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Di Antonio Zoppetti

Nel 1796, uno scalcinato esercito di meno di 40.000 soldati guidati dal giovane e ancora inesperto generale Napoleone partì da Nizza per attaccare i piemontesi e gli austriaci che occupavano la Lombardia. La campagna della cosiddetta Armata d’Italia doveva essere solo un diversivo per spostare la guerra in territorio austriaco, ma si trasformò in un successo inaspettato dirompente. Di vittoria in vittoria il generale entrò presto a Milano, salutato in modo trionfale come “liberatore”, mentre gli austriaci ripiegarono verso il Trentino. L’arrivo di Bonaparte non era vissuto come un’invasione, ma come l’esportazione degli ideali rivoluzionari che avrebbero condotto l’Italia alla tanto agognata unificazione, liberandoci dalle ingerenze e dalle occupazioni delle altre monarchie europee conservatrici.

Un analogo sentimento l’abbiamo visto in tempi più recenti, con lo sbarco degli Americani che ci liberavano dal fascismo, ma che allo stesso tempo erano destinati a conquistarci non più militarmente, ma da un punto di vista politico, economico, culturale e sociale.

I territori conquistati-liberati da Napoleone in tutto il Paese si configurarono come “repubbliche sorelle” della Francia, che in Italia erano chiamate le “Repubbliche giacobine”, e nel 1802 confluirono nella Repubblica Italiana con capitale a Milano. Due anni dopo, però, Napoleone si incoronò imperatore di Francia, e in questa svolta che restaurava il potere assoluto, nel 1805 anche le repubbliche italiane confluirono nel Regno d’Italia di cui Bonaparte divenne il re.

Davanti a questo sconvolgimento geopolitico gli italiani si divisero: Napoleone era davvero un continuatore della svolta della Rivoluzione e liberatore dalla dominazione austriaca che unificava l’Italia o era invece un restauratore del potere assoluto, ennesimo conquistatore e saccheggiatore delle opere d’arte italiane?

Questa stessa duplice interpretazione riguardava anche la sua politica linguistica che puntava alla francesizzazione del nostro Paese.

La politica linguistica di Napoleone

La prima legge in proposito del 1803 introdusse il francese negli atti pubblici. All’epoca solo il Piemonte era stato annesso alla Francia, e la lingua francese fu adottata nei tribunali, nelle amministrazioni e anche nella scuola. Negli anni seguenti, lo stesso criterio di ufficializzazione del francese fu esteso agli altri dipartimenti italiani, e subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1806 fu emanato un Codice civile redatto in italiano e in francese, seguito da varie altre disposizioni governative in tema di lingua. Nonostante le disposizioni sulla carta, tra le teoria e la pratica ci fu però un notevole scarto e, poiché l’applicazione poneva problemi burocratici e richiedeva tempo, ci furono infinite proroghe un po’ ovunque a quelle direttive, che di fatto rallentarono e ostacolarono la politica linguistica francofona.

Ciononostante, i francesi sapevano bene quali fossero gli assi strategici dell’esportazione della loro lingua, visto che erano una potenza coloniale, e accanto all’amministrazione, anche la conquista della scuola era altrettanto fondamentale, ma di nuovo i problemi da risolvere erano tanti, a cominciare dalla formazione degli insegnanti.

In Piemonte la francesizzazione era più fattibile, visto che quella lingua era molto diffusa e che i Savoia avevano forti legami storici con la Francia e anche con la sua lingua. Già dal 1802 l’insegnamento del francese era stato introdotto nelle scuole primarie e secondarie, e nel liceo di Torino divenne anche la lingua dell’insegnamento, benché da alcuni sondaggi voluti da Napoleone sulla comprensione del francese risultava che la lingua veramente diffusa era il dialetto; spiccava sull’italiano persino tra le classi sociali più elevate che lo leggevano ma non lo parlavano abitualmente, e quando dovevano metterlo in pratica lo facevano con molte difficoltà e incertezze.

