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Dante Vibes: come uccidere la lingua di Dante con la scusa di promuoverla


di Antonio Zoppetti

Gabriele Valle mi ha segnalato un obbrobrio partorito dalla biblioteca comunale di Trento che ha passato ogni limite. Si tratta di una mostra che si propone di celebrare la grandezza del padre della lingua italiana con un titolo in itanglese: Dante Vibes.

Questa modalità di comunicazione — inappropriata, patetica e provinciale — è al contrario un oltraggio a Dante e alla nostra lingua.

Gabriele non è rimasto inerte, e ha denunciato questa porcheria scrivendo agli organizzatori e ai giornali. Il quotidiano locale l’Adige (17 aprile) ha pubblicato le sue considerazioni: vibes (che si pronuncia vaibs), “insieme agli altri quattromila anglicismi che hanno gettato radici nei nostri dizionari”, è un anglicismo nordamericano frequente nell’ambito colloquiale che deriva da vibrations.
“Ci si domanda – ironizza Valle – se Dante sarebbe riuscito a pronunciare il titolo dell’omaggio che vuole rendergli la Biblioteca comunale di Trento. (…) Ciò che stupisce è che proprio un tributo al cosiddetto padre della lingua venga fatto con un titolo espresso in itanglish. La biblioteca comunale è un formidabile pilastro della comunità. Trovo grottesco che abbia fatto una concessione a una diffusissima tendenza, che per qualcuno ‘emana buone vibrazioni’”.

Per comprendere meglio la sua (e la mia) indignazione basta riflettere sulla nostra storia linguistica e sul perché Dante è diventato il simbolo dell’italiano.

Perché “Dante Vibes” è un oltraggio?

Scrivendo la Comedia nel volgare fiorentino, il Sommo Poeta ha saputo creare una lingua che si è affermata in tutto il Paese diventando il canone dell’italiano.

A quei tempi la lingua della scrittura era il latino, la lingua della cultura, mentre le lingue del volgo, che oggi potremmo far coincidere con i dialetti, non possedevano lo stesso prestigio, erano solo la lingua della quotidianità che le masse utilizzavano nel parlare. Al contrario del latino, i volgari nella lingua del sì non possedevano una grammatica consolidata né un lessico comune a tutte le genti italiche. E non avevano ancora prodotto una letteratura in grado di superare i propri confini regionali per saper arrivare a tutta l’Italia (che era solo un luogo geografico, ma non politico).

In Europa, i primi volgari che erano stati impiegati per comporre opere poetiche in alternativa al latino erano soprattutto quelli francesi, cioè la lingua d’oc utilizzata dai poeti provenzali, e l’antico francese, la lingua d’oïl dei cicli epici di re Artù, da cui è derivato l’odierno “oui”. Questi modelli stranieri avevano una risonanza internazionale, come l’odierno inglese, e in un primo tempo anche molti poeti italici scelsero queste lingue per comporre le prime opere poetiche, invece di scrivere in latino o nella lingua del sì. Poi qualcuno cominciò a pensare di comporre direttamente nelle nostre parlate. Ma i componimenti nei volgari del nord non riuscirono a guadagnare un’universalità che li facesse arrivare in ogni regione, mentre quelli in umbro di San Francesco e Jacopone da Todi erano considerati preghiere in musica per il popolino, senza una dignità letteraria. Solo la lirica della scuola siciliana voluta da Federico II era riuscita a entusiasmare anche i lettori colti di un po’ tutto il Paese, in particolare in Toscana e in Emilia, ma il progetto politico e linguistico federiciano era stato una meteora, e si era esaurito con la morte di Federico. L’unificazione dell’Italia era dunque fallita, e anche la poesia in siciliano si dissolse.

