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La Dichiarazione Schuman compie 75 anni


(Foto di Antoine Schibler su Unsplash)

Introduzione


Papa Francesco ha posto la speranza al centro dell’Anno giubilare 2025. Nella bolla di indizione del Giubileo, Spes non confundit[1], esprime il desiderio che esso sia un’occasione di rinnovata speranza nei cuori degli esseri umani. Per i cristiani, questa speranza, che mantiene viva la fiducia nella felicità futura nonostante le incertezze e le difficoltà della vita presente, deriva più direttamente dal «Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto», dalla rivelazione dell’amore di Dio, «l’amore che scaturisce dal cuore di Gesù trafitto sulla croce».

Per alimentare ulteriormente la speranza, papa Francesco invita la Chiesa a leggere «i segni della speranza» nel mondo, in linea con l’attenzione ai segni dei tempi promossa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes (GS). «Porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo» è un antidoto alla tentazione «di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza». Tra questi segni di speranza, il Pontefice colloca al primo posto il desiderio di pace.

È quindi una felice coincidenza che nell’anno 2025 si celebri anche il 75° anniversario della Dichiarazione Schuman, un testo nato da un ardente desiderio di pace. Era infatti il 9 maggio 1950 quando Robert Schuman, allora ministro degli Affari esteri della Francia, durante una conferenza stampa al Quai d’Orsay, rese nota una proposta rivolta alla Germania. La Francia prospettava di gestire congiuntamente i mercati del carbone e dell’acciaio in una modalità nuova, di carattere sovranazionale; tale proposta non era rivolta solo alla Francia e alla Germania, ma doveva essere estesa a tutte le parti interessate. Il progetto, concepito dalla mente lungimirante di Jean Monnet, intendeva offrire una vera e propria via d’uscita ai Paesi europei all’indomani della Seconda guerra mondiale e prevenire soluzioni che avrebbero potuto aggravare le divisioni e rafforzare i sospetti, invece di sanarli. I princìpi della Dichiarazione Schuman di fatto costituirono il punto di partenza e il modello per lo sviluppo di quella che sarebbe diventata dapprima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi la Comunità europea e, infine, l’Unione europea (Ue). Quel giorno può quindi essere considerato fondativo del progetto di integrazione europea, e per questo il Consiglio d’Europa nel 1985 ha proclamato il 9 maggio «Giornata dell’Europa».

Settantacinque anni dopo, tornare al testo della Dichiarazione e ai suoi princìpi fondamentali è ancora fonte di ispirazione. Per molti versi, i temi sviluppati da Schuman e Monnet – come la pace, la riconciliazione, il dialogo, la giustizia equa, la pazienza, per citarne solo alcuni – oggi sono più attuali che mai e sono in profonda sintonia con lo spirito di un Anno giubilare incentrato sulla speranza.

Motivi di disperazione, oggi come ieri


In una nota datata 3 maggio 1950[2], Monnet osservava che «ovunque si guardi nel mondo di oggi, non si incontra altro che un vicolo cieco». Proseguiva elencando alcuni di questi punti morti. C’era, in primo luogo, la diffusa percezione dell’«inevitabilità» di una guerra tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. C’era poi la difficoltà di far reintegrare la Germania nel consesso delle nazioni occidentali, con una modalità che non risultasse minacciosa per i suoi ex avversari. Inoltre, la riorganizzazione politica dell’Europa sembrava essersi arenata in un vicolo cieco, con un Consiglio d’Europa appena nato che non soddisfaceva le aspettative dei federalisti europei. E l’elenco potrebbe continuare.

Non è azzardato tracciare alcuni parallelismi fra la situazione dell’Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso e quella odierna. Perlomeno, bisogna riconoscere che oggi come allora la diagnosi delle sfide che il continente si trova ad affrontare è piuttosto cupa.

