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Europeismi e forestierismi: la lezione del Leopardi linguista che non dovremmo dimenticare


Di Antonio Zoppetti

Un tempo molti grandi scrittori – da Dante sino a Manzoni o Leopardi – erano anche linguisti, nel senso che avevano una ben precisa idea di cose fosse per loro l’italiano, e nello scrivere o nel poetare la mettevano in pratica, partecipando ai dibattiti sull’eterna questione della lingua anche da un punto di vista teorico.

Lo Zibaldone, per esempio, è pieno di interessantissime riflessioni linguistiche di grande spessore e modernità, in cui si ritrovano spunti attualissimi, a proposito dei forestierismi e dell’interferenza del francese, che era all’epoca la lingua dominante in Europa almeno quanto oggi lo è l’angloamericano. E il pensiero del Leopardi linguista contiene delle speculazioni utili anche per valutare e comprendere l’attuale interferenza dell’inglese, pur con le grandi differenze storiche che nel frattempo sono sopraggiunte.

Quella più macroscopica sta nel fatto che all’inizio dell’Ottocento l’italiano non era ancora una lingua unitaria, ma solo una lingua letteraria impiegata da secoli per scrivere, ma che non esisteva nel parlare, visto che le masse si esprimevano nei propri dialetti.

Nello Zibaldone questa situazione è raccontata in modo molto chiaro: mentre il francese era una lingua “unica” – cioè unificata sotto l’egida di uno Stato nazionale che noi non avevamo – l’italiano era definito come un “aggregato” o “complesso di lingue” più che una sola. Anche se la nostra lingua era particolarmente amata all’estero, ciò derivava dal fatto che “gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana scritta, se non l’antica” perché una lingua italiana media non esisteva fuori dalla letteratura di Dante o Boccaccio, mentre la letteratura moderna non aveva avuto un analogo successo internazionale, non era ancora “formata, riconosciuta e propria”.

Dunque l’italiano era allora una lingua di classe, “la lingua scritta degli scrittori” che differiva dalla parlata “più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo.” Questo italiano scritto era basato sul toscano o il fiorentino dei grandi classici, che i puristi e il Vocabolario della Crusca avevano fissato come il canone da seguire, ma non coincideva con le parlate moderne dei toscani, era una lingua un po’ arcaica e artificiale, che se ne differenziava.

I puristi e i cruscanti ammettevano solo le parole dei classici del passato, ma una lingua moderna ha bisogno continuamente di creare nuove parole, sottolineava Leopardi, e il modello teorizzato dal purismo rendeva l’italiano qualcosa di arcaico, una lingua vecchia dove il guardare al passato rappresentava un impoverimento:

“Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte (…) ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere”.

Da questi presupposti arrivava a riflessione sul ruolo dell’interferenza delle lingue straniere, che era lucidamente analizzata nelle sue componenti positive e negative, con argomentazioni inoppugnabili che pare che i linguisti moderni abbiano dimenticato, e che dovremmo invece tenere ben presenti a proposito dell’attuale interferenza dell’inglese, se non vogliamo che sia distruttiva, e che invece di arricchirci finisca con l’impoverirci.

Il francese come modello di svecchiamento dell’italiano

Nel Settecento si era radicata l’idea che il francese fosse una lingua ben più adatta alla chiarezza dell’italiano anche dal punto di vista dello stile, cioè del periodare e della sintassi, perché seguiva l’ordine soggetto-predicato-complementi che veniva considerato più lineare rispetto alla prosa in italiano dove le collocazioni erano meno rigide e più libere, e spesso dominavano le costruzioni arcaiche, tipiche della lingua di Boccaccio che a sua volta ricalcava lo stile dell’ipotassi latina, dove il verbo era collocato a fine frase. I puristi difendevano questi modelli che dominavano soprattutto nella poesia e tra i classicisti, ma chi voleva essere più lineare e moderno seguiva invece il modello del francese, più semplice ed efficace soprattutto per ragionare, filosofeggiare, scrivere articoli di giornale o scientifici.