Il successo di Dante ha fatto invece scuola, ha elevato la nostra lingua alla stessa dignità di quelle francesi e degli antichi Romani, ed era destinato a dare vita al moderno italiano. Il sommo poeta, come notava Leopardi, aveva attinto parole dal provenzale, dal latino, dall’arabo e anche dagli altri volgari italici, ma le aveva toscanizzate nelle desinenze e nei suoni, facendole diventare voci perfettamente italiane. Questo ha reso Dante il “padre” della nostra lingua. E quando le parole non c’erano o non gli bastavano, ricorreva all’invenzione di nuovi vocaboli, creando neologismi che seguivano gli stessi criteri (inurbarsi, disvicinare…).

La grandezza di Dante esaltata da tutti, nella nostra storia, sta in questo. Machiavelli, nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, metteva in bocca a Dante queste parole:

“Perché le dottrine varie di che io ragiono, mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere; e non si potendo se non con termini latini, io gli usavo, ma li deducevo in modo, con le desinenze, ch’io gli facevo diventare simili alla lingua del resto dell’opera.” Lo stesso giudizio che Ludovico Antonio Muratori (Della perfetta poesia italiana, 1706) estendeva a tutti gli scrittori del secolo d’oro, che dalla lingua “Latina, e dalla Provenzale, e da i vari Dialetti d’Italia presero non pochi vocaboli, e modi di parlare, e li fecero divenir propri dell’Italiana.”

Una mostra intitolata Dante Vibes – con inversione sintattica rispetto per esempio a “vibrazioni dantesche” – va invece nella direzione opposta: non è l’italianizzazione di ciò che arriva da fuori, bensì la distruzione dell’italiano che viene deformato in un mischione che non è più né italiano né inglese.

Che cosa avrebbe pensato Dante di questo progetto? Lo si può intuire da un passo del Convivio, un’opera che ricorreva al volgare non solo per la lirica, ma anche per il commento alle poesie proposte, perché il latino internazionale dei dotti non sarebbe stato adatto a commentare i ritmi e le rime dell’“italica loquela”, che era più conveniente spiegare nella loro stessa lingua. Tra le ragioni del volgare c’era anche il “naturale amore de la propria loquela” – “l’amore ch’io porto a la mia loquela, che è a me prossima più che l’altre” – che gli faceva respingere le ragioni dei “malvagi uomini d’Italia” che disprezzano la propria lingua in favore de “lo volgare altrui”. Dunque avrebbe mandato con ogni probabilità i curatori della mostra all’Inferno.

L’itanglese? Vuolsi così colà dove si puote

La scelta dell’itanglese è sempre più spesso spacciata per essere “di moda”, come fosse qualcosa di simpatico per accalappiare un nuovo pubblico che però, più che esistere – si vuole creare. Questo pubblico vive solo nella testa colonizzata dei nuovi operatori della comunicazione. Mi chiedo quanti italiani sappiano cosa significhino Dante Vibes, Open Mic ed escape room e quanti preferiscano davvero i reading alle letture e declamazioni.

Se, un tempo, la prima regola della comunicazione era quella di usare un linguaggio adatto al destinatario, i nuovi strateghi del marketing puntano oggi alla strategia opposta, quella di imporre a tutti il proprio linguaggio anglomane da addetti ai lavori che si formano solo su testi in angloamericano.

Anglicismo dopo anglicismo, in uno stillicidio quotidiano, in questo modo l’inglese viene così proposto (e allo stesso tempo imposto) da una classe dirigente in preda alla coazione a ripetere. La parola d’ordine è anglicizzare, e non c’è ormai evento, manifestazione, progetto che non ricorra a questa strategia.

E così l’inglesorum erede del latinorum è il nuovo canone degli azzercagarbugli della comunicazione che se ne fregano di come parla la gente, perché nella loro testa c’è solo la newlingua dell’élite di cui fanno parte, una lingua aristocratica e di classe che vogliono affermare.

