 agosto 2025.

[10] Come scrive Matthew Continetti, Trump «ha riciclato efficacemente l’ideologia “America First” di Charles Lindbergh per il XXI secolo. Ha combinato il nazionalismo distaccato dell’aviatore con il proprio sostegno a Israele e la disponibilità a usare la coercizione economica nei confronti di alleati e avversari. […] La sua destra americana assomigliava al conservatorismo precedente alla Guerra fredda» (M. Continetti, The Right. The Hundred-Year War for American Conservatism, New York, Basic Books, 2022, 387).

[11] Cfr R. Contreras, «Illegal Border Crossings Hit Decades Low Under Trump Crackdown», in Axios (axios.com/2025/07/15/illegal-b…), 15 luglio 2025; U.S. Customs and Border Protection, «Most Secure Border in History: CBP Reports Major Enforcement Wins in June» (cbp.gov/newsroom/national-medi…), 15 luglio 2025.

[12] Cfr United States Conference of Catholic Bishops, «“Count on the commitment of all of us to stand with you in this challenging hour”, says Archbishop Broglio» (usccb.org/news/2025/count-comm…), 2 marzo 2025.

[13] Cfr Francesco, Lettera ai vescovi degli Stati Uniti d’America, 10 febbraio 2025.

[14] Cfr A. Zurcher, «Trump’s national security team’s chat app leak stuns Washington», in BBC News (bbc.com/news/articles/cwyd9e5l…), 25 marzo 2025.

[15] Cfr The White House,«Vice President J.D. Vance Delivers Remarks at the Munich Security Conference» (whitehouse.gov/videos/vice-pre…), 14 febbraio 2025; «A Week That Felt Like a Decade: Europe Reels From J.D. Vance’s Speech in Munich», in EUI (eui.eu/news-hub?id=a-week-that…), 27 febbraio 2025.

[16] Cfr J. Podhoretz, «Trump Changes History With Iran Strike», in Commentary Magazine (commentary.org/john-podhoretz/…), 22 giugno 2025.

[17] Cfr M. Rego, «Vance says Russia has “to wake up and accept reality”», in The Hill (tinyurl.com/4tkf8aux), 28 settembre 2025.

[18] Cfr A. Ward – M. R. Gordon, «How Trump’s Ukraine Peace Push Stalled Out in Four Days», in The Wall Street Journal (wsj.com/world/russia-ukraine-p…), 21 agosto 2025.

[19] Cfr T. Keith – S. Miller, «Art Of The Praise: Why Flattering Trump Is Now The Go-To Diplomatic Move», in NPR (npr.org/2025/08/02/nx-s1-54897…), 2 agosto 2025.

[20] Cfr M. Abi-Habib, «Mexico’s President Says U.S. Forces Are Unwelcome In Her Country», in The New York Times (nytimes.com/2025/08/08/world/a…), 8 agosto 2025.

[21] Cfr W. McCormick, «Le elezioni canadesi del 2025», in Civ. Catt. 2025 II 260-273.

[22] Cfr M. Blanchfield, «Canada courts Mexico as Trump escalates tariff fight», in Politico (politico.com/news/2025/08/08/c…), 8 agosto 2025.

[23] Cfr L. Wei, «Xi Is Chasing Huge Concession From Trump: Opposing Taiwan Independence», in The Wall Street Journal (wsj.com/world/china/trump-xi-t…), 27 settembre 2025.

[24] Cfr Ph. A. Wallach, «Choosing Congressional Irrelevance», in Law & Liberty (lawliberty.org/forum/choosing-congressional-irrelevance), 4 agosto 2025.

[25] Ivi.

[26] Cfr The White House, «Fact Sheet: President Donald J. Trump Declares National Emergency to Increase our Competitive Edge, Protect our Sovereignty, and Strengthen our National and Economic Security» (tinyurl.com/vupk5krv), 2 aprile 2025.

[27] Cfr E. Klein, «Stop Acting Like This Is Normal», in The New York Times (tinyurl.com/bdfmK6em), 7 settembre 2025.

[28] Cfr K. Polantz, «“The courts are helpless”: Inside the Trump administration’s steady erosion of judicial power», in Cnn Politics (cnn.com/2025/08/10/politics/tr…), 10 agosto 2025.

[29] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025 Spes non confundit, 9 maggio 2024, nn. 7; 10.

[30] Cfr Y. Levin, «Don’t Panic, Just Worry», in The Dispatch (thedispatch.com/p/dont-panic-just-worry), 9 gennaio 2020.

[31] Francesco, Spes non confundit, cit., n. 5.

[32] Cfr M. Regner, «Maybe We Need Fewer Church Professionals?», in Church Life Journal (churchlifejournal.nd.edu/articles/maybe-we-need-fewer-church-professionals), 14 agosto 2025.

[33] Cfr M. Continetti, The Right…, cit., 414 s.

[34] «La domanda che sorge sempre in qualsiasi discussione sul fusionismo è se esso abbia funzionato principalmente come un modo per forgiare alleanze pratiche contro un nemico comune, oppure se rappresentasse una posizione filosofica coerente e autentica» (S. Gregg, «Frank Meyer: The Triumphs of Mr. Fusionism», in Acton Institute [rlo.acton.org/archives/127357-frank-meyer-the-triumphs-of-mr-fusionism.html], 19 agosto 2025).

[35] D. Tokaji, «Trump and Allied Forge Plans to Increase Presidential Power in 2025», in The New York Times (nytimes.com/2023/07/17/us/poli…), 17 luglio 2023.

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