A Brera, mappe celesti e mappe terrestri
All’Osservatorio astronomico di Brera è conservata una ricca, meravigliosa raccolta di carte celesti, terrestri e di altro genere, formatasi fin dai primi anni di vita della Specola alla metà del 18esimo secolo. Un elenco di questo materiale è da oggi disponibile al sito dell’Inaf di Brera e rappresenta un altro tassello per la conoscenza dell’intero patrimonio storico dell’Osservatorio milanese.
La cartografia, intesa come misura e descrizione della Terra, era una disciplina affine all’astronomia, che aveva come scopo, invece, quello della misura e della rappresentazione dei cieli. Infatti, carte della Terra e del cielo sono spesso presenti nelle raccolte storiche degli osservatori astronomici.
Stato di Milano, 1777: ai piedi della carta, in primo piano, una scena bucolica di svago campestre ma, più in profondità, il duro lavoro nei campi
A Brera questa situazione diventa ancora più vera dal momento che gli astronomi braidensi furono “cartografi” essi stessi, coinvolti in prima persona nella realizzazione, nel 18esimo secolo, della Carta del Milanese e del Mantovano e poi, durante la dominazione francese, nelle successive operazioni topografiche sul territorio allora lombardo. Inoltre non possiamo dimenticare il ruolo che Giovanni Schiaparelli, direttore dell’Osservatorio dal 1862 al 1900, ebbe come “cartografo” di Marte, applicando per primo alla descrizione del pianeta gli stessi criteri definiti per la descrizione della Terra. Insomma, la cartografia, celeste o terrestre, è sempre stata di casa all’Osservatorio milanese.
Scorrendo le circa 330 descrizioni raccolte nell’elenco (incluse quelle delle lastre di rame con l’incisione della Carta della Lombardia, la prima carta “moderna” del territorio lombardo, che fu commissionata agli astronomi di Brera da Cesare Beccaria) si viaggia attraverso due mondi: quello terrestre e quello celeste.
La guerra di oggi nelle carte di ieri: i territori della Russia (a sx) e della Palestina (a dx) nell’Atlante di Sanson della fine del Seicento
Per quanto riguarda la Terra, a stupire non è solo la gran quantità dei luoghi attraversati, che comprendono tutto l’orbe terracqueo, descritto secondo le conoscenze del tempo a partire dalla seconda metà del Seicento, ma anche la raffinatezza dell’intaglio e la ricchezza degli ornamenti di corredo alla rappresentazione geografica, come appare, ad esempio, in due carte dell’atlante dei Sanson, un’importante famiglia di cartografi di origine francese. Due carte dell’atlante non scelte a caso, perché raffigurano per noi, oggi, due sanguinosi teatri di guerra: “La Russie Blanche ou Moscovie” il cui cartiglio è chiuso dalla grande testa dell’orso, simbolo della potenza, della forza e della paura che l’animale incute e la “Iudaea seu Terra Sancta”, che viene rappresentata, secondo il racconto biblico, con le figure di Adamo ed Eva ai lati dell’albero della conoscenza, con il serpente, e da due cornucopie che versano l’abbondanza di animali, fiori e frutti del paradiso terreste. Per rimanere in zone più vicine a noi, ovvero nello Stato di Milano del 1777, troviamo una carta alla cui base, quasi come a fondamento dello Stato stesso, sono raffigurate le allegorie dei fiumi – e l’acqua era alla base della florida agricoltura lombarda – e, poco oltre, il duro lavoro dei contadini nei campi.
Una rara carta della Luna (cliccare per ingrandire), probabilmente la sola conservata in Italia, presentata dalla delegazione sovietica al Congresso di astronautica a Belgrado nel 1967
Non mancano poi le carte celesti, che ci svelano, sotto tante angolature, il mondo sopra di noi. Tra le altre ne ricordiamo una insolita, ossia la carta della Luna presentata dalla delegazione sovietica all’International Astronautical Congress di Belgrado nel 1967 e che, a quanto scrive il direttore dell’Osservatorio Francesco Zagar in un piccolo cartellino che la accompagna, dovrebbe essere l’unica copia esistente in Italia.
L’elenco delle carte, curato da Cristina Zangelmi e dalla scrivente, si caratterizza anche per essere un riconoscimento alle attività legate all’alternanza scuola-lavoro (ora Pcto) svolte dai ragazzi all’Osservatorio di Brera. A tutti gli studenti che ospitiamo, infatti, viene sempre mostrato il patrimonio storico dell’Osservatorio. Tra i libri, destano sempre molto interesse quelli legati alla rappresentazione della Terra con i suoi fenomeni e a quella del cielo con i suoi “abitanti” – costellazioni, comete, pianeti e satelliti – e con i suoi fenomeni – eclissi, occultazioni o esplosioni che siano.
Per iniziativa dei ragazzi, quindi, è stato avviato, partendo dai volumi schedati in biblioteca, un censimento delle raffigurazioni di Terra e cielo; finora ne sono state prese in considerazione oltre un centinaio. Queste scelte sono indubbiamente soggettive e incomplete rispetto al patrimonio della biblioteca (e infatti il progetto è in divenire) e si basano spesso su un criterio estetico, ma sono state fatte dai nostri studenti in piena autonomia e come tali le abbiamo accolte nell’elenco che pubblichiamo. Un ringraziamento, quindi, alle studentesse Isabella Pepita Mandrino, Emma Della Ceca e Giorgia Leone che, finora, hanno lavorato a questo progetto.
L’impronta magnetica racconta la storia della Luna
Un nuovo studio condotto dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit), pubblicato la settimana scorsa su Science Advances, potrebbe aver trovato una risposta a una domanda aperta da decenni riguardo al magnetismo delle rocce lunari. Un grande impatto sulla superficie della Luna – questo lo scenario suggerito dallo studio – potrebbe aver temporaneamente intensificato il suo debole campo magnetico, generando un picco momentaneo registrato in alcune rocce lunari.
Le prime evidenze del magnetismo lunare risalgono alle missioni Apollo degli anni ’60 e ’70, alle quali si sono aggiunte le rilevazioni delle sonde orbitali più recenti. Queste hanno infatti confermato la presenza di magnetismo residuo, specialmente sul lato nascosto della Luna. La spiegazione più accettata di questo fenomeno è l’esistenza di un campo magnetico globale generato da una dinamo interna, cioè da un nucleo di materiale fuso in movimento, simile a quello terrestre. Tuttavia, il nucleo lunare, molto più piccolo di quello della Terra, avrebbe prodotto un campo magnetico troppo debole per spiegare la forte magnetizzazione osservata in alcune rocce. Un’ipotesi alternativa riguarda un impatto gigante sulla superficie lunare, che avrebbe generato del plasma capace di interagire con un campo magnetico debole già esistente, amplificandolo localmente. Simulazioni che consideravano un campo magnetico solare molto debole, a distanza della Luna, avevano però escluso questo scenario.
Un’immagine del lato nascosto della Luna. Crediti: Nasa/Gsfc/Università Statale dell’Arizona
L’approccio adottato nel nuovo lavoro ipotizza un debole campo magnetico lunare, con un’intensità di circa 1 microtesla (50 volte più debole di quello terrestre attuale). Partendo da questo scenario, è stato simulato un impatto delle dimensioni di quello che ha formato il bacino di Imbrium, uno dei più grandi crateri lunari, situato sul lato visibile della Luna. Le simulazioni mostrano una nube di plasma sollevarsi dalla superficie di impatto e, in parte, diffondersi attorno alla Luna, concentrandosi sul lato opposto. In quel punto, il plasma avrebbe compresso e temporaneamente amplificato il debole campo magnetico lunare. Il tutto sarebbe avvenuto in un tempo incredibilmente rapido: appena 40 minuti.
Secondo gli autori, anche un intervallo di tempo così breve sarebbe stato sufficiente per imprimere l’impronta magnetica osservata. Questo, non solo grazie al campo magnetico amplificato, ma anche all’onda d’urto generata dall’impatto, che si sarebbe propagata fino al lato opposto, “disturbando” gli elettroni presenti nelle rocce. Questi, una volta ristabiliti, hanno assunto una nuova orientazione, allineata al campo magnetico momentaneamente rafforzato.
Questi risultati offrono una spiegazione completa della presenza di rocce altamente magnetizzate, specialmente sul lato nascosto della Luna. Un modo per verificarla sarebbe prelevare direttamente campioni di quelle rocce e cercare tracce di shock e forte magnetizzazione. Questo potrebbe diventare possibile grazie al programma Artemis della Nasa, che prevede l’esplorazione proprio del lato nascosto, in prossimità del polo sud lunare.
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Ixpe svela i segreti di una magnetar attiva
Osservata per la prima volta la polarizzazione di una magnetar dopo una fase di attivazione, chiamata outburst, grazie all’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe), missione spaziale nata dalla collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia spaziale italiana (Asi). I due lavori che riportano l’osservazione, uno guidato da ricercatrici e ricercatori italiani dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Padova, e l’altro da ricercatrici e ricercatori che lavorano negli Stati Uniti, sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico. Crediti: Esa
La magnetar 1E 1841-045, una stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73 a circa 28mila anni luce dalla Terra, ha sorpreso la comunità scientifica riattivandosi il 20 agosto 2024. È stata osservata da tutti i telescopi sensibili alle alte energie, compreso Ixpe, che per la prima volta in assoluto è riuscito a osservare la radiazione X polarizzata di una magnetar in uno stato di attività. La luce polarizzata è la luce in cui le onde elettromagnetiche oscillano su un piano preferenziale, e non in modo disordinato come succede con la luce “normale”. Misurare come e quanto la luce è polarizzata offre indizi cruciali sulla sua origine e sull’ambiente che ha attraversato per giungere fino a noi.
Una stella di neutroni è il residuo di una stella massiccia che, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo, collassa su se stessa, lasciando un nucleo estremamente denso, con una massa simile a quella del Sole, ma compresso in una sfera dal diametro paragonabile all’estensione di una città come Roma. Poiché le stelle di neutroni esaltano le proprietà delle loro stelle progenitrici, come la velocità di rotazione e l’intensità del campo magnetico, danno luogo ad alcuni dei fenomeni fisici più estremi dell’universo osservabile, offrendo opportunità uniche per studiare condizioni che sarebbero impossibili da replicare in un laboratorio sulla Terra.
Michela Rigoselli, ricercatrice Inaf. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli
Le magnetar, stelle di neutroni con campi magnetici estremamente intensi, sono tra gli oggetti più affascinanti ed enigmatici dell’universo. Quando una di queste stelle si attiva, può rilasciare fino a mille volte l’energia che emetterebbe normalmente, dando luogo a fenomeni fisici ancora più estremi. Tuttavia, i meccanismi alla base di queste fluttuazioni energetiche non sono ancora del tutto compresi. In questo contesto, la misurazione della luce polarizzata gioca un ruolo cruciale: i dati raccolti mostrano che l’emissione di raggi X da 1E 1841-045 diventa sempre più polarizzata a livelli di energia più elevati, pur mantenendo lo stesso angolo di polarizzazione. Questo significa che le diverse componenti di emissione sono legate tra loro e che quella più ad alta energia, finora la più elusiva, è fortemente influenzata dal campo magnetico.
«È la prima volta che riusciamo a osservare la polarizzazione di una magnetar in stato di attività e questo ci ha permesso di vincolare i meccanismi e la geometria di emissione che si celano dietro a questi stati attivi», dice Michela Rigoselli, ricercatrice dell’Inaf di Milano e prima autrice dell’articolo. «Ora sarà interessante osservare 1E 1841-045 una volta tornata allo stato di quiescenza per monitorare l’evoluzione delle sue proprietà polarimetriche».
