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Un’icona ecclesiale: Giovanni 21


La Pesca miracolosa di Raffaello Sanzio.
Il Vangelo di Giovanni si conclude con una scena straordinaria e memorabile: l’apparizione di Cristo risorto ai discepoli sulla riva del lago di Tiberiade. Questa scena molto visiva è immersa in una luce pasquale. La pericope di Giovanni 21,1-14 è, per il Vangelo di Giovanni, ciò che il racconto dei pellegrini di Emmaus è per il Vangelo di Luca, ovvero una composizione in cui l’autore mette in atto tutto il suo talento letterario e sviluppa tutta la sua teologia della Chiesa.

È una scena, piena di familiarità e quotidianità, che parla a tutti. Il suo significato generale è chiaro, eppure sono molti i dettagli che suscitano curiosità. Addirittura i bambini sono molto bravi a individuare le varie incongruenze che costellano il brano. Lungi dall’essere elementi aneddotici più o meno stravaganti, ci sembra che tali «dettagli» non lo siano per davvero e che permettano all’autore di rivelare aspetti importanti del suo progetto teologico.

Anche se numerosi indizi giocano a favore dell’ipotesi che si tratti effettivamente di un epilogo aggiunto in seguito del Vangelo[1], è altrettanto chiaro che sono stati costruiti molti legami con tutto il resto del Vangelo[2], in particolare con il capitolo 6, che descrive la moltiplicazione dei pani e dei pesci sulla riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade (cfr Gv 6,1.16.17.18.19.25).

In questo articolo, dopo aver presentato in maniera succinta il senso ovvio del brano, proponiamo di soffermarci su ognuno di tali enigmi per offrirne una possibile lettura.

Una scena dal messaggio semplice


Quello che in effetti colpisce il lettore comune è l’assoluta chiarezza del messaggio principale. Il gruppo dei discepoli è riunito sotto l’autorità di Pietro. Impegnati nella loro missione di pescatori, essi si scontrano con il fallimento, perché, senza il loro maestro, non possono fare nulla. Gesù risorto, che è sempre misteriosamente irriconoscibile eppure ben presente, si fa riconoscere e, dietro sue istruzioni, la pesca diventa miracolosa. Questa scena di abbondanza situata in Galilea ci ricorda gli altri due «segni» – termine che Giovanni preferisce a quello di «miracolo», usato nei sinottici – in Galilea: il segno di Cana e quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, che erano anch’essi miracoli di sovrabbondanza.

L’autore precisa – curioso a dirsi (perché indicarci in questo episodio il villaggio galileo di uno solo dei sette discepoli?) – che Natanaele, menzionato in precedenza una volta sola, in Gv 1,45, è originario di Cana. Come se egli ci dicesse: «Lettore, ricordati di quel che è successo a Cana e indovina il finale di questo racconto!». D’altra parte, quando vediamo l’abbondanza di pesci e Gesù che dà ai discepoli il pane e i pesci (cfr 21,13), come non pensare al capitolo 6: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano» (Gv 6,11)? Come il Gesù terrestre si prendeva cura dei suoi discepoli – e delle folle –, così fa anche il Gesù risorto. C’è una continuità profonda: è davvero lo stesso uomo. E quella distribuzione passa ormai attraverso la Chiesa riunita sotto l’autorità del pastore supremo, che è Pietro, il quale è il solo a trarre a terra la rete.

I commentatori cattolici non sono gli unici a leggere in Gv 21 un’affermazione del ruolo centrale di Pietro. Come scrive il biblista protestante Jean Zumstein, «nessuno dubita, infatti, che l’immagine di Pietro che trascina (εἵλκυσεν) a riva la rete piena di pesci (v. 11) abbia un senso simbolico» e che «la sua preminenza pastorale […] trovi qui la sua espressione simbolica»[3]. È altrettanto evidente che la dialettica tra Pietro e il «discepolo amato» si conclude con una comunione forte. Per la prima volta, il discepolo amato trasmette le sue conoscenze a un altro dei discepoli[4], e proprio al primo di loro, Pietro. Mentre nella corsa al sepolcro il discepolo amato si era affrettato arrivando per primo, qui si limita a comunicare il suo discernimento e lascia che sia Pietro ad arrivare per primo da Gesù. Le comunità giovannee non vogliono conservare per sé gelosamente la loro luce o la loro conoscenza del Risorto. Più in generale, questo ci fa capire che la Chiesa è un luogo in cui i discepoli si rivelano a vicenda la presenza del Signore vivente. È una magnifica definizione della Chiesa, senza gelosie né egoismi, senza accaparramenti né esclusivismi. Non c’è più la competizione della corsa: «Nel ciclo pasquale è il discepolo amato (e non Pietro) che aveva vinto la corsa alla tomba, segno del suo maggior zelo»[5].

