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Israele, Gaza e il piano di pace


Particolare del muro tra Israele e Palestina. (Levi Meir Clancy/ Unsplash).
Con l’accettazione, da parte di Israele e di Hamas, del piano di pace proposto dal presidente Trump e con l’entrata in vigore di un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e la scarcerazione di quasi 2.000 carcerati palestinesi, nonché il parziale arretramento dell’esercito israeliano, la guerra a Gaza sperimenta una tregua, nonostante le questioni da affrontare siano ancora tante e gli steps da superare molteplici.

Prima della tregua, però, è stata condotta una dura campagna militare: una città con quasi un milione di abitanti, Gaza City, è stata rasa al suolo dall’esercito israeliano e i suoi abitanti sono stati costretti ad abbandonarla. In questo articolo tratteremo della lenta agonia di Gaza, del piano di pace e delle molte questioni ancora da affrontare.

Operazione a passo lento


L’invasione di Gaza City da parte di Israele era iniziata la notte del 15 settembre. Sotto la copertura di attacchi aerei e fuoco di artiglieria – 20 raid aerei in meno di 40 minuti[1] –, due divisioni erano entrate nella parte interna della città: la 98a, detta «Divisione di fuoco», formata da paracadutisti e incursori, specialisti degli scontri urbani, e la 162a, detta «Divisione di acciaio», munita di tank e mezzi blindati[2].

L’obiettivo principale dell’attacco – spiegava il ministro della Difesa israeliano Katz – era eliminare l’unica brigata superstite di Hamas, con la convinzione di azzerarla definitivamente e ottenere la liberazione degli ostaggi: «Vogliamo prendere il controllo di Gaza City perché oggi è il simbolo principale della capacità di governare di Hamas. Se cadrà, anche loro cadranno»[3]. Si pensava che i miliziani asserragliati nella città fossero al massimo 2.500. Essi contavano sulla conoscenza del territorio e su una rete di cunicoli ancora intatti.

Si parlava di un’operazione «a passo lento», e ciò per due motivi principali[4]. Il primo era che la priorità, come ha detto il generale Eran Ortal, erano gli ostaggi; quindi muoversi lentamente dava maggiore possibilità di evitare errori. Il secondo motivo era la messa in sicurezza delle forze militari. In altre fasi della guerra di Gaza l’esercito aveva voluto procedere velocemente, ma questa volta la «lentezza» era necessaria, perché non si voleva soltanto occupare la città, ma anche sgomberarla completamente della presenza di Hamas. Ciò non era semplice e necessitava di strategie di attacco organizzate sul terreno.

Anche il generale Eyal Zamir, capo dell’operazione, nel gabinetto di sicurezza israeliano ha parlato di un’«invasione graduale». Si pensava che la maggior parte dei civili avrebbe deciso di lasciare la città solo all’ultimo momento, il che ha obbligato l’esercito a pianificare attentamente il dispiegamento delle truppe sul territorio. Questo piano è stato criticato dall’ala più dura degli strateghi militari[5]. Nei giorni precedenti, una parte dei civili – tra i 200.000 e i 350.000 –, seguendo le indicazioni fornite dall’esercito, avevano abbandonato la città e si erano spostati con i loro beni a Deir al-Balah, a 15 km di distanza da Gaza City, o nella zona umanitaria di al-Mawasi, sperando di trovare in quei luoghi maggiore sicurezza. La maggioranza però era rimasta, anche perché non aveva la disponibilità economica per noleggiare un minivan e trasportarvi i beni o comprare una tenda, il cui valore negli ultimi tempi era salito di 20 volte.

Nelle settimane successive, sotto la spinta delle autorità militari israeliane, che nel frattempo avevano circondato la città, ridotta a un cumulo di macerie, la popolazione aveva abbandonato Gaza City e si era rifugiata nelle zone umanitarie del sud della Striscia. Sembra che soltanto alcune decine di migliaia di vecchi e malati fossero rimasti in città.