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È forte la tentazione di pensare che oggi siamo più divisi che mai. Sul piano della politica interna, la polarizzazione costituisce un motivo di preoccupazione in molti Paesi. Il crescente malcontento nei confronti dell’establishment politico centrista ha favorito l’ascesa di partiti più radicali, che invocano una revisione brutale dell’attuale sistema e delle sue convenzioni. Le radici della crisi sono diverse. Ma, o che si individui la causa scatenante nella disgregazione delle comunità tradizionali, o in una iniqua distribuzione dei benefici della globalizzazione economica, o in un divario crescente tra élite istruite e ampie fasce della popolazione, o nell’emergere di nuove forme patologiche di comunicazione, o in una gestione inadeguata dei flussi migratori, o in una combinazione di tutti questi fattori, il risultato finale è una profonda alterazione avvenuta nel dibattito pubblico negli ultimi anni. La capacità di ricercare il bene comune – e di accettare compromessi per raggiungerlo – è stata messa in crisi dall’incapacità di ampie componenti dello spettro politico di dialogare tra loro. Sebbene in molti Paesi d’Europa i sistemi elettorali proporzionali siano ancora preservati dagli eccessi della politica di parte che si osservano negli Stati Uniti, tuttavia, con i partiti populisti, da un lato, che sperano di emulare l’indignata politica identitaria che ha favorito Donald Trump, e i partiti centristi, dall’altro, incapaci di rivolgersi ai loro elettori smarriti se non con silenzi o condanne, lo spazio per un dialogo politico costruttivo si è drasticamente ridotto.

Anche sul fronte economico, l’Europa, nonostante la sua relativa prosperità, si sente minacciata. La guerra in Ucraina ha messo in luce l’incapacità dell’Unione europea di superare in modo significativo la produzione militare industriale della Russia, che ha un’economia pari a un decimo della sua in termini di Pil. Per quanto riguarda l’innovazione, cresce la preoccupazione che l’Europa rimanga progressivamente indietro. Gli investimenti privati nella ricerca e nello sviluppo nell’Ue rappresentano circa la metà di quelli statunitensi, e il divario di prosperità tra le due economie, che sta lentamente crescendo, rischia di diventare incolmabile, soprattutto se l’Europa non riuscirà a cogliere le opportunità legate a nuove tecnologie dirompenti, come l’intelligenza artificiale. Settori chiave, come l’industria automobilistica tedesca, mostrano segni di cedimento, e le industrie che erano state presentate quali motori del futuro, come quella delle auto elettriche o dell’energia verde, vedono oggi la Cina superare l’Europa. Rapporti recenti, come quello di Enrico Letta sul mercato unico[3], o quello di Mario Draghi sulla competitività[4], hanno formulato diagnosi preoccupanti e indicato possibili vie da percorrere. Ma c’è anche un diffuso scetticismo sulla capacità dell’Unione di mobilitare risorse politiche e finanziarie per attuare effettivamente le soluzioni proposte. Come se tutto questo non bastasse, la guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti aggiunge un ulteriore motivo di incertezza al futuro economico dell’Europa.

L’Unione europea è (di nuovo?) alla ricerca della propria anima sul piano del funzionamento istituzionale. Di fronte a crisi senza fine, avanza la tentazione di accentrare il potere. Il funzionamento della Commissione si concentra sempre più intorno alla Presidenza, per dare priorità alla rapidità delle decisioni. Al contempo, il Consiglio rafforza la propria importanza nei confronti del Parlamento, in un contesto dominato da questioni di sicurezza su cui quest’ultimo dispone di competenze limitate. Gli interessi nazionali tornano a imporsi, soprattutto in tema di migrazioni, con governi che minacciano apertamente di disattendere l’applicazione del diritto dell’Unione. Le contestazioni dirette all’idea del sovranazionalismo diventano sempre più frequenti, con richieste di ripensare la sussidiarietà così come oggi viene intesa. Giorno dopo giorno, si moltiplicano le discussioni per revocare normative e regolamenti ritenuti eccessivamente vincolanti per l’economia europea. Non molto tempo fa, queste regolamentazioni erano considerate lo strumento privilegiato dell’Europa per proiettare il proprio potere attraverso il cosiddetto «effetto Bruxelles»[5]. Con la prospettiva di un’ulteriore estensione dell’Unione verso Est, fino a includere l’Ucraina, si diventa consapevoli del fatto che l’attuale architettura istituzionale dell’Ue non è adatta a un tale allargamento, che altererebbe in modo considerevole le dinamiche di potere.