Questa osservazione evidenzia chiaramente le potenzialità della scienza delle magnetar, che può ancora essere approfondita attraverso la polarimetria ad alta energia.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “IXPE detection of highly polarized X-rays from the magnetar 1E 1841-045”, di Rigoselli M., Taverna R., Mereghetti S., Turolla R., Israel G.L., Zane S., Marra L., Muleri F., Borghese A., Coti Zelati F., De Grandis D., Imbrogno M., Kelly R. M. E., Esposito P., Rea N.
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “X-ray polarization of the magnetar 1E 1841-045”, di Stewart R., Younes G., Harding A.K., Wadiasingh Z., Baring M.G., Negro M., Strohmayer T.E., Ho W.C.G., Ng M., Arzoumanian, Z., Dinh Thi H., Di Lalla N., Enoto T., Gendreau K., Hu C., van Kooten A., Kouveliotou C., McEwen A.
Con Diana a bordo di Tianwen-2, verso un asteroide
Mancano meno di due giorni al lancio della missione cinese Tianwen-2, in programma a partire dalle 18:00 ora italiana di domani, mercoledì 28 maggio, dalla base di lancio di Xichang, nella Cina sud-occidentale, a bordo di un razzo Long March 3B. Obiettivo principale è un’impresa mai tentata prima dalla Cina: posarsi su un asteroide – il corpo celeste 469219 Kamoʻoalewa, noto anche come 2016 HO3 – e riportarne un campione sulla Terra. La consegna è prevista per la fine del 2027. Terminata questa prima fase della missione, la sonda proseguirà poi la sua avventura dirigendosi, questa volta, verso una cometa della fascia principale, la 311P/PanStarrs, che dovrebbe raggiungere nell’arco di sei anni.
Tianwen-2 asteroid sample return and comet exploration mission is planned to launch in 2025. Comet 311P/PANSTARRS will be studied after the spacecraft returning samples from asteroid 2016HO3. pic.twitter.com/so25RBdxTu— China ‘N Asia Spaceflight ️ (@CNSpaceflight) May 23, 2022
A bordo della sonda – che oltre ad ampliare le capacità di esplorazione planetaria della Cina mira a raccogliere nuove informazioni sulle origini e l’evoluzione di asteroidi e comete – è presente anche uno strumento scientifico interamente italiano, Diana, acronimo di Dust in situ Analyzer: sviluppato da un consorzio dall’Inaf Iaps di Roma, dal Cnr e dal Politecnico di Milano, avrà il compito di misurare e caratterizzare sul posto polveri e ghiaccio.
Diana2, una delle due teste sensoriali che compongono lo strumento italiano Diana a bordo della missione cinese Tianwen-2. Crediti: E. Palomba/Inaf
«Diana comprende due teste sensoriali, Diana1 e Diana2», spiega a Media Inaf uno degli scienziati che lo hanno realizzato, l’astrofisico Ernesto Palomba dell’Inaf di Roma. «Diana1 si occuperà di misurare la massa totale della polvere raccolta e di rilevare la presenza di ghiaccio d’acqua, mentre Diana2 sarà dedicata all’identificazione e alla caratterizzazione di composti organici altamente volatili».
«Il cuore del funzionamento dello strumento è basato sull’utilizzo di microbilance a cristalli in quarzo», prosegue Palomba, che allo sviluppo di microbilance ad altissima precisione per impieghi spaziali lavora da lungo tempo. «Lo strumento è miniaturizzato, e infatti ogni testa sensoriale pesa solo 90 grammi, occupando un volume di circa 50x50x35 mm ed è in grado di misurare fino a un milionesimo di grammo di polvere presente nello spazio. Le sue eccezionali prestazioni e la sua compattezza hanno motivato l’Agenzia spaziale cinese a sceglierci come unico strumento europeo della missione».
Quelli collezionati da Tianwen-2 – nome tratto dal titolo di un’opera del poeta cinese Qu Yuan, che potremmo tradurre come “Domande al cielo” – saranno, dicevamo, i primi campioni di asteroide portati sulla Terra dalla Cina, ma non certo la sua prima sample-return mission: le missioni cinesi Chang’e-5 nel 2020 e Chang’e-6 nel 2024 già hanno raccolto e recapitato con successo campioni lunari. E da un certo punto di vista anche questi che raccoglierà Tianwen-2 potrebbero essere considerati campioni del nostro satellite naturale: alcune analisi preliminari suggeriscono infatti che 469219 Kamoʻoalewapossa essere un frammento di Luna staccatosi in seguito a un impatto.
La raccolta del materiale sarà essa stessa un esperimento: verrà infatti tentata in tre differenti modalità. Anzitutto con un campionamento in volo, allungando un braccio robotico fino a “grattare” la superficie dell’asteroide mentre la sonda lo sorvola da vicino. Poi con il cosiddetto approccio touch-and-go, già sperimentato con successo dalla sonda giapponese Hayabusa2 e dalla sonda Nasa Osiris-Rex. Infine con un atterraggio vero e proprio, un approdo al termine del quale – se le caratteristiche del suolo lo consentiranno – la sonda si ancorerà al terreno e tenterà di trapanarlo.
Il lato caldo della Luna
Variazioni del campo gravitazionale lunare misurate dal Gravity Recovery and Interior Laboratory (Grail) della Nasa da marzo a maggio 2012. Il campo mostrato ha una risoluzione superficie di circa 20 chilometri. Il rosso corrisponde agli eccessi di massa e il blu alle carenze di massa. La mappa mostra maggiori dettagli su piccola scala sul lato lontano della Luna rispetto al lato vicino, perché il lato lontano presenta molti più piccoli crateri. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Mit/Gsfc
Come molti lettori sapranno, la Luna presenta marcate differenze tra il lato visibile dalla Terra e quello nascosto. Il primo è in gran parte ricoperto da mari di scuro basalto, solcati da crateri da impatto e da chiari raggi di regolite, mentre il secondo mostra una presenza molto più ridotta di mari rispetto alla faccia ben nota.
Le differenze non si limitano all’aspetto superficiale: si riscontrano anche nello scostamento tra il centro di massa e il centro geometrico del satellite, nello spessore della crosta, nella distribuzione superficiale degli elementi radiogeni e nella geologia complessiva. Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare questa asimmetria, ma la sua origine resta ancora oggetto di dibattito.
Alcuni studi suggeriscono che queste differenze possano derivare da variazioni nella struttura interna della Luna, in particolare nella distribuzione degli elementi radiogeni responsabili della produzione di calore. Tale distribuzione potrebbe aver generato, nel corso del tempo, una persistente differenza di temperatura tra il lato visibile e quello nascosto. Questi modelli riescono, ad esempio, a spiegare la concentrazione del vulcanismo sul lato visibile della Luna, offrendo al contempo preziosi vincoli sulle masse e sulla distribuzione degli elementi radiogeni stessi, che restano in gran parte poco conosciuti.
Tuttavia, fino a oggi non era stata trovata alcuna evidenza osservativa inequivocabile di differenze termiche o di variazioni strutturali profonde. Ora, uno studio recentemente pubblicato su Nature ha quantificato la presenza di tali differenze analizzando la risposta gravitazionale della Luna alle forze mareali periodiche esercitate dalla Terra, rivelando che l’interno del nostro satellite è più caldo sul lato vicino, quello rivolto verso il nostro pianeta, e suggerendo che le strutture interne lunari siano irregolari.
Questo è stato dedotto da Ryan Park e colleghi, analizzando i dati della missione Grail (Gravity Recovery and Interior Laboratory) della Nasa, lanciata nel 2011 con lo scopo di mappare con altissima precisione il campo gravitazionale della Luna. I ricercatori hanno calcolato con precisione quanto la Luna sia suscettibile a deformarsi in risposta alla gravità terrestre, scoprendo che tale misura è superiore del 72 per cento rispetto a quanto ci si aspetterebbe se l’interno lunare fosse perfettamente uniforme e simmetrico. In particolare, utilizzando i dati delle sonde gemelle Ebb e Flow – le due componenti della missione Grail – il team ha rilevato una differenza del 2-3 per cento nella capacità del mantello lunare di deformarsi tra il lato vicino e quello nascosto.
Modello concettuale dell’evoluzione dell’interno lunare. Circa 4 miliardi di anni fa (a sinistra), una parziale fusione del mantello nel lato vicino della Luna — legata a un’anomalia termica — risale verso la superficie, dando origine ai mari lunari. Con il progressivo raffreddamento dell’interno (a destra), la zona di fusione si è ritirata in profondità, stabilizzandosi oggi tra 800 e 1.200 km sotto la superficie. La scala cromatica rappresenta la temperatura del mantello (dal giallo chiaro per le zone più calde all’arancione scuro e al verde per quelle più fredde). Le croci gialle indicano la posizione dei terremoti lunari, localizzati all’interno o in prossimità delle attuali regioni parzialmente fuse del mantello. Crediti: Park et al., Nature
Il team ha esplorato diverse possibili cause dell’anomalia, tra cui la composizione chimica della Luna. Tuttavia, i ricercatori sono giunti alla conclusione che tali dati potrebbero essere ben spiegati da una differenza termica fino a 170 °C tra l’interno dell’emisfero vicino e quello del lato lontano. Si ipotizza che tale differenza sia sostenuta dal decadimento radioattivo di elementi come torio e titanio, concentrati nell’interno del lato visibile, forse come residuo dell’intensa attività vulcanica che ha modellato quella regione tra 3 e 4 miliardi di anni fa.
Secondo gli autori, i metodi utilizzati per sondare l’interno della Luna potrebbero essere applicati anche ad altri corpi planetari, come Marte, Encelado e Ganimede, in quanto non richiedono l’atterraggio diretto di una sonda sulla superficie.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Thermal asymmetry in the Moon’s mantle inferred from monthly tidal response” di R. S. Park, A. Berne, A. S. Konopliv, J. T. Keane, I. Matsuyama, F. Nimmo, M. Rovira-Navarro, M. P. Panning, M. Simons, D. J. Stevenson & R. C. Weber
Un milione e 200mila euro al progetto Darker
La ricercatrice Cristiana Spingola davanti al radiotelescopio Hartebeesthoek, in Sudafrica. Crediti: Inaf
Il progetto Darker – Accurate constraints on dark energy and dark matter using strong lensing in the era of precision cosmology riceve un finanziamento di 1,2 milioni di euro grazie al Fondo italiano per la scienza – Fis 2, erogato dal Ministero dell’università e della ricerca (Mur). A guidare la ricerca sarà Cristiana Spingola, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), con l’obiettivo di sondare alcuni degli enigmi più profondi della cosmologia: energia oscura e materia oscura, che insieme costituiscono circa il 95 per cento dell’intero universo.
Il progetto Darker ha l’obiettivo di scoprire nuove lenti gravitazionali molto piccole che, come potentissimi telescopi naturali, permetteranno di indagare in modo ancora più accurato alcuni aspetti dell’universo lontano. Il fenomeno della lente gravitazionale, o lensing in inglese, è un effetto previsto dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein. «Se un oggetto molto massiccio – come una galassia o un ammasso di galassie – si trova tra noi e una sorgente luminosa lontana – come un quasar – il suo potenziale gravitazionale può deviare la radiazione, producendo immagini multiple della sorgente di sfondo», spiega Spingola. «Ogni variazione di intensità luminosa avverrà in tempi diversi nelle diverse immagini, ovvero con un ritardo temporale (time delay). È proprio quest’ultima proprietà che Darker sfrutterà per cercare questi oggetti estremamente rari, finora sfuggiti all’osservazione».