Leopardi era favorevole a ricalcare il periodare francese in italiano e a farlo divenire un modello di svecchiamento dell’italiano. E criticava chi invece preferiva scrivere direttamente in francese, per porsi come internazionale:

“Se gl’italiani (…) conversassero non in francese ma in italiano, essi ben presto riuscirebbero a dare alla loro lingua le parole e qualità equivalenti a quelle della francese in questo genere, (…) riuscirebbero a creare un linguaggio sociale italiano tanto polito, raffinato, pieghevole e ricco e gaio ec. quanto il francese, non però francese, ma proprio e nazionale. E in questo si potrebbe ben tradurre allora il linguaggio francese o scritto o parlato, che oggi non traduciamo, ma trascriviamo”.

Questo svecchiamento non riguardava soltanto lo stile e la prosa, ma anche il lessico. Mentre i puristi respingevano le parole nuove, quelle tecnico-scientifiche, quelle non toscane o di origine straniera definite come “barbarismi” e voci “infranciosate”, Leopardi aveva una visione ben più moderna e precisa, in proposito. E la netta linea di confine che distingueva l’imbarbarimento di una lingua dalla sua più sana evoluzione stava nell’adattamento e nel non violare “l’indole” di una lingua (che nel Settecento era spesso indicato attraverso un francesismo che proveniva dalle speculazioni degli illuministi: il genio della lingua).

“Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè se noi usassimo p.e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero all’eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p.e. nell’italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p.e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture”.

La differenza con gli approcci puristici stava dunque in questa semplicissima e chiarissima considerazione che molti linguisti moderni hanno rimosso, visto che come i puristi di una volta fanno di tutta l’erba un fascio e una gran confusione. Spesso parlano di forestierismi – che però ormai coincidono quasi esclusivamente con le parole inglesi – senza distinguere le parole adattate da quelle crude; come se una parola come “resilienza” (che deriva dall’inglese, ma è italiana nella forma) e “governance” (che al contrario di “governanza” è in inglese crudo) fossero la stessa cosa e avessero lo stesso impatto. E così, se parecchi linguisti danno del “purista” a chi denuncia la moltiplicazione selvaggia di espressioni in inglese crudo, sono invece loro a fare come i puristi, quando considerano gli anglicismi adattati e non adattati in un’unica categoria. E bisognerebbe ricordar loro che l’idea di adattare e di non violare l’indole della nostra lingua apparteneva proprio ai più grandi oppositori del purismo di ogni epoca: da Muratori a Cesarotti, dai fratelli Verri a Leopardi… chi riconosceva ed era favorevole all’arricchimento che proviene dalle lingue straniere non si sarebbe mai sognato di legittimare l’adozione di forestierismi crudi che possiedono un’altra forma e un’altra pronuncia rispetto all’italiano basato sul toscano.

Leopardi, come gli altri autori citati, insisteva sul fatto che persino il padre dell’italiano aveva fiorentinizzato in un’unica lingua uniforme parole regionali, latine e straniere, rendendole a questo modo perfettamente italiane:

“E p.e. di Dante, si vede chiaramente ch’egli si studiò di parlare a’ suoi compatrioti co’ modi e vocaboli provenzali, a cagione che la nazion provenzale era allora la più colta, ed aveva una specie di letteratura, abbastanza nota in Italia, e che rendeva la lingua provenzale così domestica agl’italiani colti, che le sue parole o frasi, italianizzandole, non erano enigmi per loro, e così poco volgare che le dette voci e frasi non erano ordinariamente nella loro bocca (come non lo sono ora le latine che p.e. i poeti derivano di nuovo nell’italiano, e che tutti intendono)”.

Gli europeismi di Leopardi: il modo più sano per essere internazionali

Leopardi distingueva chiaramente le paroledai termini. Le prime “non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie (…). Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti.” Se le parole sono caratterizzate da una certa elasticità, possiedono tanti significati a seconda dei contesti e oltre a designare un oggetto o concetto possiedono una connotazione, diremmo in termini moderni, i termini sono invece neutri e univoci. Per il poeta di Recanati, in linea di massima, “quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole”. E il francese, la lingua allora internazionale, nel suo essere chiaro e adatto all’esposizione per esempio scientifica, filosofica o argomentativa, correva anche dei grossi rischi: “Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benché questo la rende facile e comune, perch’è la lingua più artifiziale e geometricamente nuda ch’esista oramai.”

Il francese internazionale – oggi rimpiazzato dall’inglese – possedeva dunque elementi di chiarezza molto positivi, ma allo stesso tempo rischiava di diventare una lingua un po’ piatta e sterile fuori da questi impieghi.