Tuttavia, tutte queste preoccupazioni impallidiscono di fronte agli sconvolgimenti geopolitici in corso. L’Europa è stata bruscamente risvegliata dall’aggressione contro l’Ucraina, dopo tre decenni in cui non aveva conosciuto minacce esistenziali al proprio territorio. I vicinati europei – meridionale e orientale –, dati quasi per scontati come zone d’influenza, riemergono oggi come un luogo di competizione. Una cosiddetta «guerra ibrida», che combina propaganda, influenza economica e attacchi digitali, vede l’Europa e i suoi alleati democratici impegnati a difendersi da tentativi di ridisegnare le sfere d’influenza. Infine, la presuntuosa politica estera statunitense America First ha portato molti a concludere che l’idea di un Occidente unito – che ha sostenuto una comune visone del mondo per ottant’anni – è giunta a una brusca fine. L’Europa potrebbe essere costretta a cavarsela da sola, cercando al contempo di tenere a bada un alleato passato a una logica puramente utilitaristica.

Se a ciò aggiungiamo le preoccupazioni legate a un possibile ridimensionamento del Green Deal, un insieme di politiche pensato per fare dell’Europa un leader nella transizione ecologica, e il crollo dei finanziamenti destinati agli aiuti umanitari e allo sviluppo, avremo un’idea del quadro scoraggiante che anima le menti e le discussioni a Bruxelles. Perché soffermarvisi? Semplicemente per ricordare che, se oggi ci sentiamo preoccupati per il contesto attuale, anche nei primi anni Cinquanta del secolo scorso non mancavano motivi di profonda inquietudine. Spesso diamo per scontato il passato, ma un ritorno al periodo della Dichiarazione Schuman ci mostra che nemmeno allora il contesto era più semplice. Dobbiamo prendere sul serio le preoccupazioni di Monnet così come quelle attuali, per cogliere appieno quanto sia stata rivoluzionaria la proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman.

Anche allora esisteva una forte polarizzazione, sebbene assumesse una forma diversa. Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’emergere della «guerra fredda», gli atteggiamenti verso l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti tracciavano forti linee di divisione. I partiti comunisti furono rapidamente esclusi dai governi dell’Europa occidentale (nel 1947 sia in Francia sia in Italia, dove erano tra i più forti del continente), ma mantennero comunque una notevole influenza. Le divergenze ideologiche rendevano rapidamente impossibile un dialogo costruttivo. Ogni tentativo di stabilire una cooperazione in Europa veniva screditato dall’estrema sinistra come una manovra teleguidata dagli Usa e volta a impedire la pacifica convivenza con l’Urss. I socialisti moderati, da parte loro, erano spesso paralizzati dalle critiche provenienti dalla loro sinistra, non volendo dare l’impressione di concedere troppo agli Stati Uniti.

Sul piano economico, la scelta del carbone e dell’acciaio viene spesso spiegata con la loro importanza per la produzione di armamenti e con la necessità di instaurare un clima di fiducia tra ex nemici. Ma queste industrie ponevano problemi sotto altri aspetti. All’inizio degli anni Cinquanta, era evidente che l’attività mineraria in alcune regioni della Francia e del Belgio sarebbe presto risultata non competitiva rispetto al carbone proveniente dalla Germania. Vi erano inoltre timori circa la sopravvivenza dei cartelli siderurgici in Germania e circa i vantaggi che questi avrebbero potuto offrire loro rispetto ai produttori francesi. Anche il rischio di investimenti non coordinati nella produzione siderurgica a livello europeo diventava evidente. Tutto ciò, unito alla capacità degli ex Alleati di imporre la propria volontà alla Germania nella gestione economica delle regioni della Ruhr e della Saar, stava preparando il terreno per un aspro scontro di interessi nazionali.

