John Henry Newman: dottore della fedeltà creatrice
La proclamazione di san John Henry Newman a dottore della Chiesa, fatta da papa Leone XIV in occasione del Giubileo del mondo educativo il 1° novembre 2025, è stata colta da molti come l’opportunità per riflettere su di lui e sul suo pensiero. Da testi sui blog, da articoli di riviste e giornali e da relazioni di convegni accademici sono pervenuti tanti omaggi a colui che papa Benedetto XVI ha beatificato nel 2010 e papa Francesco ha canonizzato nel 2019[1]. Dobbiamo rallegrarci di questa sua ascesa folgorante nel cursus honorum a opera di tre Pontefici successivi, così come deve rallegrarci la sua proclamazione a «co-patrono, insieme a San Tommaso d’Aquino, di tutti i soggetti che partecipano al processo educativo»[2]. Ciò nonostante, la notevole diversità – per non dire la palese contraddittorietà – delle opinioni espresse da molti su di lui è evidente. Parlano di lui anglicani e cattolici – convertiti o cattolici di nascita –, chierici e laici, teologi e giornalisti, conservatori e liberali, tradizionalisti e progressisti, in ogni modo più negli ambienti intellettuali che del cattolicesimo popolare: è ovvio che la sua figura e il suo pensiero colpiscono favorevolmente un ampio ventaglio di cristiani colti.
In tutta questa diversità, ci preme segnalare che, nel voler tirare troppo l’acqua al proprio mulino, tutti rischiamo di indebolire il dottorato, e soprattutto l’insegnamento, del santo cardinale inglese. Ciò è tanto più vero perché, mentre egli scrisse di sé stesso (non senza autoironia): «Sono un controversista, non un teologo»[3], è noto quanto sia fondamentalmente equilibrata la sua teologia, protesa in nuce a respingere complessivamente i pericoli contrastanti e contestuali del razionalismo, del sentimentalismo e del liberalismo[4]. Una fonte di discordia è il fatto che spesso Newman viene citato in modo selettivo. Ebbene, come scrisse il teologo statunitense Avery Dulles: «Non si può studiare Newman tramite stralci, ma solo cogliendo la gamma intera del suo pensiero»[5]. Non si tratta dunque qui per noi di aggiungere un’altra voce discordante alla disputa in corso, bensì di proporre con rispetto una visione che si vuole «cattolica» in senso proprio, ossia «secondo il tutto».
Molti e legittimi sono gli approcci possibili per accostarsi al nuovo dottore e al suo pensiero. In queste poche pagine, noi vorremmo mostrare che la categoria di «fedeltà creatrice» coniata dal filosofo francese Gabriel Marcel è uno di tali approcci, che in questo caso spicca fra tutti per la sua sinteticità ed esattezza, nonché per la sua assenza di partigianeria. Essa infatti rispecchia fedelmente lo spirito con il quale lo stesso Newman concluse il Sermone universitario XIV: «Facciamo sempre nostri la preghiera e il tentativo, che possiamo conoscere l’intero consiglio di Dio, e crescere nella misura della statura della pienezza di Cristo; che ogni pregiudizio, la fiducia in sé stessi, l’insincerità, l’irrealtà, la sicurezza di sé e la partigianeria possano essere eliminate da noi alla luce della sapienza e al fuoco della fede e dell’amore; finché non vedremo le cose come le vede Dio, con il giudizio del Suo Spirito e secondo la mente di Cristo»[6].
In questo articolo, dopo aver chiarito ciò che Marcel intese con l’espressione «fedeltà creatrice», mostreremo come questa categoria si evinca chiaramente non solo dalla vita del nuovo dottore, ma anche dalla sua dottrina, prendendo come modelli il suo studio, accurato e sempre meglio precisato, del rapporto tra fede e ragione e la sua celebre teoria dello «sviluppo del dogma», assunta nel Magistero dal Concilio Vaticano II[7]. Ci sono molti articoli e libri che presentano la vita e il pensiero di Newman; da parte nostra, speriamo di mostrare in particolare che questo santo si potrebbe onorare del titolo di Doctor creatricis fidelitatis[8].
