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Il Verbo incarnato tra divinità e umanità


Ultima Cena di Andrea del Castagno, particolare
Il ritratto di Gesù nel Vangelo di Giovanni differisce molto rispetto a quello dei Sinottici. Non solo la forma del Vangelo è diversa rispetto a Matteo, Marco e Luca, ma anche il Gesù che ne emerge presenta caratteristiche peculiari. A dispetto dell’onniscienza che egli rivela nel corso del racconto evangelico[1], nonostante appaia pienamente sovrano durante tutta la narrazione della passione, e sebbene la sua solida relazione con il Padre venga menzionata più volte, Gesù si mostra anche fragile e vulnerabile. Nel quarto Vangelo, egli è stanco e nel bisogno (Gv 4,6); chiede da mangiare (Gv 21,5) e da bere (Gv 19,28); è assetato (Gv 4,7); è costretto alla fuga (Gv 10,39; 11,54); dichiara di essere contento (Gv 11,15), ma anche appare in più occasioni turbato (Gv 11,33; 12,27; 13,21) e grato (Gv 11,41), fino al pianto (Gv 11,35).

Il Vangelo di Giovanni esordisce con un Prologo che rivela e sintetizza la convergenza-congiunzione di divino e umano in Gesù: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). La Parola divina si incarna e assume su di sé la precarietà della carne (sarx), facendo propri la debolezza e il limite della condizione umana, fino alla morte. Il turbamento e il pianto di Gesù, dunque, non vanno considerati come una finzione, ma sono parte dell’esperienza umana del Verbo incarnato. Pertanto, come interpretare il Gesù giovanneo alla luce delle manifestazioni delle sue emozioni e dei suoi bisogni?

Lo zelo appassionato di Gesù nel tempio


Nel secondo capitolo del quarto Vangelo, Gesù inaugura il suo ministero a Gerusalemme con un’azione irruente, a tratti violenta, scacciando dal tempio i venditori e gli animali, ribaltando i loro banchi, gettando via il denaro e ammonendo i mercanti con veemenza[2]. La drammatizzazione scenica risulta quindi impressionante e travolgente: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”»(Gv 2,15-17).

Le emozioni di Gesù si esprimono in maniera dirompente. I discepoli vedono questa azione profetica di Gesù e la interpretano secondo il Sal 69,9. Lo zelo-gelosia del salmista è ardore e fervore dello spirito, come una passione che consuma[3]. Questo zelo ora viene attribuito a Gesù che si scaglia contro la mercificazione del tempio. Nel testo del Vangelo è presente una variazione rispetto al Salmo; in Giovanni il verbo «divorare» è al futuro, è un’anticipazione, che rinvia alla glorificazione della croce: Gesù, Verbo incarnato, si consumerà fino all’estremo per la sua missione.

Gesù, onnisciente e vulnerabile


Nel racconto della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11) convergono e coesistono tutti gli elementi finora menzionati: la sicurezza e l’onniscienza di Gesù, basata sul suo rapporto incrollabile con il Padre che sempre lo ascolta (cfr Gv 11,42), e la sua vulnerabilità davanti alla morte dell’amico Lazzaro e nel confronto con la sofferenza di chi gli sta intorno.

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Dalle parole di Marta e Maria apprendiamo che Gesù voleva bene a Lazzaro, il loro fratello che si era ammalato: «Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, colui a cui vuoi bene[4] è malato”» (Gv 11,3). Anche la voce narrante fa capire al lettore i sentimenti di Gesù, affermando che egli ama Marta, Maria e Lazzaro con un amore totale e incondizionato, espresso dal verbo agapaō: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5). Più avanti è lo stesso Gesù che definisce Lazzaro «il nostro amico (philos)» (Gv 11,11).

