Salta al contenuto principale


L’etica è stanca?


Keith Haring, NYC. Dettaglio della copertina del libro.
Un libro recente di Rocco D’Ambrosio, professore di filosofia politica alla Pontificia Università Gregoriana, ripropone un tema sempre attuale e dibattuto[1]. Si ha l’impressione che la riflessione etica sia in una fase di stanchezza, oppure – il titolo del libro gioca sulle due possibilità, a seconda che si intenda il termine «stanca» come aggettivo o come verbo – che sia lo studio stesso di questa disciplina a risultare pesante, stancante appunto.

Recuperare non solo il valore, ma anche la dimensione attraente dell’etica costituisce un compito arduo al quale D’Ambrosio non si sottrae, interpellando una serie di autori ed esponenti della vita pubblica, nel tentativo di fare il punto sulla situazione. Ne risulta un libro ricco di spunti, capace di stimolare la riflessione su alcune tematiche scottanti del vivere, sulle quali, volenti o nolenti, ciascuno è chiamato a prendere posizione, anche semplicemente dalle scelte quotidianamente messe in atto. Da qui la necessità di sviscerarne i criteri di valutazione, da cui dipende la qualità del vivere comune, ma anche di affrontare le obiezioni spesso rivolte a questa disciplina.

Perché occuparsi di etica?


Una di queste obiezioni, puntualmente riproposta, è la convinzione che i valori dell’onestà e della giustizia siano in fondo una pia illusione, propria di chi non conosce la dura realtà. Riportando un pensiero di Gilbert K. Chesterton (cfr 19), D’Ambrosio precisa che gli ideali non sono affatto meri sogni adolescenziali, ma qualcosa di indispensabile, come i segnali stradali (quello che Aristotele chiamava telos, «fine») per chi intende intraprendere un viaggio. L’immagine stessa del viaggio dice anche della dimensione pratica ed esistenziale del bene, che si chiarisce nel tempo, «cammin facendo», confrontandosi con segni e riferimenti che si possono comprendere in seconda istanza, rileggendo con calma il tragitto compiuto ed esplicitando il punto di arrivo delle scelte intraprese. San Tommaso, trattando del fine ultimo della vita umana – la beatitudo –, riprende proprio la metafora del viaggio: un uomo mostra di conoscere la meta da raggiungere non tanto perché pensa continuamente a essa, ma piuttosto perché è impegnato a compiere bene il proprio cammino (cfr Summa Theologiae I-II, q. 1, a. 6, ad 3um).

La ricerca del bene caratterizza di fatto ogni uomo e donna: chi non si pone la questione corre il rischio di trovarsi dove non vorrebbe, come nella parabola evangelica dell’uomo che, volendo costruire una torre, si è imbarcato nell’impresa senza valutarne i costi e le possibilità a disposizione (cfr Lc 14,28). Il rischio è di sprecare tempo e risorse e, nel caso delle questioni più rilevanti, di sciupare la vita per cose, queste sì, illusorie.

Un esempio di tale approccio, purtroppo estremamente diffuso, è l’emotivismo, la tendenza a trattare questioni serie e complesse a colpi di slogan (o di like): una tendenza accentuata dall’imperare dei social e dei ritrovati offerti dall’intelligenza artificiale. Ma, come insegna la storia, l’emotivismo, quando si sposa con l’ignoranza, può con facilità diventare preda delle derive fondamentaliste (cfr 29-40).

Iscriviti alla newsletter


Leggie ascolta in anteprima La Civiltà Cattolica, ogni giovedì, direttamente nella tua casella di posta.

Iscriviti ora

Da qui l’importanza di cimentarsi con una riflessione seria, anche se faticosa, capace di stabilire dei criteri per riconoscere ciò che davvero è importante. Il libro ne tratta a livello pubblico, partendo dall’assunto che «la persona umana sia il criterio interpretativo e valutativo della sfera pubblica» e quindi, come recita la Costituzione italiana, intende «promuovere condizioni e risorse perché tutti raggiungano un “pieno sviluppo”» (21).