Il perché della proliferazione dell’itanglese è allora semplice: perché vuolsi così colà dove si puote, per citare Dante. Ma oggi il luogo dove “si puote” non è il paradiso, sta nei nuovi centri di irradiazione della lingua, che stanno abbandonando l’italiano per privilegiare l’inglese in ogni ambito. Lo si vede nelle iniziative scellerate come quella della biblioteca di Trento, e nei progetti istituzionali, nella lingua dei giornali e in quella del lavoro, della scienza, della cultura…

L’itanglese non è il sempice ricorso a qualche anglicismo, è un nuovo canone linguistico

Carlo Vurachi, per esempio, mi ha segnalato un’iniziativa della regione Friuli-Venezia Giulia denominata in inglese: il Recruiting Day Young rivolto agli under 35. Intanto, su un articolo del Corriere dei giorni scorsi il vecchio concetto di ubriacone, beone, avvinazzato, trincone (come il papà di Braccio di Ferro Trinchetto o come Spugna, il nostromo di Capitan Uncino), ma anche parole storiche come alcolizzato, alcolista, etilista… cedono il posto ai binge drinker dell’Alcohol Prevention Day, e non alla giornata di prevenzione dell’alcol (quest’ultima è una voce italianizzata di origine araba). Questa newlingua è stata partorita dall’Osservatorio “nazionale” dell’acol che in teoria dovrebbe esprimersi in italiano, nei suoi “Report”. E la mentalità coloniale che punta a esprimersi con l’inglese è ancora più disarmante in un articolo dove i letti separati diventano sleep divorce. Perché? Perché questa “tendenza” che è vecchia come il cucco oggi negli Stati Uniti è detta così, e noi sudditi ripetiamo ciò che arriva dagli Usa nella loro lingua superiore a cui siamo asserviti.

Mentre certi linguisti rimasti agli anni Ottanta pensano che l’itanglese consista nell’accogliere qualche singola parola in inglese, la realtà è un’altra. Dante Vibes non accoglie l’anglicismo “vibes” che non compare nemmeno tra i neologismi della Treccani, è un riversamento dell’inglese che esce dai dizionari e si porta con sé l’inversione sintattica. Lo stesso si può dire del Recruting Day Young che non consiste nell’importazione di singole parole, ma nel passare direttamente alla struttura della lingua inglese, oltre che al lessico.

L’itanglese travalica ormai la semplice sfera lessicale, si trasforma in enunciazioni mistilingui di una portata superiore, genera una gamma di espressioni che non è più possibile registrare nei dizionari, perché uscendo dal lessico si animano di vita propria, e si ricombinano. E così le radici inglesi diventano prefissoidi (under/over 35), generano parole ibride scritte e pronunciate un po’ in italiano e un po’ inglese (zoomare, softwarista), mentre spuntano sempre più pseudoanglicismi e ricombinazioni maccheroniche delle radici inglesi (smart working) che convivono con espressioni realmente inglesi… Tutto ciò è lo sfaldamento dell’italiano, non la sua modernizzazione.

L’itanglese non è un vezzo senza conseguenze, assurge a un‘ostentazione compiaciuta dei suoni inglesi, a uno stilema linguistico ricercato dai comunicatori che vanno nella direzione opposta a quella del padre della nostra lingua, Dante, che attingeva dalle lingue allora dominanti facendole diventare italiane.

In questo modo l’italiano diventa “volgare”, inteso come codice espressivo popolare che non possiede lo stesso prestigio.

La lingua di Dante, disonorata in patria ma amata all’estero e da re Carlo

Mentre noi ci vergogniamo dell’italiano e lo mescoliamo alla nuova lingua superiore, all’estero il nostro idioma – che continua a essere rappresentata soprattutto dalla lingua di Dante – è invece amato e ammirato, e gode di un prestigio che in patria non possiede più. E così, poche settimane fa, Re Carlo ha scelto di tenere in italiano parte del suo intervento pronunciato in parlamento. Lo ha fatto nell’incipit del suo discorso (“spero di non stare rovinando la lingua di Dante”), in alcuni passi più sentiti e anche nella conclusione: “E quindi uscimmo a rivedere le stelle”.

A rovinare la lingua di Dante ci pensa invece la biblioteca di Trento, non il re del Regno Unito, che con la sua scelta di esprimersi in italiano – particolarmente significativa visto che i sistemi scolastici anglofoni non puntano all’insegnamento di altre lingue – ha lanciato un segnale importante in favore del plurilinguismo, e anche della bellezza della nostra lingua che in patria è invece svilita.