Nonostante tutte queste espressioni di affetto, Gesù si mostra distaccato. La notizia della malattia dell’amico non sembra turbarlo: «All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”» (Gv 11,4). A queste parole, che esprimono fiducia, si accompagna il fatto che Gesù rimane dov’è, senza far nulla, per due giorni interi, fino a quando decide di andare in Giudea dall’amico Lazzaro. Le sue parole allora sono taglienti: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!» (Gv 11,14-15). Paradossalmente, Gesù esprime la propria contentezza – chairō – per non aver visitato prima Lazzaro, in modo che i discepoli possano credere. Egli appare sicuro di sé, fiducioso, nel pieno controllo della situazione e dei propri sentimenti. Non c’è alcuna reazione emotiva di dolore; Gesù sa che Lazzaro, ora addormentato, si risveglierà.

La situazione cambia quando Gesù arriva a Betania. L’incontro con Marta prima, e con Maria dopo, intacca in lui quell’aura di apparente distacco e imperturbabilità. Davanti alla protesta di Marta – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21) –, Gesù la invita a credere che suo fratello risorgerà, perché lui è la risurrezione e la vita.

La conversazione con Maria, invece, assume immediatamente un tono diverso, più affettivo. Il rimprovero rivolto a Gesù è lo stesso – «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 32) –, ma quello che accade dopo suscita stupore. Al lettore viene presentata la situazione di Gesù, che vede Maria e coloro che sono con lei piangere addolorati per il lutto (in greco, klaiō): «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, fremette nello spirito e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”» (Gv 11,33-34). Gesù ora perde quella compostezza che lo aveva caratterizzato sin dall’annuncio della malattia mortale dell’amico Lazzaro. La sua reazione viene descritta dal narratore con due verbi: «fremette nello spirito» (enebrimēsato tō pneumati) e «fu turbato» (etaraxen eauton).

La traduzione del primo verbo, embrimaomai, è complessa, perché esso indicherebbe lo sbuffare con indignazione, come un cavallo incollerito e arrabbiato[5]. Contro chi è infuriato Gesù? Contro la morte che lo ha privato dell’amico[6]? Contro Maria e i presenti che non credono? Oppure egli freme dentro di sé, con sé stesso – letteralmente, nel suo spirito – perché non si è mosso prima per salvare l’amico?

Il secondo verbo, tarassō, esprime l’agitazione interiore di Gesù, scosso come l’acqua quando è mossa (cfr Gv 5,4). Gesù è turbato e agitato, e sarà accompagnato da questo stato d’animo anche nelle fasi successive del racconto evangelico. Mentre è turbato, chiede dove sia il corpo di Lazzaro. Il Verbo incarnato non è indifferente davanti al pianto degli esseri umani. Egli sa che Lazzaro risorgerà, ma adesso il dolore di chi lo circonda è reale, ed egli ne viene scosso. «Gesù scoppiò in pianto (dakruō). Dissero allora i Giudei: “Guarda come gli voleva bene!”. Ma alcuni di loro dissero: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”» (Gv 11,35-37).

Gesù piange. Questo è il versetto più breve del Nuovo Testamento. Questa volta non viene usato il verbo klaiō («piangere»), ma il verbo dakruō, presente solo qui nel Nuovo Testamento[7]; questo verbo indica il versare lacrime e il piangere silenziosamente. Si tratta di una commozione profonda e personale, che viene interpretata in modo differente da coloro che sono presenti. Il pianto di Gesù può essere una dimostrazione di affetto, secondo l’opinione dei giudei, che usano il verbo phileō; oppure un segno di inazione o di impotenza. Anche in questo caso, l’equivoco e il fraintendimento accompagnano il Gesù giovanneo[8].

Gesù allora si reca al sepolcro, fremendo dentro di sé: «Allora Gesù, ancora una volta, fremendo in se stesso, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra» (Gv 11,38). Ancora una volta ricorre il verbo embrimaomai («fremere»), accompagnato dal pronome riflessivo en eautō («in sé stesso»). Persiste in Gesù uno stato di inquietudine interiore, mista a irritazione. Il comando di sollevare la pietra suscita perplessità in Marta, che è esitante; ma, di fronte all’insistenza di Gesù, la pietra viene tolta: «Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”» (Gv 11,41-42).