In un rapporto del prefetto del dipartimento del Po Loysel al direttore dell’istruzione pubblica, nel 1804, si leggeva che due anni dopo l’introduzione del francese nelle scuole, di fatto gli alunni avevano delle difficoltà a impararlo, perché in famiglia erano abituati a parlare in piemontese. Dunque, per ottenere dei risultati concreti, il francese avrebbe dovuto essere impartito sin dai primi anni di scuola. Se questa era la situazione nella zona più francofona del Paese, nelle altre parti d’Italia l’adozione del francese poneva problemi ancora maggiori, sia nelle amministrazioni sia nelle scuole dove i decreti che lo introducevano non incontravano solo ostacoli culturali, ma anche strutturali.

Napoleone, però, se da una parte puntava alla francesizzazione dell’Italia, dall’altra parte sembrava farlo in modo rispettoso, senza la volontà di cancellare l’italiano, almeno dove era consolidato. Un decreto del 1809 sancì un’eccezione alla politica linguistica imperiale riconoscendo un “privilegio” nel Gran Ducato di Toscana, che consentiva di mantenere la propria lingua se non negli atti pubblici in generale, almeno nei tribunali, negli atti notarili e nelle scritture private. E questo avveniva perché in quella regione si parlava l’italiano più perfetto e puro, che altrove non era invece ancora consolidato. Il decreto istituiva allo stesso tempo un “premio annuale di 500 napoleoni (…) per gli autori le cui opere contribuiranno nel modo più efficace a mantenere la lingua italiana nella sua purezza.” Con questo spirito, nel 1811 Napoleone ricostituì l’Accademia della Crusca che trent’anni prima Leopoldo de’ Medici aveva sciolto, e nel rifondarla come ente autonomo le affidava l’assegnazione del premio istituito, la missione di conservare la purità della lingua, e il compito di occuparsi della quinta edizione del Vocabolario della lingua italiana.

Nonostante il riconoscimento e la valorizzazione dell’italiano si potesse leggere come la prova più evidente che non ci fosse alcuna volontà di imporre la lingua dei conquistatori ai conquistati, nel complesso, però, sulla politica napoleonica prevalsero i pareri negativi, e per molti rappresentava una minaccia che si intrecciava con quella della solita dominazione straniera. E i dibattiti furono molto vivaci.

La lingua come strumento di potere morbido

Il francese, già da tempo lingua dominante, conobbe in quegli anni una forte espansione. Nel 1796, Napoleone aveva eliminato ogni restrizione che limitava la libertà di stampa, il che determinò un’esplosione di nuovi periodici e riviste. Nel moltiplicarsi, questi giornali talvolta alternavano articoli in italiano ad altri direttamente in francese per raggiungere un pubblico internazionale e più ampio. Ma anche i pezzi in italiano erano spesso improntati alla diffusione della cultura francese, soprattutto del teatro o dei libri. Mettere in risalto i prodotti culturali francesi e la celebrazione della loro grandeur era funzionale anche alla diffusione della lingua, che a sua volta era strategica per la francesizzazione culturale. Qualche secolo prima era successo qualcosa del genere anche con la dominazione spagnola, che aveva favorito la circolazione di molte opere nella lingua dei conquistatori, da Cervantes alle grammatiche. In modo ben più consistente, in epoca napoleonica uscirono decine di grammatiche francesi, che si rivolgevano non solo alle scuole, ma a chiunque volesse apprendere agilmente la lingua.

Oggi avviene qualcosa di simile, ma con ordini di grandezza superiori, con la diffusione dell’inglese e con la celebrazione dell’egemonia culturale d’oltreoceano che permea l’intero panorama mediatico e culturale, dai film alla tv, dall’intrattenimento a internet. La differenza è che tutto ciò è oggi accettato in modo acritico con entusiasmo, mentre nell’Ottocento la polemica nei confronti della cultura e della lingua francese era accesissima.

Con spirito patriottico, un’ondata di intellettuali si scatenò contro la supremazia del francese, e nel 1810 il conte piemontese Carlo Vidua, in un carteggio con il torinese Cesare Balbo che a quei tempi era un funzionario napoleonico, discuteva su quale lingua scegliere per comporre un’opera storica che Balbo intendeva scrivere:

Resta la lingua da scegliere. Ma che potrò io dirti, che tu già non comprenda? Dirotti io, che per la tua carriera hai bisogno di studiar a fondo la Francese? Questa è la verità, che non solo tu capisci; ma che ti muove al segno di abbandonare la più bella lingua e la tua per lei. (Lettera n° 51 Al Sig, Cesare Balbo del 12 luglio 1810 in Lettere di Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo, Torino, Giuseppe Pomba 1834, 3 voll., vol I, p. 174).