Venendo alla lingua per esempio della scienza o della filosofia, Leopardi notava che ormai esisteva una terminologia europea:

“Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia (…) Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene. (…) Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale.” Questi termini possedevano degli elementi di modernità e chiarezza molto utili, e l’Italia non doveva porsi al di fuori di questa tendenza.

“Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne (…). Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa, debba esserlo (…) anche per l’Italia, che sta pure nel mezzo d’Europa. (…) Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi.”

Questi europeismi di cui veniva esaltata l’importanza non erano come gli anglicismi crudi che oggi sono proclamati “internazionalismi”, erano radici comuni che spesso arrivavano dal francese, ma anche dalle radici soprattutto greche, oltre che latine, che si utilizzavano per coniare nuovi termini scientifici. E queste radici comuni e comprensibili a tutti gli europei venivano adattate nelle desinenze e nella pronuncia secondo l’indole di ogni lingua, dunque erano un arricchimento che non imbarbariva le lingue locali, ma al contrario le arricchiva.

Leopardi avrebbe addirittura voluto creare un vocabolario di questi europeismi, e tra questi c’erano parole come egoismo, immaginazione, fantasia, e ancora:

Genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè i puristi le scartano”. E invece, “sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte. (…) Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l’Europa, lo sarebbe massimamente all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l’Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz’averne alcuna da surrogar loro. E la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll’adottarle, tutte le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l’italiano non fosse Europeo”.

In questa visione europeista ante litteram – intorno al 1821 quando il poeta scriveva queste cose l’Italia politica non esisteva affatto – l’italiano avrebbe dovuto ancorarsi agli europeismi, invece di guardare solo al modello dei puristi, e davanti a un europeismo come commercio, per esempio, avrebbe fatto meglio a impiegarlo, invece di ricorrere ad analoghe voci storiche esistenti come per esempio mercatura o traffico, proprio in nome di un internazionalismo che rendeva comprensibile una voce perfettamente italiana come “commercio” a tutta l’Europa.

Dagli europeismi al globish

Oggi l’interferenza dell’inglese globale non è paragonabile, a quella del francese dei tempi d’oro. Leopardi aveva individuato molto bene anche che il ruolo delle lingue dominanti dipendeva da motivazioni coloniali, e la presunta “universalità” di una lingua deriva dal fatto da essere parlata “in molte parti del mondo”, oltre che nei confini nazionali, e “nell’essere anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli che la parlano naturalmente, sia coll’abolire la lingua dei vari paesi (…), sia coll’alterarla o corromperla più o meno per mezzo della mescolanza”.

L’italiano, da allora, è ormai diventato unitario, ed è una lingua naturale. E l’inglese, nel frattempo, ha scalzato il francese come lingua internazionale che veicola tutta la nuova terminologia. Ma penetrando in modo crudo, determina il sorgere dell’itanglese, del franglais, del Denglisch e via dicendo. Tutto ciò è causato da una mentalità provinciale per cui gli anglomani ritengono l’inglese la nuova lingua internazionale prestigiosa, e questo fenomeno si intreccia con l’espansione neocoloniale della lingua dei mercati e delle multinazionali. Spesso qualche linguista se ne esce con affermazioni per cui “adattare” non sarebbe più di moda, ma questo è semplicemente falso: non si adatta l’inglese perché è considerata una lingua superiore da non snaturare. E infatti molti linguisti che sostengono che il nuovo italiano policentrico non si basa più sul toscano e accoglie molte parole di provenienza anche regionale, non la raccontano tutta. È vero, per esempio, che una parola veneta come giocattolo ha avuto la meglio sul toscano balocco, ma quello che non si spiega è che nel vernacolo di partenza era “zugatolo,” cosi come in milanese c’era il “panetun” (o “paneton”) poi italianizzato in “panettone”. Dunque, nel suo diventare policentrico, l’italiano aperto ai regionalismi allo stesso tempo li addomestica, più che recepirli con le proprie caratteristiche. In sintesi le parole dialettali si adattano istintivamente all’indole dell’italiano – come dovrebbe essere naturale nelle lingue sane – e vengono in questo modo assimilate, mentre quelle inglesi vissute come più prestigiose penetrano quasi sempre in modo crudo.