Gesù alza gli occhi, cioè si rivolge al Padre e lo interpella direttamente. Gli rende grazie, come aveva fatto già al momento della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr Gv 6,11.23). La sua gratitudine giunge dopo lo sconvolgimento emotivo e il pianto, e prima che Lazzaro, l’amico morto, esca vivo dalla tomba. La relazione di Gesù con il Padre è salda, al di là delle vicissitudini e della turbolenza interiore. Poi egli grida verso Lazzaro, che esce dal sepolcro. Di fronte a questo segno, c’è chi crede in Gesù e c’è chi riferisce la notizia ai farisei, che fanno un complotto contro di lui.

Alle soglie della passione


Il turbamento di Gesù però continua anche nei capitoli successivi e si rivela come una disposizione emotiva che persiste e lo accompagna alle soglie della sua passione. Nel capitolo 12 di Giovanni, è Gesù stesso a esprimere il proprio stato d’animo ad Andrea e Filippo: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28).

Tuttavia Gesù non si lascia condizionare dal proprio stato d’animo, perché confida nel Padre e nel suo proposito. Successivamente, all’inizio dell’Ultima Cena, il narratore rivela al lettore che Gesù è mosso da un amore totale e oblativo verso i propri discepoli, che si manifesta concretamente nel gesto della lavanda dei piedi[9]: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

Dopo aver citato la Scrittura per annunciare il tradimento di un amico – «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno [cfr Sal 41,10]» –, Gesù rimane profondamente turbato nel suo intimo: «Dette queste cose, Gesù fu turbato nello spirito e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”» (Gv 13,21). Dopo l’uscita di Giuda dalla sala, mentre era notte fuori e dentro il traditore (cfr Gv 13,30), Gesù riprende a parlare e, in modo sorprendente, confessa il suo amore per i discepoli, esortandoli ad amare come ha fatto lui: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34); «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9); «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).

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I discepoli non sono i servitori, ma gli amici (philoi) di Gesù, a cui il Signore offre tutta la propria vita. C’è una condivisione intima e profonda di Gesù con i discepoli. Proprio con loro egli vuole condividere la gioia paradossale che alberga dentro di sé: «Nessuno ha un amore (agapē) più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici (philoi), se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). «Perché abbiano in sé stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13). Inoltre, Gesù confessa di amare il Padre e di essere amato da lui (cfr Gv 15,9-10; 17,23-26), in una relazione reciproca: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco» (Gv 14,31).

Al tempo stesso, Gesù invita i suoi discepoli a non rimanere turbati, a superare la paura davanti all’«ora» che lo attende: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. […] Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,1.27).

Il lungo discorso di addio (cfr Gv 13–16) e la preghiera di Gesù al Padre (cfr Gv 17) costituiscono insieme quasi un testamento, la Magna Carta per i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo. Nell’ambito del quarto Vangelo, essi rappresentano una svolta, perché, quando sarà catturato, Gesù non mostrerà più agitazione e turbamento, ma apparirà sereno e pienamente consapevole di ciò che accade, in cammino verso quella glorificazione che si manifesterà attraverso la croce. È lui che nella passione conduce i giochi, e non appare per nulla in balìa degli eventi e di chi vuole eliminarlo. Il Gesù che va verso la croce è solenne e composto, come chi si avvia verso un’intronizzazione, e non come chi sta andando al patibolo: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: “Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”. Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,4-6).

Il discepolo che Gesù amava


Nella seconda parte del Vangelo di Giovanni è presente la figura misteriosa del discepolo che Gesù amava, identificato dalla tradizione con l’evangelista (cfr Gv 21,24) e apostolo Giovanni. «Era adagiato nel grembo (kolpon) di Gesù uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava» (Gv 13,23). Questo personaggio esordisce nel racconto dell’Ultima Cena. È uno dei discepoli, che però occupa un posto speciale accanto a Gesù, proprio sul suo grembo. Questo rivela una grande intimità tra lui e il maestro e rimanda il lettore direttamente al Prologo del Vangelo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: Il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno (kolpon) del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18)[10].

