Ricordando Pino Daniele
Quest’anno ricorre il decimo anniversario della morte di Pino Daniele, chitarrista e cantante napoletano, conosciuto in tutto il mondo per le sue canzoni e per la sensibilità del suo tocco alla chitarra.
Nato nel 1955 a Napoli, primo di sei figli, ebbe una fanciullezza segnata da una certa povertà, e visse soprattutto grazie al sostegno di due zie, che gli diedero la possibilità di studiare fino al diploma di ragioneria presso l’Istituto Armando Diaz di Napoli. Proprio negli anni della giovinezza cominciò a suonare la chitarra in un contesto, quello partenopeo, in cui già le sonorità più tradizionali della musica popolare si intrecciavano con i ritmi jazz, afro e blues portati dagli statunitensi durante la Seconda guerra mondiale.
Già negli anni Sessanta e Settanta cominciarono i suoi incontri musicali con il percussionista Rosario Jermano, il sassofonista Enzo Avitabile, ma anche l’ascolto dei concerti di Eugenio Bennato, all’epoca nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, come egli stesso racconta[1], mentre si affermava sempre più in lui il desiderio di esprimersi attraverso un nuovo linguaggio della canzone con personali sonorità della chitarra.
Napoli, un sole amaro
Napoli è città che plasma, attira a sé, permea, ma, allo stesso tempo, sfugge agli stereotipi e alle classificazioni ferree e monolitiche, come mostrano tutti i musicisti che non vi sono nati. Ed è proprio da questo luogo che Daniele comincia la sua ricerca musicale, con un primo album intitolato Terra mia (1977), che contiene una delle più intense canzoni dedicate alla sua città e che egli canterà instancabilmente per tutta la sua carriera: «Napule è». In essa sono già contenute quella nostalgia e quella allegria che saranno le tonalità proprie della musica del cantautore napoletano. L’apertura del brano è affidata al pianoforte, che accompagna la melodia creata dal suono melanconico dell’oboe, mentre l’intervento del mandolino conferisce già l’atmosfera partenopea. Il testo della strofa è in continuità con il tono della musica: Napule è nu sole amaro / Napule è addore e’ mare / Napule è na’ carta sporca / E nisciuno se ne importa / E ognuno aspetta a’ sciorta[2]. Napoli, sottolineata attraverso l’anafora, viene descritta attraverso la sinestesia della luce del sole, accostata al gusto dell’amarezza, e da immagini sensoriali, come quella olfattiva del sapore salmastro del mare che si unisce a quella visiva della carta sporca. Ma la città non è solo questo, come si evince dalle altre strofe: Napule è na’ camminata / Int’ e viche miezo all’ate / Napule è tutto nu suonno / E a’ sape tutto o’ munno / Ma nun sanno a’ verità[3]. Il camminare tra i vicoli porta a sognare, a meravigliarsi, a contemplare, ma, allo stesso tempo, nessuno riesce a comprendere totalmente la città.
Il sentimento dell’amarezza, quell’insieme di tristezza e dispiacere viene ripreso anche nell’incipit di un altro storico brano, che dà il nome anche all’album, ossia «Terra mia»: Comm’è triste, comm’è amaro / Sta’ assettato a guardà / Tutt’e ccose tutt’e parole / Ca niente ponno fa’[4]. La terra, non solo quella partenopea, diviene esperienza di attaccamento e di distacco, di presenza e di assenza, di caducità e di limite; tuttavia è anche portatrice di una libertà che è possibile ascoltare nel profondo del cuore umano: Terra mia, terra mia / Tu si’ chiena ’e libbertà / Terra mia, terra mia / I’ mò sento ’a libbertà[5].