Da dove attingere i valori?


Un serbatoio dal quale la filosofia ha sempre attinto è costitui­to dalle grandi narrazioni, decisive per l’indagine morale. Come notava un autore – recentemente scomparso –, molto attento alla rivalutazione dell’etica come disciplina: «Posso rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare?”, solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare: “Di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?”»[2]. In questa prospettiva, la bontà di un progetto, di un percorso di vita può essere valutata grazie alla capacità di conferirvi una possibile unità di senso, di riconoscervi una intelligibilità, un telos nel senso sopra indicato. Purtroppo la progressiva scomparsa delle grandi narrazioni ha portato alla disaffezione nei confronti delle grandi questioni della vita e della condivisione di un patrimonio etico indispensabile per la salute pubblica[3].

L’importanza dell’etica emerge anche nella coerenza con i valori scelti, soprattutto quando essi richiedono di prendere posizione, di essere disposti a pagarne il prezzo. In tali situazioni, un aiuto indispensabile viene da quella che diversi antropologi, come Mary Douglas, chiamano «energia morale», il patrimonio di ideali presenti e promossi in un gruppo sociale e nelle sue istituzioni, che consentono di favorire lo sviluppo umano integrale, personale e comunitario. Aristotele chiamava tale energia «virtù», «lo stato abituale per cui un uomo è buono e compie bene la sua opera» (Etica Nicomachea,1105b 25). E tra le virtù morali metteva al primo posto la giustizia, la più importante, perché verte su tutti gli aspetti della vita pratica. Al filosofo greco si deve la distinzione, tuttora fondamentale, tra giustizia distributiva e giustizia commutativa: la prima mira ad assegnare i beni in base al rango, al posto occupato nella società; la seconda invece è frutto di uno scambio tra contraenti considerati alla pari. In linea con la riflessione dei pitagorici, Aristotele chiama la prima giustizia «geometrica», la seconda «aritmetica» (Etica Nicomachea, 1131a 10 –
1132b 9).

La riflessione sulla giustizia è tornata in auge ai giorni nostri grazie soprattutto al contributo filosofico di John Rawls, anche lui convinto che essa sia il termometro per misurare lo stato di salute pubblica, tanto da dichiarare che «leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità, fondata sulla giustizia, su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere»[4].

Il mancato apprezzamento della giustizia distributiva porta a considerare le istituzioni pubbliche come una mera «mucca da mungere»: una mucca che tuttavia con il tempo si ammala, produce sempre meno latte e, per di più, di qualità scadente.

La coerenza con un comportamento giusto, come si notava, implica un costo non indifferente, come tutte le cose importanti. Aristotele non si nascondeva la difficoltà di questo compito, soprattutto quando, come nota anche Rawls, esso può andare a scapito del benessere individuale. Il libro presenta alcuni aspetti dei possibili costi da mettere in conto: l’obiezione di coscienza, l’emarginazione e la parresia (cfr 77-88; 107-109).

Come promuovere il bene?


L’etica, per quanto stanca, non è quindi da inventare, ma piuttosto da riscoprire. Il lavoro del filosofo consiste soprattutto nel rimuovere le incrostazioni e gli equivoci che ne hanno offuscato la bellezza. Sempre Aristotele, riprendendo l’Antigone di Sofocle, nota come un senso morale sia presente in ogni uomo ed emerga soprattutto proprio di fronte alle ingiustizie subite. Esso nasce da quello che la riflessione successiva chiamerà la «legge naturale», ma che nel suo significato sostanziale era ben noto agli antichi – «un giusto e un ingiusto per natura, di cui tutti hanno come un’intuizione e che a tutti è comune», esplicitata nella norma (Retorica, 1373b 7-10) – e che rende equa l’azione concreta.