Anche il futuro dell’integrazione europea appariva incerto. I federalisti avevano sperato che l’entusiasmo europeista, culminato nel Congresso dell’Aia del maggio 1948, avrebbe condotto alla creazione di istituzioni dotate di un chiaro mandato federale. Questo non si concretizzò, e prevalse invece un approccio basato sulla cooperazione tra Stati sovrani. In un Paese come la Francia, il principio del sovranazionalismo era tutt’altro che scontato: l’orgoglio nazionale rappresentava un pilastro fondamentale della ricostruzione postbellica, alimentato dal riferimento alla Resistenza e alla lotta contro la Germania nazista. Qualsiasi gesto distensivo nei confronti della Germania poteva essere considerato un tradimento. Allo stesso tempo, la Germania cominciava a manifestare insofferenza nei confronti della tutela esercitata dagli Alleati, che tradiva dubbi sulla sincerità del suo nuovo orientamento democratico e pacifico. La vicenda della Saar, che era stata sottratta alla Germania per essere trasformata in un protettorato francese, stava avvelenando i rapporti tra i due Paesi.

Per quanto riguarda il contesto geopolitico, a dominare la scena era la «guerra fredda». Con l’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel 1949, il mondo era entrato in una fase completamente nuova, caratterizzata da un equilibrio precario e da una feroce competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica. In quei primi anni, l’Europa stessa era ancora il campo di battaglia su cui si tracciavano senza scrupoli le sfere d’influenza. Si andavano formando nuove alleanze, la più rilevante delle quali fu l’Alleanza atlantica. Ma anche allora il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale era difficile. Desiderosi che l’Europa si assumesse al meglio la propria difesa, gli statunitensi premevano per un rapido riarmo della Germania e per il suo inserimento nelle istituzioni dell’Occidente. Una prospettiva che dagli altri governi europei era vista come prematura, per il timore di dover spiegare tale riarmo alle loro popolazioni. Sulla scena globale, le tensioni tra europei e statunitensi si concentravano soprattutto sul tema delle colonie, con gli Stati Uniti che spingevano per la decolonizzazione, a volte in modo aggressivo.

Rifiutare la disperazione


Nella già citata nota del 3 maggio 1950, Monnet collega strettamente tutti questi aspetti. Egli vede in atto un processo quasi ineluttabile. Poiché l’attenzione di tutti i leader era focalizzata sulla «guerra fredda» e sulla necessità di contenere l’Unione Sovietica, le politiche sarebbero state subordinate a tale obiettivo. Di conseguenza, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbero voluto mobilitare le risorse della Germania. Il primo passo sarebbe stato quello di aumentare la produzione industriale, in particolare quella dell’acciaio. Con l’industria francese incapace di competere, ciò avrebbe portato a politiche protezionistiche, compromettendo le prospettive generali di crescita in Europa (e della Francia in particolare) e alimentando vecchi rancori (tra Francia e Germania certamente, ma anche tra Francia e altre potenze che avessero forzato la mano sulla questione). A lungo andare, qualsiasi prospettiva di riconciliazione sarebbe stata compromessa. In effetti, una conferenza degli Alleati, prevista a Londra per il 10 maggio, avrebbe probabilmente avviato tale processo. Come osserva ancora Monnet, questo corso d’azione sarebbe avvenuto non perché qualcuno lo volesse, ma solo per mancanza di una soluzione migliore ai problemi in questione.

Questa diagnosi non era di per sé originale. Dall’altra parte del confine, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer era giunto a conclusioni analoghe. Desideroso di ripristinare la sovranità del proprio Paese e di porre fine alla molteplicità di regole imposte all’industria tedesca, era ben consapevole della necessità di farlo con una modalità che rafforzasse la fiducia, soprattutto nei confronti della Francia. Nel marzo del 1950, egli aveva proposto l’idea di una piena unione politica ed economica tra Germania e Francia, possibilmente come premessa di più ampi Stati Uniti d’Europa. Questa proposta però era stata respinta subito dai leader francesi, che l’avevano definita irrealistica.

Non si sottolineerà mai abbastanza che, a fronte di questo quadro di determinismo pessimistico e di speranze frustrate, nel corso degli anni si era preparato un più generale sfondo di speranza. L’idea di promuovere la pace attraverso una qualche forma di integrazione europea era in fase di elaborazione da decenni. Idee di federalismo europeo erano già state proposte nel periodo tra le due guerre mondiali, in particolare da Richard Coudenhove-Kalergi e Aristide Briand, in reazione ai massacri della Prima guerra mondiale. Gli orrori della Seconda guerra mondiale diedero ad esse nuovo impulso. Il Congresso dell’Aia del 1948 è un esempio di questo momento politico e culturale, in cui a molti apparve in un certo senso evidente una qualche forma di profonda cooperazione europea.