Ma non fare altro che importare anglicismi crudi non può che portare alla regressione dell’italiano che Leopardi – e tutti gli altri illuminati avversari del purismo – denunciavano.

Per essere davvero “internazionali” ci converrebbe invece seguire l’europeismo leopardiano, e cioè adattare le voci internazionali – inglesi e di ogni altro idioma – all’indole delle lingue locali. E invece di importare parole come lockdown o creare pesudoanglicismi con smart working, ci converrebbe legarci alle soluzioni delle nostre lingue sorelle e parlare di confinamento o di telelavoro esattamente come fanno in Francia o in Spagna. La via indicata da Leopardi, che è stata dimenticata, è invece l’unica via che permetterebbe all’italiano, e a tutte le altre lingue europee, di crescere senza snaturarsi e di mantenere, e creare, una forte coesione.

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Di Antonio Zoppetti

Nel 1796, uno scalcinato esercito di meno di 40.000 soldati guidati dal giovane e ancora inesperto generale Napoleone partì da Nizza per attaccare i piemontesi e gli austriaci che occupavano la Lombardia. La campagna della cosiddetta Armata d’Italia doveva essere solo un diversivo per spostare la guerra in territorio austriaco, ma si trasformò in un successo inaspettato dirompente. Di vittoria in vittoria il generale entrò presto a Milano, salutato in modo trionfale come “liberatore”, mentre gli austriaci ripiegarono verso il Trentino. L’arrivo di Bonaparte non era vissuto come un’invasione, ma come l’esportazione degli ideali rivoluzionari che avrebbero condotto l’Italia alla tanto agognata unificazione, liberandoci dalle ingerenze e dalle occupazioni delle altre monarchie europee conservatrici.

Un analogo sentimento l’abbiamo visto in tempi più recenti, con lo sbarco degli Americani che ci liberavano dal fascismo, ma che allo stesso tempo erano destinati a conquistarci non più militarmente, ma da un punto di vista politico, economico, culturale e sociale.

I territori conquistati-liberati da Napoleone in tutto il Paese si configurarono come “repubbliche sorelle” della Francia, che in Italia erano chiamate le “Repubbliche giacobine”, e nel 1802 confluirono nella Repubblica Italiana con capitale a Milano. Due anni dopo, però, Napoleone si incoronò imperatore di Francia, e in questa svolta che restaurava il potere assoluto, nel 1805 anche le repubbliche italiane confluirono nel Regno d’Italia di cui Bonaparte divenne il re.

Davanti a questo sconvolgimento geopolitico gli italiani si divisero: Napoleone era davvero un continuatore della svolta della Rivoluzione e liberatore dalla dominazione austriaca che unificava l’Italia o era invece un restauratore del potere assoluto, ennesimo conquistatore e saccheggiatore delle opere d’arte italiane?

Questa stessa duplice interpretazione riguardava anche la sua politica linguistica che puntava alla francesizzazione del nostro Paese.

La politica linguistica di Napoleone

La prima legge in proposito del 1803 introdusse il francese negli atti pubblici. All’epoca solo il Piemonte era stato annesso alla Francia, e la lingua francese fu adottata nei tribunali, nelle amministrazioni e anche nella scuola. Negli anni seguenti, lo stesso criterio di ufficializzazione del francese fu esteso agli altri dipartimenti italiani, e subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1806 fu emanato un Codice civile redatto in italiano e in francese, seguito da varie altre disposizioni governative in tema di lingua. Nonostante le disposizioni sulla carta, tra le teoria e la pratica ci fu però un notevole scarto e, poiché l’applicazione poneva problemi burocratici e richiedeva tempo, ci furono infinite proroghe un po’ ovunque a quelle direttive, che di fatto rallentarono e ostacolarono la politica linguistica francofona.

Ciononostante, i francesi sapevano bene quali fossero gli assi strategici dell’esportazione della loro lingua, visto che erano una potenza coloniale, e accanto all’amministrazione, anche la conquista della scuola era altrettanto fondamentale, ma di nuovo i problemi da risolvere erano tanti, a cominciare dalla formazione degli insegnanti.