La domanda che sorge in sede etica – sia essa personale o pubblica – è di come poter promuovere l’etica, restituirne l’attrattività come aiuto a realizzare il desiderio di una vita riuscita. Un aspetto da sempre riconosciuto in sede educativa è la presentazione di esempi adeguati, capaci di incarnare i valori in una concreta vicenda di vita. Essi hanno la capacità di mostrare il fascino di una vita vissuta pienamente, che non di rado è la molla decisiva per attuare le decisioni più difficili. Il valore diventa bello e facilmente realizzabile quando è considerato allettante per il soggetto: «Un comportamento buono è valido nella misura in cui è il frutto del desiderio della bontà. Più che essere buoni, è importante avere la voglia di diventarlo»[5]. Il bene presenta in questo una dimensione di gratuità, trova una soddisfazione in sé stesso, non in vista di altro.

Podcast | DIRITTO E FEDE: ROSARIO LIVATINO, UN ESEMPIO PER GLI OPERATORI DI GIUSTIZIA


Quest’anno ricorre il 35° anniversario della morte del giudice siciliano assassinato dalla mafia proclamato beato nel 2021. La sua testimonianza sul ruolo del giudice e il suo pensiero sul rapporto tra fede e giustizia nelle parole del collega e amico Salvatore Cardinale.

Scopri di più

Un altro aiuto è dato dall’amicizia, ponte di collegamento ideale tra la dimensione privata e quella pubblica. Aristotele ha dedicato a questo tema ben due libri dell’Etica Nicomachea. L’amicizia, pur nascendo in modo spontaneo e gratuito, ha una grande capacità di incidenza anche a livello politico, costituendo lo spartiacque tra le tante proposte utopiche e ideologiche di impegno per la società e un ambiente permeato da essa. Come notava Clive Staples Lewis: «Sono i piccoli cenacoli di amici che voltano le spalle al mondo, quelli che realmente lo trasformano»[6].

Entrando in merito a questo tema, D’Ambrosio osserva come esso possa anche offrire criteri di valutazione eloquenti su una delle novità che hanno caratterizzato gli anni recenti: la possibile differenza qualitativa tra la vita online e quella offline. Il carattere insostituibile delle interazioni reali è emerso a livello didattico nel corso dell’esperienza terribile, e troppo presto dimenticata, del Covid-19. Pur offrendo nuove preziose possibilità, quanto è accaduto nel corso del primo lockdown ha mostrato anche i costi dei nuovi ritrovati, specie in sede educativa. Le lezioni da remoto si sono rivelate davvero «remote», proposte che non possono affatto essere paragonate alle lezioni in presenza: «L’insegnamento, la trasmissione del sapere è sempre, invece, un fatto relazionale, che coinvolge docente e discente nelle loro dimensioni fisiche, emotive e intellettuali […]. Le limitazioni fisiche e relazionali per la pandemia e la DAD hanno fatto danni enormi sull’apprendimento, specie dei piccoli e degli adolescenti» (42). Non si tratta di abolirle, ma di assegnare ad esse limiti adeguati allo scopo – di nuovo il telos! –, riconoscendo cosa possano o non possano offrire. Specialmente quando, grazie all’anonimato e alla caduta dei freni inibitori propri del web, esso tende a favorire derive violente e messaggi di odio.

Un discorso simile si pone a livello di relazioni. Molti influencer vantano milioni di followers, con i quali dichiarano di instaurare un legame di amicizia; ma è davvero così? Il numero dei rapporti che possono essere effettivamente coltivati ha un limite, espresso da un intervallo piuttosto preciso, chiamato «il numero di Dunbar», dal nome del matematico che lo ha elaborato negli anni Novanta del secolo scorso. Per Robin Dunbar, il numero massimo di relazioni che possono dirsi stabili all’interno di un contesto sociale si aggira intorno a 150. Egli arriva a stabilire questa cifra studiando i gruppi di appartenenza, a livello sociologico e storico, i villaggi, i centri, le comunità e i clan.

