Dal “climate change” al “regime change”: il “linguistic change” dell’itanglese
Di Antonio Zoppetti
Mentre scrivo sullo sfondo dell’ennesima guerra scoppiata all’improvviso, in una diretta su Rai News – anche il nome dei canali della tv di Stato la dice lunga sulla nostra anglicizzazione – si parla in modo ossessivo di “regime change”. È il nuovo picco di stereotipia che caratterizza la comunicazione mediatica, quando di punto in bianco tutti i giornalisti, in preda a una coazione a ripetere, si mettono a usare la stessa espressione come se non esistessero altre parole. E il più delle volte la stereotipia si manifesta con il ripetere l’inglese, come è accaduto il 17 marzo 2020 con il “lockdown” che da quel momento in poi è divenuto l’unica parola possibile per esprimere quello che sino al giorno prima gli stessi giornalisti avevano chiamato serrata, chiusura, zona rossa… e che in Francia e Spagna si è chiamato “confinamento”.
E così, mentre sui giornali francesi si parla in queste ore di “changer (changement) de règime” e su quelli spagnoli di “cambio de régimen” sui nostri è tutto un pullulare dell’espressione inglese in un abbandono dell’italiano che caratterizza le scelte linguistiche dei collaborazionisti della dittatura dell’inglese che formano la nostra attuale egemonia culturale.
Naturalmente – lo preciso perché c’è sempre qualche cretino che scambia simili considerazioni per complottismo – non c’è nessuna sala dei bottoni in cui si decidono simili strategie comunicative, che sono solo il frutto dell’effetto gregge. La nuova intellighenzia di destra, sinistra, centro (e di chi crede di essere fuori da questi schemi) è fatta da un’élite che si forma in inglese, che ritiene l’inglese una lingua superiore e rilancia le notizie che arrivano dall’anglosfera preferibilmente con parole inglesi.
L’introduzione di “regime change” è recente, e non si deve leggere come un caso isolato. Stando ai grafici di Google libri l’espressione si è fatta strada timidamente negli anni Duemila, anche se i picchi di stereotipia di questi giorni sembrano destinati ad affermare e rinforzare l’espressione che inevitabilmente entrerà anche nel linguaggio della gente, se non si smetterà di preferirla e di divulgarla in una sorta di pedagogia linguistica che educa all’uso dell’inglese. Ad agevolare questa nomenclatura c’è un’altra espressione che viene presentata come più moderna e internazionale di quella in italiano, il climate change al posto del cambiamento climatico, una scelta sociolinguistica preferita dagli anglomani che non ha scalzato l’italiano ma si è affermata come un modello di maggior prestigio ostentato dagli addetti ai lavori.
Se una rondine non fa primavera, due rondini cambiano le carte in tavola, e climate change + regime change si saldano insieme in una potenziale nuova regola formativa fatta da una parola inglese seguita da change con inversione sintattica (cioè con una diversa collocazione delle parole rispetto all’italiano). Il che significa che si creano le condizioni per potenziali future nuove espressioni sullo stesso schema destinate a rafforzare il linguistic change che ci sta portando dall’italiano all’itanglese, esattamente come dall’election day e dal family day si passa allo schema ibrido del matematica day e delle altre decine di espressioni del genere dal numero potenzialmente infinito.
Mentre i linguisti che considerano gli anglicismi come dei “prestiti” isolati son lì a classificarli con le loro bizzarre categorie concettuali o a contarli per dimostrare che sono pochi, che sono soggetti a rapida obsolescenza o che tanto sono tutti di bassa frequenza, non si accorgono che l’interferenza dell’inglese è uno tsunami di ben altra portata e che per misurarne gli effetti c’è bisogno di un altro approccio. Questi linguaioli sono rimasti fermi agli anni Ottanta e all’allarme del Morbus Anglicus denunciato da Arrigo Castellani – quando il fenomeno degli anglicismi ha cominciato a prendere piede con una consistenza numericamente preoccupante – ma negli ultimi quarant’anni il riversamento dell’inglese costituisce un flusso costante in continuo aumento, che ho chiamato la panspermia del virus anglicus. La panspermia è un meccanismo riproduttivo che consiste nel seminare migliaia e migliaia di larve nell’ambiente, e anche se la maggior parte è destinata a morire e divenire cibo per altri animali, qualcuna sopravvive, attecchisce e si riproduce. Gli alti numeri compensano la mortalità della prole. I singoli anglicismi che si radicano al punto di finire nei vocabolari della lingua “italiana” e che attualmente si possono quantificare in circa 4.000 (con una tendenza di aumento impressionante per numeri, frequenze e velocità di attecchimento) seguono una modalità molto simile, sono solo l’effetto collaterale di un riversamento dell’inglese di ordini di grandezza superiore. Un riversamento che non coinvolge più solo il lessico e le singole parole, ma porzioni d’inglese sempre più ampie e complesse, con inversioni sintattiche e implicazioni morfologiche (cioè la formazione delle flessioni e delle suffissazioni delle parole).