La relazione tra il discepolo e Gesù corrisponde a quella tra Gesù e il Padre. Qui c’è senz’altro una dimensione affettiva, ma anche una teologica: l’intimità con il Verbo incarnato porta direttamente nel grembo della Trinità.

Dopo avercelo mostrato accanto a Gesù, la voce narrante annota che questo discepolo era quello che Gesù amava. Il verbo agapaō all’imperfetto sta a indicare un affetto duraturo, che persiste nel tempo e che caratterizza la relazione di Gesù con questo discepolo. Tale relazione privilegiata con il maestro è testimoniata anche da Pietro, che si rivolge proprio al discepolo amato per sapere di chi stia parlando Gesù quando afferma che qualcuno lo tradirà (cfr Gv 13,21): «Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?”» (Gv 13,24-25). Il gesto del discepolo è eloquente: egli si china sul petto di Gesù, mostrando una grande confidenza e familiarità. Il legame tra Gesù e questo discepolo emerge in maniera chiara e forte proprio in un momento di intenso turbamento emotivo per il maestro a causa del tradimento ormai prossimo da parte di uno dei suoi discepoli.

Il discepolo che Gesù amava è presente anche in un altro momento topico del quarto Vangelo: sul Golgota, quando gli viene affidata da Gesù sua madre. Il Signore crea un nuovo legame e una nuova relazione tra i due sotto la croce. È qui l’origine della Chiesa, che nasce dall’«amore» (agapē) di Gesù «fino alla fine» (Gv 13,1): «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26-27).

A Pasqua, il discepolo amato è colui che corre al sepolcro vuoto, vede e crede (cfr Gv 20,8), a differenza di Pietro, ed è capace di riconoscere i segni della risurrezione nell’assenza del corpo di Gesù. «[Maria di Magdala] corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”» (Gv 20,2).

Anche nel terzo racconto della risurrezione compare nuovamente questo discepolo, che il narratore presenta ancora come «colui che Gesù amava». Egli è il primo a riconoscere Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare» (Gv 21,7).

Mentre Gesù dialoga con Pietro – «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15) –, il discepolo che Gesù amava è presente. Il narratore lo richiama attraverso un flashback che rimanda alla sua prima comparsa nel racconto giovanneo: «Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”» (Gv 21,20). In questo contesto, il discepolo che Gesù amava, sulla cui sorte Pietro rivolge una domanda a Gesù (cfr Gv 21,21-23), viene identificato come il testimone veritiero che ha scritto il Vangelo: «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (Gv 21,24).

Solo l’amore permette di conoscere e penetrare il mistero del Dio fatto carne che viene nel mondo. Questa è la strada per ogni discepolo e per il lettore del Vangelo, che può identificarsi in questo testimone anonimo e raccontare l’amore ricevuto da Gesù.

* * *


Parlare delle emozioni e degli affetti di Gesù nel Vangelo di Giovanni non è facile, perché il racconto su Gesù viene letto attraverso le lenti della peculiare teologia giovannea. Il Verbo incarnato rimane Dio, ma, una volta fattosi carne, assume tutta la precarietà e fragilità dell’essere umano.

Il Gesù onnisciente e il Gesù turbato sono la stessa persona. Colui che confida nel Padre e colui che piange il dolore degli uomini sono la stessa persona. Gesù non è un essere scisso o schizofrenico, ma è lo stesso Gesù, uomo-Dio, che soffre e ama fino alla fine, totalmente. In lui c’è la rivelazione di un Dio che è appassionato per l’uomo. Non è il dio imperturbabile e impassibile dei filosofi[11], ma è il Dio vivo e vivace, agitato e irrequieto, pieno di compassione. Come testimonia anche il profeta Osea, dando voce all’amore viscerale e vibrante di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).