La «fedeltà creatrice» secondo Gabriel Marcel
Non è il caso qui di giustificare la complessità del pensiero del filosofo francese circa la fedeltà creatrice, ma di spiegarne quanto basta per farla vedere all’opera nella vita e nella dottrina di Newman. En passant, vogliamo segnalare che l’espressione – assai più diffusa – «fedeltà creativa» non fa affatto giustizia né a Marcel né a Newman e andrebbe corretta.
L’espressione «fedeltà creatrice» si trova negli scritti di Marcel in una relazione pubblicata come articolo nel 1939 e come capitolo di un libro nel 1940[9]. All’incrocio tra esistenzialismo cristiano e personalismo preoccupato degli «esseri colti nella loro singolarità», cioè degli esseri umani, il pensiero di Marcel non respinge per questo la domanda metafisica classica dell’«essere in quanto essere», cioè di Dio[10]. Un’intuizione folgorante e feconda avuta nel 1930 lo porta a collegare l’essere e gli esseri alla fedeltà: «Dall’essere come luogo della fedeltà»[11]. Attraverso opere teatrali e scritti filosofici, Marcel prosegue così una disamina della fedeltà nei rapporti umani e negli impegni interpersonali, specie tra amici e coniugi e al di là della morte. Nota anzitutto che la fedeltà non è la mera costanza, che rischia di essere solo l’orgoglio egocentrico di esseri identici, immutabili, obbligati fino alla ripugnanza. La vera fedeltà invece esige sia la spontaneità sia la presenza all’altro, a un Tu. E poiché le circostanze della vita faranno sempre sì che Io e Tu cambieremo, questa fedeltà esige di essere «creatrice». Si tratta quindi, per Marcel, di mostrare che «la fedeltà, colta nella sua essenza metafisica, può apparire come il solo mezzo di cui disponiamo per trionfare efficacemente sul tempo – ma anche che questa fedeltà efficace può e deve essere una fedeltà creatrice»[12].
«Creatrice», non semplicemente «creativa»: non basta, per essere fedeli, procedere a cambiamenti superficiali, epidermici, «fenomenologici» nelle pure apparenze. Altrimenti, aggiungiamo noi, si rischia di cadere in quella tentazione perenne di chi cerca di mantenere il potere: il gattopardismo. Per essere fedeli, le creature, esseri singolari, devono riconoscere che sono innestate nell’Essere, in un Creatore che condivide metafisicamente con loro l’essere creatore: «Quando assumo un impegno, pongo come principio che questo impegno non sarà rimesso in discussione […]; con ciò mi metto in condizioni di inventare un certo modus vivendi che altrimenti sarei dispensato dall’immaginare. Appare qui, in forma elementare, ciò che io chiamo la fedeltà creatrice»[13]. Spiega il filosofo francese Xavier Tilliette: «La capacità creatrice è molto di più dell’ingegnosità e delle piccole premure. Creare, per la fedeltà, è letteralmente ricreare, rinnovare, sostituire al Me stagno e opaco un altro Me poroso e accogliente»[14].
Per questo, e perché non possiamo assicurare da soli in futuro la fedeltà giurata qui e ora, qualsiasi fedeltà tra esseri singolari deve radicarsi in una «Fedeltà assoluta» cioè nella «Fede» religiosa[15]. Consapevole di essere ai limiti della filosofia, Marcel afferma tuttavia che tale fede non riguarda in primis «un certo numero di proposizioni alle quali aderisco» – ciò che i teologi dopo sant’Agostino chiamano la fides quae –, bensì «qualche cosa di molto più intimo […]; si tratta qui del fatto di essere in circuito aperto nei confronti di una realtà riconosciuta come un Tu»[16], la fides qua. Pertanto, nella prospettiva marcelliana, fedeltà e fede non sono accidenti della nostra esistenza come esseri singolari: l’io credo, «la credenza [è] l’essere, […] il mio essere, […] il fondo di ciò che sono», anche se va subito riconosciuto che io non sono né sarò mai all’altezza di questo io credo, che si potrebbe tradurre «altrettanto chiaramente in termini d’amore o di carità»[17].