Il rapporto quantità-qualità trova in effetti riscontro nella profondità e affidabilità delle relazioni – intese come capacità di dare fiducia –, e quindi della loro effettiva incidenza nella vita dell’individuo. Questo rapporto ha una soglia, speculare a quello che il sociologo Malcolm Gladwell ha chiamato «il punto critico», oltre il quale un fenomeno, nel bene come nel male (da un virus a un movimento culturale), diventa inarrestabile. Anche le idee e la comunicazione sono soggette a un processo di contagio, si diffondono, si allargano, ma, oltrepassato il punto critico, smarriscono la loro forza, indebolendosi sempre più fino a dissolversi[7].

Il ruolo dell’amicizia è dunque fondamentale, ma limitato; riguarda poche e ben precise persone, per le quali la legge e il dovere risultano superflui. Per questo un tale legame non può diventare il criterio della vita pubblica, anche se può contribuire in maniera rilevante alla promozione della giustizia (cfr 115-118).

All’amicizia sono connessi altri valori, espressione della libera creatività, indispensabili per la qualità della vita, come la bellezza e la poesia. Anche se a prima vista possono sembrare alla portata di pochi, essi si trovano in germe in ciascuna persona e possono essere esplicitati con l’educazione e la diffusione dei capolavori che li celebrano. «La bellezza, la bontà, la verità, la giustizia non splendono immediatamente, non sono effetti cinematografici. Sono il frutto di un cammino» (122). Esse, come la poesia, comunicano gusto e colore alla vita: non ci si stanca mai di ritornarvi; anzi, il loro messaggio si dilata e approfondisce sempre più e ci trasforma, consentendoci di cogliere sempre più la ricchezza del reale. Esse sono soprattutto in grado di promuovere atteggiamenti dei quali il mondo attuale, scosso da conflitti terribili e sempre più numerosi, ha urgente bisogno, come la tolleranza, il dialogo, il desiderio di conoscere mondi culturali differenti dal proprio.

Promuovere relazioni sane è dunque una delle priorità da garantire in sede educativa, facendo leva su tre aspetti tra loro interconnessi: identità (come conoscenza di sé e della propria vicenda di vita), dignità (non è possibile parlare di sé senza nominare figure rilevanti con le quali si è entrati in contatto, in senso sia positivo sia negativo), e appartenenza (i luoghi che hanno reso possibile la nascita e lo sviluppo di sé). Da questo percorso emerge la responsabilità, il potere che le decisioni di ciascuno comportano, volenti o nolenti, nei confronti di altri: un concetto ripreso in sede etica da Max Weber come capacità di far fronte agli impegni assunti, portando il peso delle conseguenze delle proprie scelte (cfr 49-53).

Un aiuto in questo difficile compito di valutazione di ciò che è importante può giungere anche dall’umorismo, considerato da Freud una difesa matura, una porta d’ingresso spiazzante nella varietà del reale, capace di mostrarne aspetti inediti ma che consentono di affrontare con uno spirito più leggero le difficoltà della vita. Italo Calvino, nelle celebri Lezioni americane, accostava l’umorismo alla leggerezza, intesa non come banalità, bensì come capacità di notare cose che sfuggono allo sguardo superficiale. Il filosofo Henri Bergson, per descrivere la situazione umoristica, ricorre all’immagine del pupazzo nella scatola, che compare come una novità inaspettata, divertendo e spaventando nello stesso tempo, frutto di un’«apertura» a prima vista invisibile, fisica ma anche intellettuale: il riso disvela ciò che era da sempre sotto gli occhi, ma velato; per questo occorreva un aiuto indicatore come la battuta spiritosa[8].

Questa capacità di penetrazione della realtà mostra come l’intelligenza costituisca un aspetto essenziale dell’umorismo, perché è in grado di leggere tra le righe ciò che capita e può facilitare le relazioni, smussare le tensioni, gestire i conflitti, grazie alla capacità di far emergere cose inaspettate in maniera scherzosa, ma arguta: «Il vero umorista non è un osservatore esterno della scena, ma si sente pienamente coinvolto nel gioco, è pronto ad ironizzare sugli altri e su se stesso, come anche che gli altri lo facciano su di lui. La sua capacità di non prendere troppo sul serio la realtà istituzionale in cui vive nasce dalla sua costante attitudine a non prendere troppo sul serio neanche se stesso» (130 s.).