L’attacco di Israele a Doha


Quando l’esercito, 22 mesi fa, attaccò Gaza City, gli israeliani erano unanimi nel sostenere l’azione. Hamas era appena uscito da Gaza massacrando oltre 1.200 persone e prendendo 250 ostaggi. L’opinione pubblica era concorde nel ritenere che il gruppo dovesse essere annientato. Dopo, però, questo sostegno è andato calando. I capi di Hamas sono stati eliminati e l’organizzazione è stata fortemente ridotta. I sondaggi indicavano che il 70% degli israeliani era favorevole a un cessate il fuoco che consentisse di porre fine alla guerra e di rilasciare gli ostaggi. Soluzione che Netanyahu non prendeva in considerazione, sia per motivi politici – ingraziarsi la destra religiosa –, sia per interessi personali, al punto da far bombardare sui negoziati per un cessate il fuoco che si tenevano a Doha, in Qatar, attirandosi le critiche dell’intera comunità internazionale.

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L’episodio è avvenuto il 9 settembre 2025, quando l’aviazione israeliana ha bombardato, con 10 jet da combattimento, una palazzina di tre piani nel quartiere Katara, a Doha, zona di ambasciate e di expat[6]. Era la prima volta che Israele colpiva una capitale del Golfo e attaccava un Paese non nemico, nel quale si trovava una base militare statunitense. Sebbene il piccolo emirato del Golfo avesse a lungo ospitato i leader di Hamas, era uno stretto alleato americano, ed era stato anche la sede principale dei colloqui per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Attaccarlo era quindi un passo eccessivamente azzardato e poco diplomatico[7]. Eppure è stato fatto. Le bombe hanno ucciso sei persone, ma non hanno colpito i leader di Hamas (tra cui Khalil al-Hayya, capo del team negoziale, e Khaled Meshal, ex capo del gruppo) radunati in quel luogo, ma che in quel momento si trovavano in un altro ambiente.

I negoziatori si erano riuniti per discutere una nuova proposta di cessate il fuoco avanzata dall’amministrazione statunitense qualche giorno prima. L’accordo sarebbe stato favorevole per Israele. Richiedeva ad Hamas il rilascio immediato dei 48 ostaggi israeliani, vivi e morti. Il cessate il fuoco, di carattere temporaneo, non avrebbe posto fine alla guerra; quindi si richiedeva a Israele di sottoscrivere un cessate il fuoco non definitivo[8]. Ma queste condizioni non soddisfacevano Netanyahu, il quale dopo l’attentato terroristico a Gerusalemme di qualche giorno prima ha mandato in aria le trattative sul cessate il fuoco e ha sferrato un attacco missilistico al tavolo negoziale di Doha. Un atto che è stato duramente condannato da tutte le capitali arabe, e non soltanto. Il sovrano del Qatar ha denunciato l’aperta violazione del diritto internazionale e della sovranità del suo Paese e ha dichiarato la cessazione dei colloqui negoziali. Secondo Trump, l’operazione era stata compiuta a sua insaputa e gli era stata comunicata mentre era già in atto. Molti dubitano di ciò; alcune fonti segnalano che il Presidente era stato avvertito circa un’ora prima e che avrebbe potuto bloccare l’operazione: cosa che non ha fatto, nella speranza che essa potesse avere un esito positivo.

Nell’amministrazione israeliana, non tutti condividevano la decisione di Netanyahu. Questi avrebbe preferito che l’operazione venisse svolta dal Mossad, il cui capo, David Barnea, si era però opposto a tale soluzione, lasciando che l’operazione venisse portata avanti dall’esercito, o meglio dall’aeronautica. Il discorso di Barnea a proposito di tale missione suonava così: «Grazie al Qatar siamo riusciti a negoziare due cessate-il-fuoco e la liberazione di 148 ostaggi, quasi tutti vivi, in cambio del rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi; dove ci siamo mossi per vie militari, invece, abbiamo recuperato solo otto ostaggi vivi e 51 morti. Perché, allora, usare la forza e non continuare con i negoziati? Perché far saltare in aria il tavolo negoziale di Doha?»[9]. Ma Netanyahu pensava diversamente e ha prestato ascolto agli alleati della destra religiosa che spingevano per la guerra totale e per ricostituire le colonie di Gaza.

I vertici delle Forze di difesa israeliane (Idf) sembravano condividere l’opinione della popolazione israeliana, di cui si è detto, in merito al cessate il fuoco. Il generale Eyal Zamir aveva ripetutamente avvisato il governo che sferrare un colpo decisivo contro Hamas avrebbe potuto richiedere anni, se mai fosse stato possibile. Per questo egli era favorevole a un cessate il fuoco che liberasse gli ostaggi[10].