Occorre notare che la riflessione di Marcel sulla fedeltà sorse, secondo il suo diario, quando si convertì alla fede cattolica. Opponendosi ai nichilismi che deridevano ogni impegno, egli dovette fare i conti con l’infedeltà, l’incredulità. Se quindi, al di là dei rischi della costanza, non è esclusa la fedeltà all’Io, questa va sempre coniugata con quella al Tu, in una vita fatta per l’azione e l’impegno: «La nozione di fedeltà creatrice re-instilla la vita nella virtù […]; la fedeltà si salva solo quando crea»[18].
Vediamo ora quanto la vita e il pensiero di Newman illustrino questa esigenza.
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Newman: una vita vissuta all’insegna della «fedeltà creatrice»
Ci sono molti, eccellenti libri sulla vita di Newman; qui si tratta di presentarne alcuni elementi che rivelano la sua fedeltà creatrice.
Senz’altro l’evento chiave della sua vita fu l’incontro personale che ebbe con Dio a 15 anni, nell’autunno del 1816, al termine degli studi nella Great Ealing School. Dopo un tempo di scetticismo filosofico riguardo alla fede cristiana, derivatogli da David Hume e da altri filosofi, alcune opere di teologia calvinista gli avevano aperto nuovi orizzonti. Pertanto, come raccontò anni dopo nella celebre Apologia pro vita sua, accolse come un’evidenza riposante «il pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidente in sé stessi, me stesso e il mio Creatore»[19]. Non dobbiamo ignorare che questa fu la prima vera conversione di Newman. L’Apologia ci mostra che, mentre si attenuò a poco a poco l’aspetto calvinista, l’impegno di questa fede assoluta fu costante per lui in tutta la sua vita, non rimanendo mai in balìa delle circostanze, ma rafforzandosi piuttosto con costanti atti ricreatori.
È in questa luce che dobbiamo considerare l’«altra» e più nota sua conversione: quando, nel 1845, dopo una notte di confessione generale a un passionista italiano, «attraversò il Tevere al nuoto» e si fece cattolico romano. Non fu un fulmine a ciel sereno: l’evento era stato preparato da anni intensi di ricerca intellettuale, in particolare sulla lotta dei Padri alessandrini contro l’arianesimo nel IV secolo, e di unione con altri studiosi a Oxford per affrontare le sfide alla Chiesa ufficiale d’Inghilterra. In quegli anni, alcune scelte insolite – il celibato come ministro anglicano, le visite pastorali ai poveri della parrocchia, la lunga disamina del rapporto tra fede e ragione ecc. – ci rivelano un uomo molto fedele agli impegni verso il Creatore e le creature, e quindi sempre pronto a stringere nuovi legami o a rinnovare quelli già presi, non per un atteggiamento di pura costanza, ma per assicurare a tutti una presenza.
Si sa quanto la vita di Newman sia diventata difficile dopo l’ingresso nella Chiesa cattolica: egli fu accantonato dalla buona società inglese, dalla propria famiglia, dagli ambienti intellettuali e colti che gli erano stati sempre connaturali (sarà riammesso a Oxford solo nel 1878). Ma per 20 anni, neppure i cattolici lo accolsero bene: veniva visto con sospetto sia dagli antichi aristocratici dissidenti (recusant), sia dal sottoproletariato irlandese sfruttato dalla Rivoluzione industriale, sia dai teologi incontrati a Roma negli anni di studio impostigli per cautela, sia dalla gerarchia cattolica inglese restaurata da poco, sia addirittura da Pio IX. Newman discusse con i vescovi irlandesi che nel 1854 lo avevano chiamato per fondare un’università a Dublino e se ne andò dopo quattro anni, non senza aver prima pubblicato le sue interessanti tesi sull’educazione in The Idea of a University (L’idea di università). L’attacco personale di Charles Kingsley in una rivista nel 1864 gli consentì di uscire dalla sua traversata del deserto, quando pubblicò l’Apologia pro vita sua, in cui spiegava la coerenza delle sue scelte di vita – in particolare, quella della Chiesa cattolica –, rivelandone la fedeltà creatrice: «Ho aggiunto – egli scrisse – nuovi articoli [cattolici] al mio credo [anglicano]; ma i vecchi, nei quali credevo allora con fede che avevo da Dio, sono rimasti»[20].