Vidua perorava in modo sentito la causa dell’italiano, pur comprendendo che il francese era strategico per Balbo, perché per un uomo nella sua posizione quella lingua era diventato un requisito per accedere alle cariche amministrative e far carriera. Ma non poteva credere che l’amico patriota volesse davvero abbandonare la propria lingua per “una straniera, ed a quale!”.

Oggi è l’inglese a essere strategico per chi vuol far carriera nel lavoro e in ogni altro ambito, e quando uno scienziato decide di pubblicare le sue ricerche in inglese lo fa anche perché, se pubblicasse in italiano il suo articolo non sarebbe altrettanto considerato né letto. Eppure nessuno sembra mettere in discussione i risvolti negativi di questa prassi e di queste scelte, anzi, l’abbandono dell’italiano in favore dell’inglese internazionale viene salutato come un fatto positivo, a partire dalle università che cancellano i corsi in italiano per insegnare direttamente in inglese.

Carlo Denina

A fine Settecento, il letterato piemontese Carlo Denina, noto anche come l’abate di Rovello, auspicava che il francese prendesse il posto del latino nell’educazione religiosa, nella scuola e nell’amministrazione dei Savoia. Ma nel 1803, in piena era napoleonica, si spinse ben oltre, e arrivò a mettere in discussione persino l’italiano nella sua interezza in favore della lingua di Molière che avrebbe potuto unificare linguisticamente il nostro Paese in modo per lui più vantaggioso. In un Discorso sull’uso della lingua francese, l’introduzione ufficiale di quella lingua nello Stato era considerata propedeutica anche a una diffusione della stessa lingua sul piano nazionale e letterario:

Io non dubito (…) che la riunione del Piemonte alla Francia, e l’ordine venuto in seguito di usare negli atti pubblici la lingua francese in vece dell’italiana, debba anche cangiar tosto o tardi la lingua letteraria del paese. (…) Cotesto cangiamento di lingua sarà molto più vantaggioso che nocevole. Passato che sia quel turbamento, quel disturbo che arrecar deve nel primo arrivo, io tengo per cosa certissima che i nostri nipoti scriveranno in francese più facilmente assai che i nostri antenati e contemporanei abbiano potuto fare scrivendo in italiano.

Per fare in modo che il francese prendesse il posto dell’italiano, ancora una volta era necessario partire dalla scuola.

Oggi i linguisti “descrittivisti” che hanno rinunciato a intervenire sulla lingua – a parte regolamentare la femminilizzazione delle cariche o il politicamente corretto, che evidentemente sono interventi leciti – ci raccontano la favola che le lingue nascono dal basso, che non è possibile controllarle e altre strampalate affermazioni avulse dalla storia e dalla realtà. Dunque fanno finta di non vedere che l’attuale regressione dell’italiano è connessa all’espansione dell’inglese globale, e dipende anche dalle nuove politiche linguistiche di cui negano l’esistenza.

Infatti l’Europa da qualche decennio ha deciso di investire milioni di euro per creare le generazioni bilingui a base inglese, e di introdurlo nelle scuole a partire dai primi anni, come tutti sapevano bene fosse essenziale già nel Settecento. Questo metodo di evangelizzazione inguistica ben spiegato dal prefetto del dipartimento del Po, Loysel, si attua oggi nei confronti dell’inglese, in una svolta che risale alla riforma Moratti ai tempi delle famose tre “i” di Berlusconi (Internet, Impresa, Inglese) divenute la parola d’ordine da introdurre nelle scuole. La riforma Gelmini del 2008 ha ampliato il numero di ore di inglese e nel 2010 ha trasformato la conoscenza di questa lingua in un requisito anche per la formazione degli insegnanti che devono saperla, indipendentemente dalla disciplina che insegnano, a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge. Dalla scuola si è poi passati ai concorsi per la pubblica amministrazione: se in un primo tempo era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, con la riforma Madia l’espressione è stata sostituita con la “lingua inglese”, che è diventata obbligatoria; chi non la sa non può accedere ai concorsi, anche se esula dalle sue competenze lavorative, e anche se conosce altre lingue che non godono però di un analogo riconoscimento.