In Piemonte la francesizzazione era più fattibile, visto che quella lingua era molto diffusa e che i Savoia avevano forti legami storici con la Francia e anche con la sua lingua. Già dal 1802 l’insegnamento del francese era stato introdotto nelle scuole primarie e secondarie, e nel liceo di Torino divenne anche la lingua dell’insegnamento, benché da alcuni sondaggi voluti da Napoleone sulla comprensione del francese risultava che la lingua veramente diffusa era il dialetto; spiccava sull’italiano persino tra le classi sociali più elevate che lo leggevano ma non lo parlavano abitualmente, e quando dovevano metterlo in pratica lo facevano con molte difficoltà e incertezze.

In un rapporto del prefetto del dipartimento del Po Loysel al direttore dell’istruzione pubblica, nel 1804, si leggeva che due anni dopo l’introduzione del francese nelle scuole, di fatto gli alunni avevano delle difficoltà a impararlo, perché in famiglia erano abituati a parlare in piemontese. Dunque, per ottenere dei risultati concreti, il francese avrebbe dovuto essere impartito sin dai primi anni di scuola. Se questa era la situazione nella zona più francofona del Paese, nelle altre parti d’Italia l’adozione del francese poneva problemi ancora maggiori, sia nelle amministrazioni sia nelle scuole dove i decreti che lo introducevano non incontravano solo ostacoli culturali, ma anche strutturali.

Napoleone, però, se da una parte puntava alla francesizzazione dell’Italia, dall’altra parte sembrava farlo in modo rispettoso, senza la volontà di cancellare l’italiano, almeno dove era consolidato. Un decreto del 1809 sancì un’eccezione alla politica linguistica imperiale riconoscendo un “privilegio” nel Gran Ducato di Toscana, che consentiva di mantenere la propria lingua se non negli atti pubblici in generale, almeno nei tribunali, negli atti notarili e nelle scritture private. E questo avveniva perché in quella regione si parlava l’italiano più perfetto e puro, che altrove non era invece ancora consolidato. Il decreto istituiva allo stesso tempo un “premio annuale di 500 napoleoni (…) per gli autori le cui opere contribuiranno nel modo più efficace a mantenere la lingua italiana nella sua purezza.” Con questo spirito, nel 1811 Napoleone ricostituì l’Accademia della Crusca che trent’anni prima Leopoldo de’ Medici aveva sciolto, e nel rifondarla come ente autonomo le affidava l’assegnazione del premio istituito, la missione di conservare la purità della lingua, e il compito di occuparsi della quinta edizione del Vocabolario della lingua italiana.

Nonostante il riconoscimento e la valorizzazione dell’italiano si potesse leggere come la prova più evidente che non ci fosse alcuna volontà di imporre la lingua dei conquistatori ai conquistati, nel complesso, però, sulla politica napoleonica prevalsero i pareri negativi, e per molti rappresentava una minaccia che si intrecciava con quella della solita dominazione straniera. E i dibattiti furono molto vivaci.

La lingua come strumento di potere morbido

Il francese, già da tempo lingua dominante, conobbe in quegli anni una forte espansione. Nel 1796, Napoleone aveva eliminato ogni restrizione che limitava la libertà di stampa, il che determinò un’esplosione di nuovi periodici e riviste. Nel moltiplicarsi, questi giornali talvolta alternavano articoli in italiano ad altri direttamente in francese per raggiungere un pubblico internazionale e più ampio. Ma anche i pezzi in italiano erano spesso improntati alla diffusione della cultura francese, soprattutto del teatro o dei libri. Mettere in risalto i prodotti culturali francesi e la celebrazione della loro grandeur era funzionale anche alla diffusione della lingua, che a sua volta era strategica per la francesizzazione culturale. Qualche secolo prima era successo qualcosa del genere anche con la dominazione spagnola, che aveva favorito la circolazione di molte opere nella lingua dei conquistatori, da Cervantes alle grammatiche. In modo ben più consistente, in epoca napoleonica uscirono decine di grammatiche francesi, che si rivolgevano non solo alle scuole, ma a chiunque volesse apprendere agilmente la lingua.

Oggi avviene qualcosa di simile, ma con ordini di grandezza superiori, con la diffusione dell’inglese e con la celebrazione dell’egemonia culturale d’oltreoceano che permea l’intero panorama mediatico e culturale, dai film alla tv, dall’intrattenimento a internet. La differenza è che tutto ciò è oggi accettato in modo acritico con entusiasmo, mentre nell’Ottocento la polemica nei confronti della cultura e della lingua francese era accesissima.