Questa «ricreazione» della sua fede divina, da anglicana a cattolica romana, non era avvenuta senza timore: «Naturalmente per me l’infedeltà a un impegno è – ed è sempre stata, come tu sai – quanto temo di più»[21], scrisse a Edward B. Pusey, il 4 maggio 1843. Tuttavia, egli si era reso conto dei rischi che comportava una fede credulona e priva di autocritica: «Mi ero ritenuto al sicuro finché avevo la garanzia [dei teologi detti Anglican Divines] per quanto dicevo. Avevo dato più prova di credulità (faith) che di senso critico nel trattare la questione. Non che, a causa della mia fiducia (reliance) nella loro autorità, ci fossero state da parte mia delle affermazioni completamente errate, ma trascuratezza in questioni di dettaglio, questa sì c’era stata. E ciò, naturalmente, era una colpa»[22]. Così, per rimanere fedele alla stessa fedeltà divina nel dono costantemente rinnovato della fede, Newman era dovuto andare oltre la credulità, per abbracciare lo spirito critico e mite che Cristo stesso aveva manifestato nelle parabole o nel Discorso della montagna, al fine di confutare ogni idolatria. Come vedremo, egli aveva allora già imparato a evitare «la confusione fra una facoltà critica e una facoltà creativa»[23] (o meglio «creatrice», per dirla con Marcel). Ma non per questo rifiutava la critica, quando gli consentiva di rafforzare fedeltà e impegni.
Nella rilettura della sua conversione del 1864, Newman sottolineò retoricamente che la sua fede non era cambiata dal 1845: «Dal giorno in cui divenni cattolico, naturalmente non ho più alcuna storia delle mie opinioni religiose da narrare. Con questo non voglio dire che la mia mente sia stata oziosa o che io abbia cessato di riflettere su argomenti teologici; ma soltanto che non ho più avuto variazioni da registrare e non ho più avuto alcuna inquietudine nello spirito. Mi sono trovato nella più perfetta pace e tranquillità; non ho mai avuto alcun dubbio. Al momento della mia conversione non fui consapevole di alcun cambiamento, intellettuale o morale, operatosi nel mio spirito. Non ebbi consapevolezza di una fede più ferma nelle verità fondamentali della Rivelazione, o di una maggiore padronanza di me stesso; non provai maggiore fervore; ma fu come entrare in porto dopo essere stati nel mare in burrasca; e la mia felicità, a questo riguardo, dura ininterrotta fino ad oggi»[24].
In realtà, non tutti gli aspetti della vita del Newman cattolico furono così pacifici: discussioni continue con il cardinale Henry Edward Manning (anch’egli convertito), riserve sull’opportunità di proclamare nel 1870 il dogma dell’infallibilità papale, ma non sulla sua sostanza, e così via. Creato cardinale da Leone XIII nel 1879, Newman trovò finalmente, negli ultimi anni della sua vita, la tranquillità reale alla quale aveva tanto anelato e per la quale si era speso con tanta fedeltà creatrice. Con san Paolo, dopo tante tribolazioni, poteva dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Per conservare la fede, appunto, egli aveva dovuto combattere la buona battaglia, quella di una continua ri-creazione, che richiede l’umiltà, la presenza agli altri, l’acutezza mentale, la carità soprannaturale, l’amore per la verità e la libertà spirituale.