Oltre agli imperativi del momento, altri fattori alimentarono l’immaginazione di quegli attori che diedero forma alla prima integrazione europea. Parte delle aspirazioni verso nuove forme di solidarietà europea può essere ricondotta alle origini di alcuni di tali protagonisti, come Robert Schuman o Alcide De Gasperi: entrambi provenivano da regioni di confine, che nel corso degli anni avevano regolarmente cambiato appartenenza, il che li rendeva profondamente consapevoli della complessa relazione tra appartenenza locale e identità nazionale. Anche le esperienze personali della Seconda guerra mondiale furono determinanti, sia per quei leader europei che strinsero nuovi legami durante il loro esilio all’estero, come Jean Monnet e Paul-Henri Spaak, sia per coloro che avevano sperimentato in prima persona i pericoli di un nazionalismo incontrollato, come Adenauer.

Una comunità di intenti tra molti dei primi artefici di un’Europa unita può essere fatta risalire anche alla loro comune appartenenza alla Democrazia cristiana. L’ideale europeo era stato strettamente legato al pensiero cristiano da figure influenti come Jacques Maritain, e ulteriormente sostenuto dall’interesse per l’unificazione europea manifestato da papa Pio XII. Il fatto che, verso il 1950, i partiti democratico-cristiani fossero al governo in molti Paesi dell’Europa continentale avrebbe certamente favorito i primi passi dell’integrazione europea[6].

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Le incognite sul futuro di milioni di rifugiati, le città devastate da anni di guerra e una pace ancora fragile. A raccontarci da Damasco come sta vivendo questo momento di incertezza la popolazione siriana è p. Vincent de Beaucoudrey S.I., direttore del Jesuit Refugee Service in Siria.

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Tuttavia, la proposta di Monnet, fatta propria da Schuman, non era solo una conseguenza logica del corso della storia né una semplice continuazione del passato. Era al contrario un tentativo deliberato di invertire il corso della storia rispetto a quello che sembrava il suo naturale svolgimento. Lasciata andare «con il pilota automatico», l’Europa avrebbe potuto facilmente ricadere nei suoi vecchi demoni. Tracciare un’altra rotta richiedeva, da un lato, una chiara visione di un futuro migliore: gli ideali e la buona volontà di fondo c’erano, ma non erano sufficienti. Dall’altro lato, per preservare le aspirazioni europee alla pace e all’unità e per dare alla speranza un futuro, il progetto doveva trovare un nuovo veicolo, determinare un cambio di paradigma.

Un nuovo percorso


Il percorso tracciato dalla Dichiarazione Schuman cerca di evitare le insidie di due approcci logici alle difficoltà dell’Europa. Il primo consisteva nel creare strutture intergovernative ad hoc, finalizzate a gestire problemi specifici, o nell’istituire organi intergovernativi di coordinamento. Un simile approccio non comporta alcuna perdita di sovranità per gli Stati e si basa su decisioni negoziate. Il pericolo è che il risultato della negoziazione spesso non si fondi su una soluzione ottimale, ma su un equilibrio tra i diversi interessi nazionali. Inoltre, si tratta di un equilibrio di potere, che potrebbe essere percepito come ingiusto qualora un attore si trovasse in una posizione di debolezza. Il modo in cui la Francia affrontò la reintegrazione della Germania, dando priorità alla propria sicurezza e sentendosi al contempo minacciata dai tentativi anglosassoni di modificare lo status quo, dimostra i limiti di tale percorso.

Il secondo approccio, più vicino agli ideali del federalismo, non cerca di fornire soluzioni dirette a problemi specifici. Piuttosto, cerca di creare un nuovo quadro generale entro cui risolvere tutti i problemi futuri. Logicamente, tale quadro trarrebbe la propria legittimità da qualche tipo di sostegno popolare, assumendo la forma di un processo costituente, dell’istituzione di qualcosa che almeno assomigli a una costituzione. Dotata di una propria legittimazione democratica, la nuova entità può giustificare il proprio potere rispetto alle precedenti istituzioni nazionali. Tuttavia, una simile soluzione richiede un enorme slancio politico per essere avviata. Ne è un esempio la proposta di una piena unione politica tra Francia e Germania avanzata da Adenauer nel marzo del 1950 e respinta come prematura.