Hamas, che non aveva rispetto per la vita del suo popolo e che lo utilizzava come scudo umano contro i carri armati e l’artiglieria nemica, faceva pressione sulla popolazione perché non abbandonasse la città, mentre i suoi combattenti si erano dileguati: soltanto 3.000, secondo l’intelligence, erano rimasti in città a tenere imboscate; gli altri 20.000 erano fuggiti verso sud, vanificando in buona parte lo scopo dell’operazione israeliana.

L’unica grande potenza schierata dalla parte di Israele erano gli Stati Uniti, mentre la comunità internazionale, anche in sede Onu, aveva preso le distanze da Israele, in particolare per la sua politica in materia di distribuzione del cibo. Intanto, di fronte all’accusa di crimini di guerra compiuti da Israele, diversi Paesi avevano formalmente riconosciuto lo Stato di Palestina: innanzitutto, la Gran Bretagna il 21 settembre, come pure il Canada, l’Australia, il Portogallo. Il giorno dopo era toccato alla Francia, che presiedeva, insieme all’Arabia Saudita, la Conferenza Onu sul riconoscimento dei due Stati. «È arrivato il momento – aveva detto Macron – di fermare la guerra, il massacro. È arrivato il tempo della pace. Niente giustifica il conflitto in corso a Gaza. Niente»[11]. In totale, i Paesi che hanno riconosciuto la Palestina come Stato ora sono già 148, e nel tempo se ne aggiungeranno altri. Questa decisione aveva un carattere meramente formale e non cambiava nulla nei rapporti di forza tra i due Paesi, sebbene avesse un alto valore simbolico. Tanto che Netanyahu si era affrettato a replicare: «Non ci sarà alcuno Stato palestinese»; e aveva aggiunto, alla vigilia del suo intervento all’Onu: «Così si premiano i terroristi di Hamas»[12].

La distruzione di Gaza City


La distruzione di Gaza City, in realtà, era iniziata poco alla volta da mesi: i quartieri di Tuffah, Sabra, Zeitoun e Shujayea erano stati letteralmente rasi al suolo, come appariva evidente dalle foto scattate dall’alto. Poi era iniziato l’abbattimento delle torri, una dopo l’altra. Come mai erano state prese di mira le torri? Il motivo è semplice: per ragioni di sicurezza militare. Infatti, negli ultimi due anni esse erano state preparate da Hamas allo scontro con le milizie israeliane. Sembra che ciascuno di quegli edifici avesse telecamere per controllare il territorio, strutture per la comunicazione e centri operativi.

Vedendola dall’alto, nelle foto satellitari, Gaza City oggi ricorda le due città sorelle, Rafah e Khan Younis, distrutte in precedenza dall’esercito israeliano. A tale riguardo, alcuni analisti parlano dell’uccisione di un’intera città, come nei decenni passati era accaduto a Sarajevo, Mostar, ma anche ad Aleppo e Homs e a molte altre città. A Gaza «la devastazione è sistematica, studiata e voluta, non certo il prodotto di battaglie o danni collaterali»[13].

Lo Stato d’Israele ha reso la vita impossibile nella Striscia di Gaza, colpendo città dopo città, distruggendo palazzi residenziali, scuole, ospedali e altre infrastrutture e spingendo con la forza le popolazioni delle zone distrutte verso il sud, drammaticamente sovrappopolato e in condizioni umanitarie inaccettabili.

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Piano di pace per Gaza


La svolta sulla guerra a Gaza si è avuta lunedì 29 settembre, nell’incontro alla Casa Bianca fra Trump e Netanyahu, quando è stato discusso un nuovo piano per il cessate il fuoco in 20 punti, preparato dall’amministrazione statunitense. Inizialmente i punti erano 21, ma in seguito è stato eliminato il punto 18, che impegnava Israele a non attaccare più il Qatar. È stato cancellato anche perché lo stesso Netanyahu ha chiamato Doha per scusarsi, e perché Trump ha firmato un ordine esecutivo che impegnava gli Usa a garantire la sicurezza del Qatar. I princìpi del piano sono chiari, ma non i dettagli delle fasi successive al cessate il fuoco. «Questa proposta – è stato scritto – è una pietra miliare, perché stabilisce i parametri per una via di uscita dall’incubo e segna un cambiamento nelle posizioni di America e Israele e, forse, anche di Hamas»[14].