Per comprenderlo non bisogna certo essere dei linguisti, anzi a volte il non esserlo aiuta a vedere le cose in modo meno superficiale e ideologizzato. In attesa che regime change sia annoverato nei dizionari (inizialmente dei neologismi, come climate change), per avere un’idea di cosa stia accadendo alla lingua italiana basta cercare “change” per esempio tra le notizie di Google.
Accanto ai recentissimi articoli sul regime change, spicca la frequenza di climate change impiegato nei titoli di giornale di ogni tipo, da la Repubblica (“Reti strategiche tra guerre e climate change”) al Sole24ore (“Pasta, la crescita della produzione e i rischi del climate change”), ma si ritrova ovunque, sul sito della Croce Rossa (“Climate change colpisce più vulnerabili. CRI impegnata per ridurre impatto ambientale, fare formazione e informazione”), sulle riviste di enologia come Wine News (“Il climate change colpisce di più il vino europeo: nei vigneti italiani due gradi in più dal 1980”), su quelle di diritto bancario (“Stato e imprese nella climate change litigation”)…
Una terza occorrenza di espressioni a base “change” che si è ormai affermata nel mondo del lavoro è costituita dal change management (es.: Sole24ore “Design e Change Management: incontro con Nicola Favini a Parigi, 21 maggio 2025”; oppure su Data Manager Online: “Le 4 P del Change Management”). Ma si trova di tutto, da un maestro del trasformismo come Arturo Brachetti che diventa leggenda del quick change (“Brachetti ritorna al Teatro Alfieri con “SOLO – the legend of Quick Change”) al driving change di ManagerItalia (“Driving Change: la Business Community si incontra sul campo. Si tratta di ‘Driving Change’, il format che, in un’unica giornata, unisce formazione e confronto con esperti su temi caldi del management”); si va dalla filosofia del change presentata da PadovaOggi (“Change makers’ lab: guida al cambiamento la tua impresa! Un laboratorio pratico per giovani imprenditori, start-upper e manager pronti a trasformare il cambiamento in opportunità di crescita e innovazione”) agli articoli di sport che prevedono manifestazioni come BOXING FOR CHANGE (Proseguono gli incontri dei nostri Campioni Ambassador con le scolaresche di ogni parte d’Italia) o lo Sport for Change della Fondazione Milan.
È vero che questo riversamento dell’inglese compare soprattutto nei titoloni dei giornali, e che poi spesso all’interno dell’articolo gli anglicismi sono anche spiegati, affiancati dall’italiano e sono dunque molto più rarefatti, ma un linguista senza le fette di salame sugli occhi (per chi capisce solo l’inglese: slices of salami on the eyes) dovrebbe sapere che i titoloni li leggono tutti, al contrario degli articoli, e dunque il loro impatto sulla lingua è enorme e andrebbe misurato, invece di negarlo con la scusa che poi tanto leggendo il pezzo gli anglicismi sarebbero “pochi”. In questa gerarchia – che ho chiamato diglossia lessicale – che vede l’inglese impiegato come etichetta e come sovralingua da sovrapporre all’italiano che viene coperto e schiacciato, colpiscono soprattutto i nomi delle manifestazioni, mostre o eventi che sono tutti in inglese. E a proposito di change si può segnalare Music for Change (“uno degli appuntamenti più attesi della scena musicale italiana”), il “Change in Cardiology 2025” di TrendSanità, il Change Maker Milano, il progetto tutto siciliano contro la violenza di genere nel mondo del vino riportato da PalermoToday denominato “ Grapes of Change”, il “Change The World Model United Nations 2025” di Rai Scuola per confrontarsi sui grandi temi della politica globale…
Questi e altre decine e decine di esempi dell’attuale linguistic change, che, da soli, possono apparire al linguaiolo anglomane come qualcosa di occasionale e di passeggero, non vanno considerati singolarmente, lo ripeto: vanno sommati tra loro. Solo così si comprende che l’attuale l’interferenza dell’inglese è un fenomeno di proporzioni mai viste, che non si limita ai 3 o 4 anglicismi a base change (per chi si vergogna dell’italiano: change based) che penetrano nei dizionari.
A questo punto, chi si domanda perché prenda piede il regime change credo che abbia tutti gli elementi per intuire la risposta: è il linguistic change, ovvero l’imposizione mediatica della newlingua sulla veterolingua come nel Grande Fratello orwelliano. E le stesse considerazioni valgono per tutti gli altri anglicismi utilizzati accanto a change che spicca nei titoli: management, ambassador, mackers, start-upper… ogni parola è una porta che spalanca a decine e decine di altre espressioni inglesi tra loro collegate che si riversano nei giornali e nella lingua degli specialisti che è sempre più ibridata e sempre meno italiana. Il problema non sono i singoli anglicismi ma l’anglomania.
Ma i negazionisti – non mi vengono parole più appropriate – fanno finta di non vedere la realtà e liquidano la faccenda concludendo che l’anglicizzazione dell’italiano sarebbe tutta un’illusione ottica.
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