Il nuovo approccio, che è alla base della Dichiarazione, affronta una questione specifica, sottraendola alle competenze nazionali e ponendola sotto una nuova autorità sovranazionale. In tal modo, gli ex concorrenti devono vedere la situazione da una nuova prospettiva. Questa nuova dinamica, se gestita con onestà, li spinge ad adottare una prospettiva più ampia, che apre nuove possibilità. Regolamentazioni vantaggiose, come le leggi antitrust, che in precedenza avrebbero potuto essere rifiutate o rinviate per timore di indebolire la posizione del proprio Pae­se, diventano improvvisamente concepibili, una volta che vengano applicate equamente a tutti. Inoltre, una sottomissione comune a un’autorità sovranazionale ristabilisce l’uguaglianza tra i Paesi, e con essa anche la dignità, perché i Paesi in posizione di debolezza non sono più costretti a elemosinare concessioni, ma partecipano equamente al processo decisionale. Idealmente, gli Stati vengono così spinti ad abbandonare l’atteggiamento di commercianti che cercano i propri interessi e ad assumere invece quello di collaboratori alla ricerca del modo migliore per costruire qualcosa insieme. Presumibilmente, nelle intenzioni di Schuman e Monnet, questo atteggiamento di cooperazione avrebbe dovuto radicarsi ed estendersi a nuovi settori della vita economica e politica.

Qui si assiste a un chiaro trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali alla nuova autorità. Esso è reso politicamente accettabile, in un primo momento, dalla sua portata limitata. Tuttavia, la legittimità democratica a lungo termine di un tale approccio può essere paragonata a una scommessa di speranza. Con gli Stati nazionali ancora in vita, la nuova struttura dovrà dimostrare la necessità della sua esistenza in base ai risultati che sarà in grado di produrre. La complessità della valutazione di tali risultati deriva dal fatto che alcuni di quegli obiettivi sono ambiziosi e fluidi, mentre altri sono più pratici.

Gli obiettivi della Dichiarazione


Il testo della Dichiarazione[7] prevede innanzitutto molteplici obiettivi ambiziosi, legati alla messa in comune del carbone e dell’acciaio: crea­re una solidarietà di fatto, eliminare la secolare opposizione tra Francia e Germania, rendere materialmente impossibile qualsiasi guerra tra i due Paesi, gettare solide basi per la loro unificazione economica, contribuire all’innalzamento del tenore di vita, perseguire lo sviluppo del continente africano ecc. Tutti questi obiettivi si riassumono in un’unica dinamica: una fusione di interessi indispensabile per la crea­zione di un sistema economico comune, da cui possa nascere una comunità più ampia e profonda. Questa comunità, necessaria per preservare la pace, dovrebbe prendere corpo in una Federazione europea.

Gli obiettivi pratici della Dichiarazione appaiono piuttosto modesti rispetto a questa grande visione. Essi sono enunciati così: 1) assicurare nel più breve tempo possibile la modernizzazione della produzione e il miglioramento della sua qualità; 2) fornire carbone e acciaio a condizioni identiche ai mercati francese e tedesco, nonché a quelli degli altri Paesi membri; 3) sviluppare esportazioni comuni verso altri Paesi; 4) uniformare e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori in queste industrie.

