Di Antonio Zoppetti
Nel 1796, uno scalcinato esercito di meno di 40.000 soldati guidati dal giovane e ancora inesperto generale Napoleone partì da Nizza per attaccare i piemontesi e gli austriaci che occupavano la Lombardia. La campagna della cosiddetta Armata d’Italia doveva essere solo un diversivo per spostare la guerra in territorio austriaco, ma si trasformò in un successo inaspettato dirompente. Di vittoria in vittoria il generale entrò presto a Milano, salutato in modo trionfale come “liberatore”, mentre gli austriaci ripiegarono verso il Trentino. L’arrivo di Bonaparte non era vissuto come un’invasione, ma come l’esportazione degli ideali rivoluzionari che avrebbero condotto l’Italia alla tanto agognata unificazione, liberandoci dalle ingerenze e dalle occupazioni delle altre monarchie europee conservatrici.
Un analogo sentimento l’abbiamo visto in tempi più recenti, con lo sbarco degli Americani che ci liberavano dal fascismo, ma che allo stesso tempo erano destinati a conquistarci non più militarmente, ma da un punto di vista politico, economico, culturale e sociale.
I territori conquistati-liberati da Napoleone in tutto il Paese si configurarono come “repubbliche sorelle” della Francia, che in Italia erano chiamate le “Repubbliche giacobine”, e nel 1802 confluirono nella Repubblica Italiana con capitale a Milano. Due anni dopo, però, Napoleone si incoronò imperatore di Francia, e in questa svolta che restaurava il potere assoluto, nel 1805 anche le repubbliche italiane confluirono nel Regno d’Italia di cui Bonaparte divenne il re.
Davanti a questo sconvolgimento geopolitico gli italiani si divisero: Napoleone era davvero un continuatore della svolta della Rivoluzione e liberatore dalla dominazione austriaca che unificava l’Italia o era invece un restauratore del potere assoluto, ennesimo conquistatore e saccheggiatore delle opere d’arte italiane?
Questa stessa duplice interpretazione riguardava anche la sua politica linguistica che puntava alla francesizzazione del nostro Paese.
La politica linguistica di Napoleone
La prima legge in proposito del 1803 introdusse il francese negli atti pubblici. All’epoca solo il Piemonte era stato annesso alla Francia, e la lingua francese fu adottata nei tribunali, nelle amministrazioni e anche nella scuola. Negli anni seguenti, lo stesso criterio di ufficializzazione del francese fu esteso agli altri dipartimenti italiani, e subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1806 fu emanato un Codice civile redatto in italiano e in francese, seguito da varie altre disposizioni governative in tema di lingua. Nonostante le disposizioni sulla carta, tra le teoria e la pratica ci fu però un notevole scarto e, poiché l’applicazione poneva problemi burocratici e richiedeva tempo, ci furono infinite proroghe un po’ ovunque a quelle direttive, che di fatto rallentarono e ostacolarono la politica linguistica francofona.
Ciononostante, i francesi sapevano bene quali fossero gli assi strategici dell’esportazione della loro lingua, visto che erano una potenza coloniale, e accanto all’amministrazione, anche la conquista della scuola era altrettanto fondamentale, ma di nuovo i problemi da risolvere erano tanti, a cominciare dalla formazione degli insegnanti.
In Piemonte la francesizzazione era più fattibile, visto che quella lingua era molto diffusa e che i Savoia avevano forti legami storici con la Francia e anche con la sua lingua. Già dal 1802 l’insegnamento del francese era stato introdotto nelle scuole primarie e secondarie, e nel liceo di Torino divenne anche la lingua dell’insegnamento, benché da alcuni sondaggi voluti da Napoleone sulla comprensione del francese risultava che la lingua veramente diffusa era il dialetto; spiccava sull’italiano persino tra le classi sociali più elevate che lo leggevano ma non lo parlavano abitualmente, e quando dovevano metterlo in pratica lo facevano con molte difficoltà e incertezze.