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Musica per gli svantaggiati
Anche il secondo album, intitolato semplicemente Pino Daniele e pubblicato nel 1979, è costellato di brani indimenticabili, che verranno sempre cantati da Daniele durante i suoi concerti, come ad esempio «Je so’ pazzo», in cui si inizia già a sentire in modo evidente quello stile che il cantautore stesso definirà come «Tarumbò», ossia una mescolanza di generi come la tarantella, i ritmi latini e il blues, che appartengono alla musica popolare di diversi continenti e che nel suo stile vengono mescolati con armonia, equilibrio e rispetto. Il brano si ispira alla figura di Masaniello, personaggio storico e avvolto da un’aura epica e leggendaria, che nel 1647 fu a capo dell’insurrezione contro il governo spagnolo e divenne simbolo del riscatto napoletano, soprattutto nei quartieri più popolari. La pazzia, legata a un lato della personalità di Masaniello, viene ripresa più volte nella canzone di Daniele per sottolineare l’essere svincolato dalle leggi precostituite da parte dell’artista e come attraverso la canzone si possa affermare il proprio pensiero: Pecché so’ pazzo/ Je so’ pazzo / Ed oggi voglio parlare[6].
È un parlare soprattutto in contrasto con il pensiero più egoistico, dentro il quale si nascondono i propri interessi che alimentano l’esclusione delle categorie più svantaggiate: C’ho il popolo che mi aspetta / E scusate vado di fretta[7]. Non è un caso che, per accompagnare questo testo, Daniele adotti proprio atmosfere musicali che si rifanno al blues, che è proprio la musica originaria degli schiavi afroamericani in cerca di riscatto e di libertà, divenendo simbolo di attenzione per le problematiche sociali e di giustizia. Lo stesso genere musicale è utilizzato anche nella celebre canzone «A me me piace ‘o blues», contenuta nel terzo album del cantautore napoletano, intitolato emblematicamente Nero a metà (1980), proprio per enfatizzare il suo essere legato a una cultura meticcia, dove convergono differenti aspetti musicali e stilistici. Il titolo, infatti, è un omaggio al musicista Mario Musella, nato nel 1945 da un soldato statunitense e da una ragazza napoletana (e dunque un «nero a metà»), non diversamente dall’altro caro amico e musicista che lo ha accompagnato per tutta la carriera artistica, il sassofonista James Senese.
Nel brano il cantautore insiste ancora sulla libertà di parola: A me me piace ‘o blues / E tutt’ ‘e juorne aggi’ ‘a cantà, / Pecchè so’ stato zitto / E mo è ‘o mumento ‘e me sfucà[8]. E se da una parte esprime la durezza davanti alla vita – So’ blues, astregno ‘e diente[9] –, dall’altra sottolinea la dimensione più intima, più fragile, attraverso il verso del ritornello Ma po nce resta ‘o mare[10], che è simbolo di quell’infinito che si sente nel proprio animo e che fa cadere tutte le difese e le offese che spesso l’esistenza provoca.
L’elemento naturale non è mai puramente estetico nella poetica di Daniele, ma diviene aspetto che evoca sentimenti ed emozioni, come nel brano «Quanno chiove», sempre contenuto nell’album Nero a metà, che descrive la giornata di una prostituta nei vicoli di Napoli. L’incipit della canzone è di una profonda delicatezza: E te sento quanno scinne ‘e scale / ‘E corza senza guarda’ / E te veco tutt’e juorne / Ca ridenno vaje a fatica’ / Ma poi nun ridi cchiù[11]. Immediato è il contrasto tra il riso della protagonista mentre esce dalla sua casa e il commento drammatico del cantautore, che afferma: «Poi non ridi più». Esiste un riso di forma, superficiale, nel senso di superficie, che è difesa dagli attacchi della vita, fatto per nascondere la propria condizione.
La prima strofa si conclude con un’altra considerazione: E luntano se ne va / Tutt’a vita accussì / E t’astipe pe nun muri’[12]. Tutta l’esistenza trascorre in questa maniera, allontanandosi; il che non significa soltanto il trascorrere del tempo, ma anche la distanza che si genera a livello di umanità, di speranza e di futuro, come mostra l’espressione conclusiva «E tu ti conservi per non morire». Così il ritornello diviene quasi un rito battesimale, con l’acqua della pioggia che cade, lava e purifica: E aspiette che chiove / L’acqua te ‘nfonne e va / Tanto l’aria s’adda cagna’[13]. Esiste un’attesa di una pioggia che possa pulire, lavare, purificare dalla miseria della vita, con la speranza che ci possa essere una nuova aria, ossia una nuova vita della quale non ci si debba vergognare: Ma passanno quaccheduno / Votta l’uocchie e se ne va[14]. Oltre che nelle parole, si può ascoltare lo sguardo delicato di Daniele attraverso le opzioni musicali che compongono il brano: egli sceglie armonie maggiori, con intervalli a volte di settime maggiori, che conferiscono all’armonia del brano una sensazione più soave e profonda. Così anche la scelta di un assolo di sax, interpretato magistralmente da James Senese, lascia il brano sognante e non concluso, come la speranza di una vita migliore per la protagonista.