Qualsiasi valutazione dell’eredità della Dichiarazione Schuman, o della traiettoria del progetto europeo alla luce dei suoi princìpi fondanti, deve tener conto di questi molteplici livelli di intenzionalità. Un primo livello di interrogativi deve riguardare gli obiettivi pratici dell’impresa, che si rivelano come un intreccio complesso. Lungi dall’essere focalizzati semplicemente su un mercato ottimale del carbone e dell’acciaio o sulla crescita economica, essi rivelano anche una preoccupazione sociale per le condizioni di vita dei lavoratori (e non solo per le loro condizioni di lavoro). La scelta delle industrie del carbone e dell’acciaio non era infatti disgiunta da una riflessione sociale: le condizioni lavorative in tali industrie erano emblematiche di quelle affrontate dalla classe operaia nel suo complesso. In due discorsi pronunciati al Collegio di Bruges nel 1953[8] – che probabilmente sono tra i migliori commenti che si possano leggere sulla Dichiarazione –, Schuman sottolineava l’importanza dei sindacati nella definizione dell’atto fondativo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Allo stesso modo, il riferimento all’uguaglianza delle condizioni di vita confuta l’idea che le condizioni di vita in tutta Europa si possano armonizzate semplicemente attraverso le forze del mercato. Impatto economico, progresso sociale e armonizzazione degli standard di vita: ecco tre indicatori di una visione concreta dell’Europa.

Non sorprende che questi obiettivi concreti si integrino perfettamente con gli obiettivi ambiziosi menzionati nella Dichiarazione. Ciò che era stato previsto per il settore del carbone e dell’acciaio era infatti solo un modello iniziale per un progetto più ampio. Nei suoi discorsi del 1953, Schuman tuttavia sottolineò che questo settore era, in pratica, un obiettivo abbastanza facile. Il livello tecnologico simile tra i Paesi, il numero ridotto di imprese rispetto alla loro importanza per l’economia, l’indipendenza da fattori culturali facevano sì che l’armonizzazione non presentasse particolari difficoltà. Oggi, questo motivo di preoccupazione potrebbe tradursi nel chiedersi se, in primo luogo, lo sviluppo indotto dalla partecipazione all’Unione europea sia sufficiente ad assicurare la coesione di un’Unione sempre più diversificata e, in secondo luogo, quanto siano dannose per la dinamica dell’integrazione politica le persistenti differenze di ricchezza tra i Paesi europei.

L’accenno al contribuire allo sviluppo dell’Africa, per quanto ambiguo potesse essere nel 1950 nel contesto del colonialismo ancora in corso, dovrebbe anche indurre a una riflessione critica, quando si tratta del rapporto tra un continente ricco e il resto del mondo[9].

Per approfondire ulteriormente la questione, bisognerebbe chiedersi se gli sviluppi degli ultimi 75 anni abbiano effettivamente portato a quella fusione di interessi e a quel sistema economico comune immaginati da Monnet. Alla luce degli evidenti risultati raggiunti dall’Unione europea, una domanda più pertinente che potremmo porci è se un sistema economico apparentemente comune abbia effettivamente portato a una fusione commensurabile di interessi nazionali, da un punto di vista oggettivo come pure soggettivo.

La comunità come obiettivo


Quando si tratta di valutare l’obiettivo finale della Dichiarazione Schuman, sarebbe un tragico errore confondere il mezzo – un’Europa federale – con il fine – la creazione di una comunità –. In effetti, il risultato finale formale previsto – il federalismo – era soltanto un modo per preservare ciò che era stato raggiunto durante l’intero processo. L’idea di comunità dà un’anima al federalismo. Il pericolo sarebbe quello di concentrarsi sulle istituzioni e sui progressi esteriori raggiunti verso il federalismo formale, senza valorizzare ciò che esso incarna realmente: la cura reciproca, la fiducia, la solidarietà. Tutti questi valori non si scoprono creando istituzioni, ma attraverso l’esperienza esistenziale del lavoro comune, reso a sua volta possibile da nuove istituzioni e dall’esplorazione comune di nuovi campi di cooperazione.

L’accento posto sulla comunità permette inoltre di creare un ponte tra la dimensione collettiva e quella personale. Mentre gli ideali di azione comune, appartenenza e responsabilità possono orientare l’azione collettiva e fornirle una direzione, essi possono essere sperimentati solo da persone concrete. Poiché l’Europa non può mobilitare le risorse della storia nazionale per giustificare la propria esistenza come comunità «naturale», essa deve continuamente interrogarsi su come aiutare i propri cittadini a sperimentare concretamente questo senso di comunità attraverso l’azione comune.

In quest’ottica, consentire all’Unione europea di svilupparsi verso uno stile di relazioni tra i suoi membri più transnazionale, nel quale la conciliazione degli interessi nazionali venga considerata soddisfacente tanto quanto il consenso innovativo, rappresenterebbe un tradimento delle intenzioni dei suoi fondatori pari a quello di un totale euroscetticismo.