I punti fondamentali sono i seguenti[15]. Innanzitutto, il rilascio degli ostaggi (i 20 vivi e i resti dei 48 morti) entro 72 ore. Per contro, il rilascio, da parte di Israele, di 250 ergastolani e oltre 1.700 cittadini di Gaza arrestati dopo il 7 ottobre. Gli aiuti umanitari questa volta saranno gestiti da un’agenzia dell’Onu e dalla Mezzaluna Rossa. Gaza sarà governata da un comitato palestinese tecnico e apolitico, composto da personale qualificato, con la supervisione di un organismo internazionale, il Consiglio per la pace, presieduto da Trump.

Hamas nella nuova realtà non avrà alcun ruolo; verrà disarmato; tutte le sue infrastrutture militari terroristiche e offensive verranno distrutte, a iniziare dai tunnel, che verranno smilitarizzati sotto il controllo di osservatori internazionali. Stati Uniti e partner arabi e internazionali svilupperanno una «Forza di stabilizzazione internazionale», la Isf, temporanea e da dispiegare immediatamente a Gaza. Essa addestrerà e supporterà le forze di polizia palestinesi; avrà un ruolo di sicurezza interna. Nel documento viene anche stabilito che Israele non occuperà, né annetterà Gaza. Questo punto non verrà certamente accolto dalla destra religiosa israeliana, la quale sognava di costruire colonie a Gaza, ridando vita a quelle estromesse nel 2005.

Man mano che la Isf ripristinerà controllo e stabilità, l’esercito israeliano si ritirerà, con tappe e tempistiche da concordare. I guerriglieri di Hamas potranno ottenere l’amnistia o il permesso di andare in esilio. A lungo termine, la riabilitazione di Gaza e le riforme dell’Olp in Cisgiordania potrebbero portare alla creazione di uno Stato palestinese. Questo punto, accennato indirettamente nel piano, è stato molto contestato da Netanyahu, il quale insiste nell’affermare che non ci sarà mai uno Stato palestinese.

Il piano, ben organizzato e congegnato, ha avuto l’appoggio di otto Paesi musulmani – le principali potenze arabe e la Türkiye – ed è stato giudicato favorevolmente anche dalle cancellerie occidentali. Spinto da Trump, Netanyahu ha cambiato rotta e ha fatto sapere di appoggiare il piano di pace, che garantisce gli obiettivi di guerra originari di Israele: liberare gli ostaggi ed estromettere Hamas dal potere. Il piano è sostenuto da quasi i due terzi della popolazione israeliana; sul piano politico, anche se due ministri di Netanyahu lasciassero il governo, facendogli mancare la maggioranza, i partiti di opposizione si sono impegnati a sostenere l’esecutivo[16]. In ogni caso «il piano Trump offre la via d’uscita migliore dalla tragedia che si è consumata a Gaza. Il suo successo richiederebbe una forte e continua pressione da parte di Trump su Israele e da parte degli Stati arabi e della Türkiye su Hamas»[17].

Trump aveva dato 3-4 giorni di tempo per una risposta; in caso contrario, aveva detto che «sarebbe scoppiato l’inferno» e che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato Israele nella sua guerra. Alla fine Hamas, venerdì 3 ottobre, ha dato il primo via libera al piano. L’organizzazione islamica ha accettato di liberare tutti gli ostaggi e si è dichiarata pronta a cedere il governo a un organismo palestinese indipendente. Ma al tempo stesso ha chiesto di trattare alcuni punti. Insomma, la risposta era un «sì, ma», sufficiente a disinnescare l’ultimatum di Trump, ma avanzando anche alcune importanti riserve. A cominciare da un calendario preciso per il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia, dai termini del disarmo e dalle garanzie inequivocabili che la guerra non sarebbe stata ripresa[18]. Trump, dal canto suo, ha chiesto a Israele di fermare subito i bombardamenti a Gaza e di favorire la pace.