Il controllo della scuola

Nell’Ottocento, l’ascesa di Napoleone fu solo una meteora durata meno di un decennio. Nel 1815 arrivò la Restaurazione che riportò l’Italia alla situazione precedente, con il ritorno degli austriaci in Lombardia, e la disgregazione del Paese nei precedenti staterelli. La francesizzazione era fallita, ammesso che fosse stato possibile realizzarla, e l’italiano tornò in auge, anche se la gente parlava nel proprio dialetto e non c’era affatto un modello di italiano condiviso.

All’indomani dell’unità d’Italia del 1861, visto che l’italiano doveva essere introdotto in modo ufficiale, e in qualche modo insegnato e regolamentato in modo uniforme, fu istituita la Commissione Broglio, con il coinvolgimento di Alessandro Manzoni, per tentare di varare una politica linguistica che introducesse l’italiano proprio a partire dalle scuole. Manzoni e Broglio avrebbero voluto toscanizzare tutti a forza, con un programma di soggiorni studio degli insegnanti a Firenze, e l’invio di maestri toscani per il Paese che facessero scuola. Questa soluzione fu avversata da altri, qualcuno parlò di “dittatura del toscano” e vedeva in quella politica una sorta di progetto coloniale. Anche l’idea di un dizionario ufficiale di Stato fallì, perché non c’era un accordo su quale fosse il modello dell’italiano unitario da diffondere.

Nel frattempo, nel secondo Novecento, l’italiano unitario si è realizzato, sotto la spinta dell’industrializzazione dell’avvento del sonoro di cinema, radio e televisione, oltre che grazie alla scuola. Ma oggi le università puntano all’abbandono dell’italiano per insegnare direttamente in inglese, la stessa scelta che fanno gli scienziati. Se le riviste ai tempi di Napoleone puntavano alla diffusione della cultura e della lingua francese, oggi i mezzi di informazione celebrano la grandeur della nuova cultura Americana, che però è un sistema ben più pervasivo della conquista napoleonica, nel nuovo scenario di Internet, della globalizzazione e del nostro essere inglobati nell’anglosfera dal punto di vista politico, culturale, sociale, militare e in ogni altro aspetto.

La politica di Broglio-Manzoni fu duramente avversata e messa in discussione, per esempio dal glottologo Isaia Ascoli che si appellava alla malsana idea della “selezione naturale”, invece di una politica linguistica a cui era contrario. E la sua polemica con Manzoni sollevò un vespaio che per decenni infuocò letterati, intellettuali, linguisti, patrioti, editori, librettisti e l’intero Paese.

Oggi invece, davanti all’anglicizzazione dell’italiano che ha reso il modello toscano un ricordo del passato, e davanti all’anglificazione della scuola, tutto tace. Non c’è alcuna resistenza né consapevolezza del fatto che si tratta di un progetto coloniale. La nuova classe dirigente dei figli di Denina ha sposato l’inglese, a quanto pare. Sul piano interno gli anglicismi vengono preferiti e legittimati, e su quello internazionale si difende la soluzione dell’inglese, in un appiattimento culturale di accettazione del globish che arriva dall’interno, davanti al quale la visione coloniale di Napoleone era un progetto da principianti. E dietro la bufala della selezione naturale si cela una ben precisa politica linguistica anglofila che non può che favorire la lingua del più forte e la regressione dell’italiano.

diciamoloinitaliano.wordpress.…

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Di Antonio Zoppetti

Era il 1989 quando Natalia Ginzburg scriveva:

“Nella nostra società attuale è stato decretato l’ostracismo alla parola cieco e si dice invece non vedente. È stato decretato l’ostracismo alla parola sordo e si dice non udente. Le parole non vedente e non udente sono state coniate con l’idea che in questo modo i cechi e i sordi saranno più rispettati. […] La nostra società non offre ai ciechi e ai sordi nessuna specie di solidarietà o di sostegno, ma ha coniato per loro il falso rispetto di queste nuove parole. Per la stessa motivazione ipocrita, per lo stesso falso rispetto, i vecchi vengono chiamati gli anziani come se la parola vecchiaia fosse una parola infamante. In verità non si capisce perché la parola vecchiaia debba essere considerata infamante o oltraggiosa, indicando un’età dell’uomo a cui nessuno può sfuggire se vive. Oltraggioso è invece il modo come viene trattata, nella nostra società, la vecchiaia. Sempre per la stessa motivazione ipocrita, le donne di servizio vengono chiamate colf, collaboratrici domestiche, con un’abbreviazione che si reputa graziosa. Però noi tendiamo abitualmente a non collaborare affatto alle faccende domestiche o a collaborare molto poco e le cosiddette colf nelle nostre case fanno tutto loro. Sempre per le stesse motivazioni la società impone di non dire neri o negri ma dire invece ‘persone di colore’. E perché? di quale colore? Nella parola nero o negro c’è forse qualcosa di oltraggioso? […] Abbiamo tanta paura della realtà? Abbiamo tanta paura della malattia e della morte, da astenerci dal pronunciare la parola cancro e credere di dover dire sempre ‘un male incurabile’?”
[Natalia Ginzburg, “L’uso delle parole”, L’Unità, 28 maggio 1989, p. 2].

Chi decreta come dobbiamo parlare?

Dovremmo chiederci: chi ha coniato e diffuso “non vedente” al posto di “cieco”, e chi ha decretato che alcune parole comuni sono diventate oltraggiose? Chi ha diffuso (e diffonde) questo lessico dell’ipocrisia? Di certo non la gente, ma una generica “società” – intesa come una pressione censoria dall’alto – che opera incessantemente per il controllo della lingua, con lo scopo di imporla alle masse in nome di una morale discutibile che produce spesso esiti goffi. E infatti, rispetto agli anni in cui scriveva la Ginzburg, oggi definire il cancro un male “incurabile” invece caso di mai di “inguaribile” – ma già allora le cure esistevano e in qualche caso si guariva – è davvero imbarazzante, così come nel frattempo è stato stigmatizzato il parlare di persone “di colore”, e mentre una parola come “negro” è diventata un tabù impronunciabile, è stata attualmente sostituita con “nero” che è diventata la parola prescritta (i “mori” appartengono al passato). E così mentre ogni tanto “il Comune cambia il colore ai tranvai”, come cantava Paolo Conte, il destino di questo revisionismo linguistico è una corsa incessante per raggiungere un politicamente corretto che non si raggiungerà mai, perché il problema non sono le parole, ma la nostra testa – la discriminazione è lì – e qualunque riverniciatura lessicale in nome di una neutralità artificiale è destinata a divenire nuovamente discriminante in poco tempo, se non cambiamo mentalità. E infatti “handicappato”, mutuato dal gergo sportivo e introdotto nel linguaggio comune come più rispettoso di “minorato”, presto è diventato nuovamente dispregiativo, e dunque le stesse pressioni sociali che l’avevano introdotto a forza hanno cominciato a metterlo al bando in nome di “disabile” e poi “diversamente abile” in un vocabolario artificiale in cui lo spazzino diventa operatore ecologico, il bidello operatore scolastico e via dicendo.

In questo clima censorio, per riprendere le parole dell’articolo della Ginzburg:

“Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo. Cosi accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri.
Per docilità, per ubbidienza, la gente è spesso ubbidiente e docile, ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino. Sembra un problema insignificante ma non lo è.
Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà”.

La censura delle parole

L’avvento del politicamente corretto che ha preso piede negli anni Novanta, fatto di un revisionismo linguistico di facciata, invece di risolvere i problemi sociali li lascia intatti limitandosi a cancellare le parole, agendo sulla lingua per poi agire sulla realtà in modo manipolatorio, come avveniva con la Veterolingua sostituita dalla Novalingua in 1984 di Orwell. Ma gli intellettuali, invece di sgomberare le parole-cadavere, le hanno legittimate spesso in un clima da caccia alle streghe che si è rivelato altrettanto repressivo e fondamentalista del controllo linguistico di epoca fascista, che esortava alla bonifica dei barbarismi, all’eliminazione del “lei” in nome del “voi”, e persino all’abolizione della stretta di mano sostituita con il saluto romano. Invece delle leggi, dei divieti o delle multe fasciste, nel nuovo clima “democratico”, le purghe e i manganelli sono stati rimpiazzati da una stigmatizzazione sociale altrettanto oscurantista, e da una mistificazione della storia che non è altro che la “cultura della cancellazione”.