Perfezionamento realista dell’insegnamento sul rapporto tra fede e ragione
Ricordando, nell’Apologia pro vita sua, la sua breve ma intensa carriera accademica a Oxford, Newman commentò: «Nei Sermoni universitari presento una serie di discussioni su fede e ragione; anche queste sono un tentativo iniziale di un lavoro importante e necessario – cioè un’indagine sul fondamento ultimo della fede religiosa, antecedente alla distinzione in varie confessioni»[25]. In effetti, fra i testi più studiati di Newman figurano innanzitutto gli ultimi sei Sermoni universitari X-XV, tenuti a Oxford tra il 1839 e il 1843, due anni prima di entrare nella Chiesa romana. Va notato che egli, dopo essere diventato cattolico, fece pubblicare questi testi e non vi trovò (pressoché) nulla da cambiare: rimanendo fedele all’evoluzione storica del suo pensiero teologico, avrà ritenuto che così avrebbe aiutato altri a seguire le orme della sua «fedeltà creatrice».
Una disamina cronologica di questi sei Sermoni – il cui genere letterario, va detto, è tipico più della relazione accademica che dell’omelia liturgica – rivela con quanta cura e quanta onestà intellettuale e morale Newman abbia studiato il rapporto tra fede e ragione e lo abbia comunicato al suo folto uditorio nella parrocchia universitaria di Saint Mary’s. La conversione fondamentale del 1816 era stata di impronta calvinista; pertanto, il punto di partenza per affrontare il rapporto tra fede e ragione era, per Newman, un antirazionalismo tinto di fervore evangelico. Il Sermone parrocchiale «La fede religiosa razionale» (1829) ne risente nella polemica contro quanti, per scetticismo razionalista, «irridono la religione», ma capovolge l’argomento quando afferma che sono loro in realtà a dover dimostrare che non è irrazionale vivere senza fiducia, «mentre che noi [esseri umani in generale] operiamo sulla fiducia in ogni ora della nostra vita»[26]. I toni accesi del giovane predicatore in parrocchia rivelano lo scandalo che costituivano per lui gli intellettuali – oxfordiani e altri – che schernivano come irrazionale la fede dei semplici: fanciulli, persone incolte, contadini e operai. Dello stesso stampo antirazionalista è il Sermone universitario IV (1831), come si evince già dal suo titolo: «Le usurpazioni della ragione»[27].
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Come conciliare la convinzione che la fede superava la ragione con un’antropologia d’impronta aristotelica che dava ampio spazio al logos? Gli Anglican divines avevano perlopiù abbracciato un razionalismo che contrariava Newman, ma lo infastidivano anche gli eccessi dell’evangelicalismo. Con i Sermoni universitari X-XV egli cercò dunque di fare i conti non solo con le teorie sul rapporto tra fede e ragione, ma ancor più con la realtà della fede vissuta e dell’uso della ragione. Questa distinzione tra «nozionale» e «reale» quanto all’assenso di fede sarebbe poi divenuta nel 1870 un elemento fondamentale della Grammatica dell’assenso[28]. Nel frattempo, il teologo trentenne precisava che cosa intendeva con i termini «fede» e «ragione».
Dopo aver contrapposto, nel Sermone universitario X, le due parole in base a un senso «popolare» della ragione, Newman nel sermone successivo esaminò la «natura della fede in rapporto alla ragione», stabilendo che la fede è un certo tipo di uso della ragione, esercitato alla pari dei grandi strateghi per motivi pratici, in base a «probabilità antecedenti» prerazionali. Che cosa preserva allora la fede dalla superstizione? La risposta viene data dal teologo inglese nel Sermone universitario XII: non la ragione raziocinante, come asserivano i razionalisti, bensì l’amore, «una retta disposizione del cuore»[29], giacché anche l’incredulità è irrazionale. Ritroviamo qui l’atteggiamento lodato da Marcel: l’«essere in circuito aperto nei confronti di una realtà riconosciuta come un Tu», atteggiamento morale radicato nella carità divina prima di implicare l’intelletto e la verità. L’insistenza sul primato dell’agire sul pensare – che forse sorprende in uno studioso così attento alla vita interiore – si ritrova in un articolo pubblicato nel Times nel 1841: «La vita è fatta per l’azione. Se insistiamo sulle prove per tutto, non arriveremo mai ad agire: per agire, bisogna supporre (assume), e questa supposizione è la fede»[30].