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C’è un altro indizio semantico luminoso. Quando i discepoli giungono a riva, vedono un fuoco, più precisamente un braciere, indicato con il termine alquanto raro ἀνθρακιάν, che in precedenza era stato usato una sola volta, in 18,18, quando Pietro aveva rinnegato Gesù. Ancor prima di sentire la triplice missione riassegnata a Pietro (cfr Gv 21,15.16.17), il lettore intuisce che egli è riabilitato nella sua missione, nonostante il suo rinnegamento (peraltro già annunciato da Gesù), e che la sua fede aveva conosciuto soltanto una «eclissi» (secondo la bella espressione di Luca, in Lc 22,32). Il significato primario del testo è chiaro ed è comprensibile per genitori e figli, adulti e bambini. Ma perché ci sono così tanti particolari sorprendenti?

Passiamo ora agli enigmi o dettagli strani che costellano il brano. Sono numerosi, e i bambini sono bravissimi a scovarli.

Perché i discepoli si dedicano al loro antico mestiere?


È la prima domanda che fanno i bambini: perché gli apostoli non stanno predicando? Perché sembrano essere tornati al loro antico mestiere, come se non fosse accaduto nulla, come se non ci fosse stata la risurrezione di Gesù? Questo è tanto più sorprendente, se si considera che il testo si premura di precisare che si tratta della «terza» apparizione del Risorto. Essi sono dunque «ufficialmente informati», per usare un’espressione giuridica. Inoltre, hanno ricevuto lo Spirito Santo (cfr Gv 20,22-23), che dovrebbe dare loro autorità e fiducia per superare dubbi e paure. «I discepoli, secondo il cap. 21, adottano una condotta per lo meno sorprendente: se ne tornano in Galilea per riprendere il loro mestiere di pescatori, come se non conoscessero la buona novella della risurrezione»[6].

A nostro avviso, il testo lascia intendere che in realtà essi sono già impegnati nel lavoro apostolico, che la pesca è qui al tempo stesso reale e metaforica o parabolica. Perché questa apparente discrepanza? Può accadere che, anche nella vita missionaria, ci si scontri con il fallimento e con la tentazione dello scoraggiamento. Perfino se si è apostoli! Che si tratti davvero di una missione, lo si intuisce dal fatto che è Pietro a proporre di andare a pescare. La notte può esistere, nella sua duplice connotazione di confronto con il male e di desolazione permanente, anche per pescatori esperti. Questa messa in scena ci parla proprio di missione, dei suoi fallimenti e dei suoi successi. È solo Gesù che può consentire agli apostoli di far fruttare la loro fatica.

Perché i discepoli sono solo sette, di cui due anonimi?


Come sa ogni lettore della Bibbia, il numero «sette» esprime una totalità, ma quello stesso lettore, non necessariamente ingenuo, si stupirà nel non vedere ora qui i «Dodici» – conosciuti grazie a Giovanni, perché li menziona in Gv 6,67 – oppure, come fa Matteo in Galilea, gli «Undici» (cfr Mt 28,16). Senza dubbio Luca aveva già introdotto un duplice gruppo tra la missione dei Dodici, da un lato (cfr Lc 9), e quella dei 72, dall’altro (cfr Lc 10), che rappresentavano l’universalità delle nazioni secondo una tradizione che risale alla Genesi. Ma, come in Luca, ciò permette all’autore del quarto Vangelo di lasciare intendere che ci sono altri apostoli oltre ai Dodici.