In un rapporto del prefetto del dipartimento del Po Loysel al direttore dell’istruzione pubblica, nel 1804, si leggeva che due anni dopo l’introduzione del francese nelle scuole, di fatto gli alunni avevano delle difficoltà a impararlo, perché in famiglia erano abituati a parlare in piemontese. Dunque, per ottenere dei risultati concreti, il francese avrebbe dovuto essere impartito sin dai primi anni di scuola. Se questa era la situazione nella zona più francofona del Paese, nelle altre parti d’Italia l’adozione del francese poneva problemi ancora maggiori, sia nelle amministrazioni sia nelle scuole dove i decreti che lo introducevano non incontravano solo ostacoli culturali, ma anche strutturali.
Napoleone, però, se da una parte puntava alla francesizzazione dell’Italia, dall’altra parte sembrava farlo in modo rispettoso, senza la volontà di cancellare l’italiano, almeno dove era consolidato. Un decreto del 1809 sancì un’eccezione alla politica linguistica imperiale riconoscendo un “privilegio” nel Gran Ducato di Toscana, che consentiva di mantenere la propria lingua se non negli atti pubblici in generale, almeno nei tribunali, negli atti notarili e nelle scritture private. E questo avveniva perché in quella regione si parlava l’italiano più perfetto e puro, che altrove non era invece ancora consolidato. Il decreto istituiva allo stesso tempo un “premio annuale di 500 napoleoni (…) per gli autori le cui opere contribuiranno nel modo più efficace a mantenere la lingua italiana nella sua purezza.” Con questo spirito, nel 1811 Napoleone ricostituì l’Accademia della Crusca che trent’anni prima Leopoldo de’ Medici aveva sciolto, e nel rifondarla come ente autonomo le affidava l’assegnazione del premio istituito, la missione di conservare la purità della lingua, e il compito di occuparsi della quinta edizione del Vocabolario della lingua italiana.
Nonostante il riconoscimento e la valorizzazione dell’italiano si potesse leggere come la prova più evidente che non ci fosse alcuna volontà di imporre la lingua dei conquistatori ai conquistati, nel complesso, però, sulla politica napoleonica prevalsero i pareri negativi, e per molti rappresentava una minaccia che si intrecciava con quella della solita dominazione straniera. E i dibattiti furono molto vivaci.
La lingua come strumento di potere morbido
Il francese, già da tempo lingua dominante, conobbe in quegli anni una forte espansione. Nel 1796, Napoleone aveva eliminato ogni restrizione che limitava la libertà di stampa, il che determinò un’esplosione di nuovi periodici e riviste. Nel moltiplicarsi, questi giornali talvolta alternavano articoli in italiano ad altri direttamente in francese per raggiungere un pubblico internazionale e più ampio. Ma anche i pezzi in italiano erano spesso improntati alla diffusione della cultura francese, soprattutto del teatro o dei libri. Mettere in risalto i prodotti culturali francesi e la celebrazione della loro grandeur era funzionale anche alla diffusione della lingua, che a sua volta era strategica per la francesizzazione culturale. Qualche secolo prima era successo qualcosa del genere anche con la dominazione spagnola, che aveva favorito la circolazione di molte opere nella lingua dei conquistatori, da Cervantes alle grammatiche. In modo ben più consistente, in epoca napoleonica uscirono decine di grammatiche francesi, che si rivolgevano non solo alle scuole, ma a chiunque volesse apprendere agilmente la lingua.
Oggi avviene qualcosa di simile, ma con ordini di grandezza superiori, con la diffusione dell’inglese e con la celebrazione dell’egemonia culturale d’oltreoceano che permea l’intero panorama mediatico e culturale, dai film alla tv, dall’intrattenimento a internet. La differenza è che tutto ciò è oggi accettato in modo acritico con entusiasmo, mentre nell’Ottocento la polemica nei confronti della cultura e della lingua francese era accesissima.