La particolarità del progetto risiede quindi nel suo approccio innovativo: per la prima volta, la ricerca di lenti gravitazionali verrà condotta nel dominio temporale (time-domain) invece che tramite immagini statiche. Per la conferma delle “candidate lenti” serviranno osservazioni ad altissima risoluzione angolare. In questo contesto osservazioni con i tre radiotelescopi italiani dell’Inaf – il Sardinia Radio Telescope (Cagliari) e le parabole gemelle di Medicina (Bologna) e Noto (Siracusa) – in modalità Vlbi (Very Long Baseline Interferometry), saranno fondamentali per determinare la natura di queste rarissime lenti gravitazionali di piccolissima massa.
«Sappiamo ancora troppo poco di materia ed energia oscura. Grazie a questo approccio innovativo, potremo identificare simultaneamente lenti gravitazionali molto piccole e sorgenti variabili sullo sfondo, finora invisibili con le tecniche tradizionali», commenta Spingola, la quale svolgerà il suo progetto presso l’Istituto di radioastronomia e in collaborazione con l’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio, le due sedi bolognesi dell’Inaf.
Il progetto punta quindi a identificare centinaia di nuove lenti usando dati raccolti in passato dai telescopi spaziali Gaia e Fermi, cercando in particolare oggetti molto compatti con masse di pochi milioni di masse solari, la cui esistenza – o assenza – potrebbe aiutare a chiarire la vera natura della materia oscura, distinguendo tra modelli “freddi” o “caldi”.
«La conferma finale della natura di questi oggetti», aggiunge Spingola, «sarà possibile solo usando la tecnica della Very Long Baseline Interferometry, di cui l’Inaf vanta un’esperienza storica ed è oggi tra i protagonisti della tecnica Vlbi in Europa, con le sue strutture radioastronomiche che rappresentano un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale».
Darker contribuirà anche alla determinazione precisa della costante di Hubble (H₀), parametro che misura la velocità di espansione dell’universo. «Questa misura sarà indipendente da quelle attualmente disponibili e potrà aiutare a risolvere una delle più grandi controversie dell’astrofisica moderna, la cosiddetta tensione di Hubble, che consiste nel disaccordo tra le stime di H₀ ottenute da osservazioni dell’universo primordiale e quelle basate su misure più vicine a noi. Darker potrebbe rappresentare, quindi, un passo importante per fare luce sull’universo oscuro», conclude la ricercatrice.
Originaria di Perugia e laureata in astrofisica all’Università di Bologna, Cristiana Spingola si è formata scientificamente tra Italia e Paesi Bassi, dove ha conseguito il dottorato all’Università di Groningen. Ricercatrice a tempo indeterminato dal 2023, è esperta di interferometria radio e lensing gravitazionale, e partecipa attivamente alla preparazione scientifica della prossima generazione di interferometri radio, come quelli del progetto Ska.
Il finanziamento complessivo è stato erogato nell’ambito del macrosettore Physical Sciences and Engineering – Universe Sciences del Fis 2. I fondi Fis sostengono ogni anno progetti di ricerca altamente innovativi nei principali settori scientifici, seguendo il modello dello European Research Council.
Una barra agitata, undici miliardi di anni fa
Si è presentata così, come un dettaglio piccino e a prima vista irrilevante in un’immagine del ben più appariscente Vv114, sistema di galassie in interazione situato a soli 300 milioni di anni luce dalla Terra. Dettaglio che però non è passato inosservato agli occhi attenti degli astronomi che hanno deciso di approfondirne la natura. Che si è rivelata oltremodo sorprendente, tanto da meritarsi un articolo su Nature uscito la scorsa settimana. E che ha per protagonista J0107a, enorme galassia a spirale barrata, la cui luce ci ha raggiunti direttamente dall’infanzia dell’universo, poco più di undici miliardi di anni fa.
Il sistema di galassie interagenti Vv114 in un’immagine del James Webb Space Telescope (a sinistra). J0107a, galassia protagonista della scoperta, si trova nel dettaglio ingrandito nel pannello di destra. Crediti: Nasa, Alma (Eso/Naoj/Nrao), Huang et al.
Lo studio è guidato da Shuo Huang, del National Astronomical Observatory giapponese (Naoj) e dell’Università di Nagoya, sempre in Giappone. Che cos’ha di speciale questa galassia? Intanto è bella grossa, dieci volte più massiccia della Via Lattea, la nostra galassia. Ma sopratutto, ha qualcosa di curioso nella forma. Le galassie a spirale barrata si contraddistinguono per la presenza di una struttura – la barra, per l’appunto – che attraversa lo sferoide centrale – il bulge – e dalla quale si diramano i caratteristici bracci. Le barre sono costituite da stelle e gas, e le galassie che le possiedono sono piuttosto comuni nell’universo attuale. Anche la nostra galassia, la Via Lattea, viene comunemente classificata come galassia a spirale barrata. Il fatto è che J0107a sembrerebbe una galassia molto precoce, nel senso che somiglia moltissimo alle spirali barrate che brulicano nell’universo attuale, sebbene risalga a un’epoca cosmica molto antica, a meno di tre miliardi di anni dal Big Bang. La sua barra però ha colpito gli astronomi perché è per metà costituita da gas, a differenza di quelle delle galassie locali, costituite da gas solo per il dieci per cento. E questa barra è pure piuttosto agitata.
Utilizzando l’interferometro Alma, gli astronomi hanno notato che grandi quantità di gas sono convogliate dalla barra verso le regioni centrali di J0107a, gas che si muove alla velocità di centinaia di chilometri al secondo. Questo materiale sta generando intensi episodi di formazione stellare nel nucleo di J0107a. Gli astronomi hanno stimato che la galassia forma stelle ben trecento volte più rapidamente rispetto alla Via Lattea. Alma ha consentito agli astronomi di studiare l’emissione delle molecole di monossido di carbonio (CO, in formule chimiche) e degli atomi di carbonio. Il gas molecolare costituisce la materia prima per la formazione stellare, per questo è molto importante studiarlo ricorrendo a strumenti all’avanguardia come Alma. Dotato di sopraffina risoluzione angolare e sensibilità alla luce emessa alle lunghezze d’onda millimetriche e sub-millimetriche, Alma ha consentito di guardare attraverso i polverosi meandri di J0107a, là dove perfino l’occhio di Webb risulta un po’ miope. Grossi episodi di formazione stellare producono infatti delle gran quantità di polveri che avvolgono galassie come questa, rendendo arduo il loro studio. La luce emessa alle lunghezze d’onda del millimetrico fortunatamente attraversa indisturbata questi muri di polvere e pertanto Alma rimane ancora il cavallo di battaglia per studiare galassie come J0107a – della sinergia fra Alma e Webb abbiamo parlato in questo video.
L’emissione stellare (in blu) della galassia J0107a, catturata da Webb con lo strumento NirCam. In rosso viene invece mostrata quella del gas molecolare CO(4-3), visto da Alma. Si nota la barra che attraversa la regione centrale della galassia, visibile nelle immagini di entrambi gli strumenti. Crediti: Nasa, Alma (Eso/Naoj/Nrao), Huang et al.
In gergo si chiamano galassie starburst, quelle galassie che stanno attraversando fasi di violenta formazione stellare. Agli inizi della storia del cosmo erano molto comuni, ma se ne trova qualcuna anche nei paraggi della Via Lattea. Quasi tutte le galassie starburst locali hanno una morfologia turbolenta dettata dall’interazione con altre galassie. L’interazione fra galassie agita il gas, scatenando degli intensi episodi di formazione stellare. Gli astronomi dunque ritengono che qualcosa di simile avvenisse anche in passato, ovvero che le fusioni fra galassie – in inglese, mergers – inneschino i mirabolanti eventi di formazione stellare che caratterizzano le galassie starburst lontane.
Esempio di starburst nell’universo vicino. Le fusioni tra galassie innescano intensi episodi di formazione stellare. Crediti: Nasa/Esa
Il problema è che molte di queste galassie, anziché presentarsi con una forma irregolare, slabbrata dall’interazione gravitazionale, come accade per le loro analoghe locali, nell’universo lontano si presentato con un’apparentemente quieta forma a disco. Questo ce l’hanno raccontato negli ultimi anni i dati di Alma e, più di recente, le sorprendenti immagini di Webb. Quest’ultimo ha immortalato J0107a nel 2023, rivelandone la forma regolare e la massa particolarmente pronunciata. Galassie, dunque, in apparenza placide come la nostra, che si degna di sfornare su per giù una stella all’anno, grossa come il Sole. Ci dev’essere dunque qualche altro meccanismo nell’universo lontano capace di innescare scoppi improvvisi di formazione stellare, al di là dei merger fra galassie. Quello individuato da Huang e collaboratori potrebbe fornire una risposta, rappresentando uno scenario alternativo alle fusioni tra galassie per generare ondate di nuovi astri. È la prima evidenza di un meccanismo di questo genere nell’universo lontano.
«La notevole quantità di gas necessaria per la crescita delle galassie giganti è fornita da fusioni fra galassie o afflussi di gas dalla ragnatela cosmica», spiega Huang riguardo alla struttura a disco di J0107a. «Mentre non ci sono segni di una fusione galattica, è stato rilevato un grande disco di gas attorno a J0107a. Questo disco di gas ha un diametro di circa 120mila anni luce, il doppio del diametro del corpo principale della galassia visibile come stelle, e il suo moto segue approssimativamente la galassia stessa. In base a ciò, ipotizziamo che sia stato creato da una grande quantità di gas che spiraleggia verso la galassia dalla ragnatela cosmica».
E aggiunge, rispetto al ruolo della barra nel favorire imponenti episodi di formazione stellare: «Questa è una nuova immagine di una galassia starburst, in cui una galassia a disco si forma da un flusso di gas su scala cosmica, seguito dall’emergere di una struttura a barra durante l’evoluzione della galassia, che porta a rapidi flussi di gas su scala galattica e a intensi episodi di formazione stellare. Continueremo i nostri studi osservativi con Alma per approfondire questi aspetti».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Large gas inflow driven by a matured galactic bar in the early Universe” di Shuo Huang, Ryohei Kawabe, Hideki Umehata, Kotaro Kohno, Yoichi Tamura e Toshiki Saito
Pianeta nano ai confini del Sistema solare
L’immagine mostra una composizione di cinque pianeti nani conosciuti dall’Unione astronomica internazionale e l’oggetto transnettuniano 2017 OF201 recentemente scoperto (cliccare per ingrandire). Crediti immagini pianeti nani: Nasa/Jpl-Caltech; crediti immagine 2017 OF201: Sihao Cheng et al.
Il Sistema solare non smette di sorprenderci, e i suoi confini si spingono sempre più lontano. Lo ha dimostrato un piccolo team di Princeton, nel New Jersey, quando il 21 maggio scorso ha confermato la scoperta di uno straordinario oggetto transnettuniano (Tno, da trans-Neptunian object) oltre l’orbita di Plutone chiamato 2017 OF201.
Tale rilevamento ha importanti implicazioni per la nostra conoscenza del Sistema solare esterno. Fino a qualche tempo fa si riteneva che la regione di spazio oltre Nettuno e la fascia di Kuiper fosse pressoché vuota, ma l’individuazione di questo oggetto suggerisce che la realtà potrebbe essere ben diversa. Il Tno appena scoperto è speciale per due motivi: la sua orbita estesa e le sue dimensioni ragguardevoli: con i suoi circa 700 km di diametro è infatti abbastanza grande da qualificarsi come pianeta nano, la stessa categoria a cui appartiene Plutone, ed è uno degli oggetti visibili più distanti del Sistema solare.