Sul discorso di Carlo voglio divulgare l’immagine che mi ha mandato il professor Jacopo Parravicini, docente di fisica all’università di Firenze. Credo che potrebbe aiutare a riflettere i comunicatori anglomani della Biblioteca di Trento.

Intanto se qualcuno vuole inoltrare le sue proteste sul nome della manifestazione, sul sito della biblioteca, in basso, ci sono i recapiti a cui rivolgersi.

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Europeismi e forestierismi: la lezione del Leopardi linguista che non dovremmo dimenticare


Di Antonio Zoppetti

Un tempo molti grandi scrittori – da Dante sino a Manzoni o Leopardi – erano anche linguisti, nel senso che avevano una ben precisa idea di cose fosse per loro l’italiano, e nello scrivere o nel poetare la mettevano in pratica, partecipando ai dibattiti sull’eterna questione della lingua anche da un punto di vista teorico.

Lo Zibaldone, per esempio, è pieno di interessantissime riflessioni linguistiche di grande spessore e modernità, in cui si ritrovano spunti attualissimi, a proposito dei forestierismi e dell’interferenza del francese, che era all’epoca la lingua dominante in Europa almeno quanto oggi lo è l’angloamericano. E il pensiero del Leopardi linguista contiene delle speculazioni utili anche per valutare e comprendere l’attuale interferenza dell’inglese, pur con le grandi differenze storiche che nel frattempo sono sopraggiunte.

Quella più macroscopica sta nel fatto che all’inizio dell’Ottocento l’italiano non era ancora una lingua unitaria, ma solo una lingua letteraria impiegata da secoli per scrivere, ma che non esisteva nel parlare, visto che le masse si esprimevano nei propri dialetti.

Nello Zibaldone questa situazione è raccontata in modo molto chiaro: mentre il francese era una lingua “unica” – cioè unificata sotto l’egida di uno Stato nazionale che noi non avevamo – l’italiano era definito come un “aggregato” o “complesso di lingue” più che una sola. Anche se la nostra lingua era particolarmente amata all’estero, ciò derivava dal fatto che “gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana scritta, se non l’antica” perché una lingua italiana media non esisteva fuori dalla letteratura di Dante o Boccaccio, mentre la letteratura moderna non aveva avuto un analogo successo internazionale, non era ancora “formata, riconosciuta e propria”.

Dunque l’italiano era allora una lingua di classe, “la lingua scritta degli scrittori” che differiva dalla parlata “più che in qualunque altro paese culto, certamente Europeo.” Questo italiano scritto era basato sul toscano o il fiorentino dei grandi classici, che i puristi e il Vocabolario della Crusca avevano fissato come il canone da seguire, ma non coincideva con le parlate moderne dei toscani, era una lingua un po’ arcaica e artificiale, che se ne differenziava.

I puristi e i cruscanti ammettevano solo le parole dei classici del passato, ma una lingua moderna ha bisogno continuamente di creare nuove parole, sottolineava Leopardi, e il modello teorizzato dal purismo rendeva l’italiano qualcosa di arcaico, una lingua vecchia dove il guardare al passato rappresentava un impoverimento:

“Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte (…) ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere”.

Da questi presupposti arrivava a riflessione sul ruolo dell’interferenza delle lingue straniere, che era lucidamente analizzata nelle sue componenti positive e negative, con argomentazioni inoppugnabili che pare che i linguisti moderni abbiano dimenticato, e che dovremmo invece tenere ben presenti a proposito dell’attuale interferenza dell’inglese, se non vogliamo che sia distruttiva, e che invece di arricchirci finisca con l’impoverirci.