Un messaggio contestatore


La «stanchezza» dell’etica pubblica rivela la grave crisi della politica: una crisi che sembra purtroppo destinata a crescere con l’ondata dei nuovi populismi, che costituiscono una minaccia mortale nei confronti delle istituzioni democratiche (cfr 139-148). Senza una base di valori comuni condivisi, l’edificio della polis finisce per crollare. I populismi infatti rifiutano la complessità, la mediazione, manipolano l’informazione, vivono di contrapposizioni, alimentando l’odio e il pregiudizio, grazie anche all’utilizzo dei nuovi media.

Il vittimismo e il disimpegno sono altrettanti virus mortali per la democrazia: anch’essi proliferano in un clima di crisi della riflessione etica, sono una forma di rinuncia nei confronti dei compiti che la vita presenta, a danno del bene personale e pubblico. Una resa che si mostra nella crescente disaffezione nei confronti della partecipazione politica, che a sua volta incrementa le derive populiste e antidemocratiche. Quando si rinuncia a decidere, altri decidono per noi, e non certo per il nostro bene; di questo ci si accorge spesso troppo tardi, come attesta anche la recente storia del nostro Paese. Come notava un giovane scrivendo ai familiari la notte prima della sua esecuzione capitale da parte del regime fascista: «Non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini e avete il dovere, se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari»[9].

Assumere le proprie responsabilità nei confronti del presente è fondamentale anche per la stima di sé; significa riconoscere di avere un potere nei confronti di ciò che si sta vivendo e che è indispensabile promuoverlo, a livello personale e comunitario. Tale atteggiamento, riprendendo Emmanuel Mounier, può essere promosso mediante cinque verbi: uscire da sé, comprendere, prendere su di sé, dare, essere fedele. Cinque verbi che rias­sumono il compito di promuovere la giustizia, in particolare nei confronti dei poveri e dell’ambiente (cfr 58-61).

Di fronte a questa difficile ma inevitabile sfida, il compito urgente dell’etica è quello di indicare gli elementi per la formazione di persone credibili, capaci di governare la cosa pubblica e promuovere relazioni all’insegna della fiducia e della collaborazione: «Esiste infatti uno stretto rapporto tra fiducia e cooperazione […]; decido di spendermi per gli altri, all’interno di un’istituzione o di un gruppo, perché mi fido. Dove per fiducia intendiamo fondamentalmente il riconoscere il valore dell’altro» (153), soprattutto circa la capacità di svolgere il compito che gli è stato affidato. Educare alla fiducia significa anche imparare a valutarne l’operato e, se risulta credibile, sostenerlo con i mezzi a propria disposizione. Gli strumenti per offrire il proprio contributo, come si è visto, non mancano.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2025
Riproduzione riservata
***


[1]. Cfr R. D’Ambrosio, L’etica stanca. Dialoghi sull’etica pubblica, Roma, Studium, 2025. I numeri tra parentesi si riferiscono alle pagine dell’opera.

[2]. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Roma, Armando, 2007, 262.

[3]. Cfr G. Cucci, «Miti a bassa intensità. Crisi della narrazione e narrazione della crisi», in Civ. Catt. 2020 IV 340–348.

[4]. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1984, 21.

[5]. A. Manenti, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio/1, Bologna, EDB, 1988, 200.

[6]. C. S. Lewis, I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Milano, Jaca Book, 1980, 68.

[7]. Cfr R. Dunbar, How Many Friends Does One Person Need?: Dunbar’s Number and Other Evolutionary Quirks, London, Faber and Faber, 2010, 11 s.; M. Gladwell, The Tipping Point – How Little Things Make a Big Difference, New York, Little Brown and Company, 2000, 177–181.

[8]. Cfr G. Cucci, «Umorismo e vita spirituale», in Id., La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, AdP, 2022, 256 s.

[9]. Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Torino, Einaudi, 1954, 495 s.

The post L’etica è stanca? first appeared on La Civiltà Cattolica.