Sembra che Hamas abbia diviso il piano Trump in due parti. La prima, costituita da un cessate il fuoco, un accordo per il rilascio degli ostaggi e un’ondata di aiuti umanitari, il tutto entro pochi giorni dall’accordo. La seconda, quella più complicata e generica, costituita da una proposta su come ricostituire il governo a Gaza dopo la guerra[19]. E su questo punto Hamas non si fida della strategia israeliana. In particolare teme che, una volta rilasciati gli ostaggi, Israele possa riprendere la guerra, per un motivo o per un altro, anche perché l’esercito israeliano in un primo momento non abbandonerà i territori occupati.

Da lunedì 6 ottobre sono iniziate, a Sharm el-Sheikh, in Egitto, le trattative tra Israele e Hamas, con la presenza degli inviati degli Usa Steve Witkoff e Jared Kushner, genero di Trump. In poco più di tre giorni le delegazioni di Hamas e di Israele, pressate dai mediatori statunitensi, egiziani, turchi e qatarioti, hanno raggiunto un accordo, al quale hanno poi dato pronta esecuzione. Questa fase dell’accordo è stata indicata come «fase uno», alla quale poi succederanno le altre fasi ancora più impegnative.

Lunedì 13 ottobre Hamas ha rilasciato i 20 ostaggi vivi, in discrete condizioni. Le salme dei 28 morti verranno consegnate in tempi più lunghi, a causa della difficoltà di reperirle tra le macerie ed effettuare il riconoscimento. Quello stesso giorno Trump si è recato per una visita lampo in Israele, dove ha parlato davanti al Parlamento. Nel pomeriggio ha partecipato al vertice di Sharm el Sheikh, nel quale erano presenti più di 20 Stati, la maggior parte arabi, ma anche occidentali. L’ordine del giorno era ambizioso: firmare la pace e mettere fine alla guerra e aprire una nuova pagina di sicurezza e stabilità nella regione.

Il ritiro dell’esercito israeliano dietro la linea gialla indicata nel piano è iniziato subito dopo l’accordo. Israele si è ritirato dai maggiori centri di Gaza, a eccezione di Rafah, conservando il 53% del controllo del territorio. È previsto che con la «fase due» arretrerà ulteriormente. In teoria, questa prima fase del piano di Trump è la più semplice. La seconda implicherà il disarmo e la smilitarizzazione di Hamas; allora entrerà in funzione la cosiddetta «forza internazionale di stabilizzazione». La seconda fase presenta non pochi problemi. I miliziani, anche se sono pronti ad abbandonare gli armamenti pesanti, probabilmente nascosti nei tunnel, non sono affatto disposti ad abbandonare quelli leggeri, necessari per difendersi dai non pochi nemici interni. Essi sarebbero disponibili a consegnare le armi all’autorità palestinese che gestirà la Striscia, quando questa si sarà costituita. I suoi capi, inoltre, non sembrano voler abbandonare il campo e andare in esilio, come prevede il piano. Il primo ministro israeliano fa capire che, se tutte le condizioni non saranno rispettate, è pronto «a far ripartire l’artiglieria», nonostante le garanzie che Stati Uniti e Qatar hanno dato ad Hamas. «Hamassarà disarmata e Gaza demilitarizzata – ha minacciato Netanyahu – se non nel modo morbido, allora nel modo duro»[20].

La «fase tre» prevede l’istituzione di un’autorità di transizione per governare Gaza e il dispiegamento di una forza multinazionale di peacekeeping per garantire la sicurezza nel territorio. Trump presiederebbe un Consiglio di pace per supervisionare tutto questo. L’esercito, pur rimanendo nella Striscia, si ritirerebbe in una zona cuscinetto alla periferia di Gaza. Alla fine, se tutto procederà secondo i piani, israeliani e palestinesi riprenderanno i colloqui sulla creazione di uno Stato palestinese[21]. Questo punto è fortemente osteggiato da Netanyahu e dai suoi ministri.