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[1]. Cfr J. Tripp, «Jesus’s Special Knowledge in the Gospel of John», in Novum Testamentum 61 (2019/3) 269-288.

[2]. Nei Vangeli sinottici, invece, questa azione di Gesù è collocata prima della sua passione e morte (cfr Mt 21,8-19; Mc 11,7-19; Lc 19,45-48).

[3]. L’espressione ebraica el-kana (cfr Dt 4,24; 5,9; 6,15; e anche Es 20,5; 34,14) di solito viene tradotta con «Dio geloso»; più propriamente la si potrebbe tradurre con «Dio appassionato», indicando la dimensione affettiva ed emotiva di un Dio che coniuga insieme giustizia e misericordia. Per un’approfondita trattazione di questo argomento, cfr D. Markl, «Ein “leidenschaftlicher Gott”. Zu einem zentralen Motiv biblischer Theologie», in Zeitschrift für Katholische Theologie 137 (2015) 193–205.

[4]. Qui viene usato il verbo phileō. Riguardo ai termini philia, agapē ed eros, papa Benedetto XVI afferma: «Quanto all’amore di amicizia (philia), esso viene ripreso e approfondito nel Vangelo di Giovanni per esprimere il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. La messa in disparte della parola eros, insieme alla nuova visione dell’amore che si esprime attraverso la parola agapē, denota indubbiamente nella novità del cristianesimo qualcosa di essenziale, proprio a riguardo della comprensione dell’amore. […] In opposizione all’amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l’esperienza dell’amore che diventa ora veramente scoperta dell’altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (Benedetto XVI, Deus caritas est,nn. 3; 6).

[5]. Cfr Eschilo, I sette contro Tebe, 460–464. Nel Nuovo Testamento, il verbo embrimaomaiviene utilizzato in Mt 9,30: «Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”»; in Mc 1,43: «E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito»; e in Mc 14,5: «Ed erano infuriati contro di lei». La connotazione del verbo è negativa.

[6]. Come intendono i Padri della Chiesa.

[7]. Invece, il sostantivo dakruon («lacrima») nel Nuovo Testamento si trova anche in Mc 9,24 (alcuni manoscritti); Lc 7,38.44; At 20,19.31; 2 Cor 2,4; 2 Tm 1,4; Eb 5,7; 12,17; Ap 7,17; 21,4.

[8]. Cfr Gv 2,19-21; 3,3-5; 4,10-15; 4,31-34; 6,32-35; 6,51-53; 7,33-36; 8,21-22; 8,31-35; 8,51-53; 8,56-58; 11,11-15; 11,23-25; 12,32-34; 13,36-38; 14,4-6; 14,7-9; 16,16-19.

[9]. Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo dell’amore che si dona incondizionatamente, espresso attraverso il verbo agapaō, che compare 37 volte (il sostantivo agapē, invece, ha 7 occorrenze). In Mt il verbo agapaō ricorre 11 volte, in Mc 8, in Lc 15. Anche il verbo phileō («voler bene») in Gv compare 13 volte, con un’evidente sproporzione rispetto a Mt (5), Mc (1) e Lc (2).

[10]. Riguardo alla traduzione di kolpos come «grembo», cfr D. F. Stramara, Jr., «The Kolpos of The Father (Jn. 1:18) As The Womb of God in The Greek Tradition», in Magistra 22 (2016/2) 37-53.

[11]. Per i filosofi greci, l’atarassia è l’imperturbabilità, ossia lo stato di annientamento di tutti i desideri e impulsi naturali e la rimozione di tutte le paure che consente all’uomo di sperimentare la piena felicità. Al contrario, Gesù, uomo-Dio, non è indifferente, ma passionale, come conferma anche la presenza del verbo tarassō (cfr Gv 11,33; 12,27; 13,21), che letteralmente è l’opposto di a-tarassia («mancanza di turbamento»). Gesù è turbato per il suo amore per l’uomo.

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