Il francese come modello di svecchiamento dell’italiano

Nel Settecento si era radicata l’idea che il francese fosse una lingua ben più adatta alla chiarezza dell’italiano anche dal punto di vista dello stile, cioè del periodare e della sintassi, perché seguiva l’ordine soggetto-predicato-complementi che veniva considerato più lineare rispetto alla prosa in italiano dove le collocazioni erano meno rigide e più libere, e spesso dominavano le costruzioni arcaiche, tipiche della lingua di Boccaccio che a sua volta ricalcava lo stile dell’ipotassi latina, dove il verbo era collocato a fine frase. I puristi difendevano questi modelli che dominavano soprattutto nella poesia e tra i classicisti, ma chi voleva essere più lineare e moderno seguiva invece il modello del francese, più semplice ed efficace soprattutto per ragionare, filosofeggiare, scrivere articoli di giornale o scientifici.

Leopardi era favorevole a ricalcare il periodare francese in italiano e a farlo divenire un modello di svecchiamento dell’italiano. E criticava chi invece preferiva scrivere direttamente in francese, per porsi come internazionale:

“Se gl’italiani (…) conversassero non in francese ma in italiano, essi ben presto riuscirebbero a dare alla loro lingua le parole e qualità equivalenti a quelle della francese in questo genere, (…) riuscirebbero a creare un linguaggio sociale italiano tanto polito, raffinato, pieghevole e ricco e gaio ec. quanto il francese, non però francese, ma proprio e nazionale. E in questo si potrebbe ben tradurre allora il linguaggio francese o scritto o parlato, che oggi non traduciamo, ma trascriviamo”.

Questo svecchiamento non riguardava soltanto lo stile e la prosa, ma anche il lessico. Mentre i puristi respingevano le parole nuove, quelle tecnico-scientifiche, quelle non toscane o di origine straniera definite come “barbarismi” e voci “infranciosate”, Leopardi aveva una visione ben più moderna e precisa, in proposito. E la netta linea di confine che distingueva l’imbarbarimento di una lingua dalla sua più sana evoluzione stava nell’adattamento e nel non violare “l’indole” di una lingua (che nel Settecento era spesso indicato attraverso un francesismo che proveniva dalle speculazioni degli illuministi: il genio della lingua).

“Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè se noi usassimo p.e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero all’eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p.e. nell’italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p.e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture”.

La differenza con gli approcci puristici stava dunque in questa semplicissima e chiarissima considerazione che molti linguisti moderni hanno rimosso, visto che come i puristi di una volta fanno di tutta l’erba un fascio e una gran confusione. Spesso parlano di forestierismi – che però ormai coincidono quasi esclusivamente con le parole inglesi – senza distinguere le parole adattate da quelle crude; come se una parola come “resilienza” (che deriva dall’inglese, ma è italiana nella forma) e “governance” (che al contrario di “governanza” è in inglese crudo) fossero la stessa cosa e avessero lo stesso impatto. E così, se parecchi linguisti danno del “purista” a chi denuncia la moltiplicazione selvaggia di espressioni in inglese crudo, sono invece loro a fare come i puristi, quando considerano gli anglicismi adattati e non adattati in un’unica categoria. E bisognerebbe ricordar loro che l’idea di adattare e di non violare l’indole della nostra lingua apparteneva proprio ai più grandi oppositori del purismo di ogni epoca: da Muratori a Cesarotti, dai fratelli Verri a Leopardi… chi riconosceva ed era favorevole all’arricchimento che proviene dalle lingue straniere non si sarebbe mai sognato di legittimare l’adozione di forestierismi crudi che possiedono un’altra forma e un’altra pronuncia rispetto all’italiano basato sul toscano.

Leopardi, come gli altri autori citati, insisteva sul fatto che persino il padre dell’italiano aveva fiorentinizzato in un’unica lingua uniforme parole regionali, latine e straniere, rendendole a questo modo perfettamente italiane:

“E p.e. di Dante, si vede chiaramente ch’egli si studiò di parlare a’ suoi compatrioti co’ modi e vocaboli provenzali, a cagione che la nazion provenzale era allora la più colta, ed aveva una specie di letteratura, abbastanza nota in Italia, e che rendeva la lingua provenzale così domestica agl’italiani colti, che le sue parole o frasi, italianizzandole, non erano enigmi per loro, e così poco volgare che le dette voci e frasi non erano ordinariamente nella loro bocca (come non lo sono ora le latine che p.e. i poeti derivano di nuovo nell’italiano, e che tutti intendono)”.