La musica dentro il cinema
Il senso dell’attesa e della speranza è contenuto anche in un’altra canzone celebre della fine degli anni Ottanta, intitolata «Anna verrà», contenuta nell’album Mascalzone latino (1989). È la prima canzone scritta di Daniele in lingua italiana. Il brano è dedicato all’attrice Anna Magnani, che ha interpretato il personaggio di «sora Pina» nel film Roma città aperta, con la regia di Roberto Rossellini, come si può vedere anche nel videoclip che accompagna la canzone, in cui sono presenti diverse scene del film neorealista. L’espressione «Anna verrà» scandisce il tempo della composizione musicale e crea un senso di attesa dinamica – Dimmi quando questa guerra finirà – e allo stesso tempo un’urgenza di agire a livello non solo individuale, ma di comunità – Noi che abbiamo un mondo da cambiare –; ed è un «noi» che comprende tutti coloro che hanno una medesima sensibilità, poetica e sognatrice, come mostra il verso Noi che ci emozioniamo ancora davanti al mare.
Il mare, ancora una volta, racchiude un universo polisemico che non può essere totalmente definito per la sua vastità, ma provoca, come davanti alle immagini del film di Rossellini, emozioni che devono essere perseguite per riuscire finalmente a realizzare una realtà più giusta per tutti, come si afferma nel finale della canzone: Raccoglieremo i cani per strada / Ci inventeremo qualche altra cosa / Per non essere più soli, sì, più soli. Il sapersi chinare sull’altro, superando le barriere degli egoismi, il riconoscersi come esseri in relazione, alla ricerca di un’umanità perduta e di una libertà fraterna – sorridere per questa libertà – non sono istanze utopistiche, ma un sentimento profondo, che deve provocare ciascuno. Per tre volte nella canzone si ripete l’espressione Anna, dimmi se è così lontano il mare,che è anche il verso conclusivo: quanto cammino dovrà fare ancora l’uomo per arrivare finalmente a realizzare il sogno di un mondo più giusto, in cui ci sarà un giorno pieno di sole?
Il cinema è stato sempre presente nella vita del musicista napoletano, come si può osservare anche dalla produzione di colonne sonore, in particolare per l’amico e conterraneo Massimo Troisi, per il quale egli ha firmato le musiche di Ricomincio da tre (1981), Le vie del Signore sono finite (1987) e Pensavo fosse amore… invece era un calesse (1991). Celebre rimane nella memoria la battuta ironica del regista: «Tu mi scrivi una canzone e io faccio un film intorno»[15], pronunciata durante l’intervista di Gianni Minà a Massimo Troisi e Pino Daniele nella trasmissione «Alta classe»[16].
Per il film Pensavo fosse amore… invece era un calesse, è famoso il brano «Quando», che, in linea con la difficoltà delle relazioni d’amore tra i protagonisti del film, presenta un testo ermetico ed evocativo, accompagnato da armonie che collegano la musicalità partenopea con quella più specificatamente brasiliana, trasmettendo emozioni comprese tra la nostalgia, nella strofa, e la speranza, nel ritornello. L’avverbio interrogativo «quando», nella strofa iniziale, che suggella il titolo stesso del brano, esprime la fragilità del sentimento d’amore, così come il «dove»: Tu dimmi quando, quando / Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca / Forse in Africa, che importa… / Dove sono le tue mani ed il tuo naso / Verso un giorno disperato. Se da un lato troviamo la concretezza dell’amore, identificato con parti anatomiche, dall’altro osserviamo l’aspetto sfuggente descritto come l’Africa, nell’accezione di Paese lontano, e «verso un giorno», che esprime una dimensione futura e incerta. A conclusione delle strofe il verso Ma io ho sete / ho sete ancora manifesta il desiderio mai appagato della relazione, che è la vera essenza dell’essere umano e, allo stesso tempo, la dimensione esistenziale più complessa e fragile; infatti, il verso Siamo angeli / che cercano un sorriso esprime proprio la mancanza (simboleggiata dal sorriso) che si cerca di completare.