Se una parola come “negro” sino agli Novanta non aveva alcuna accezione negativa, da un giorno all’altro è diventata impronunciabile, una parola tabù, e da quel momento in poi chi la diceva diventava razzista in una cancellazione di secoli di storia. Così era avvenuto negli Usa a proposito dell’inglese, dove al contrario dell’italiano la valenza spregiativa di “negro” c’era, e dunque così doveva essere anche in Italia. Perciò è stata vietata di fatto senza alcuna legge, ma in modo così coercitivo che nel 2020, per fare un esempio recente, Fausto Leali è stato espulso dal Grande Fratello (quello televisivo questa volta, non quello di Orwell, ma il parallelismo è significativo) per averla pronunciata. Precedenti del genere, in tv, esistevano solo nel caso delle bestemmie, che però sono esplicitamente vietate e sanzionate dalla legge (art. 724).

Il lessico oscuro e anglicizzato con cui seppellire quello familiare

Intanto, rispetto agli anni Novanta, la ventata del politicamente corretto che arriva non a caso d’oltreoceano, e che ha preso piede soprattutto tra gli intellettuali, i giornalisti e coloro che hanno il ruolo – e il potere – di decidere le sorti della lingua, si è intrecciata con la diffusione e la moltiplicazione degli anglicismi. Le nuove parole-cadavere che puntano a riscrivere la storia e che si staccano dalla lingua della gente sono sempre più in inglese, mentre è l’italiano che si trasforma nel “linguaggio clandestino” del popolo che parla di negozi, cibo, andare a correre, animali domestici… mentre sui mezzi di informazione e sulle piattaforme informatiche si legge solo shop e store, food, running, pet… in una dicotomia sempre più forte tra il linguaggio storico e della gente e quello mediatico e persino istituzionale.

Natalia Ginzburg, con il suo Lessico famigliare che recuperava appunto le parole colloquiali e persino gli idioletti della propria famiglia, aveva vissuto in prima persona le imposizioni del fascismo, anche linguistiche, e nel suo romanzo si trovano riflessioni preziose sia su questo aspetto sia sulla delusione davanti alla nuova realtà post-fascista:

“Finita la guerra, l’iniziale euforia lascia il posto ad una nuova, faticosa, ricerca stilistica, in ragione del mutamento avvenuto nella realtà. […] Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano ritrovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; […] Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere che aveva, nella generale ubriachezza, dimenticato. E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all’ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla.”

In questo nuovo scenario postbellico che ci ha “inclusi” attraverso il Piano Marshall nella sfera americana dal punto di vista economico, politico, sociale e dunque linguistico, il post-sbronza della Ginzburg si chiama ormai hangover, e la moltiplicazioni di parole inglesi “prive di radici” si è radicata scalzando il nostro lessico familiare – ma anche letterario – sostituito da una lingua sempre più elitaria e oscura ai più veicolata proprio a partire dalle istituzioni, oltre che dai mezzi di informazione.

Il tema del lessico e della lingua, fu ripreso dalla scrittrice vent’anni dopo in un intervento pronunciato alla Camera a favore della trasparenza con queste parole:

“Le leggi dovrebbero essere fatte dello stesso linguaggio che si adopera per parlare dell’acqua e del pane: ma, d’altronde, l’oscurità, la tortuosità del linguaggio l’incontriamo spesso oggi non soltanto nei decreti-legge, ma anche nei romanzi e nei giornali. È sempre un linguaggio ricattatorio, intimidatorio, è il linguaggio che tacitamente dice al prossimo: «se non mi capisci, è perché sei imbecille»! E ancora tacitamente aggiunge: «Io sono più forte di te, sono in una sfera superiore alla tua, fra me e te corrono distanze incommensurabili. Io ho in mano il tuo destino e la tua vita, io sono tutto e tu non sei nulla»! […] Ma i giornali, i giornali dovrebbero essere chiari: la gente li compra e legge ogni giorno per sapere e capire che cosa succede, e devono essere chiari. E il linguaggio dei politici dovrebbe essere chiaro, accessibile a tutti, immediatamente intelligibile, limpido come uno specchio perché la gente vi si possa specchiare! I decreti-legge devono essere chiari. Fra le molte battaglie da combattere, una è certamente questa: la battaglia per un linguaggio chiaro, concreto, intelligibile a tutti, in rapporto diretto con le cose. Io credo che la vita del nostro paese diventerebbe migliore e più limpida se ognuno di noi si studiasse di vincere, almeno, intanto, l’oscurità del linguaggio, se si studiasse di indirizzarsi al prossimo con ogni parola, di non perdere mai di vista la realtà del prossimo, di non irriderlo, non truffarlo, non umiliarlo, non calpestarlo mai.”
[Camera dei Deputati. Assemblea, Resoconto stenografico. IX legislatura, 124° seduta, 7 aprile 1984, pp. 11767-11773).