«Il suo afelio, il punto dell’orbita più lontano dal Sole, è 1600 volte l’orbita della Terra», spiega Sihao Cheng, capo del team di ricerca e membro presso la School of Natural Sciences dell’Institute for Advanced Study. «Invece, il suo perielio, il punto dell’orbita più vicino al Sole, è 44.5 volte l’orbita della Terra, simile all’orbita di Plutone».
Il corpo impiega ben 25mila anni a compiere un giro completo attorno al Sole, suggerendo dunque una complessa storia di interazioni gravitazionali. «Deve aver avuto incontri ravvicinati con un pianeta gigante, che lo hanno spinto a compiere un’orbita ampia», dice Eritas Yang, studentessa della Princeton University e collaboratrice della scoperta. «Potrebbero esserci stati più passaggi nella sua migrazione. È possibile che questo oggetto sia inizialmente stato espulso dalla nube di Oort, la regione più distante del Sistema solare, e sia poi stato rimandato indietro», aggiunge Cheng.
L’immagine mostra l’orbita di 2017 OF201. L’ingrandimento evidenza la posizione del pianeta, Plutone e Nettuno il giorno 21 maggio 2025. Crediti: Jiaxuan Li and Sihao Cheng
«Molti Tno hanno orbite che sembrano raggrupparsi in configurazioni specifiche, ma 2017 OF201 si discosta da questo comportamento», osserva Jiaxuan Li, studente della Princeton University, terzo e ultimo componente del team di ricerca. Si pensa che questi orientamenti siano causati dall’influenza gravitazionale di un pianeta massiccio oltre Nettuno, il cosiddetto Pianeta X. L’esistenza di 2017 OF201, eccezione a tali raggruppamenti, potrebbe suggerire che in realtà tale pianeta non esista.
Come dicevamo, Cheng e i colleghi stimano per 2017 OF201 un diametro di circa 700 km, dimensioni dunque relativamente ridotte rispetto ai 2377 km di Plutone. Se la misura fosse accurata, diventerebbe comunque il secondo oggetto conosciuto più grande avente un’orbita così estesa. Ulteriori osservazioni, anche con l’uso di radiotelescopi, saranno preò necessarie per determinare l’esatta grandezza dell’oggetto.
La scoperta fa parte di un progetto di ricerca volto a identificare oggetti transnettuniani e possibili nuovi pianeti ai confini del Sistema solare. Il corpo è stato individuato utilizzando metodi computazionali avanzati e un algoritmo efficiente prodotto da Cheng. Il team è partito dall’identificazione di punti luminosi in un database di immagini astronomiche del telescopio Victor M. Blanco e del Canada-France-Hawaii Telescope. Connettendo tutti i gruppi di punti che sembravano muoversi in una traiettoria probabile per un Tno, l’oggetto 2017 OF201 è stato identificato in 19 diverse esposizioni catturate nell’arco di 7 anni.
Immagini di 2017 OF201 dal database dei telescopi e la sua traiettoria nel cielo nell’arco di tempo compreso tra il 2012 e il 2018. Crediti: Jiaxuan Li and Sihao Cheng
«Il pianeta trascorre solo l’un per cento del suo tempo abbastanza vicino a noi da poterlo rilevare. La presenza dell’oggetto suggerisce che potrebbero esserci altri centinaia di corpi con orbite e grandezze simili, ma che al momento sono troppo lontani per essere individuati», spiega Cheng. «Nonostante i progressi dei telescopi ci abbiano permesso di esplorare zone distanti dell’universo, c’è ancora molto da scoprire sul nostro stesso Sistema solare».
La scoperta dimostra anche la forza dell’open science. «Tutti i dati che abbiamo utilizzato per identificare e caratterizzare questo oggetto provengono da archivi pubblici accessibili a chiunque, non solo agli astronomi professionisti», sottolinea infatti Li. «Questo significa che le scoperte rivoluzionarie non sono limitate a chi ha accesso ai più grandi telescopi del mondo. Qualsiasi ricercatore, studente o appassionato di scienza, con gli strumenti e le conoscenze giuste, avrebbe potuto fare questa scoperta, mettendo in evidenza il valore della condivisione delle risorse scientifiche».
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo “Discovery of a dwarf planet candidate in an extremely wide orbit: 2017 OF201”, di Sihao Cheng, Jiaxuan Li ed Eritas Yang
Con l’image restoring, il Sole in 8K
Uno dei grandi ostacoli nell’osservazione del Sole con telescopi da terra è rappresentato dalle distorsioni delle immagini introdotte dall’atmosfera. Anche con ottiche sofisticatissime, le istantanee che questi strumenti di ricerca ottengono possono infatti risultare sfocate. Tali alterazioni risultano problematiche soprattutto quando si vogliono studiare strutture molto fini della superficie solare, dell’ordine di poche centinaia di chilometri.
Immagine ad alta risoluzione, ricostruita a partire da cento esposizioni singole, catturate dal nuovo sistema di telecamere del Vacuum Tower Telescope. Crediti: R. Kamlah et al., Solar Physics, 2025
Per superare questi limiti, gli scienziati si affidano a diverse tecniche di restauro delle immagini. La speckle reconstruction è una di queste. Un team di ricerca dell’Istituto Leibniz per l’astrofisica di Potsdam, in Germania, ha applicato questa tecnica a una serie di immagini catturate con il telescopio solare Vacuum Tower Telescope, situato all’Osservatorio del Teide, alle Isole Canarie. Il risultato, reso possibile anche grazie all’impiego di nuove telecamere installate sul telescopio, consiste in una serie di immagini del Sole ad altissima definizione, nelle quali è possibile distinguere nitidamente i dettagli più fini delle sue regioni attive. Lo studio è stato pubblicato questo mese sulla rivista Solar Physics.
La speckle reconstruction è una tecnica che permette di migliore la qualità delle immagini astronomiche, in questo caso del Sole, riducendo o eliminando gli effetti del seeing atmosferico, del rumore elettronico e di altri fenomeni di degrado. Il metodo si basa sull’acquisizione di centinaia di immagini a esposizione molto breve. Questi scatti vengono poi combinati e processati tramite algoritmi di restauro, generando istantanee prive di distorsioni, il più fedele possibile alla realtà. Nel caso specifico, i ricercatori hanno applicato la tecnica alle immagini del Sole acquisite dal Vacuum Tower Telescope nel maggio 2024, ritraenti due regioni attive: Noaa 13691 e Noaa 13693. Dando in pasto all’algoritmo di image restoring cento di queste istantanee da 8000×6000 pixel, è stato possibile ottenere immagini in 8K, nitide e ricche di dettagli.
Le immagini coprono aree equivalenti a circa 1/7 del diametro del Sole, ovvero circa 200mila chilometri, spiegano i ricercatori. L’elevata frequenza degli scatti ha consentito di eliminare le distorsioni dovute all’atmosfera terrestre, facendo raggiungere al telescopio una risoluzione spaziale teorica di 100 chilometri sulla superficie del Sole. Inoltre, la rapidità nell’acquisizione delle immagini ha reso possibile la realizzazione di time-lapse con intervalli di appena 20 secondi, permettendo agli scienziati di osservare quasi in tempo reale l’evoluzione di fenomeni dinamici.
A sinistra, il dettaglio di un’immagine del Sole scattata con il Vacuum Tower Telescope di Tenerife. A destra, l’immagine ad alta risoluzione ricostruita a partire da cento esposizioni singole, catturate dal nuovo sistema di telecamere. Il nuovo sistema di telecamere del telescopio consente ai ricercatori di studiare con i grandi flussi di plasma, nonché l’evoluzione e il moto delle macchie solari. Crediti: R. Kamlah et al., Springer Nature, 2025
«Le prestazioni del nuovo sistema di telecamere hanno superato ogni aspettativa fin dal primo momento», sottolinea Robert Kamlah, ricercatore all’Università di Potsdam e primo autore dello studio
Le immagini restaurate mostrano con chiarezza le due macchie solari e, attorno ad esse, una distesa di granuli solari – le sommità delle celle convettive di plasma che risalgono dalla parte inferiore della fotosfera, conferendo al Sole il suo tipico aspetto “a buccia d’arancia”. Grazie a filtri speciali, i ricercatori sono stati in grado di rilevare tracce del campo magnetico solare, visibili nelle immagini come strutture luminose. Le osservazioni effettuate a 393 e 430 nanometri hanno inoltre permesso di identificare aree ad alta attività magnetica e di monitorare i movimenti del plasma in due strati dell’atmosfera solare: la fotosfera e la zona di transizione verso la cromosfera.
Nella studio, immagini nitide del Sole sono state ottenute anche con un’altra tecnica di miglioramento. Chiamata multi-frame blind deconvolution (deconvoluzione cieca), questo metodo ha lo stesso obiettivo del metodo speckle: ottenere un’immagine il più possibile fedele alla scena reale a partire da dati sfocati. Tuttavia, a differenza della speckle reconstruction, viene usata per rimuovere effetti di distorsione senza conoscerne esattamente la causa, da cui il nome deconvoluzione cieca.
Telescopi come il Vtt sono strumenti fondamentali per lo studio dell’attività solare, soprattutto quando si vogliono analizzare vaste regioni attive durante brillamenti solari o altri eventi eruttivi connessi alla meteorologia spaziale, osservano i ricercatori. In futuro, sistemi a basso costo dotati di telecamere 8K giocheranno un ruolo chiave per la prossima generazione di telescopi solari da 4 metri di diametro, triplicando il campo visivo rispetto alle attuali tecnologie basate su sensori 4K.
Per saperne di più:
- Leggi su Solar Physics l’articolo “Wide-Field Image Restoration of G-Band and Ca ii K Images Containing Large and Complex Active Regions” di Robert Kamlah, Meetu Verma, Carsten Denker, Ioannis Kontogiannis, Alexander G. M. Pietrow, Jürgen Rendtel, Emily Lößnitz, Arooj Faryad, Reiner Volkmer, Rolf Schlichenmaier, Thomas Berkefeld, Miguel Esteves, Olivier Grassin e Markus Roth
Disfida tra galassie nello spazio profondo
In una zona remota dell’universo, due galassie sono impegnate in una guerra avvincente. Caricano ripetutamente l’una contro l’altra a velocità di 500 km/s su una violenta rotta di collisione, solo per assestare un colpo di striscio prima di ritirarsi e prepararsi per un altro round. «Per questo chiamiamo questo sistema ‘giostra cosmica’», dice Pasquier Noterdaeme, coautore dello studio pubblicato la settimana scorsa su Nature che riporta il risultato e ricercatore presso l’Istituto di astrofisica di Parigi, in Francia, e il Laboratorio franco-cileno di astronomia in Cile, facendo un paragone con lo sport medievale. Ma questi cavalieri galattici non sono realmente cavallereschi, e uno di loro ha un vantaggio decisamente sleale: usa un quasar per trafiggere l’avversario con una lancia di radiazioni.
Questa immagine, ottenuta con Alma, mostra il contenuto di gas molecolare di due galassie coinvolte in una collisione cosmica. Quella a destra ospita un quasar, un buco nero supermassiccio che sta accumulando materiale dall’ambiente circostante e rilascia intense radiazioni direttamente verso l’altra galassia. Gli astronomi hanno utilizzato lo strumento X-shooter del Vlt dell’Eso per rilevare la luce del quasar mentre attraversa un alone invisibile di gas che circonda la galassia sulla sinistra. In questo modo è stato possibile osservare i “danni” che questa radiazione provoca alla “vittima”, frammentando le sue nubi di gas e ostacolando la sua capacità di formare nuove stelle. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao)/S. Balashev e P. Noterdaeme et al.
