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Il cuore nel pensiero cinese



L’enciclica di papa Francesco Dilexit nos (DN) presenta la devozione al cuore di Gesù, inserendola in una bella meditazione preliminare sulla ricchezza del termine «cuore» in diverse lingue e culture. Predominano naturalmente i riferimenti al greco e alla Bibbia. Francesco insiste sul fatto che la parola vi designa il centro, le profondità dell’essere e anche il luogo ove pensieri e sentimenti si congiungono in modo che la persona – anima e corpo – venga a essere unificata (cfr DN 3). Oggi parlare di cuore, usare senza timore la parola «cuore» significa attirare l’attenzione di tutti e di ciascuno verso una profondità nascosta, verso il nostro intimo, al di là di quelle pretese «idee chiare e distinte», che sono, ad esempio, la volontà, la libertà, la ragione (cfr DN 9-10).

Ci proponiamo qui di arricchire le premesse fondamentali sulle quali si struttura l’enciclica di Francesco, presentando un’altra tradizione nella quale gli studiosi hanno molto riflettuto sul cuore e ne hanno molto parlato: gli scritti cinesi anteriori alla fine della dinastia degli Han occidentali, che coincide più o meno con l’inizio dell’era cristiana[1]. Dal V al I secolo a.C., il tema del cuore attraversa tutti gli ambiti del pensiero cinese: concezione della persona umana e delle sue relazioni con il Cielo, etica, politica, medicina ecc. Del resto, da un autore all’altro si registrano sottolineature differenti: il tema del cuore è così ricco da prendere colorazioni anche molto diverse a seconda dei sistemi nei quali è inserito.

Una realtà sia psichica sia fisiologica


Il carattere xin è uno di quelli sui quali i sinologi amano disquisire. Secondo alcuni, non si dovrebbe tradurre semplicemente con «cuore», perché in tal modo si proietterebbero sul termine le raffigurazioni che essi pensano di trovarvi in contesto occidentale: l’emotività, i sentimenti ecc., mentre l’organo «cuore» nella Cina antica è visto come il luogo della deliberazione, dato che si tratta del «sovrano del corpo». «Lo xin occupa nella conformazione fisica la posizione di signore supremo», dice il Primo trattato dell’arte del cuore, inserito nel Guanzi (un’opera enciclopedica la cui compilazione è del tempo degli Han occidentali, anche se le fonti che lo compongono sono anteriori a quel tempo). Dovrebbe quindi imporsi la traduzione di xin con «spirito» (mind).

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Questo potrebbe essere riconosciuto per i testi buddisti (posteriori al periodo di cui parliamo qui), che assegnano ai caratteri cinesi un senso tecnico adattato alle nozioni indiane che essi traducono. Eppure – bisogna insistervi –, nella Cina antica xin designa in primo luogo l’organo fisico del cuore. Il suo pittogramma rappresenta l’organo cardiaco in modo sommario, con il pericardio e l’aorta in evidenza. Si tratta di uno dei cinque organi principali, insieme al fegato, alla milza, ai polmoni e ai reni. Certamente esso è anche il luogo dell’attività mentale. Ma la traduzione con «spirito» ha l’inconveniente di occultare la sua base fisiologica. Si nasconde così anche il ruolo sia psicologico sia «mentale» dell’organo-cuore nella totalità del corpo: un ruolo sul quale insiste tutta la medicina cinese. La traduzione con «cuore-spirito» (heart-mind), molto frequente nelle versioni anglosassoni, è appropriata. Si possono ugualmente privilegiare le traduzioni che danno valore alle connotazioni di «coscienza». In realtà, una volta apportate le necessarie chiarificazioni, conservare il termine semplice «cuore» non presenta veri inconvenienti. Tanto più che un buon numero di testi occidentali, come mostra bene la Dilexit nos, fanno anch’essi del cuore il luogo sia del pensiero sia delle emozioni, il luogo ove l’uno e le altre vengono considerati nella loro radice, prima di ogni loro separazione.

Nel testo che segue, la traduzione con «cuore-spirito» farebbe perdere il carattere sorprendentemente diretto ricoperto dal termine xin: «Mencio ha detto: “L’empatia è il cuore [xin]dell’uomo; la rettitudine è la sua via. Abbandonare tale via senza più perseverarvi, aver perduto il proprio cuore e non sapere ove cercarlo, quale calamità! Se qualcuno ha perduto il suo cane o le sue galline, almeno sa dove cercarli. Se qualcuno ha perduto il suo cuore, non sa nemmeno dove cercare. Non rimane altro che il modo di apprenderlo: cercare il cuore che si è perduto, ecco tutto» (Mencio, 6 A 11).