Con spirito patriottico, un’ondata di intellettuali si scatenò contro la supremazia del francese, e nel 1810 il conte piemontese Carlo Vidua, in un carteggio con il torinese Cesare Balbo che a quei tempi era un funzionario napoleonico, discuteva su quale lingua scegliere per comporre un’opera storica che Balbo intendeva scrivere:
Resta la lingua da scegliere. Ma che potrò io dirti, che tu già non comprenda? Dirotti io, che per la tua carriera hai bisogno di studiar a fondo la Francese? Questa è la verità, che non solo tu capisci; ma che ti muove al segno di abbandonare la più bella lingua e la tua per lei. (Lettera n° 51 Al Sig, Cesare Balbo del 12 luglio 1810 in Lettere di Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo, Torino, Giuseppe Pomba 1834, 3 voll., vol I, p. 174).
Vidua perorava in modo sentito la causa dell’italiano, pur comprendendo che il francese era strategico per Balbo, perché per un uomo nella sua posizione quella lingua era diventato un requisito per accedere alle cariche amministrative e far carriera. Ma non poteva credere che l’amico patriota volesse davvero abbandonare la propria lingua per “una straniera, ed a quale!”.
Oggi è l’inglese a essere strategico per chi vuol far carriera nel lavoro e in ogni altro ambito, e quando uno scienziato decide di pubblicare le sue ricerche in inglese lo fa anche perché, se pubblicasse in italiano il suo articolo non sarebbe altrettanto considerato né letto. Eppure nessuno sembra mettere in discussione i risvolti negativi di questa prassi e di queste scelte, anzi, l’abbandono dell’italiano in favore dell’inglese internazionale viene salutato come un fatto positivo, a partire dalle università che cancellano i corsi in italiano per insegnare direttamente in inglese.
Carlo Denina
A fine Settecento, il letterato piemontese Carlo Denina, noto anche come l’abate di Rovello, auspicava che il francese prendesse il posto del latino nell’educazione religiosa, nella scuola e nell’amministrazione dei Savoia. Ma nel 1803, in piena era napoleonica, si spinse ben oltre, e arrivò a mettere in discussione persino l’italiano nella sua interezza in favore della lingua di Molière che avrebbe potuto unificare linguisticamente il nostro Paese in modo per lui più vantaggioso. In un Discorso sull’uso della lingua francese, l’introduzione ufficiale di quella lingua nello Stato era considerata propedeutica anche a una diffusione della stessa lingua sul piano nazionale e letterario:
Io non dubito (…) che la riunione del Piemonte alla Francia, e l’ordine venuto in seguito di usare negli atti pubblici la lingua francese in vece dell’italiana, debba anche cangiar tosto o tardi la lingua letteraria del paese. (…) Cotesto cangiamento di lingua sarà molto più vantaggioso che nocevole. Passato che sia quel turbamento, quel disturbo che arrecar deve nel primo arrivo, io tengo per cosa certissima che i nostri nipoti scriveranno in francese più facilmente assai che i nostri antenati e contemporanei abbiano potuto fare scrivendo in italiano.
Per fare in modo che il francese prendesse il posto dell’italiano, ancora una volta era necessario partire dalla scuola.
Oggi i linguisti “descrittivisti” che hanno rinunciato a intervenire sulla lingua – a parte regolamentare la femminilizzazione delle cariche o il politicamente corretto, che evidentemente sono interventi leciti – ci raccontano la favola che le lingue nascono dal basso, che non è possibile controllarle e altre strampalate affermazioni avulse dalla storia e dalla realtà. Dunque fanno finta di non vedere che l’attuale regressione dell’italiano è connessa all’espansione dell’inglese globale, e dipende anche dalle nuove politiche linguistiche di cui negano l’esistenza.