Giovanni nomina per primo Simon Pietro, e questo fatto annuncia chiaramente il ruolo primario che presto gli verrà solennemente conferito. Introduce quindi Tommaso, già noto da Gv 11,16, con lo stesso soprannome «Didimo» (gemello), uno dei Dodici, ma invece di proseguire con i nomi attesi, menziona Natanaele. Quest’ultimo era stato introdotto in Gv 1,45, perché Filippo lo aveva condotto da Gesù, ma non faceva parte dei Dodici. Natanaele, l’outsider, si rivela essere stato sempre fedele a Cristo, fin dalla Galilea. È lì perché il lettore ricordi il segno dell’abbondanza a Cana.

Vengono poi nominati i «figli di Zebedeo». Li conosciamo bene, noi cristiani, ma è la prima volta che vengono indicati così nel Vangelo di Giovanni. Tra l’altro, anche il fatto che gli apostoli erano pescatori viene rivelato in questo passo, perché l’evangelista non lo aveva mai detto prima. È un argomento forte per sostenere che il Vangelo di Giovanni presuppone la conoscenza dei Vangeli che lo hanno preceduto. Questi sette discepoli simboleggiano tutti gli apostoli cristiani, quale che sia la loro origine, galilaica o giudaica[7].

Infine abbiamo due discepoli anonimi, uno dei quali sembra essere proprio il «discepolo amato», anonimamente nascosto all’interno del gruppo. Anche qui l’evangelista, dopo aver introdotto Natanaele nel gruppo, lascia intendere che questo discepolo non è uno dei Dodici. Ce lo ha presentato come una persona conosciuta dal sommo sacerdote (cfr Gv 18,15), e quindi probabilmente originario di Gerusalemme, o perlomeno un abitante della Giudea (come altri eminenti discepoli dei primi tempi, quali Cleofa, Giuseppe d’Arimatea e Maria, madre di Giovanni Marco). Secondo l’opinione comune dei commentatori, questo discepolo è all’origine della tradizione giovannea. Probabilmente giovane al momento della passione di Gesù, egli ha vissuto molto a lungo, sopravvivendo di circa trent’anni agli apostoli Pietro, Paolo e Giacomo, il che spiega il riferimento, in Gv 21,22-23, alla voce secondo la quale non sarebbe morto prima del ritorno del Signore. Sono chiaramente i fedeli di questo apostolo ad aver messo per iscritto la versione finale del Vangelo di Giovanni.

Questi nomi non sono lì per caso. Come sempre nel Nuovo Testamento, essi sono legati a questioni di legittimità, che qui è fondamentale: la tradizione che sta dietro a Giovanni può rivendicare un legame con i Dodici? Forse no, ma il fondatore del gruppo ha lavorato a stretto contatto con Pietro. Motivo per cui Giovanni fa di tutti questi uomini dei pescatori (un mestiere molto improbabile per persone di Gerusalemme!). Ciò conferma l’ipotesi formulata in precedenza, secondo cui il testo sta parlando di missione e non vuole farci credere che tutti gli apostoli, galilei o giudei, fossero pescatori.

Perché Gesù li chiama «figlioli»?


Quello sconosciuto sulla riva si rivolge ai pescatori chiamandoli «figlioli» (παιδία). Questo non è né il suo modo abituale di parlare, né un modo comune di rivolgersi a pescatori sconosciuti per chiedere loro se hanno del pesce. Certo, ciò conferisce alla scena un’aria di familiarità bucolica piuttosto simpatica, mettendo ancor più in risalto la risposta secca e disillusa dei pescatori: «No!». In precedenza, nel Vangelo di Giovanni, Gesù li aveva già chiamati «figlioli» (Gv 13,33), sebbene con un’altra parola greca (τεκνία). Il richiamo è interessante, perché quel versetto parlava del poco tempo che restava della presenza di Gesù con i suoi discepoli: «Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete». Ebbene, Gesù ora è davvero tornato: egli c’è sempre, e ci sarà sempre, ci dice l’evangelista. Inoltre, quel versetto precedeva di poco l’annuncio del rinnegamento di Pietro (cfr Gv 13,38), e il capitolo 21 tratta espressamente del pieno ripristino del rapporto tra Simon Pietro e Gesù. Il termine «figlioli» è chiaramente affettuoso e familiare. Un grande studioso di Giovanni, Yves Simoens, lo commenta così: «Quando viene, risorto, [Gesù] si presenta come una madre!»[8]. Inoltre osserva che «lo stesso termine viene usato nella Prima lettera di Giovanni per i “bambini” della comunità, che […] in 2,18 indicano tutti i membri della comunità stessa»[9]. Anche altri esegeti hanno messo in risalto questo legame[10].