Sempre a Bruges, nel 1953, Schuman spiegò come l’idea di comunità fosse al centro delle sue azioni: «Si tratta di un cambiamento senza precedenti nel nostro pensiero politico. L’idea di comunità deve costituire la base di tutte le future relazioni tra Paesi belligeranti. Questo è l’inizio di una comunità generalizzata, una comunità politica, una comunità militare, una comunità economica, al di là del settore del carbone e dell’acciaio. Questa è l’inevitabile catena degli eventi che volevamo. […] Questa comunità, questo principio di comunità, è una di quelle idee potenti, un’idea paragonabile a una scoperta scientifica il cui risultato non solo rimane stabilmente consolidato nel proprio campo, ma diventa anche il punto di partenza per nuovi progressi, più adatto alle esigenze di un’epoca più evoluta. La storia umana è quindi costituita da fasi successive, ciascuna delle quali si basa sulle esperienze precedenti, ma apporta il proprio contributo distintivo. Cerchiamo quindi, come nazioni e come individui, di essere gli strumenti della Provvidenza quando si tratta di individuare e far emergere quegli elementi che non abbiamo inventato noi, ma che dobbiamo portare alla luce nella nostra coscienza e nella coscienza dei popoli con cui siamo in cammino»[10].

In tempi di rinnovata polarizzazione, si corre il rischio di leggere queste parole e giudicarle ingenue, segni di un periodo di eccessivo ottimismo. Ma, così facendo, dimenticheremmo che questo appello alla comunità non è stato lanciato in tempi più facili dei nostri. Inoltre, perderemmo di vista il fatto che la comunità a cui Schuman aspirava non era un dato di fatto, ma qualcosa ancora da realizzare, qualcosa ancora da costruire sulle ceneri della guerra e di secoli di risentimenti. Così facendo, ci condanneremmo alla disperazione e all’isolamento, perché non c’è un modo giusto di relazionarsi agli altri se non all’interno di una comunità.

Qualunque giudizio possiamo dare sui risultati dei 75 anni di integrazione europea, la questione non è se abbiamo realizzato una comunità europea. Realisticamente, non l’abbiamo realizzata, e probabilmente non la realizzeremo mai completamente. La domanda è piuttosto: permettiamo ancora all’idea di comunità di plasmare le nostre speranze per l’Europa?

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[1]. Cfr Francesco, Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, 9 maggio 2024.

[2]. Cfr Discussion paper by Jean Monnet, 3 maggio 1950, disponibile sul sito web del Centre virtuel de la connaissance sur l’Europe, cvce.eu/obj/discussion_paper_b…

[3]. Cfr E. Letta, «Much more than a Market (Speed, Security, Solidarity)», aprile 2024 (https://www.consilium.europa.eu/media/ny3j24sm/much-more-than-a-market-report-by-­enrico-letta.pdf).

[4]. Cfr M. Draghi, «Il futuro della competitività europea», settembre 2024 (eunews.it/2024/09/09/il-rappor…).

[5]. È l’idea secondo la quale il mercato europeo sia così rilevante da spingere le imprese ad adottare le normative dell’Ue – spesso più rigorose – come linee guida e pratiche di riferimento per operare non solo nell’Unione, ma anche a livello globale.

[6]. Per un’introduzione ai primi anni dell’integrazione europea dalla prospettiva dei padri fondatori, cfr V. M. de la Torre, Europe, a Leap into the Unknown: A Journey Back in Time to Meet the Founders of the European Union, Frankfurt a. M., Lang, 2014.

[7]. Per il testo della Dichiarazione in italiano, cfr european-union.europa.eu/princ…

[8]. Cfr «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA», Bruges, 22-23 ottobre 1953 (cvce.eu/obj/discours_de_robert…).

[9]. Questa menzione, di fatto, è assente dal progetto di Monnet e appare soltanto nella versione letta da Schuman, a sottolineare l’importanza attribuita all’argomento.

[10]. «Discours de Robert Schuman sur les origines et sur l’élaboration de la CECA»,cit.

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