Infatti l’Europa da qualche decennio ha deciso di investire milioni di euro per creare le generazioni bilingui a base inglese, e di introdurlo nelle scuole a partire dai primi anni, come tutti sapevano bene fosse essenziale già nel Settecento. Questo metodo di evangelizzazione inguistica ben spiegato dal prefetto del dipartimento del Po, Loysel, si attua oggi nei confronti dell’inglese, in una svolta che risale alla riforma Moratti ai tempi delle famose tre “i” di Berlusconi (Internet, Impresa, Inglese) divenute la parola d’ordine da introdurre nelle scuole. La riforma Gelmini del 2008 ha ampliato il numero di ore di inglese e nel 2010 ha trasformato la conoscenza di questa lingua in un requisito anche per la formazione degli insegnanti che devono saperla, indipendentemente dalla disciplina che insegnano, a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge. Dalla scuola si è poi passati ai concorsi per la pubblica amministrazione: se in un primo tempo era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, con la riforma Madia l’espressione è stata sostituita con la “lingua inglese”, che è diventata obbligatoria; chi non la sa non può accedere ai concorsi, anche se esula dalle sue competenze lavorative, e anche se conosce altre lingue che non godono però di un analogo riconoscimento.
Il controllo della scuola
Nell’Ottocento, l’ascesa di Napoleone fu solo una meteora durata meno di un decennio. Nel 1815 arrivò la Restaurazione che riportò l’Italia alla situazione precedente, con il ritorno degli austriaci in Lombardia, e la disgregazione del Paese nei precedenti staterelli. La francesizzazione era fallita, ammesso che fosse stato possibile realizzarla, e l’italiano tornò in auge, anche se la gente parlava nel proprio dialetto e non c’era affatto un modello di italiano condiviso.
All’indomani dell’unità d’Italia del 1861, visto che l’italiano doveva essere introdotto in modo ufficiale, e in qualche modo insegnato e regolamentato in modo uniforme, fu istituita la Commissione Broglio, con il coinvolgimento di Alessandro Manzoni, per tentare di varare una politica linguistica che introducesse l’italiano proprio a partire dalle scuole. Manzoni e Broglio avrebbero voluto toscanizzare tutti a forza, con un programma di soggiorni studio degli insegnanti a Firenze, e l’invio di maestri toscani per il Paese che facessero scuola. Questa soluzione fu avversata da altri, qualcuno parlò di “dittatura del toscano” e vedeva in quella politica una sorta di progetto coloniale. Anche l’idea di un dizionario ufficiale di Stato fallì, perché non c’era un accordo su quale fosse il modello dell’italiano unitario da diffondere.
Nel frattempo, nel secondo Novecento, l’italiano unitario si è realizzato, sotto la spinta dell’industrializzazione dell’avvento del sonoro di cinema, radio e televisione, oltre che grazie alla scuola. Ma oggi le università puntano all’abbandono dell’italiano per insegnare direttamente in inglese, la stessa scelta che fanno gli scienziati. Se le riviste ai tempi di Napoleone puntavano alla diffusione della cultura e della lingua francese, oggi i mezzi di informazione celebrano la grandeur della nuova cultura Americana, che però è un sistema ben più pervasivo della conquista napoleonica, nel nuovo scenario di Internet, della globalizzazione e del nostro essere inglobati nell’anglosfera dal punto di vista politico, culturale, sociale, militare e in ogni altro aspetto.
La politica di Broglio-Manzoni fu duramente avversata e messa in discussione, per esempio dal glottologo Isaia Ascoli che si appellava alla malsana idea della “selezione naturale”, invece di una politica linguistica a cui era contrario. E la sua polemica con Manzoni sollevò un vespaio che per decenni infuocò letterati, intellettuali, linguisti, patrioti, editori, librettisti e l’intero Paese.
Oggi invece, davanti all’anglicizzazione dell’italiano che ha reso il modello toscano un ricordo del passato, e davanti all’anglificazione della scuola, tutto tace. Non c’è alcuna resistenza né consapevolezza del fatto che si tratta di un progetto coloniale. La nuova classe dirigente dei figli di Denina ha sposato l’inglese, a quanto pare. Sul piano interno gli anglicismi vengono preferiti e legittimati, e su quello internazionale si difende la soluzione dell’inglese, in un appiattimento culturale di accettazione del globish che arriva dall’interno, davanti al quale la visione coloniale di Napoleone era un progetto da principianti. E dietro la bufala della selezione naturale si cela una ben precisa politica linguistica anglofila che non può che favorire la lingua del più forte e la regressione dell’italiano.
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