Gli europeismi di Leopardi: il modo più sano per essere internazionali

Leopardi distingueva chiaramente le paroledai termini. Le prime “non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie (…). Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le parti.” Se le parole sono caratterizzate da una certa elasticità, possiedono tanti significati a seconda dei contesti e oltre a designare un oggetto o concetto possiedono una connotazione, diremmo in termini moderni, i termini sono invece neutri e univoci. Per il poeta di Recanati, in linea di massima, “quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole”. E il francese, la lingua allora internazionale, nel suo essere chiaro e adatto all’esposizione per esempio scientifica, filosofica o argomentativa, correva anche dei grossi rischi: “Il pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benché questo la rende facile e comune, perch’è la lingua più artifiziale e geometricamente nuda ch’esista oramai.”

Il francese internazionale – oggi rimpiazzato dall’inglese – possedeva dunque elementi di chiarezza molto positivi, ma allo stesso tempo rischiava di diventare una lingua un po’ piatta e sterile fuori da questi impieghi.

Venendo alla lingua per esempio della scienza o della filosofia, Leopardi notava che ormai esisteva una terminologia europea:

“Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia (…) Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene. (…) Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale.” Questi termini possedevano degli elementi di modernità e chiarezza molto utili, e l’Italia non doveva porsi al di fuori di questa tendenza.

“Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne (…). Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa, debba esserlo (…) anche per l’Italia, che sta pure nel mezzo d’Europa. (…) Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi.”

Questi europeismi di cui veniva esaltata l’importanza non erano come gli anglicismi crudi che oggi sono proclamati “internazionalismi”, erano radici comuni che spesso arrivavano dal francese, ma anche dalle radici soprattutto greche, oltre che latine, che si utilizzavano per coniare nuovi termini scientifici. E queste radici comuni e comprensibili a tutti gli europei venivano adattate nelle desinenze e nella pronuncia secondo l’indole di ogni lingua, dunque erano un arricchimento che non imbarbariva le lingue locali, ma al contrario le arricchiva.

Leopardi avrebbe addirittura voluto creare un vocabolario di questi europeismi, e tra questi c’erano parole come egoismo, immaginazione, fantasia, e ancora:

Genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè i puristi le scartano”. E invece, “sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte. (…) Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l’Europa, lo sarebbe massimamente all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l’Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz’averne alcuna da surrogar loro. E la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll’adottarle, tutte le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l’italiano non fosse Europeo”.

In questa visione europeista ante litteram – intorno al 1821 quando il poeta scriveva queste cose l’Italia politica non esisteva affatto – l’italiano avrebbe dovuto ancorarsi agli europeismi, invece di guardare solo al modello dei puristi, e davanti a un europeismo come commercio, per esempio, avrebbe fatto meglio a impiegarlo, invece di ricorrere ad analoghe voci storiche esistenti come per esempio mercatura o traffico, proprio in nome di un internazionalismo che rendeva comprensibile una voce perfettamente italiana come “commercio” a tutta l’Europa.

Dagli europeismi al globish

Oggi l’interferenza dell’inglese globale non è paragonabile, a quella del francese dei tempi d’oro. Leopardi aveva individuato molto bene anche che il ruolo delle lingue dominanti dipendeva da motivazioni coloniali, e la presunta “universalità” di una lingua deriva dal fatto da essere parlata “in molte parti del mondo”, oltre che nei confini nazionali, e “nell’essere anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli che la parlano naturalmente, sia coll’abolire la lingua dei vari paesi (…), sia coll’alterarla o corromperla più o meno per mezzo della mescolanza”.