Se volessimo proporre un parallelismo biblico, potremmo citare la mancanza che l’uomo sente all’inizio della creazione: «Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gen 2,20). Il senso di incompletezza, che è elemento intrinseco dell’essere umano, spinge a entrare in relazione – come possiamo vedere anche nel mito delle due metà di Platone[17] – , a ricercare ciò che non si possiede, in una dimensione di alterità che non è mai desiderata totalmente, ma sempre sperata.
La musica dell’incontro
La musica di Daniele continua a essere un viaggio intercontinentale, come si può osservare nell’album Non calpestare i fiori nel deserto (1995), in cui si sentono sonorità africane, scale arabeggianti e jazz sulla chitarra, e ritmiche provenienti dal Sud America. Uno dei suoi brani più emblematici è «Un deserto di parole», scritto insieme a un ancora giovane Jovanotti. Il testo riprende l’idea della ricerca dell’amore già vista in «Quando»: È un deserto questo amore / Per cercare l’acqua ho camminato / Sotto un cielo stellato / Nel deserto nasce un fiore / Fiore della vita la speranza non è finita.
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Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.
La sete di affetti continua attraverso la scelta di due termini, di per sé agli antipodi, che servono all’ascoltatore per comprendere la forza del messaggio: il deserto e l’acqua. La speranza rimane nel saper vedere la bellezza di un fiore che nasce in un luogo inatteso, una metafora che può comprendere molteplici aspetti su ciò che è veramente importante nella vita, come mostra la strofa scritta e cantata da Jovanotti, nel suo inconfondibile stile rap: È un tamtam da un capo all’altro / Del continente, un passaparola di suoni che unisce / La gente che cerca in questo deserto un po’ / D’acqua da bere e la trova… È la cultura che / Si rinnova e si sviluppa dove ha più sofferto / Non calpestare i fiori nel deserto!
L’unione della gente, o meglio dei popoli, anche geograficamente e culturalmente diversi tra loro, è il tema che Daniele sviluppa nel brano «I buoni e i cattivi», contenuto nell’album Come un gelato all’Equatore (1999) e che, musicalmente, continua quell’idea di contaminazione tra differenti generi e stili musicali. Lo testimonia anche la partecipazione di musicisti di fama internazionale alla registrazione dell’album, quali il bassista Pino Palladino e il percussionista Mino Cinelu. Se nella musica è molto più immediato e naturale far sì che le culture, anche differenti, si possano incontrare e dialogare, ben più arduo invece è l’incontro tra i popoli in maniera non contrastante, ma accogliente. Significativi sono i versi della canzone: Suona, chitarra suona nella notte scura / Sulle mura di una città assediata / Dall’occidente che ha paura / Di tutto quello che è diverso. Sembra che la chitarra – una metonimia per riferirsi a tutta la musica, ma che per il cantautore napoletano è lo strumento più personale – risuoni solo per affermare che un mondo includente, rispettoso, privo di timori sia possibile.
La musica diventa la luce nella «notte scura», una speranza che si spinge oltre i muri e le barriere che sono stati innalzati lungo la storia e le diverse geografie. Il compito dell’artista, dunque, è quello di trasmettere i valori insiti nella musica, che sono quelli del mistero della vita e del rispetto e del dialogo: Mistica mistica, etnica etnica / Jazz and free, r’n’b, blues in g. L’artista nel suo canto comunica e diffonde questi ideali, come Daniele canta sul finire del brano, con un inno all’amore: Suona, chitarra suona questa notte / Suona e dille che io l’amo ancora / E che non scordo nemmeno una parola / Di quello che mi ha detto / What we need it’s only love love / It’s only what we need.