Il quasar è il nucleo luminoso di alcune galassie lontane, alimentato da un buco nero supermassiccio, che rilascia enormi quantità di radiazioni. Sia i quasar che la fusione tra galassie erano molto più comuni nel passato: più frequenti nei primi miliardi di anni di vita dell’universo, quindi per osservarli gli astronomi scrutano il lontano passato con potenti telescopi. La luce di questa “giostra cosmica” ha impiegato oltre 11 miliardi di anni per raggiungerci, quindi la vediamo com’era quando l’universo aveva solo il 18 per cento dell’età attuale.
«Qui vediamo per la prima volta l’effetto della radiazione di un quasar direttamente sulla struttura interna del gas in una galassia altrimenti normale», spiega Sergei Balashev, primo autore dello studio e ricercatore presso l’istituto Ioffe di San Pietroburgo, in Russia. Le nuove osservazioni indicano che la radiazione rilasciata dal quasar disgrega le nubi di gas e polvere nella galassia normale, lasciando indietro solo le regioni più piccole e dense, probabilmente troppo piccole per essere in grado di formare stelle, e provocando una notevole trasformazione che lascia la galassia ferita con meno incubatrici stellari.
Ma la vittima galattica non è l’unica a essere trasformata. «Si pensa che queste fusioni», spiega Balashev, «portino enormi quantità di gas ai buchi neri supermassicci che risiedono nel centro delle galassie». Nella giostra cosmica, nuove riserve di combustibile vengono messe alla portata del buco nero che alimenta il quasar. Mentre il buco nero si alimenta, il quasar può continuare il suo attacco distruttivo.
Lo studio è stato condotto utilizzando Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) e lo strumento X-shooter montato sul Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio europeo australe), entrambi situati nel deserto di Atacama in Cile. L’alta risoluzione di Alma ha aiutato gli astronomi a distinguere chiaramente le due galassie in fusione, così vicine da apparire come un singolo oggetto nelle osservazioni precedenti. Con X-shooter, i ricercatori hanno analizzato la luce del quasar mentre attraversava la galassia normale. Questo ha permesso al gruppo di lavoro di studiare come la galassia abbia sofferto a causa della radiazione del quasar in questa lotta cosmica.
Osservazioni con telescopi più grandi e potenti potrebbero rivelare di più su collisioni come questa. Come afferma Noterdaeme, un telescopio come l’Elt (Extremely Large Telescope) dell’Eso «ci consentirà sicuramente di compiere uno studio più approfondito di questo e di altri sistemi, per comprendere meglio l’evoluzione dei quasar e il loro effetto sulla galassia ospitie e su quelle vicine».
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Quasar radiation transforms the gas in a merging companion galaxy”, di Sergei Balashev, Pasquier Noterdaeme, Neeraj Gupta, Jens-Kristian Krogager, Françoise Combes, Sebastián López, Patrick Petitjean, Alain Omont, Raghunathan Srianand e Rodrigo Cuellar
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Disco di ghiaccio cinge una giovane stella
Un team di ricercatori guidato da Chen Xie della Johns Hopkins University di Baltimore, nel Maryland, ha confermato la presenza di ghiaccio d’acqua cristallino in un disco di detriti polverosi attorno a una giovane stella simile al Sole, HD 181327, distante circa 155 anni luce da noi. Il risultato, pubblicato la settimana scorsa su Nature, è stato ottenuto grazie ai dati raccolti dal telescopio spaziale James Webb Space Telescope (Jwst) della Nasa.
La presenza di acqua ghiacciata in questo sistema era già stata suggerita da alcune osservazioni dell’ormai defunto telescopio spaziale Spitzer della Nasa. Ora, la sensibilità senza precedenti degli strumenti del Jwst ha permesso di rilevare in modo inequivocabile il ghiaccio d’acqua cristallino, presente anche – nel Sistema solare – in ambienti come gli anelli di Saturno o i corpi ghiacciati della Fascia di Kuiper. Il ghiaccio rilevato da Webb è associato a minuscole particelle di polvere distribuite in tutto il disco: vere e proprie “palle di neve sporche” in miniatura, che testimoniano un ambiente dinamico e ricco di collisioni tra corpi minori.
Rappresentazione artistica della stella HD 181327 osservata dal James Webb e del suo disco di detriti dove è stato osservato il ghiaccio d’acqua cristallino. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Ralf Crawford (Stsci)
Il ghiaccio d’acqua è un ingrediente fondamentale nei dischi attorno alle giovani stelle: influenza fortemente la formazione dei pianeti giganti e può anche essere trasportato da piccoli corpi, come comete e asteroidi, verso i pianeti rocciosi già formati.
Si stima che la stella HD 181327 abbia circa 23 milioni di anni, dunque significativamente più giovane del Sole, rispetto al quale è anche leggermente più massiccia e più calda, caratteristiche che hanno favorito la formazione di un sistema più grande attorno ad essa.
I dati, raccolti dallo strumento NirSpec (Near-Infrared Spectrograph) del Jwst, hanno rivelato una distribuzione non uniforme del ghiaccio all’interno del disco. La concentrazione maggiore, oltre il 20 per cento, si trova nelle zone più esterne e fredde, lontane dalla stella. La percentuale scende nella parte intermedia all’8 per cento, mentre le zone più interne non mostrano, agli occhi del Webb, alcuna traccia di ghiaccio. Si pensa che in queste regioni la radiazione ultravioletta della stella abbia vaporizzato le particelle, oppure che il ghiaccio sia stato inglobato all’interno dei planetesimi, rendendolo invisibile agli strumenti del telescopio.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Water ice in the debris disk around HD 181327”, di Chen Xie, Christine H. Chen, Carey M. Lisse, Dean C. Hines, Tracy Beck, Sarah K. Betti, Noemí Pinilla-Alonso, Carl Ingebretsen, Kadin Worthen, András Gáspár, Schuyler G. Wolff, Bryce T. Bolin, Laurent Pueyo, Marshall D. Perrin, John A. Stansberry e Jarron M. Leisenring
Troppo vicina al buco nero: la fine di una stella
Pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un articolo scientifico a guida dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) riporta l’osservazione di un raro evento di distruzione mareale (o Tde, dall’inglese Tidal Disruption Event) in una coppia di galassie in interazione. Chiamato At 2022wtn, il fenomeno è stato segnalato alla comunità astronomica dalla Zwicky Transient Facility e quindi classificato come evento di distruzione mareale grazie a osservazioni spettroscopiche a cui ha fatto seguito una campagna multi-frequenza nell’ambito della collaborazione ePessto+, coprendo lo spettro elettromagnetico dalla banda radio agli infrarossi, per arrivare fino ai raggi X. Questo studio apre nuove prospettive sui processi che si innescano quando una stella si avvicina troppo a un buco nero supermassiccio al centro di una galassia e sulla connessione tra questi eventi distruttivi e l’evoluzione dinamica delle galassie.
L’evento di distruzione mareale si è verificato nel nucleo della galassia meno massiccia della coppia (denominata Sdssj232323.79+104107.7), circa dieci volte più piccola della sua compagna, in un sistema in fase iniziale di “fusione” che ha probabilmente già subito un primo passaggio ravvicinato.
Immagine dal Legacy Survey Dr10 del campo di At 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys/D. Lang (Perimeter Institute)/Inaf/F. Onori
At 2022wtn mostra caratteristiche particolarmente insolite rispetto agli eventi simili già noti, come spiega Francesca Onori, assegnista di ricerca dell’Inaf in Abruzzo e prima autrice dello studio. «È un evento peculiare. La sua curva di luce è caratterizzata da un plateau nella fase di massima luminosità – della durata di circa 30 giorni – accompagnato da un brusco crollo della temperatura e una sequenza spettrale che mostra lo sviluppo di due righe in emissione in corrispondenza delle lunghezze d’onda dell’elio e dell’azoto. Qualcosa che non avevamo mai osservato con tanta chiarezza».
Gli eventi di distruzione mareale si verificano quando una stella si avvicina a un buco nero supermassiccio, generalmente situato al centro di una normale galassia. La potente forza gravitazionale esercitata dal buco nero supera la forza di gravità che tiene insieme la stella, riuscendo prima a deformarla e poi a distruggerla, allungandola sino a formare sottili filamenti, in un processo, chiamato “spaghettificazione”, durante il quale viene rilasciata un’enorme quantità di energia osservabile da Terra. I frammenti stellari catturati formano un disco di materiale che orbita intorno al buco nero (il disco di accrescimento) che, cadendo su di esso, si riscalda a temperature altissime ed emette radiazioni intense alle frequenze X, Uv e del visibile.
Francesca Onori, ricercatrice all’Inaf d’Abruzzo e prima autrice dello studio pubblicato su Mnras
Tra gli aspetti più sorprendenti riportati nell’articolo c’è anche la rilevazione di un’emissione radio transiente, segno della presenza di flussi di materia in uscita (outflow in inglese), e forti variazioni nel tempo delle velocità delle linee spettrali. Tutti questi indizi indicano che una stella di bassa massa è stata completamente distrutta da un buco nero supermassiccio di circa un milione di masse solari, generando il disco di accrescimento e una sorta di “bolla” quasi sferica di gas espulso in espansione.
«Abbiamo trovato tracce chiare della dinamica del materiale circostante anche in alcune righe in emissione», aggiunge Onori, «che mostrano caratteristiche compatibili con una veloce propagazione verso l’esterno. Grazie alla nostra campagna di monitoraggio siamo riusciti a proporre un’interpretazione dell’origine della radiazione osservata: At2022wtn ha dato luogo a una rapida formazione del disco attorno al buco nero e alla successiva espulsione di parte della materia stellare. Questo risultato è particolarmente rilevante, poiché la sorgente della luce visibile e le condizioni fisiche della regione da cui essa proviene, nei Tde, sono ancora oggetto di studio».
Il gruppo di ricerca si è inoltre concentrato sull’ambiente galattico dell’evento. AT 2022wtn è il secondo evento di distruzione mareale osservato in una coppia di galassie in interazione, una coincidenza che, secondo quanto si legge nello studio, non è casuale: le prime fasi delle fusioni galattiche potrebbero infatti favorire un aumento della frequenza di questi fenomeni estremi, ancora poco compresi.
«Questa eccellente scoperta scientifica mette in luce quanto l’astrofisica moderna richieda sempre maggiori conoscenze interdisciplinari e notevoli capacità di analisi multibanda. È davvero molto importante che l’Inaf sia pronto a raccogliere queste sfide scientifiche con giovani ricercatrici come Francesca Onori», conclude Enzo Brocato, dirigente di ricerca presso l’Inaf a Roma e tra gli autori dell’articolo.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “The case of AT2022wtn: a Tidal Disruption Event in an interacting galaxy”, di F. Onori, M. Nicholl, P. Ramsden, S. McGee, R. Roy, W. Li, I. Arcavi, J. P. Anderson, E. Brocato, M. Bronikowski, S. B. Cenko, K. Chambers, T. W. Chen, P. Clark, E. Concepcion, J. Farah, D. Flammini, S. González-Gaitán, M. Gromadzki, C. P. Gutiérrez, E. Hammerstein, K. R. Hinds, C. Inserra, E. Kankare, A. Kumar, L. Makrygianni, S. Mattila, K. K. Matilainen, T. E. Müller-Bravo, T. Petrushevska, G. Pignata, S. Piranomonte, T. M. Reynolds, R. Stein, Y. Wang, T. Wevers, Y. Yao e D. R. Young
Einstein Telescope, da lunedì il Simposio a Bologna
Dal 26 al 30 maggio la comunità internazionale di Einstein Telescope (Et) si riunirà a Bologna per il suo quindicesimo Simposio annuale, un evento che vedrà la presenza di oltre trecento ricercatori e ricercatrici provenienti da tutto il mondo. L’evento, co-organizzato da Dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, Sezione di Bologna dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), Sezione di Bologna dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e Istituto nazionale di astrofisica – Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna (Inaf Oas), rappresenta un’importante occasione per discutere gli sviluppi di questo ambizioso progetto che mira a diventare il più avanzato osservatorio di onde gravitazionali al mondo.