Con spirito patriottico, un’ondata di intellettuali si scatenò contro la supremazia del francese, e nel 1810 il conte piemontese Carlo Vidua, in un carteggio con il torinese Cesare Balbo che a quei tempi era un funzionario napoleonico, discuteva su quale lingua scegliere per comporre un’opera storica che Balbo intendeva scrivere:

Resta la lingua da scegliere. Ma che potrò io dirti, che tu già non comprenda? Dirotti io, che per la tua carriera hai bisogno di studiar a fondo la Francese? Questa è la verità, che non solo tu capisci; ma che ti muove al segno di abbandonare la più bella lingua e la tua per lei. (Lettera n° 51 Al Sig, Cesare Balbo del 12 luglio 1810 in Lettere di Carlo Vidua pubblicate da Cesare Balbo, Torino, Giuseppe Pomba 1834, 3 voll., vol I, p. 174).

Vidua perorava in modo sentito la causa dell’italiano, pur comprendendo che il francese era strategico per Balbo, perché per un uomo nella sua posizione quella lingua era diventato un requisito per accedere alle cariche amministrative e far carriera. Ma non poteva credere che l’amico patriota volesse davvero abbandonare la propria lingua per “una straniera, ed a quale!”.

Oggi è l’inglese a essere strategico per chi vuol far carriera nel lavoro e in ogni altro ambito, e quando uno scienziato decide di pubblicare le sue ricerche in inglese lo fa anche perché, se pubblicasse in italiano il suo articolo non sarebbe altrettanto considerato né letto. Eppure nessuno sembra mettere in discussione i risvolti negativi di questa prassi e di queste scelte, anzi, l’abbandono dell’italiano in favore dell’inglese internazionale viene salutato come un fatto positivo, a partire dalle università che cancellano i corsi in italiano per insegnare direttamente in inglese.

Carlo Denina

A fine Settecento, il letterato piemontese Carlo Denina, noto anche come l’abate di Rovello, auspicava che il francese prendesse il posto del latino nell’educazione religiosa, nella scuola e nell’amministrazione dei Savoia. Ma nel 1803, in piena era napoleonica, si spinse ben oltre, e arrivò a mettere in discussione persino l’italiano nella sua interezza in favore della lingua di Molière che avrebbe potuto unificare linguisticamente il nostro Paese in modo per lui più vantaggioso. In un Discorso sull’uso della lingua francese, l’introduzione ufficiale di quella lingua nello Stato era considerata propedeutica anche a una diffusione della stessa lingua sul piano nazionale e letterario:

Io non dubito (…) che la riunione del Piemonte alla Francia, e l’ordine venuto in seguito di usare negli atti pubblici la lingua francese in vece dell’italiana, debba anche cangiar tosto o tardi la lingua letteraria del paese. (…) Cotesto cangiamento di lingua sarà molto più vantaggioso che nocevole. Passato che sia quel turbamento, quel disturbo che arrecar deve nel primo arrivo, io tengo per cosa certissima che i nostri nipoti scriveranno in francese più facilmente assai che i nostri antenati e contemporanei abbiano potuto fare scrivendo in italiano.

Per fare in modo che il francese prendesse il posto dell’italiano, ancora una volta era necessario partire dalla scuola.

Oggi i linguisti “descrittivisti” che hanno rinunciato a intervenire sulla lingua – a parte regolamentare la femminilizzazione delle cariche o il politicamente corretto, che evidentemente sono interventi leciti – ci raccontano la favola che le lingue nascono dal basso, che non è possibile controllarle e altre strampalate affermazioni avulse dalla storia e dalla realtà. Dunque fanno finta di non vedere che l’attuale regressione dell’italiano è connessa all’espansione dell’inglese globale, e dipende anche dalle nuove politiche linguistiche di cui negano l’esistenza.