Lo spunto è affascinante, ma noi proponiamo un’altra interpretazione. Sappiamo quanto il Vangelo di Giovanni insista sull’unità essenziale tra il Padre e il Figlio. Esso contiene questa affermazione basilare: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Mettere queste parole in bocca a Gesù non è forse un modo, al tempo stesso discreto e potente, di sottolineare l’unità essenziale tra il Padre e il Figlio, al punto che il Figlio ora può parlare apertamente come il Padre? Questa è la prospettiva teologica fondamentale dell’intero Vangelo di Giovanni, alla quale qui si fa allusione. Il linguaggio teologico che caratterizzava i discorsi di Gesù in Giovanni scompare in Gv 21: Gesù parla il linguaggio semplice della quotidianità. Eppure è proprio il Figlio, unito dall’eternità al Padre, che parla. Come far percepire meglio questa real­tà se non usando la parola «figlioli», dal momento che Gesù amava tanto pronunciare la parola «Abbà» mentre era fra i suoi discepoli? Se un lettore distratto pensasse che il Padre sia scomparso in questo capitolo, deve lasciar risuonare questa piccola parola per ritrovarlo. Come per la lettera rubata di Edgar Allan Poe, il Padre si nasconde nel Figlio, ma parla attraverso la sua bocca.

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Perché bisogna gettare la rete dalla parte «destra» della barca?


Gesù chiede ai discepoli di gettare la rete dalla parte «destra» della barca. Perché questa precisazione? Se ci sono dei pesci, essi sono ovunque attorno alla barca; e poi… lui è forse un pescatore? Che ne può sapere? Diversi commentatori si limitano a osservare che «il fianco destro […] è quello positivo; cfr. Mc. 16,5; Lc. 1,11; Mt. 25,33»[11], la parte fortunata. Questo probabilmente è vero, ma a noi sembra un po’ riduttivo. A nostro avviso, la parte destra non può che rinviare alla crocifissione, quando un soldato trafigge il fianco di Gesù (cfr Gv 19,34). E quel fianco trafitto evoca a sua volta l’inizio di Ezechiele 47: «Mi condusse poi all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro [τοῦ δεξιοῦ] del tempio» (Ez 47,1). È dalla croce che proviene la sorprendente fecondità di Cristo. Tutti i commentatori sottolineano come, per Giovanni, l’ora della croce sia già il luogo della gloria di Cristo. Si potrebbe anche pensare che si tratti di un’allusione alla profezia di Zaccaria: «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zc 12,10).

Noi propendiamo per Ezechiele, perché riteniamo che l’abbondanza di pesci e il numero 153 facciano altresì riferimento a quel capitolo chiaramente escatologico: è una rivelazione dei fiumi di grazia che sgorgano dal tempio. Gesù è il vero tempio da cui scaturisce la grazia sovrabbondante del Padre. Ma questo il lettore lo potrà capire solo dopo aver letto, in questo articolo, il paragrafo sul significato del numero 153.

Perché Simone si veste prima di gettarsi in acqua?


Ecco il dettaglio che diverte sempre i bambini e li fa ridere di gusto! In effetti, sembra davvero inusuale vestirsi prima di gettarsi in acqua. La simbologia della veste nel Nuovo Testamento – e nel giudaismo intertestamentario – è chiara: rappresenta la veste nuova del battezzato e di colui che può presentarsi davanti a Dio con un cuore retto. Come il giovane che tradisce Gesù fugge via nudo all’inizio della passione in Marco (cfr Mc 14,52), così il battezzato salvato, il vincitore, «sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita» (Ap 3,5).