Gli anni 2000 sono stati caratterizzati dalla grande amicizia e dalla collaborazione con cantanti italiani (Francesco De Gregori, Fiorella Mannoia, Ron, Giorgia, Mina, Franco Battiato ecc.) e musicisti stranieri, come ad esempio il maliano Salif Keïta, per l’album Medina (2001), il percussionista Karl Potter in «Iguana cafè» (2005), Al Di Meola in «Ricomincio da 30», o Eric Clapton in alcuni concerti.
Daniele insiste ancora sul tema dell’incontro di fronte a una realtà che sembra sempre più distanziarsi dall’idea del reciproco rispetto. In «Gente di frontiera», che fa parte dell’album Medina, dove sono ancora ben presenti sonorità mediterranee, egli canta: Siam tutti gente di frontiera / Cerchiamo un’altra primavera. L’idea di frontiera appartiene a tutte le popolazioni e non costituisce un confine invalicabile, ma forse proprio un luogo esistenziale in cui è possibile avvicinarsi senza timore, cercando germogli di «primavera», ossia di rinascita e di nuova umanità. E se il mondo sembra andare nella direzione opposta, l’artista rifiuta l’idea che non sia possibile un reale rapporto di rispetto con l’altro: Se a voi sta bene così / A me non mi basta,essendo consapevole che questo cammino di umanità è complesso e impegnativo, Anche se domani anche se domani / Sarà un altro giorno duro.
Nel 2012 Daniele pubblica quello che sarà il suo ultimo lavoro, intitolato La grande madre, ventunesimo album in studio, nel quale si avvale di musicisti del calibro del batterista statunitense Steve Gadd, del percussionista francese Mino Cinelu e del sassofonista britannico Mel Collins. Lo stesso cantautore napoletano definisce così il suo lavoro discografico: «Per me la Grande Madre è il sangue misto nella musica, è il cordone ombelicale che ci lega ai quattro elementi del pianeta, è il codice per entrare a far parte della rinascita ed il rinnovamento dello spirito ogni qual volta le note cercano di comunicare: rinnovarsi attraverso la terra, camminare a piedi nudi per sentirne l’energia, la sensazione di sentire l’acqua sulla pelle bagnandosi le mani, attraversare il fuoco con il suono, ascoltare il vento dell’innovazione, sentirsi parte di un universo che non ha confini. La ricerca della Grande Madre è il viaggio che ognuno spera di intraprendere per un futuro migliore»[18].
Di nuovo ritmi latini e sonorità mediorientali si intrecciano con chitarre elettriche, colori blues, creando un marchio di fabbrica proprio di Daniele. Il camminare, sia nell’accezione letterale di passare da un Paese all’altro sia in quella metaforica del cammino di interiorità dell’essere umano, sembra essere uno dei fili conduttori dell’intero album.
Nella canzone «Due scarpe» – Due scarpe camminano insieme / Ognuna ha una storia diversa – si richiama metaforicamente il senso della vita, relazionale e individuale allo stesso tempo, a contatto con una realtà complessa e che mette alla prova: Il mondo ha l’abitudine di essere crudele. E queste scarpe, che simboleggiano il cammino dell’uomo, che una volta erano nuove scintillanti,rimangono ancorate agli affetti, anche quelli più semplici e genuini – Ma a volte basta poco / Basta dirsi «Come va»? – esprimendo, nella semplicità, il riconoscimento dell’importanza dell’esistenza dell’altro.
Nel brano «Searching for the Water of Life»[19], il cui testo è stato scritto da Kathleen Hagen, si passa, invece, a un cammino attraverso il «fuoco» della guerra, che porta a vedere l’orrore e il dolore soprattutto nei bambini, a cui si interrompe la crescita serena a causa della violenza dei conflitti, che impediscono di correre al ritmo del cuore e cercare l’acqua della vita, come si canta nella strofa: Walking into the desert passing through the fire / Watching other children, looking at their smiles / Running to the heart beat, drumming on for miles / Searching for the water of life[20].