Una svolta decisiva si ha nel Sermone universitario XIII, che distingue tra «ragione implicita e ragione esplicita». Esaminando l’uso della parola «ragione», Newman aveva scoperto che essa significava sia il ragionamento esplicito, quando argomentiamo, sia i motivi impliciti per i quali ragioniamo in un modo o nell’altro «senza pensarci»: «Tutti gli uomini hanno la ragione, ma non gli uomini possono dare una ragione»[31]. La fede, quindi, ragiona implicitamente e non esige argomenti espliciti. Nel Sermone universitario XIV egli spiega che la ragione filosofica serve – insieme alla grazia divina – a portare la fede al suo compimento nella sapienza. In questo stato di sapienza si vede che ogni fede è anche intrisa di un «settarismo» (bigotry)[32] da purificare.
Non restava allora a Newman che predicare su un ultimo impiego della ragione in relazione alla fede, a lui ben noto: la teologia. Nel Sermone universitario XV, intitolato «La teoria degli sviluppi nella dottrina religiosa», con l’epigrafe «Maria serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc2,19)», il teologo prende Maria come «modello di fede, sia nell’accettare sia nello studiare la Verità divina. Ella non pensa che sia sufficiente accettarla, ma dimora in essa; che non basti possederla, ma usarla; che non basti dar l’assenso, ma svilupparla […], prima credendo senza ragionare, poi con amore e rispetto, ragionando dopo aver creduto»[33]. Al ritratto fantastico della Madonna teologa, Newman aggiungeva un altro tocco audace che dovremmo ammirare proprio in relazione alla sua proclamazione a dottore della Chiesa: «E così ella è per noi il simbolo, non solo della fede dei non istruiti, ma anche dei dottori della Chiesa, che devono indagare, soppesare e definire, come professare il Vangelo»[34].
Prima di esporre come Newman analizzò ulteriormente la questione dello sviluppo della dottrina, sorta alla fine del percorso dei sermoni dedicati al rapporto tra fede e ragione, dobbiamo sottolineare di nuovo come tale percorso illustri la «fedeltà creatrice» del teologo, non solo nella forma dello studio evolutivo, autocritico e onesto che egli perseguì, ma anche nel contenuto teologico dei sermoni, a vari livelli. Ascoltiamo dunque la spiegazione newmaniana di come, nella Chiesa, sia fra i teologi positivi sia nel Magistero, dovrebbe operare una vera fedeltà creatrice.
La dottrina dello sviluppo del dogma
Nel Sermone universitario XV, Newman aveva spiegato che «l’uso della ragione nell’indagare le dottrine della fede» era «un tema in realtà molto più adatto ad un volume che al discorso»[35] che stava tenendo. Esso avrebbe trovato compimento nel 1845 con An Essay on the Development of Christian Doctrine (Lo sviluppo della dottrina cristiana), uno scritto pubblicato dal teologo dopo mesi di studio per valutare se le dottrine cattoliche non immediatamente bibliche fossero o meno uno sviluppo cristiano autentico.
Per molti, è questo il suo tema teologico più famoso. Papa Leone XIV ha fatto riferimento ad esso nell’Angelus del 28 settembre 2025, in cui ha annunciato che avrebbe conferito «il titolo di Dottore della Chiesa a San John Henry Newman, il quale contribuì in maniera decisiva al rinnovamento della teologia e alla comprensione della dottrina cristiana nel suo sviluppo»[36]. Come abbiamo già ricordato, il Concilio Vaticano II ne ha canonizzato formalmente il concetto in Dei Verbum 8: «Haec quae est ab Apostolis Traditio sub assistentia Spiritus Sancti in Ecclesia proficit», cioè «progredisce» o «si sviluppa». Anche se Newman non vi è stato citato esplicitamente, la sua presenza implicita era ovvia, come spiegò san Paolo VI in una Lettera del 17 maggio 1970 ai partecipanti a un congresso su Newman in Lussemburgo, e in un’Allocuzione del 7 aprile 1975 ai partecipanti a un simposio su Newman tenutosi a Roma[37].