XV Einstein Telescope Symposium – Bologna, 26–30 maggio 2025
Einstein Telescope è la futura infrastruttura di ricerca europea di terza generazione dedicata ai rivelatori di onde gravitazionali, progettata per superare di almeno mille volte le capacità degli attuali strumenti (Ligo negli Stati Uniti e Virgo in Italia, che nel 2015 hanno rilevato per la prima volta le onde gravitazionali previste da Albert Einstein). Uno dei siti candidati a ospitare Et si trova in Sardegna, nell’area intorno all’ex miniera di Sos Enattos (NU). L’esperimento sarà costruito all’interno di una grande struttura sotterranea, a 100-300 metri di profondità. Questa collocazione “silenziosa” lo isolerà dalle vibrazioni sismiche e umane (“rumore”) che potrebbero interferire con le sue delicate misurazioni.
Parallelamente all’intenso programma scientifico, durante la settimana si svolgeranno a Bologna anche una serie di iniziative gratuite rivolte alla cittadinanza, organizzate nell’ambito del progetto Et-Italia con il supporto dello European Gravitational Observatory.
Mostra “Einstein Telescope: Uno sguardo all’universo profondo”
Dal 26 maggio al 13 giugno | Palazzo d’Accursio (Manica Lunga), Piazza Maggiore, Bologna – dal lunedì al sabato dalle 7:00 alle 20:00; la domenica dalle 9:00 alle 19:00
Il percorso espositivo parte dalla relatività generale di Einstein fino alla rivoluzionaria scoperta delle onde gravitazionali, per poi concentrarsi su Einstein Telescope, infrastruttura di ricerca all’avanguardia inclusa nella Roadmap Esfri. La mostra esplora le prospettive scientifiche di Et, le sfide tecnologiche e industriali del progetto, con un focus sulla candidatura italiana del sito di Sos Enattos in Sardegna, dove sono già in corso attività preparatorie.
Locandina degli eventi per il pubblico (cliccare per ingrandire)
Spettacolo “L’Universo sottoterra – Einstein Telescope in Sardegna”
Giovedì 29 maggio | ore 21:00 | Cinema Modernissimo, Piazza Re Enzo 3, Bologna. Ingresso gratuito. Prenotazioni: l.infn.it/et-modernissimo
Conferenza-spettacolo che intreccia scienza, arte e territorio per raccontare una delle più affascinanti sfide della fisica contemporanea: la costruzione di Einstein Telescope, il futuro osservatorio sotterraneo europeo per le onde gravitazionali, il cui sito ideale potrebbe sorgere nel cuore della Sardegna, nell’area intorno all’ex miniera di Sos Enattos, a Lula. Sotto la guida ironica e appassionata di Patrizio Roversi, il pubblico verrà condotto in un viaggio tra le profondità della Terra e quelle dello spazio-tempo. Con il contributo della scienziata Marica Branchesi, tra i volti più noti dell’astrofisica delle onde gravitazionali, e del fisico Massimo Carpinelli, tra i promotori del progetto in Sardegna, si esplorerà il senso di una ricerca che ha l’ambizione di osservare l’universo al di là della luce, ascoltandone le vibrazioni più remote. Ma non sarà solo scienza. A raccontare il legame tra ricerca e paesaggio, tra conoscenza e identità, ci saranno anche le note del violino di Anna Tifu, musicista sarda di fama internazionale, e le illustrazioni dal vivo di Angelo Adamo, artista e scienziato, che daranno forma visiva all’immaginario di un universo che pulsa sotto i nostri piedi.
Van interattivo “Big Bang Machine”
Giovedì 29 maggio dalle 12:00 alle 21:00 e venerdì 30 maggio dalle 10:00 alle 19:00 | Piazza Galvani, Bologna
La “Big Bang Machine”, un laboratorio mobile nel cuore di Bologna, offre un’esperienza immersiva che guida il pubblico in un viaggio virtuale attraverso lo spazio e il tempo, fino alle origini dell’universo. A bordo di una navicella spazio-temporale, i visitatori esploreranno fenomeni estremi come buchi neri, fusioni stellari e i primi istanti del cosmo. L’esperienza mira a mostrare il legame tra i segnali cosmici e lo studio della Terra, rendendo accessibili i temi della fisica fondamentale in modo coinvolgente e interattivo.
Giove era grande il doppio, miliardi di anni fa
Giove è spesso definito l’“architetto” del Sistema solare. Il perché di questo appellativo è il fondamentale ruolo che la sua formazione ed evoluzione hanno svolto nel plasmare la geometria su larga scala del nostro quartiere cosmico. Il paradigma attuale, ormai largamente accettato dalla comunità scientifica, è infatti che la moltitudine di corpi celesti che albergano nel Sistema solare si sia evoluta sotto l’influenza di due soli oggetti celesti: il Sole e, appunto, Giove. Di conseguenza, comprendere l’origine e la struttura del pianeta è considerato un passo cruciale per ricostruire l’evoluzione del Sistema solare primordiale. Per approfondire queste origini, Konstantin Batygin del California Institute of Technology e Fred Adams dell’Università del Michigan hanno analizzato la dinamica di due delle sue lune, Amaltea e Tebe, le cui orbite sono ritenute primordiali, deducendo il raggio e lo stato interno di Giove al momento della cosiddetta dissipazione della nebulosa proto-solare.
Crediti: Kevin M. Gill/Cc-By/Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss)
Oltre ai ben noti satelliti galileiani, Giove è circondato da un sistema piccole lune: Tebe, Amaltea, Adrastea e Metis, disposte in ordine di distanza decrescente dal pianeta. Tra le quattro, Amaltea e Tebe sono le uniche a possedere orbite inclinate rispetto al piano equatoriale del pianeta. Queste caratteristiche, secondo gli scienziati, indicano orbite primordiali, orbite cioè che non sono state modificate nel corso dell’evoluzione del pianeta, e per questo utili per indagare sul passato del pianeta. Partendo da queste discrepanze orbitali, i ricercatori hanno calcolato le dimensioni originali di Giove, così come l’intensità del suo antico campo magnetico.
«Il nostro obiettivo è capire da dove veniamo. Individuare le fasi iniziali della formazione dei pianeti è essenziale per risolvere questo enigma», sottolinea Batygin. «Questo ci avvicina a comprendere come non solo Giove, ma l’intero Sistema solare abbia preso forma».
Nello studio, il team si è concentrato sulla dinamica orbitale delle lune e sulla conservazione del momento angolare del pianeta. Un aspetto chiave della ricerca è stato collegare le analisi a un’epoca ben definita dell’evoluzione del Sistema solare. Per farlo, i ricercatori hanno utilizzato i dati di magnetizzazione dell’angrite, la materia differenziata più antica del Sistema solare che si conosca.
Illustrazione artistica che mostra Giove con le linee di campo magnetico che fuoriescono dai suoi poli. Crediti: K. Batygin/Caltech
L’analisi ha prodotto un’istantanea di com’era Giove circa 4,5 miliardi di anni fa, all’epoca della cosiddetta dissipazione della nebulosa proto-solare, una fase di transizione nell’evoluzione del Sistema solare in cui la nebulosa solare – la nube di gas e polvere da cui sono nati i pianeti – si è dissolta e l’architettura del nostro quartiere cosmico consolidata.
I risultati delle indagini, pubblicati su Nature Astronomy, indicano che Giove fosse da due a due volte e mezzo più grande, con un volume stimato equivalente a quello di oltre duemila Terre. I calcoli dei ricercatori suggeriscono inoltre che il pianeta avesse un campo magnetico di circa 21 milliTesla, un valore 50 volte superiore a quello attuale (pari all’equatore a 0.42 millitesla), e che accrescesse materia da un disco proprio – il disco circumgioviano – a un ritmo di 1,2-2.4 masse gioviane ogni milione di anni, fino alla distruzione della nebulosa solare.
Questo studio apre una finestra sul passato di Giove, rivelandone un volto primordiale molto diverso da quello attuale. Al tempo stesso, però, aggiunge tasselli fondamentali ai modelli attuali di formazione planetaria. Le attuali caratteristiche fisiche di Giove sono in linea con le previsioni del modello di accrescimento del nucleo (noto anche come modello di instabilità del nucleo) della formazione dei pianeti giganti, spiegano i ricercatori. Secondo questo modello, la formazione dei giganti gassosi segue una serie di fasi distinte. Inizialmente, si forma un nucleo roccioso ad alta metallicità, seguito da un periodo di lenta crescita caratterizzato dalla formazione un’atmosfera di idrogeno ed elio. Questo processo continua finché la massa dell’involucro gassoso non raggiunge quella del nucleo. Una volta superata questa soglia, segue un periodo transitorio di rapido accrescimento di gas, che facilita l’accumulo della maggior parte della massa del pianeta. Infine, il pianeta si separa dalla nebulosa circostante, intraprendendo un percorso di evoluzione termica a lungo termine. Per quanto riguarda Giove, osservano i ricercatori, i nostri risultati sono pienamente coerenti con questo modello.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Determination of Jupiter’s primordial physical state” di Konstantin Batygin e Fred C. Adams
I pendii striati su Marte non sono tracce d’acqua
Per anni, gli scienziati hanno osservato strane strisce che “dipingono” le pareti dei rilievi marziani. Alcuni le hanno interpretate come flussi liquidi, suggerendo la possibile esistenza di ambienti attualmente abitabili sul Pianeta rosso. Tuttavia, un nuovo studio pubblicato su Nature Communications, condotto dalla Brown University e dall’Università di Berna, mette in dubbio questa affascinante ipotesi. I ricercatori, che hanno utilizzato l’apprendimento automatico per creare e analizzare un’enorme quantità di dati sulle caratteristiche delle striature dei pendii, propongono una spiegazione diversa: un processo secco, legato all’attività del vento e della polvere.
Strisce luminose e scure che ricoprono le pendici dell’Olympus Mons, viste dallo strumento Colour and Stereo Surface Imaging System (CaSSIS) a bordo dell’ExoMars Trace Gas Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea. L’immagine copre un’area di circa 50 chilometri quadrati ed è stata acquisita il 3 ottobre 2024. Coordinate marziane: 26,5°N, 223,8°E. Crediti: Esa
Gli scienziati hanno osservato per la prima volta le strane striature nelle immagini raccolte dalla missione Viking della Nasa, negli anni Settanta. Questi tratti, generalmente più scuri rispetto al terreno circostante, si estendono per centinaia di metri lungo pendii marziani. Alcuni di essi persistono per anni o addirittura decenni, mentre altri appaiono e scompaiono più rapidamente. Le formazioni di più breve durata – soprannominate linee di pendenza ricorrenti (Rsl, Recurring Slope Lineae) – sembrano comparire sempre negli stessi punti durante i periodi più caldi dell’anno marziano.