L’italiano, da allora, è ormai diventato unitario, ed è una lingua naturale. E l’inglese, nel frattempo, ha scalzato il francese come lingua internazionale che veicola tutta la nuova terminologia. Ma penetrando in modo crudo, determina il sorgere dell’itanglese, del franglais, del Denglisch e via dicendo. Tutto ciò è causato da una mentalità provinciale per cui gli anglomani ritengono l’inglese la nuova lingua internazionale prestigiosa, e questo fenomeno si intreccia con l’espansione neocoloniale della lingua dei mercati e delle multinazionali. Spesso qualche linguista se ne esce con affermazioni per cui “adattare” non sarebbe più di moda, ma questo è semplicemente falso: non si adatta l’inglese perché è considerata una lingua superiore da non snaturare. E infatti molti linguisti che sostengono che il nuovo italiano policentrico non si basa più sul toscano e accoglie molte parole di provenienza anche regionale, non la raccontano tutta. È vero, per esempio, che una parola veneta come giocattolo ha avuto la meglio sul toscano balocco, ma quello che non si spiega è che nel vernacolo di partenza era “zugatolo,” cosi come in milanese c’era il “panetun” (o “paneton”) poi italianizzato in “panettone”. Dunque, nel suo diventare policentrico, l’italiano aperto ai regionalismi allo stesso tempo li addomestica, più che recepirli con le proprie caratteristiche. In sintesi le parole dialettali si adattano istintivamente all’indole dell’italiano – come dovrebbe essere naturale nelle lingue sane – e vengono in questo modo assimilate, mentre quelle inglesi vissute come più prestigiose penetrano quasi sempre in modo crudo.

Ma non fare altro che importare anglicismi crudi non può che portare alla regressione dell’italiano che Leopardi – e tutti gli altri illuminati avversari del purismo – denunciavano.

Per essere davvero “internazionali” ci converrebbe invece seguire l’europeismo leopardiano, e cioè adattare le voci internazionali – inglesi e di ogni altro idioma – all’indole delle lingue locali. E invece di importare parole come lockdown o creare pesudoanglicismi con smart working, ci converrebbe legarci alle soluzioni delle nostre lingue sorelle e parlare di confinamento o di telelavoro esattamente come fanno in Francia o in Spagna. La via indicata da Leopardi, che è stata dimenticata, è invece l’unica via che permetterebbe all’italiano, e a tutte le altre lingue europee, di crescere senza snaturarsi e di mantenere, e creare, una forte coesione.

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in reply to Diciamolo in italiano

Per la cronaca: di seguito la lettera che ho inviato alla biblioteca di Trento.

Dante Vibes: una scelta comunicativa che spinge a disertare il vostro evento

Spett. le biblioteca di Trento,

vogliate prendere atto del fatto che la vostra “scelta comunicativa” di intitolare “Dante Vibes” una mostra per celebrare Dante e la lingua italiana non è affatto “inclusiva” – per usare una parola di moda – e personalmente la trovo infelice, inappropriata e albertosordianamente provinciale e ridicola.

Ognuno è libero di fare le proprie scelte comunicative, ma ne è anche responsabile. Se il vostro intento acchiappone è quello di intercettare attraverso l’itanglese un nuovo pubblico, sappiate che questa scelta allo stesso tempo allontana ed esclude una fetta di pubblico che credo sia ben più consistente.

Spero che per le vostre iniziative future terrete presenti anche le motivazioni e le opinioni di chi vede nell’anglomania imperante una minaccia alla lingua italiana e un fastidio, e non un approccio comunicativo che “appartiene proprio a tutti”. C’è modo e modo di fare cultura e divulgazione, soprattutto nell’ambito delle iniziative istituzionali, e la modalità che avete scelto per molti non è affatto adeguata né rispettosa del nostro patrimonio linguistico.

Cordiali saluti,

Antonio Zoppetti

Nel messo degli step di nostra vita,
Mi ritrovai in location oscura,
Che la best practice era smarrita.

(Dall’Infernal Tour della Divina Comedy di Don’t Alighieri che forse per qualcuno emana good vibes, ma per altri risulta al contrario ripugnante).