Infatti l’Europa da qualche decennio ha deciso di investire milioni di euro per creare le generazioni bilingui a base inglese, e di introdurlo nelle scuole a partire dai primi anni, come tutti sapevano bene fosse essenziale già nel Settecento. Questo metodo di evangelizzazione inguistica ben spiegato dal prefetto del dipartimento del Po, Loysel, si attua oggi nei confronti dell’inglese, in una svolta che risale alla riforma Moratti ai tempi delle famose tre “i” di Berlusconi (Internet, Impresa, Inglese) divenute la parola d’ordine da introdurre nelle scuole. La riforma Gelmini del 2008 ha ampliato il numero di ore di inglese e nel 2010 ha trasformato la conoscenza di questa lingua in un requisito anche per la formazione degli insegnanti che devono saperla, indipendentemente dalla disciplina che insegnano, a un livello pari al First Certificate dell’Università di Cambridge. Dalla scuola si è poi passati ai concorsi per la pubblica amministrazione: se in un primo tempo era obbligatorio conoscere una “seconda lingua”, con la riforma Madia l’espressione è stata sostituita con la “lingua inglese”, che è diventata obbligatoria; chi non la sa non può accedere ai concorsi, anche se esula dalle sue competenze lavorative, e anche se conosce altre lingue che non godono però di un analogo riconoscimento.

Il controllo della scuola

Nell’Ottocento, l’ascesa di Napoleone fu solo una meteora durata meno di un decennio. Nel 1815 arrivò la Restaurazione che riportò l’Italia alla situazione precedente, con il ritorno degli austriaci in Lombardia, e la disgregazione del Paese nei precedenti staterelli. La francesizzazione era fallita, ammesso che fosse stato possibile realizzarla, e l’italiano tornò in auge, anche se la gente parlava nel proprio dialetto e non c’era affatto un modello di italiano condiviso.

All’indomani dell’unità d’Italia del 1861, visto che l’italiano doveva essere introdotto in modo ufficiale, e in qualche modo insegnato e regolamentato in modo uniforme, fu istituita la Commissione Broglio, con il coinvolgimento di Alessandro Manzoni, per tentare di varare una politica linguistica che introducesse l’italiano proprio a partire dalle scuole. Manzoni e Broglio avrebbero voluto toscanizzare tutti a forza, con un programma di soggiorni studio degli insegnanti a Firenze, e l’invio di maestri toscani per il Paese che facessero scuola. Questa soluzione fu avversata da altri, qualcuno parlò di “dittatura del toscano” e vedeva in quella politica una sorta di progetto coloniale. Anche l’idea di un dizionario ufficiale di Stato fallì, perché non c’era un accordo su quale fosse il modello dell’italiano unitario da diffondere.

Nel frattempo, nel secondo Novecento, l’italiano unitario si è realizzato, sotto la spinta dell’industrializzazione dell’avvento del sonoro di cinema, radio e televisione, oltre che grazie alla scuola. Ma oggi le università puntano all’abbandono dell’italiano per insegnare direttamente in inglese, la stessa scelta che fanno gli scienziati. Se le riviste ai tempi di Napoleone puntavano alla diffusione della cultura e della lingua francese, oggi i mezzi di informazione celebrano la grandeur della nuova cultura Americana, che però è un sistema ben più pervasivo della conquista napoleonica, nel nuovo scenario di Internet, della globalizzazione e del nostro essere inglobati nell’anglosfera dal punto di vista politico, culturale, sociale, militare e in ogni altro aspetto.

La politica di Broglio-Manzoni fu duramente avversata e messa in discussione, per esempio dal glottologo Isaia Ascoli che si appellava alla malsana idea della “selezione naturale”, invece di una politica linguistica a cui era contrario. E la sua polemica con Manzoni sollevò un vespaio che per decenni infuocò letterati, intellettuali, linguisti, patrioti, editori, librettisti e l’intero Paese.

Oggi invece, davanti all’anglicizzazione dell’italiano che ha reso il modello toscano un ricordo del passato, e davanti all’anglificazione della scuola, tutto tace. Non c’è alcuna resistenza né consapevolezza del fatto che si tratta di un progetto coloniale. La nuova classe dirigente dei figli di Denina ha sposato l’inglese, a quanto pare. Sul piano interno gli anglicismi vengono preferiti e legittimati, e su quello internazionale si difende la soluzione dell’inglese, in un appiattimento culturale di accettazione del globish che arriva dall’interno, davanti al quale la visione coloniale di Napoleone era un progetto da principianti. E dietro la bufala della selezione naturale si cela una ben precisa politica linguistica anglofila che non può che favorire la lingua del più forte e la regressione dell’italiano.

diciamoloinitaliano.wordpress.…

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