L’origine delle striature è stata a lungo oggetto di dibattito tra gli scienziati planetari. L’attuale Marte è estremamente secco, e le temperature raramente superano lo zero. Tuttavia, è stato ipotizzato che piccole quantità d’acqua – forse derivanti da ghiaccio sotterraneo, falde acquifere profonde o da un’atmosfera insolitamente umida – possano mescolarsi con sali presenti nel suolo, dando origine a flussi liquidi anche sulla gelida superficie marziana. Se ciò fosse vero, le Rsl e le striature sui pendii potrebbero rappresentare rare nicchie abitabili su un pianeta altrimenti inospitale.
Tuttavia, non tutti i ricercatori concordano con questa interpretazione. Alcuni sostengono che le striature siano in realtà causate da processi completamente asciutti, come la caduta di massi o l’azione del vento, e che la loro parvenza “liquida” sia semplicemente un’illusione dovuta alle immagini orbitali.
Nella speranza di ottenere nuovi spunti, i due autori dello studio – Valentin Tertius Bickel e Adomas Valantinas – si sono affidati a un algoritmo di apprendimento automatico per catalogare il maggior numero possibile di striature sui pendii marziani. Dopo aver addestrato l’algoritmo su avvistamenti confermati di queste strisce, lo hanno applicato all’analisi di oltre 86mila immagini satellitari ad alta risoluzione. Il risultato è stata una mappa globale di queste striature su Marte, unica nel suo genere, che raccoglie più di 500mila caratteristiche di tali formazioni.
«Una volta ottenuta questa mappa globale, abbiamo potuto confrontarla con database e cataloghi in cui sono raccolti altri parametri come la temperatura, la velocità del vento, l’idratazione, l’attività delle frane e altri fattori», dice Bickel. «Poi abbiamo potuto cercare correlazioni su centinaia di migliaia di casi per capire meglio le condizioni in cui si formano queste caratteristiche».
L’analisi geostatistica ha evidenziato che le striature dei pendii e le Rsl non sono generalmente associate a fattori indicativi di un’origine liquida o glaciale, come un orientamento specifico dei pendii, ampie variazioni della temperatura superficiale o un’elevata umidità. Al contrario, lo studio ha rilevato che entrambe le formazioni tendono a svilupparsi in aree caratterizzate da velocità del vento e depositi di polvere superiori alla media, elementi che suggeriscono un’origine secca.
I ricercatori concludono che le striature si formano molto probabilmente quando strati di polvere fine scivolano improvvisamente lungo pendii ripidi, sebbene le cause specifiche possano variare. Le striature dei pendii risultano più comuni in prossimità di crateri da impatto relativamente recenti, dove le onde d’urto potrebbero innescare lo scivolamento della polvere superficiale. Le Rsl, invece, si osservano più frequentemente in aree caratterizzate da fenomeni come i diavoli di polvere o la caduta di massi.
Nel complesso, i risultati sollevano nuovi dubbi sull’ipotesi che le striature sui pendii e le Rsl rappresentino ambienti abitabili su Marte. Questo ha importanti implicazioni per la futura esplorazione del Pianeta rosso perché sebbene gli ambienti potenzialmente abitabili siano obiettivi privilegiati per le missioni, si preferisce mantenere da questi ambienti una certa distanza per evitare il rischio di contaminazione. Qualsiasi microbo terrestre trasportato da un veicolo spaziale potrebbe infatti compromettere l’integrità di questi ambienti, ostacolando la ricerca di vita autoctona su Marte. Lo studio suggerisce che, in questi peculiari ambienti oggetto di studio, tale rischio di contaminazione è piuttosto basso.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Streaks on martian slopes are dry” di Valentin Tertius Bickel e Adomas Valantinas
Ricercatrice Inaf premiata dalla Gruber Foundation
Sambatriniaina Hagiriche Aycha Rajohnson, ricercatrice originaria del Madagascar, oggi all’Inaf di Cagliari, a Selargius. Crediti P. Soletta/Inaf
Prestigioso riconoscimento per Sambatriniaina Hagiriche Aycha Rajohnson, ricercatrice dell’Inaf di Cagliari nel team di studio coordinato dall’astrofisico cagliaritano Paolo Serra dedicato all’osservazione dell’ammasso di galassie della Fornace con la rete di telescopi MeerKat, in Sudafrica. La dottoressa Rajohnson è stata dichiarata vincitrice di una borsa di studio messa in palio dalla statunitense Gruber Foundation, che ogni anno dal 2001, in collaborazione con l’Unione astronomica internazionale (Iau), finanzia un programma di borse di studio di 75mila dollari per valorizzare e incoraggiare il lavoro dei giovani astronomi più promettenti.
In linea con le scelte effettuate negli ultimi anni, il comitato di selezione – composto dalle vicepresidenti dello Iau Hyesung Kang (presidente del comitato), Monica Rubio e Gražina Tautvaisiene – ha deciso di assegnare anche quest’anno la borsa di studio a tre candidati i cui studi astronomici sono stati riconosciuti come eccellenti, conferendo loro l’importante cifra di 25mila dollari ciascuno per poter continuare ad approfondire le proprie ricerche. A far compagnia alla ricercatrice malgascia ci sono dunque altri due giovani ricercatori entrambi con interessi scientifici molto simili ai suoi. L’astronomo britannico Deaglan John Bartlett ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Oxford nel 2022 ed è attualmente postdoc all’Institut d’Astrophysique di Parigi, dove si occupa di studi sull’intelligenza artificiale e machine learning applicato a livello cosmologico su materia oscura, energia oscura e processi di formazione galattica. Premiata anche l’astronoma indiana Akshara Viswanathan, che ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Groningen (Paesi Bassi) nel 2024 e, da gennaio 2025, ha iniziato una borsa di studio all’Università di Victoria, in Canada. La sua ricerca mira a studiare la peculiare distribuzione delle stelle di piccola massa e bassa metallicità nell’alone esterno della Via Lattea, utili a comprendere la formazione primordiale della nostra galassia.
Nel caso della ricercatrice dell’Inaf di Cagliari, che per amici e colleghi è semplicemente Sambatra, lo studio continua nel solco galattico ma in modo ancora diverso, in quanto l’oggetto di ricerca consiste in un ammasso di galassie di piccola massa, quello appunto della Fornace, di cui viene studiata la distribuzione e il comportamento del mezzo interstellare e in particolare del gas di idrogeno freddo (HI) nell’ambito dei processi di quenching, ovvero di spegnimento della capacità di formare nuove stelle. Il percorso che ha portato Sambatra fino a Cagliari parte nel 2018, quando, dopo la triennale, consegue una laurea magistrale in astrofisica all’Università di Antananarivo (Madagascar), dove comincia da subito la sua attività di ricerca. La partecipazione, sempre nel 2018, al programma di formazione di base Development in Africa with Radio Astronomy (Dara) le suscita un forte interesse verso le scienze radioastronomiche – interesse che l’ha portata ad approfondire lo studio dell’idrogeno neutro nelle galassie al di fuori della Via Lattea, fondamentale per comprendere l’evoluzione galattica su larga scala. Dopo il dottorato di ricerca conseguito nel 2024 all’Università di Città del Capo, in Sudafrica, questo percorso l’ha fatta approdare, nel gennaio 2025, nello staff di ricerca del gruppo Fornax dell’Inaf di Cagliari, condotto dall’astrofisico cagliaritano Paolo Serra. Il potenziale di questo ambito scientifico è stato riconosciuto e premiato dal comitato della fondazione Gruber a fronte di una discreta concorrenza: le candidature valide alla Gruber Fellowship 2025 sono state ben 43 – 20 donne e 23 uomini.
«Sono profondamente onorata, grata e davvero felice di aver ricevuto una delle borse di studio della Gruber Foundation per il 2025», dice Sambatra Rajohnson. «Ricevere questo premio significa molto per me. È un potente promemoria del fatto che anni di dedizione e perseveranza, supportati dall’incrollabile incoraggiamento di chi mi circonda, sono stati proficui. Questo riconoscimento mi dà rinnovata speranza e motivazione: non mollare mai, puntare sempre in alto, a prescindere da quanto sia difficile il percorso della ricerca».
Il comitato The Gruber Foundation 2025 sottolinea infine l’eccezionale qualità di tutti i candidati che hanno presentato domanda. «Il comitato di selezione delle borse di studio della Gruber Foundation è rimasto profondamente colpito dall’eccezionale qualità e originalità delle candidature di quest’anno», dichiara infatti Hyesung Kang.«L’attuale generazione di astronomi all’inizio della carriera si distingue per intuizione e creatività straordinariamente profonde e la numerosità delle proposte di ricerca ha reso il processo di selezione estremamente stimolante e competitivo».
Il bando per il 2026 si aprirà il 1° dicembre 2025 e le candidature complete per la borsa di studio della Gruber Foundation dovranno essere presentate online entro la scadenza del 1° marzo 2026.
Per saperne di più:
Voyager 1, propulsori riparati dopo 21 anni
Quando nel 2004 la sonda Voyager 1 smise di rispondere ai comandi dei suoi propulsori principali per il controllo del rollio, il team del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, nel sud della California, ritenendo che la causa fosse un guasto ai riscaldatori interni, decise di considerarli definitivamente persi e di affidarsi ai soli propulsori di riserva. Nei mesi scorsi, a distanza di oltre due decenni, quando la sonda si trova ormai ben oltre i confini dell’eliosfera, il team ha deciso di tentare l’impossibile: riparare da remoto un sistema inattivo da ventun anni. Il motivo è che i tubi del carburante nei propulsori di riserva, gli unici rimasti operativi, stavano accumulando residui che rischiavano di renderli inutilizzabili già a partire dall’autunno del 2025. Nel frattempo, l’unica antenna abbastanza potente per inviare i comandi alle sonde Voyager, la Deep Space Station 43 (Dss-43) di Canberra, in Australia, si prepara a essere messa offline da maggio 2025 a febbraio 2026 per lavori di aggiornamento. Una finestra di opportunità stretta, che ha spinto il team ad agire prima della sospensione delle comunicazioni.
Le due sonde gemelle Voyager della Nasa, lanciate nel 1977, stanno ora viaggiando nello spazio interstellare a circa 56mila km/h. In questa rappresentazione artistica è raffigurata una delle sonde mentre sfreccia nello spazio profondo. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Esaminando il guasto del 2004, il team ha ipotizzato che il problema non fosse irreparabile, ma causato da un’interruzione nel circuito di alimentazione elettrica dei riscaldatori. Ripristinando dunque la configurazione originale dei circuiti dei riscaldatori, i propulsori principali sarebbero potuti tornare attivi. Tuttavia, l’operazione comportava dei rischi: i propulsori di rollio sono fondamentali per mantenere l’antenna della sonda allineata con la Terra. Un disallineamento del tracciatore stellare, che guida l’orientamento, avrebbe potuto attivare i propulsori in modo scorretto, provocando possibili danni.
Nonostante i rischi, il 20 marzo 2025 il team ha inviato i comandi necessari a riattivare i riscaldatori della sonda Voyager 1. Dopo oltre 23 ore – viaggiando alla velocità della luce – per raggiungere la sonda, e altrettante per ricevere la risposta, è arrivata la conferma: i riscaldatori si erano riaccesi e i propulsori creduti “morti” da vent’anni, erano tornati in funzione. L’operazione ha ridato alla sonda una riserva importante per il controllo dell’assetto e ha permesso di estendere la vita operativa della missione, guadagnando tempo prezioso mentre l’antenna Dss-43 resterà fuori servizio per diversi mesi.
Lanciata nel 1977, la Voyager 1 è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, insieme alla sua gemella Voyager 2. Entrambe viaggiano a circa 56mila km/h nello spazio a più di venti miliardi di chilometri da noi. E a quasi 50 anni dal lancio, continuano a esplorare l’ignoto e a inviare dati scientifici unici, frutto di un’ingegneria senza precedenti e della tenacia di chi ancora le segue da Terra.