Tuttavia si può interpretare questo gesto in modo concreto. È quanto propone di fare un altro biblista: «[Pietro] si stringe il camiciotto intorno al corpo per non essere impedito nel nuoto»[12]. E aggiunge astutamente che «questo dettaglio narrativo prepara l’immagine che nel v. 18 gli corrisponde, quando Gesù annuncia a Pietro: “Un altro ti cingerà”: al gesto autonomo del discepolo corrisponderà più tardi una forzata passività»[13]. È poco probabile che Pietro fosse completamente nudo, sia pure solo per pescare con i suoi compagni. Ad ogni modo, è evidente che «il fatto di indossare una veste simboleggia il rispetto che porta al suo Signore»[14]. Ancora una volta, il genio dell’autore consiste nel permettere una lettura simbolica, facendo sì che il senso primario risulti perfettamente comprensibile. O Pietro si stringe la veste perché vuole nuotare più facilmente, oppure ne indossa una perché non si può mostrare nudo al cospetto del Signore (se si accetta l’ipotesi che egli fosse davvero nudo).

Ma questo fatto sta a significare anche il credente, che deve comparire vestito davanti al suo Signore, accompagnato dalle sue opere, come gli invitati al banchetto di nozze nella parabola di Matteo 22. Nella tradizione giovannea, l’Apocalisse sviluppa ampiamente questo tema: «Le [= alla sposa] fu data una veste di lino puro e splendente» (Ap 19,8). Se Pietro simboleggia, in un certo senso, tutta la Chiesa, e per estensione ogni credente, è naturale che sia accompagnato dalla sua veste. Nel momento in cui egli aveva tradito Gesù, in un certo senso aveva abbandonato la sua veste, come il giovane di Marco; quindi, il suo riconoscere Gesù e la decisione di andare verso di lui equivalgono a ritrovare la propria veste e la propria dignità. Siamo in una luce pasquale e, per ciò stesso, anche in una luce escatologica, quella in cui il credente riceve «la corona gloriosa, nonché la veste di onore nella luce eterna»[15].

Perché Giovanni ci dice che c’erano 153 pesci?


Questa è una domanda che fanno tutti. Il numero è troppo preciso per essere casuale. Cifra triangolare la cui base è 17, il numero 153 rappresenta perciò, secondo sant’Agostino, una doppia totalità: dieci più sette, in una forma ancora più perfetta[16]. Ma è tutto qui? Senza dubbio è sempre prudente affermare che «il numero 153 resta un enigma»[17]. Tuttavia, sulla scia di John Emerton, noi proponiamo una lettura che ci sembra più aderente al testo[18]. L’autore attira l’attenzione del lettore sui pesci, usando due termini per nominarli[19], e invita il lettore a indagare. I testi della Scrittura che parlano dell’abbondanza di pesci non sono molti, e il più rilevante, come abbiamo già visto, è il capitolo 47 di Ezechiele, che menziona un termine molto raro, la parola ebraica «pesce» al femminile (הַ ּ גָ ד ַ ה), per indicare l’abbondanza, e il cui valore numerico è proprio 17[20]. «Il pesce vi sarà abbondantissimo», leggiamo in Ez 47,9. Ma il parallelo non si ferma qui. La visione si conclude con dei pescatori muniti di reti che collegano le due rive del Mar Morto, dalla riva ebraica, En-Gàddi, a quella moabita e pagana, En-Eglàim: «Sulle sue rive vi saranno pescatori: da En-Gàddi a En-Eglàim vi sarà una distesa di reti. I pesci, secondo le loro specie, saranno abbondanti come i pesci del Mare Grande» (Ez 47,10). Ora, Gàddi ha valore numerico 17 e Eglàim 153. E qual è il mistero proclamato dai cristiani del I secolo, per esempio nella lettera agli Efesini, se non che, nella rete dell’unica Chiesa, vi è ormai l’unione tra ebrei e pagani? «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola» (Ef 2,14). Sarebbe difficile trovare un modo più efficace per esprimere l’unità della Chiesa se non riferendosi a questo testo, e quindi a questo numero.