In An Essay on the Development of Christian Doctrine, contro le critiche anglicane di stampo protestante, che sostenevano la sola Scriptura, Newman stabilì sette criteri per giudicare se uno sviluppo dottrinale della Tradizione sia autentico o meno: 1) la permanenza del tipo; 2) la continuità dei princìpi; 3) il potere di assimilazione; 4) la coerenza logica; 5) l’anticipazione del suo futuro; 6) l’azione conservatrice del suo passato; 7) il vigore perenne. Senza entrare nei particolari, possiamo affermare che questi sette criteri indicano le caratteristiche di una «fedeltà creatrice» ecclesiale a livello dottrinale. Secondo Newman, l’«idea di rivelazione» – cioè Gesù Cristo – si trova meglio raffigurata e realizzata se le dottrine sviluppate – «l’espansione di poche parole, pronunciate, quasi casualmente, dai pescatori della Galilea»[38] – presentano tali note.
Ed è qui che non si deve fraintendere il discorso di Newman: «Una grande idea […] una concezione filosofica o una credenza […] muta […] per restare sempre identica a sé stessa. In un mondo più alto le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni»[39]. Questa tesi introduttiva al volume talvolta viene indebitamente scissa in due parti: i conservatori citano l’identità ferma, i progressisti il mutamento continuo. L’essenza del pensiero newmaniano sullo sviluppo del dogma si trova però nella congiunzione dei poli in tensione, nella famosa «fedeltà creatrice». A prima vista, questa potrebbe sembrare una soluzione gattopardiana: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Ma l’atteggiamento richiesto è tutt’altro, orientato appunto verso l’Altro, in una fedeltà che non ricerca il potere, ma il servizio.
* * *
Nel suo commento al pensiero di Gabriel Marcel, Xavier Tilliette concludeva: «Una fedeltà viva a sé stessi, protettrice dell’intimità personale, insegna paradossalmente ad aprirsi, a entrare in sintonia con l’interiorità degli altri. Ancora di più: la mia “particella di creazione” si risveglia forse solo attraverso l’amore; la mia presenza a me stesso è suscitata, ravvivata dal mistero della presenza degli altri; la mia fedeltà a me stesso è condizionata dalla mia fedeltà agli altri e, in definitiva, condizionata da essa. La fedeltà è rivelatrice»[40]. La «fedeltà creatrice» di Newman derivò dal suo fondamentale amore per il Creatore e per le creature, verso le quali si impegnò nell’amicizia e con un cuore di pastore con l’odore delle pecore. In questo Giubileo della Speranza 2025, il giudizio che Tilliette formulò su Marcel si adatta molto bene a Newman, Doctor creatricis fidelitatis: «Tra la sclerosi e la rivoluzione, tra una fedeltà che non è più creativa a forza di fedeltà e una creazione che non è più fedele a forza di creatività, [Newman] ci traccia un percorso impegnativo ma esaltante, la strada stessa della speranza»[41].
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[1] In tali occasioni, sono stati pubblicati nella nostra rivista i seguenti articoli: M. P. Gallagher, «Il beato Newman, “defensor fidei”», in Civ. Catt. 2010 IV 8-18; N. Steeves,«Newman: fede, santità e immaginazione», in Civ. Catt. 2019 IV 163-176.
[2] vatican.va/content/leo-xiv/it/…
[3] J. H. Newman, «18 February 1866. To W. G. Ward», in C. S. Dessain (ed.), The Letters and Diaries of John Henry Newman, vol. XXII, London, Thomas Nelson and Sons Ltd, 1972, 157.
[4] Cfr M. P. Gallagher, «Il beato Newman, “defensor fidei”», cit.; Id., Mappe della fede. Dieci grandi esploratori cristiani, Milano, Vita e Pensiero, 2011, 15-34.
[5] A. Dulles, Newman, London, Continuum, 2002, 113.
[6] J. H. Newman, «Quindici sermoni all’Università di Oxford», in Id., Scritti filosofici, Milano, Bompiani, 2005, 563. Newman tenne questo sermone a Oxford, il martedì dopo la Pentecoste del 1841, riportando come epigrafe1 Cor 2,15 («L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno»).