Nel frattempo, la mancata chiarezza che calpesta, irride, umilia e truffa la gente, invece di rispecchiarne il linguaggio, non è svanita, ma si è evoluta, e avviene attraverso l’inglese.

Gli anglicismi e le parole-zombie

Oggi la comunicazione politica e giornalistica ha cambiato pelle rispetto agli anni Ottanta, ma invece di abbandonare l’oscurità e la prepotenza in nome di una lingua chiara, continua a perseguire e diffondere una nuova antilingua attraverso gli anglicismi e l’anglicizzazione: ticket sanitario, jobs act, cashback, flat tax, lockdown, smart working, spending review, caregiver, spoils system, whistleblowing… questa è la nuova lingua artificiale, questo è il nuovo lessico delle parole-cadaveri che però si vogliono far vivere e sostituire alla lingua storica, naturale e familiare come nell’incubo orwelliano. Dunque più che parole-cadaveri sono diventate parole-zombie, che si prescrivono e si fanno camminare a forza per affermarle dall’alto in modo artificiale fino a che non diventeranno per forza di cose naturali. L’itanglese prende vita in questo modo artificioso e lontano dal sentire e dal parlare della gente comune, che spesso viene esclusa da questa newlingua che discrimina larghe fasce della popolazione proprio mentre – in nome dell’inclusività e della lotta alla discriminazione – si mettono al bando parole storiche che si proclamano offensive, si farnetica sul maschile generico dichiarandolo sessista e prescrivendo lo scevà in una reintroduzione del neutro, facile e naturale per gli anglofoni, ma distruttivo del sistema linguistico di tutte le lingue neolatine. Questo strano modo di non discriminare è solo l’imposizione del pensiero unico di matrice angloamericana, che discrimina tutte le altre lingue e culture, e cancella il plurilinguismo per affermare il globalese.

Davanti a tutto ciò ci sono alcuni linguisti che si dichiarano “descrittivisti” che invece di comprendere ciò che è evidente, e che la Ginzburg aveva perfettamente colto e raccontato, ci vorrebbero fare credere che la lingua arriverebbe dal basso. Come se fossero incapaci di cogliere le differenze tra le parole strutturalmente italiane e quelle strutturalmente inglesi, questi signori sono pronti a dichiarare “italiane” le parole inglesi e a legittimare – senza preoccuparsi di quanti siano – migliaia di anglicismi sulla base delle loro frequenze giornalistiche e non certo in virtù della loro ben diversa struttura grammaticale che al contrario snatura la nostra. Per costoro – mi domando – se gli italiani cominciassero da un giorno all’altro a parlar tedesco, non ci sarebbe forse alcun problema? Correrebbero a proclamar italiane le parole tedesche? Non credo…

La verità è che sono soggiogati e compiaciuti servi dell’imperante anglomania linguistica figlia del nostro assoggettamento politico, culturale e sociale che avviene con le stesse logiche dei soggiogamenti coloniali, seppur con altre modalità che sostituiscono le conquiste militari con quelle culturali attraverso il potere morbido (detto appunto in inglese: soft power). L’attuale revisionismo linguistico viene fatto in nome dell’anglicizzazione e del politicamente corretto, che sono le due facce della stessa medaglia. Questo revisionismo, lontano dal parlare della gente, è una scelta politica che vuole educare la gente e imporre un ben preciso stilema linguistico calato dall’alto dai nuovi centri di potere.