Inoltre, l’autore si preoccupa di segnalarci che si tratta di «grossi pesci» (Gv 21,11). Perché questa aggiunta apparentemente superflua? Se il numero dei pesci è così decisivo, perché specificarne la grandezza? Cosa può mai aggiungere? Segnalare la ricchezza e l’eccesso? Probabilmente l’autore vuole significare che non ci sono differenze tra gli esseri umani. Come Luca, nella parabola del seminatore (cfr Lc 8,8), intuendo il rischio di stabilire tre categorie di cristiani, aveva eliminato i tre rendimenti del seme (30, 60, 100), così Giovanni non vuole che ci si chieda se si appartiene ai pesci piccoli o a quelli grossi. Un battezzato vale un altro battezzato, e qualsiasi logica gnostica viene rifiutata da questo dettaglio apparentemente insignificante. Non esiste una graduatoria fra i membri della Chiesa, e ogni pesce è «grande» agli occhi di colui che li conta, ossia il Signore, e soltanto lui.

Perché Gesù ha chiesto del pesce, se ne aveva «già» sul fuoco?


Ecco una domanda che non diverte i bambini, ma anzi li lascia perplessi. Essi non capiscono il senso di questo curioso dettaglio, e perché Gesù abbia chiesto una cosa di cui già disponeva. Naturalmente, la presenza del pane richiama la scena di Giovanni in cui Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano» (Gv 6,11). E se il riferimento all’Eucaristia è evidente, non è opportuno che Gesù stesso consumi qualcosa[21]. Il suo ruolo è quello di benedire e distribuire; di darsi. Questo dettaglio non è affatto secondario.

Inoltre, Giovanni sottolinea la sovranità di Gesù e il suo accesso a tutti i pesci. Non che trascuri il lavoro dei missionari, o che non conti su di loro. Ma insistendo così sulla libertà di Cristo e rendendo più gratuito il lavoro degli apostoli, l’autore lascia intendere che essi non devono ritenersi indispensabili e diventare egocentrici. Cristo conta su di loro, ma il suo accesso a tutti i pesci è sempre possibile per lui in modo diretto. Non aveva egli forse detto, anche in questo caso in maniera enigmatica: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv 10,16)?

Gli apostoli devono lavorare con zelo e perseveranza, ma senza credere per questo che Cristo abbia solo loro per accedere ai pesci. La rete che raccoglie tutti i pesci – immagine della Chiesa, «sacramento universale di salvezza» (Lumen gentium, 48b) e «strumento per la salvezza di tutta l’umanità» (Dominus Iesus, 22) –, un tempo affidata ai pescatori di Galilea, è oggi consegnata a tutti gli apostoli, siano essi galilei, giudei o provenienti da Tarso: «Vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1,17). Non esiste missione più grande. Ma quel fuoco già acceso, e già alimentato, è un potente appello all’umiltà degli apostoli e un richiamo della libertà suprema di Cristo. Signore del creato, egli è in grado di catturare qualsiasi pesce quando vuole.

Conclusione


Il capitolo 21 di Giovanni – che sia stato aggiunto in seguito, come è più probabile, al resto del Vangelo o no – è un meraviglioso esempio di fedeltà creativa al messaggio della comunità giovannea e, più in generale, allo spirito di Cristo risorto. In esso Cristo non parla più con grandi discorsi teologici, affermando la propria identità con il Padre (come in Gv 13-17), ma si manifesta di nuovo come quel compagno di viaggio conosciuto in Galilea, dove ha nutrito i suoi discepoli (e non soltanto i Dodici) e ha deciso di dare a Simone il nome di Pietro-Kefa, per guidare il gregge dopo di lui: non al suo posto, perché lui è sempre presente, ma in suo nome. Segno visibile di comunione tra cristiani molto diversi tra loro. La comunità giovannea riafferma al contempo la legittimità della sua tradizione, del suo fondatore e dei suoi insegnamenti, e il suo rispetto sincero e assoluto per il ruolo eminente di Pietro.