[7] Anche altri tratti del pensiero di Newman potrebbero essere presi in considerazione a tale riguardo: sensus fidelium, unità della Chiesa, coscienza e cuore. Cfr H. Geissler, John Henry Newman. Ein neuer Kirchenlehrer, Heiligenkreuz, Be+Be-Verlag, 2023.
[8] Come altri dottori della Chiesa sono stati definiti da secoli (in ordine di proclamazione): sant’Agostino d’Ippona, Doctor gratiae; san Tommaso d’Aquino, Doctor angelicus; san Bonaventura da Bagnoregio, Doctor seraphicus; san Bernardo da Chiaravalle, Doctor mellifluus; e, più recentemente, santa Teresa di Lisieux, Doctor caritatis; sant’Ireneo di Lione, Doctor unitatis.
[9] Cfr G. Marcel, «La fidélité créatrice», in Revue internationale de philosophie, vol. 2, n. 5, 1939, 90-115; Id., «La fedeltà creatrice», in Id., Dal rifiuto all’invocazione. Saggio di filosofia concreta, Roma, Città Nuova, 1976, 183-210. Cfr X. Tilliette, «La “fidélité créatrice”. Gabriel Marcel», in Communio (ed. fr.), n. 4, 1976, 49-57.
[10] Cfr G. Marcel «La fedeltà creatrice», cit., 183 s.
[11] Ivi, 207; cfr X. Tilliette, «La “fidélité créatrice”. Gabriel Marcel», cit., 49.
[12] G. Marcel, «La fedeltà creatrice», cit., 188 s.
[13] Ivi, 199.
[14] X. Tilliette, «La “fidélité créatrice”. Gabriel Marcel», cit., 55.
[15] Cfr G. Marcel, «La fedeltà creatrice», cit., 204.
[16] Ivi, 207 s.
[17] Ivi, 208.
[18] X. Tilliette, «La “fidélité créatrice”. Gabriel Marcel», cit., 52.
[19] J. H. Newman, Apologia pro vita sua, Milano, Paoline, 2001, 138.
[20] Ivi, 191.
[21] Ivi, 350.
[22] Ivi, 344.
[23] Id., «Quindici sermoni…», cit., 349.
[24] Id., Apologia pro vita sua, cit., 378.
[25] Ivi, 213.
[26] P. Udini, Il messaggio di J. H. Newman nei Sermoni parrocchiali, Vicenza, Libreria internazionale edizioni francescane, 1981, 66.
[27] J. H. Newman, «Quindici sermoni…», cit., 127.
[28] Cfr Id., An Essay in Aid of a Grammar of Assent, London, Longmans, 1903, I, 4, 36-97 (in it. Grammatica dell’assenso, Milano, Jaca Book, 1980).
[29] Id., «Quindici sermoni…», cit., 435.
[30] Id., Discussions and Arguments, IV, 6, 295; citato in Id., An Essay in Aid of a Grammar of Assent, I, 4, § 3, 95.
[31] Id., «Quindici sermoni…», cit., 475.
[32] Ivi, 563.
[33] Ivi, 567.
[34] Ivi; corsivo nostro.
[35] J. H. Newman, «Quindici sermoni…», cit., 567.
[36] Leone XIV, Angelus, 28 settembre 2025, in vatican.va/content/leo-xiv/it/…
[37] Paolo VI, s., Lettera al vescovo di Lussemburgo, mons. Léon Lommel, sul pensiero del Cardinale John-Henry Newman, 17 maggio 1970, in tinyurl.com/38enc69r/; Id., Discorso agli specialisti e agli studiosi del pensiero del Cardinale Newman, 7 aprile 1975.
[38] J. H. Newman, «Quindici sermoni…», cit., 573.
[39] Id., Lo sviluppo della dottrina cristiana, Milano, Jaca Book, 74 s.
[40] X. Tilliette, «La “fidélité créatrice”. Gabriel Marcel», cit., 55.
[41] Ivi, 57.
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