Il cuore, per Mencio, è la bussola, l’organo decisivo del discernimento. È inscritto in un sé incarnato, «lo shen, cioè il corpo, l’ego»? Alcuni autori cinesi distinguono anche un’altra entità, lo spirito/gli spiriti (shen, un carattere omonimo al precedente, ma da cui differisce per la grafia)[2]. È possibile ritrovare nel termine cinese «spirito/spiriti» un’idea molto simile a quella di cui Ignazio di Loyola fa uso negli Esercizi spirituali: la maggior parte delle civiltà (forse tutte) mirano a una realtà difficile da cogliere, sia esterna sia interna all’uomo: una realtà plurale e insieme unica – un buono e un cattivo spirito, e anche dei buoni e dei cattivi spiriti –, qualcosa che ci attraversa e che noi non padroneggiamo[3]. La grafia del carattere «spirito» (shen) in cinese evoca il moto di estensione continua, che va sia verso il basso sia verso l’alto. Nell’uomo, gli spiriti devono essere a poco a poco purificati, affinati; dobbiamo farli progredire verso la loro essenzialità, come ci dice il Huainanzi nel suo settimo capitolo[4].

Il cuore, il respiro, il Cielo


A differenza del termine «spiriti», piuttosto ambiguo e non utilizzato da tutti gli autori, in tutti i testi cinesi antichi il cuore (xin) è ciò che è proprio della persona umana. Del resto, chi avvia la ricerca verso il fondo del cuore si rende conto di appartenere a una specie, di vivere in solidarietà con esseri che condividono le stesse forze e gli stessi limiti, perché l’essere umano gode di una «natura» (xing) che è comune a tutti. Ora, riconoscere tale solidarietà di natura ci permetterà di conoscere e servire il Cielo. Mencio lo ha affermato con grande forza in un testo canonico: «Chi va fino al fondo del proprio cuore, ne conosce la natura. Chi ne conosce la natura, conosce il Cielo. Custodendo il proprio cuore e nutrendone la natura si serve il Cielo» (Mencio, 7 A 1).

Si va dunque dall’individuo alla specie, dalla specie al principio da cui tutte le specie derivano. Il cuore è al principio sia della conoscenza sia dell’azione. Chi custodisce il suo cuore, chi non dissipa il suo cuore con accecamenti e impulsività, con questo agire obbedisce come naturalmente al volere del Cielo. Un cuore unificato, rivolto al Cielo, raccoglie tutto, unifica tutte le cose: «Ciò che va fino in fondo diffondendosi senza limiti, percorre le otto direzioni, raccoglie tutto in un solo vettore, questo è il cuore» (Huainanzi, 18,1).

Ma andare «fino al fondo del proprio cuore», come Mencio ci invita a fare, è anche svuotarlo… D’altra parte, in cinese, «andare fino al fondo» (jin) è un’idea espressa da un carattere che mostra il sangue dell’animale sacrificato versato fino all’ultima goccia nel recipiente predisposto per questo. Nel terzo capitolo del Daodejing – come fa notare anche Laozi – c’è una frase interessante: «I Saggi, per governarsi, svuotavano i loro cuori per colmare il ventre». Nella sua ambiguità, il testo offre in primo luogo una lettura politica, di cui svilupperemo in seguito le implicazioni: si tratta indubbiamente di riempire il ventre del popolo, ma «ammorbidendo la propria volontà e temprando le proprie ossa», continua questo capitolo. Allo stesso tempo l’espressione va applicata agli stessi Saggi – del resto, la sintassi sembra indicare il loro cuore e le loro viscere –, nel qual caso il testo designa l’atto mediante il quale il respiro riempie l’addome e, con esercizi di respirazione ripetuti, sgombra il cuore da ogni desiderio.

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Zhuangzi insiste più in particolare su ciò che egli chiama «il digiuno del cuore»: «Come animato da un solo volere, non è che ascolta tramite l’orecchio, ma ascolta tramite il cuore. Non ascolta tramite il cuore, ma tramite il respiro. L’ascolto si ferma all’orecchio, il cuore fa attenzione ai segni. Ecco cosa è il respiro: il vuoto grazie al quale si producono le manifestazioni vitali. La Via ordina ogni realtà servendosi di questo vuoto. Il vuoto è il digiuno del cuore» (Zhuangzi, 4.2).

Ascoltare con il proprio respiro è svuotarsi, e poi concentrarsi, per svuotarsi nuovamente: tutti i fenomeni che concernono il corpo devono essere pienamente accolti e integrati, per essere poi, dopo questa trasformazione, totalmente ridonati. Ciò che è penetrato in me non ritorna al mondo «così com’è», ma viene trasformato come io stesso lo sono stato nel riceverlo, come sono trasformato in continuazione. Il «digiuno del cuore» consiste nel non rimanere ristretto su griglie interpretative, ossia sui segni e sulle emozioni con i quali mi approprio di ciò che intendo e vedo. Il cuore può essere ingombro per l’abbondanza di ciò che riceve, oppure può accettare di svuotarsi completamente per ricevere di nuovo tutto. Solo un cuore vuoto e limpido è capace di conoscere veramente sia il mondo sia sé stesso: «L’uomo perfetto utilizza il suo cuore come uno specchio» (Zhuangzi, 7.6).