L’autore comunica il suo messaggio con un linguaggio semplice e in una scena limpida, disseminando il testo di annotazioni enigmatiche. Nessuna interpretazione può né deve essere fatta in contrasto con il significato primario del testo. Solo una grande malafede ermeneutica permetterebbe di ricavare da questo testo un messaggio gnostico o esoterico, la rivelazione di un segreto nascosto contrario al significato primario. È sorprendente come, nel corso della storia, i commentatori cristiani abbiano gareggiato in immaginazione letteraria o teologica per leggere questi dettagli, giungendo talvolta a conclusioni strane, ma senza mai oscurare il significato primario del testo. No, si tratta semplicemente di mettere alla prova la sagacia dei lettori, affinché, nella Chiesa, possano riflettere su tali dettagli enigmatici e comprendere come essi non facciano altro che mettere ancora più in risalto il significato ovvio.

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[1] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni. Volume 2 (13,1-21,25), Torino, Claudiana, 2017, 960-962. L’autore conclude, con la maggior parte dei commentatori: «Il cap. 21 è l’aggiunta di un gruppo appartenente alla scuola giovannea al vangelo già costituito» (ivi, 962).

[2] Cfr Y. Simoens, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, Bologna, EDB, 1997. L’autore afferma: «Le evidenti reminiscenze dei cc. 1–6, per quanto riguarda la prima sezione del Vangelo, e poi dei cc. 13 e 18 per quanto riguarda la seconda parte, mostrano che Gv 21 costituisce uno dei brani principali del quarto Vangelo come insieme letterario compiuto» (ivi, 822).

[3] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 971.

[4] Cfr ivi, 970.

[5] Ivi, nota 30.

[6] Ivi, 961.

[7] Cfr M.-E. Boismard – A. Lamouille, L’évangile de Jean, Paris, Cerf, 1972. Gli autori fanno notare: «I discepoli sono in numero di sette e la parola “discepolo” ricorre sette volte (21,1.2.4.7.8.12.14)» (ivi, 478).

[8] Cfr Y. Simoens, Secondo Giovanni…, cit., 826. L’autore aggiunge: «Il legame tra Gesù e i suoi discepoli appare così ancora più stretto. Essi nascono dalla sua risurrezione!» (ivi).

[9] Ivi.

[10] «La concettualità di Giov. 21 è vicina a quella di I Giov.; le due opere appartengono a uno stadio avanzato della storia della comunità giovannea» (J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 969, nota 24).

[11] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 969, nota 25.

[12] Cfr X. Léon-Dufour, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2007, 1218.

[13] Ivi.

[14] Cfr J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 970.

[15] Cfr A. Dupont-Sommer (ed.), La Bible. écrits intertestamentaires.Règle de la communauté, Paris, Gallimard, 1987, 18.

[16] Cfr M.-E. Boismard – A. Lamouille, L’évangile de Jean, cit., 485. Si tratterebbe perciò di «un numero triangolare che rappresenterebbe al contempo la totalità e la moltitudine» (ivi).

[17] J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni…, cit., 971. L’autore aggiunge che questo numero «con ogni probabilità denota la sovrabbondanza e, di per ciò stesso, l’universalità che caratterizza la chiesa cristiana» (ivi).

[18] Cfr M. Rastoin, «Encore une fois les 153 poissons (Jn 21,11)», in Biblica 90 (2009) 84-92; J. A. Emerton, «The Hundred and Fifty-Three Fishes in John 21», in Journal of Theological Studies 9 (1958) 86-89.

[19] Abbiamo ἰχθύς nei versetti 6; 8; 11 (lo stesso termine di Lc 5), e ὀψάριον nei versetti 9; 10; 13 (termine usato in Gv 6,11).

[20] Secondo il procedimento della gematria, dove ogni lettera ha un valore numerico in base alla sua posizione nell’alfabeto (a=1, b=2 ecc.).

[21] «Si riesce allora a comprendere come il cibo che Gesù offre sia quello da lui già preparato per i suoi discepoli e nello stesso tempo quello che essi a loro volta gli portano»; «[Gesù risorto] consumando se stesso, cadrebbe nella contraddizione a livello logico e simbolico» (Y. Simoens, Secondo Giovanni…, cit., 830).

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