L’ultimo brano dell’album, «I Still Love You», sembra suggellare l’idea dell’umanità di Daniele, nella semplicità e profondità di un pensiero che racchiude una ricerca musicale ed esistenziale capace di abbracciare infinite culture e modi di pensare e di suonare: C’è una risposta sola / A tutto quello che non so / Una carezza che vola / Con gli aquiloni in un giorno di vento / Io ci sarò, tu ci sarai / Con gli occhi verso il cielo. La ricerca esistenziale sembra placarsi – ma non arrendersi – attraverso la bellezza di un gesto semplice come una carezza, che comunica la certezza di una presenza che è bisogno e necessità umana. La carezza è il segno dell’affetto, di un amore che non è possesso, ma reciprocità, alterità e intimità; gli occhi verso il cielo, inoltre, comunicano che esiste un mistero in questo amore, che non è mai compreso totalmente, ma che forse è segno di un infinito che attendiamo.
Conclusioni
La musica di Pino Daniele sgorga così dalla sua geografia e dalla sua iniziale condizione sociale, attraverso la quale egli ha sperimentato la fatica del vivere. Queste esperienze esistenziali hanno contribuito a incanalare la sua creatività artistica, portandolo a intraprendere strade in cui la musica e la relazione con l’altro sono diventate fondanti e fondamentali. I generi musicali che ha saputo armonizzare – tra musica partenopea, ritmi afro-jazz, blues, pop e rock – sono il frutto di un rispetto per le molteplici culture del mondo e per la dignità di ogni persona umana. L’amore, nelle sue complesse sfaccettature, è il tema che egli ha saputo declinare nelle sue canzoni, vedendo l’ampiezza e la profondità del sentimento umano, così arduo e difficile da decifrare.
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[1] Cfr «Oggi è un altro giorno – Eugenio Bennato e il rapporto speciale con Pino Daniele: La confessione dopo anni», in Topic News (topicnews.it), 26 dicembre 2021.
[2] Napoli è un sole amaro / Napoli è odore di mare / Napoli è una carta sporca / E a nessuno gliene importa / E ognuno aspetta la fortuna.
[3] Napoli è una passeggiata / Tra i vicoli in mezzo agli altri / Napoli è tutta un sogno / E la conosce tutto il mondo / Ma non sanno la verità.
[4] Com’è triste com’è amaro / Star seduto e guardare / Tutte le cose e tutte le parole / Che nulla possono fare.
[5] Terra mia, terra mia / Tu sei piena di libertà / Terra mia, terra mia / Io adesso sento la libertà.
[6] Perché sono pazzo / Io sono pazzo / E oggi voglio parlare.
[7] Ho il popolo che mi aspetta / E scusate vado di fretta.
[8] A me piace il blues / E tutti i giorni devo cantare, / Perché sono stato zitto / E ora è il momento di sfogarmi.
[9] Perché sono blues e stringo i denti.
[10] Ma poi ci rimane il mare.
[11] E ti sento quando scendi le scale / Di corsa e senza guardare / E ti vedo tutti i giorni / Mentre ridendo vai a lavorare / Ma poi non ridi più.
[12] E lontano se ne va / Tutta la vita così / E tu ti conservi per non morire.
[13] E aspetti che piova / L’acqua ti bagna e se ne va / Tanto l’aria si deve cambiare.
[14] Ma qualcuno passa / Volta lo sguardo e se ne va.
[15] «Pino Daniele, Massimo Troisi e Gianni Minà – In un pezzo di televisione inimitabile – Alta Classe», in youtube.com/watch?v=500s7Mg_mZ…
[16] Puntata andata in onda il 21 gennaio 1992.
[17] Cfr Platone, Simposio, 191a: «Dopo che la natura umana fu divisa in due parti, ogni metà per desiderio dell’altra tentava di entrare in congiunzione e cingendosi con le braccia e stringendosi l’un l’altra».
[18] pinodaniele.com/music/la-grand…
[19] Il brano è stato composto in favore dell’associazione umanitaria «Save the Children», per supportare la campagna «Every one» per contrastare la mortalità infantile nelle zone più povere dell’Africa.
[20] Camminare nel deserto passando attraverso il fuoco / Guardare altri bambini, guardare i loro sorrisi / Correre al ritmo del cuore, tamburellare per miglia / Cercare l’acqua della vita.
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