Il cuore politico


«Bisogna che tutte le azioni siano poste sotto il “controllo politico” del cuore», afferma DN 13. Per un lettore dei testi dell’antica Cina questa frase evoca proprio l’inizio del Primo trattato dell’arte del cuore, incluso nel Guanzi già menzionato: «Nel corpo, il cuore occupa il posto del principe. Le funzioni delle nove porte del corpo somigliano alle diverse responsabilità dei funzionari. Se il cuore è a riposo e rimane nella Via, le nove porte funzioneranno correttamente. Se la cupidigia e il desiderio lo occupano completamente, gli occhi non vedranno i colori, e gli orecchi non intenderanno i suoni».

Il cuore a riposo permette il corretto funzionamento del corpo. Se è agitato, non esercita la sua funzione, e ne seguiranno disturbi sia fisici sia psichici. In Cina, il cuore non è fatto innanzitutto per commuoversi, ma per rimanere stabile: si parla dell’«immutabilità di un cuore stabile». Questa costanza è proprio la bontà. Un adagio afferma che «l’amore del padre è come la montagna», e niente è più costante, fermo e stabile della montagna. La medicina cinese ne è convinta: chi gode di un cuore stabile ha meno probabilità di essere attaccato dalla malattia, che viene sempre causata dall’eccesso di un’emozione, anche se si tratta di un’emozione positiva.

L’affermazione del Guanzi è reversibile: se il cuore è come il sovrano del corpo, allora il sovrano è come il cuore del regno. «Il sovrano è il cuore dello Stato. […] L’Imperatore Giallo[5] ha detto: “Con ampiezza, senza limiti, io accompagno la Via del Cielo e distendo il mio respiro, unito all’Origine”. Così, quando [il Sovrano] è al vertice della Virtù, le sue parole sono simili ai suoi progetti, le sue azioni alle sue intenzioni. Superiore, inferiore, tutti un solo cuore!» (Huainanzi, 10.2-3).

La riflessione sul cuore diventerà ancora più politica con Xunzi (III secolo a.C.), un autore che si mostra pessimista riguardo alla natura umana e alla stabilità delle istituzioni sociali. Secondo lui, il cuore è arbitro tra le diverse passioni (qing), che manifestano le tendenze in lotta all’interno della natura umana (xing). «Che al risveglio di un’emozione il cuore compia una scelta, questo si chiama deliberazione» (Xunzi, 22,2).

Xunzi dunque considera il cuore in primo luogo come la capacità di rendersi arbitro tra le buone e le cattive inclinazioni, e gli organi dei sensi mettono continuamente in azione le inclinazioni cattive. Il cuore è dunque il padrone della persona, quello che dà gli ordini, il punto di passaggio obbligato tra l’interno e l’esterno del nostro essere. E la pratica dello studio sotto un maestro mira innanzitutto a controllare il modo in cui il cuore conosce il mondo esterno, a imparare a reagire in modo appropriato agli impulsi che provengono da questo mondo. Lo studio, l’equilibrio del cuore, o anche il necessario controllo sociale, tutte queste dimensioni sono contrassegnate da artificiosità, ma l’artificio costituisce l’unico modo di organizzare un mondo vivibile, dal momento che la nostra natura è soggetta alle passioni.

L’artificiosità di Xunzi è un’eccezione. Nella Cina antica, il cuore è il luogo della libertà; ma per entrare nella libertà, deve disfarsi di tutto ciò che gli fa ostacolo. Nessuno lo ha espresso meglio di Confucio: «Il maestro ha detto: “A quindici anni mi sono applicato allo studio, a trenta anni ero indipendente, a quaranta avevo superato le esitazioni, a cinquanta sapevo ciò che il Cielo voleva da me, a sessanta le mie orecchie discernevano con naturalezza ogni cosa, e ora, a settanta, seguire il desiderio del mio cuore non mi fa mai eccedere nella misura”» (Analecta, 2.4).

Per il vecchio Confucio si tratta proprio di «seguire il desiderio del suo cuore». Ma questo desiderio ora lo spinge verso la vita, verso la realizzazione del proprio essere e di tutti gli esseri, e soltanto verso questo. Nessuna tensione mortale viene più a turbare il suo slancio vitale. Questa è la gioia di colui che, a poco a poco, ha imparato a immergersi nelle profondità più segrete del suo cuore.

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[1] La dinastia degli Han occidentali va dal 212 fino al 9 a.C. Dopo un intervallo, gli Han orientali governano la Cina dal 25 al 220 d.C.

[2] Cfr L. Raphais, A Tripartite Self, Mind, Body, and Spirit in Early China, Oxford, Oxford University Press, 2023. Naturalmente l’antropologia cinese è molto più ricca di quanto le distinzioni qui segnalate lascino pensare. Per esempio, bisognerebbe introdurre anche la distinzione tra anime spirituali (hun) e anime sensitive (po).

[3] Una buona presentazione dell’evoluzione di questo concetto nel corso della storia è in D. Salin, Le Discernement des esprits selon Ignace de Loyola. Les aléas d’une transmission (XVIe-XXIe siècle),Paris – Bruxelles, Lessius, 2021, 33-53.

[4] Lo Huainanzi è un’opera enciclopedica presentata alla Corte imperiale nel 139 a.C., e che quindi era stata composta un po’ prima.

[5] È il primo sovrano mitico.

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