La nuova censura linguistica

In un recente saggio di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, il Manifesto del libero pensiero (La Nave di Teseo, 2022) alcuni di questi aspetti sono ben smascherati e denunciati:

“La parola magica oggi è proprio inclusività, accompagnata sempre più spesso da sostenibilità, che si tratti di un concerto, di un’azienda e persino di un semplice vestito. Tuttavia è evidente che questa non è la strada per insegnare il rispetto delle ‘diversità’, tanto caro ai progressisti. Il rispetto si impara se si viene educati, da quando si nasce in famiglia. Senza bisogno di cancellare nulla del passato, che ci aiuta invece a pensare. Altro che cancel culture!

Come si legge nella presentazione del libro:

“La censura autoritaria di un tempo si è trasformata in un follemente corretto che piega la lingua alle mode del momento, tra parole innocenti messe sotto accusa e surreali neologismi ‘inclusivi’, e in una cultura della cancellazione che rilegge il passato con lo sguardo di oggi. Così, nella giungla di internet e della gogna globale che ha bandito l’ironia e il dialogo, dilaga un clima inquisitorio e intimidatorio imposto da autoproclamati custodi del Bene. (…) In un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra. Ma è un errore in entrambi i casi. Le idee e gli atteggiamenti che non ci piacciono si combattono con altre idee e modi di essere, non impedendo agli altri di esprimersi.”

Insomma, se un tempo la censura era considerata “di destra” e la libertà di espressione “di sinistra”, poiché la cultura dominante era considerata autoritaria e conservatrice “essere progressisti significa oggi anche diventare ‘legislatori del linguaggio’, cioè dettare le norme nell’uso delle parole.”

Secondo gli autori “siamo giunti nella inedita era della suscettibilità. Un esempio recente su tutti: l’OMS ha deciso di non chiamare le varianti Covid col nome del Paese in cui sono state individuate (Cina, India…), perché sarebbe ‘stigmatizzante e discriminatorio’. Meglio usare una lettera dell’alfabeto greco. E se i greci si offendessero?”

In questo “linguaggio imbavagliato” che si cela sotto il politicamente corretto (ma vorrei aggiungere: anche sotto l’inglese, benché gli autori forse non colgano come si tratti dello stesso fenomeno), a dare una mano alla nuova censura c’è anche l’informatica (che allo stesso tempo dà una mano agli anglicismi che impone e richiede): “Si installano persino nuovi strumenti di censura tecnologica fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare tutto ciò che può apparire lesivo di qualche sensibilità giudicata degna di protezione, naturalmente secondo la visione del mondo dominante.”

Per riallacciare anche queste riflessioni a quelle della Ginzburg da cui eravamo partiti, invece di mettere al bando una parola come cieco – considerata discriminante dai vedenti ipocriti, visto che l’unione ciechi la usa senza porsi questo problema – o invece di dissertare su quale etichetta appiccicare ai disabili, bisognerebbe eliminare seriamente le barriere architettoniche cittadine, per esempio; e invece di voler convincere a forza le donne che preferiscono definirsi “notaio” e “avvocato” che si devono femminilizzare linguisticamente, bisognerebbe che le donne avessero pari opportunità sociali, di stipendio e lavorative. Invece di criticare un presidente del Consiglio donna che non vuole essere chiamata “la presidente” – che andrebbe invece criticata per il suo operato politico molto discutibile – sarebbe più importante e meno ipocrita fare in modo che ci siano sempre più ministri, sindaci e presidenti donna, e se preferiscono il maschile generico chissenefrega. E forse sarebbe ora di interrogarsi se sia più discriminate cieco, spazzino o bidello, e ogni tipo di parolaccia, o le parole inglesi che prendono il sopravvento quasi ovunque. Ma i fanatici del politicamente corretto e allo stesso tempo degli anglicismi sembrano più interessati a condannare il body shaming o il whitewashing introducendo l’inglese invece di rivolgersi agli italiani nella loro lingua denunciando in modo chiaro e comprensibile a tutti la derisione fisica o il razzismo dei film hollywoodiani che sostituiscono con attori bianchi e fighetti i ruoli che nella storia dovrebbero essere interpretati da chi è di una diversa etnia o razza. Ma anche la parola razza viene attualmente messa al bando, come se fosse questo il modo di nascondere sotto al tappeto (linguistico) il razzismo, e come se il “senza distinzione di sesso e di razza” presente nella nostra Costituzione e nelle principali dichiarazioni internazionali dei diritti dell’uomo fosse discriminatorio, invece di sancire la parità di tutti.

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