L’ostilità verso questo programma è dimostrata dal fatto che nella lista dei palestinesi da scarcerare non è comparso il nome di Marwan Barghouti, personaggio carismatico del partito Fatah, arrestato nel 2002 e condannato a cinque ergastoli, in quanto ritenuto mandante degli attacchi suicidi delle Brigate dei martiri di al-Aqsā, durante la seconda intifada. Non sono stati inclusi neppure i nomi di altri leader – ad esempio, Ahmad Sadat – molto popolari tra i palestinesi. Barghouti, detto il «Mandela palestinese», incarnerebbe una leadership capace di negoziare un accordo politico con un largo consenso popolare. Netanyahu preferisce trattare con Hamas, screditato dalla violenza, e molto meno con Mahmoud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen. È il modo migliore per bloccare qualsiasi velleità di una soluzione a due Stati[22]. Nel piano di pace, inoltre, non si fa riferimento alla Cisgiordania e alle colonie, compreso il piano E1, che taglia in due il territorio palestinese e che è stato approvato dal governo israeliano. Anche in questo caso, l’obiettivo dello Stato d’Israele è bloccare la nascita di uno Stato palestinese.

Nella speranza che il piano regga, una parte della popolazione di Gaza si è rimessa in marcia verso il nord, per ritornare alle macerie che aveva lasciato. In ogni caso, per essa il cessate il fuoco e l’ingresso dei camion con gli aiuti umanitari è un segno concreto di rinascita.

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[1] Cfr F. Battistini, «Gaza, parte l’invasione. Attacco finale sulla città», in Corriere della Sera, 16 settembre 2025.

[2] Cfr G. Di Feo, «Fuoco, acciaio e ira. In strada come a Stalingrado per stanare l’ultima brigata», in la Repubblica, 17 settembre 2025.

[3] Ivi.

[4] Cfr G. Privitera, «Quanto potrà durare l’“assalto lento”. Cosa sono i robot-bomba e quali sono gli obiettivi», in Corriere della Sera, 18 settembre 2025.

[5] Cfr F. Battistini, «Gaza, parte l’invasione…», cit.

[6] Cfr G. Colarusso, «Israele bombarda in Qatar i negoziati di Hamas. Doha: “Terrorismo di Stato”», in la Repubblica, 10 settembre 2025.

[7] Cfr «Israel’s Qatarstrophic error», in The Economist, 11 settembre 2025.

[8] Cfr «Israel gambles on decapitating Hamas in Qatar, shocking the Gulf», in The Economist, 9 settembre 2025.

[9] Cfr F. Battistini, «Quel “no” del Mossad sull’attacco al Qatar: sale lo scontro interno», in Corriere della Sera, 14 settembre 2025.

[10] Cfr «Israel goes to the brink in Gaza city», in The Economist, 16 settembre 2025.

[11] P. Mastrolilli, «Macron riconosce la Palestina all’Onu, mezza Europa lo segue. L’ira degli Usa: “atto simbolico”», in la Repubblica, 23 settembre 2025.

[12] Ivi.

[13] P. Haski, «Israele sta uccidendo Gaza un palazzo alla volta», in Internazionale, 16 settembre 2025.

[14] «The White House’s plan for Gaza deserves praise», in The Economist, 1 ottobre 2025.

[15] Cfr G. Fasano, «Ostaggi entro 72 ore, aiuti gestiti dall’Onu, Blair nel Consiglio guidato da Donald: cosa dicono i 20 punti», in Corriere della Sera, 30 settembre 2025.

[16] Cfr Id., «Smotrich e Ben-Gvir attaccano il piano: “Fallimento colossale”. Ma Bibi cerca il rilancio», in Corriere della Sera, 1 ottobre 2025.

[17] «The White House’s plan for Gaza deserves praise», cit.

[18] Cfr G. Colarusso, «Ostaggi, Hamas apre al rilascio. Trump: “Israele fermi le bombe”», in la Repubblica, 4 ottobre 2025.

[19] Cfr «Hamas says “yes, but” to the Trump Gaza plan. That may not be enough», in The Economist, 4 ottobre 2025.

[20] F. Tonacci, «La tregua. Israele ritira l’esercito e minaccia Hamas: “Disarmi o l’Idf tornerà”», in la Repubblica, 11 ottobre 2025.

[21] Cfr «Israel and Hamas agree to the first phase of Donald Trump’s peace plan», in The Economist, 10 ottobre 2025.

[22] Cfr P. Haski, «Perché è difficile essere ottimisti sul seguito del piano per Gaza», in Internazionale, 10 ottobre 2025.

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