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Lo stretching della Piccola Nube di Magellano
La Piccola Nube di Magellano – Small Magellanic Cloud (Smc), in inglese – è una galassia nana situata a circa 200mila anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione del Tucano. Dopo la Grande Nube di Magellano (Lmc), sua “sorella maggiore”, è la galassia a noi più vicina, e per questo ampiamente studiata dalla comunità astronomica.
Uno degli ultimi studi che la riguardano è stato pubblicato il 15 maggio scorso su The Astrophysical Journal Letters. Oggetto della ricerca sono le cefeidi classiche della galassia, una classe di stelle variabili che gli astronomi utilizzano come “candele standard” per misurare le distanze cosmiche. Condotto da due ricercatori dalla Nagoya University, in Giappone, lo studio ha analizzato la dinamica di questi astri, scoprendo un comportamento anomalo: il loro moto in direzioni opposte.
La visione di Gaia delle Nubi di Magellano: a sinistra, la Grande Nube di Magellano; a destra, la Piccola Nube di Magellano. Crediti: Esa
Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno utilizzato i dati del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea. Incrociando questi dati, in particolare quelli della terza data release, con le informazioni sulle cefeidi raccolte durante l’esperimento Ogle (Optical Gravitational Lensing Experiment), i ricercatori sono riusciti a ottenere distanze e moti propri di ben 4.236 stelle cefeidi della galassia. I risultati delle indagini hanno indicato chiaramente lo strano schema di movimento stellare: mentre le più vicine alla Terra si muovono verso nord-est, quelle più lontane si spostano in direzione opposta, ovvero verso sud-ovest.
Secondo gli scienziati, questa complessa dinamica suggerisce che la Piccola Nube di Magellano sia soggetta a forze gravitazionali esterne. Un precedente studio dello stesso gruppo aveva già ipotizzato che la Piccola Nube di Magellano stesse subendo uno stiramento gravitazionale da parte della Grande Nube di Magellano. Le due galassie, infatti, sono legate gravitazionalmente, influenzando reciprocamente la loro struttura ed evoluzione. Dal nuovo studio emerge tuttavia che la galassia sia sottoposta a forze gravitazionali multiple: da un lato ci sarebbe l’attrazione esercitata dalla sorella più grande, la Grande Nube di Magellano; dall’altro, una forza esercitata da qualcosa che rimane al momento ignoto.
Illustrazione che mostra le due popolazioni di cefeidi osservate nello studio. In verde sono rappresentate le stelle più vicine, in magenta quelle più lontane. La stella verdesegna la posizione media delle stelle a meno di 180.000 anni luce, mentre la stella magenta indica la posizione media di quelle oltre i 230.000 anni luce. Le frecce che partono da queste stelle mostrano la direzione media del moto, rispettivamente verso nord-est e sud-ovest. Nella figura, la parte superiore corrisponde al nord e il lato sinistro all’est. Crediti: Satoya Nakano, Nagoya University
Secondo Kengo Tachihara, ricercatore della Nagoya University e co-autore dello studio, è possibile che questo qualcosa sia «la gravità della Via Lattea o l’effetto di un passato incontro ravvicinato tra le due Nubi di Magellano».
I risultati delle indagini indicano inoltre che le stelle della galassia non presentano un moto rotazionale coerente attorno al centro galattico, contrariamente a quanto osservato, ad esempio, nella Via Lattea. Questo, secondo i ricercatori, rafforza l’ipotesi che la Piccola Nube di Magellano presenti una dinamica unica, probabilmente modellata dalle interazioni gravitazionali con la Via Lattea e la Grande Nube di Magellano.
«La nostra scoperta mette in discussione le teorie precedenti sulla struttura e la dinamica di questa galassia», conclude il primo autore dello studio, Satoya Nakano. «È necessario ripensare le interazioni tra la Piccola Nube di Magellano, la Grande Nube di Magellano e la Via Lattea. In questo senso, servono nuove simulazioni che considerino la natura non rotante della galassia, per comprendere meglio questi complessi rapporti gravitazionali».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Dual Directional Expansion of Classical Cepheids in the Small Magellanic Cloud Revealed by Gaia Data Release 3” di Satoya Nakano e Kengo Tachihara
Cercare onde gravitazionali con una rete di quasar
L’astrofisico Jeremy Darling, dell’Università del Colorado Boulder, sta sviluppando un nuovo metodo per misurare il fondo di onde gravitazionali dell’universo: un flusso costante e impercettibile di increspature che attraversano il cosmo, deformando il tessuto stesso dello spaziotempo. La sua ricerca, pubblicata su The Astrophysical Journal Letters, potrebbe un giorno contribuire a svelare alcuni dei misteri più profondi dell’universo.
Per comprendere come funzionano le onde gravitazionali, immaginate la Terra come una piccola boa che galleggia sulla superficie di un oceano in tempesta: si solleva e ricade seguendo il profilo delle onde, si sposta lateralmente e può anche ruotare o inclinarsi leggermente. Allo stesso modo, le onde gravitazionali fanno oscillare impercettibilmente il nostro pianeta mentre lo attraversano.
Rappresentazione artistica dei buchi neri supermassicci che generano il fondo di onde gravitazionali dell’universo. Crediti: Olena Shmahalo per NanoGrav
Nel corso della storia dell’universo, è probabile che innumerevoli buchi neri supermassicci abbiano interagito tra loro, spiraleggiando l’uno verso l’altro a velocità sempre maggiori fino a collidere. Gli scienziati ritengono che queste colossali fusioni abbiano generato onde gravitazionali così potenti da propagarsi nel tessuto dello spaziotempo come le onde nel mare. Queste onde ci investono costantemente, generando una sorta di rumore di fondo cosmico. Anche se non ce ne accorgiamo.
Nel 2023, i ricercatori dello European Pulsar Timing Array (Epta), in collaborazione con i colleghi indiani e giapponesi dell’Indian Pulsar Timing Array (InPta), hanno annunciato di aver individuato segnali coerenti con l’esistenza di onde gravitazionali a bassissima frequenza, analizzando dati raccolti in oltre 25 anni da sei dei radiotelescopi più sensibili al mondo, tra cui il Sardinia Radio Telescope dell’Inaf. I loro risultati sono risultati coerenti con una serie di studi indipendenti pubblicati in parallelo da altre collaborazioni internazionali, legate agli array di temporizzazione di pulsar australiano (Ppta), cinese (Cpta) e nordamericano (NanoGrav).
Infatti, le pulsar – stelle di neutroni che ruotano rapidamente – si comportano come orologi naturali di altissima precisione. Analizzando variazioni minime (inferiori a un milionesimo di secondo) e correlate tra loro nei tempi di arrivo dei loro impulsi, è possibile rilevare le piccolissime dilatazioni e compressioni dello spaziotempo causate dal passaggio di onde gravitazionali provenienti da regioni remote dell’universo. Questo gigantesco rivelatore di onde gravitazionali – che dalla Terra si estende idealmente verso una rete di 25 pulsar selezionate all’interno della Via Lattea, a migliaia di anni luce di distanza – permette di indagare un tipo di onde gravitazionali dal ritmo lentissimo, associate a lunghezze d’onda enormemente maggiori rispetto a quelle osservate a partire dal 2015 grazie agli interferometri per onde gravitazionali, come Virgo a Cascina (vicino Pisa) e Ligo negli Stati Uniti.
Finora, le misurazioni hanno rilevato solo il modo in cui le onde gravitazionali si propagano in una direzione specifica, come onde del mare che si avvicinano e si allontanano dalla riva. L’obiettivo di Darling, invece, è osservare come queste onde si muovano verticalmente – dall’alto verso il basso – rispetto alla Terra. Ricordate la boa? Il tipo di onde gravitazionali che Darling intende misurare ha una frequenza estremamente bassa e attraversa il nostro pianeta nell’arco di anni o addirittura decenni.
Nel suo ultimo studio, l’astrofisico ha coinvolto un’altra classe di oggetti celesti: i quasar, galassie straordinariamente luminose alimentate da buchi neri supermassicci attivi nei loro centri. È proprio osservando con grande precisione il movimento apparente di questi quasar nel cielo che Darling spera di individuare le sottili distorsioni provocate dal passaggio delle onde gravitazionali.
Al momento, Darling non è ancora riuscito a individuare questi segnali, ma la situazione potrebbe cambiare con la disponibilità di nuovi dati. La sua recente pubblicazione punta proprio a gettare le basi per questo tipo di misurazione. La ricerca affronta uno dei compiti più complessi dell’osservazione astronomica: studiare il moto degli oggetti celesti, un campo noto come astrometria. I quasar, che si trovano a milioni o addirittura miliardi di anni luce dalla Terra, sono tra le fonti luminose più distanti e brillanti dell’universo. Tuttavia, la loro luce, nel lungo viaggio verso di noi, non segue necessariamente un percorso perfettamente rettilineo.
Eventuali onde gravitazionali che increspano lo spazio-tempo possono deviarne la traiettoria, facendo apparire – dal nostro punto di vista – che questi quasar oscillino leggermente nel cielo, come se partecipassero a un’oscillazione cosmica. Come spiega lo stesso Darling, «Se si vivesse per milioni di anni e si potessero osservare questi movimenti incredibilmente piccoli, si vedrebbero questi quasar agitarsi avanti e indietro».
O almeno, questa è la teoria. In pratica, gli scienziati hanno finora faticato a osservare questi movimenti per due motivi principali: da un lato, perché si tratta di moti estremamente difficili da rilevare – servirebbe una precisione circa dieci volte superiore a quella necessaria per osservare dalla Terra la crescita di un’unghia umana sulla Luna – e dall’altro, perché la Terra stessa è in movimento. Il nostro pianeta orbita intorno al Sole a una velocità di circa 107mila chilometri all’ora, mentre il Sole sfreccia nella Via Lattea a circa 828mila chilometri all’ora, orbitando attorno al centro della galassia. Per rilevare il segnale delle onde gravitazionali, è dunque necessario separare il moto della Terra da quello apparente dei quasar.
Per avviare questo processo, Darling ha utilizzato i dati del satellite Gaia, dell’Agenzia spaziale europea. Dal suo lancio, avvenuto nel 2013, Gaia ha permesso di raccogliere osservazioni dettagliate di oltre un milione di quasar in circa tre anni. Darling ha analizzato queste osservazioni, suddividendo i quasar in coppie e misurando con estrema precisione come ciascuna coppia si muoveva rispetto all’altra.
I risultati finora ottenuti non sono ancora sufficientemente dettagliati da dimostrare in modo definitivo che le onde gravitazionali influenzano il moto apparente dei quasar. Tuttavia, secondo lo stesso autore, si tratta di un passo importante: comprendere la fisica delle onde gravitazionali potrebbe aiutare gli scienziati a ricostruire l’evoluzione delle galassie e a verificare le ipotesi fondamentali sulla gravità.
E presto, Darling potrebbe ricevere un aiuto significativo. Nel 2026, il team di Gaia prevede di pubblicare altri cinque anni e mezzo di osservazioni sui quasar, offrendo così una nuova e preziosa serie di dati che potrebbe rivelare i segreti del fondo di onde gravitazionali dell’universo.
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “A New Approach to the Low-frequency Stochastic Gravitational-wave Background: Constraints from Quasars and the Astrometric Hellings–Downs Curve” di Jeremy Darling
Quanta “vita” rimane all’universo?
Decenni di incertezze e dubbi sulla fatidica domanda “quando finirà l’universo?” potrebbero aver finalmente trovato una risposta. Una possibile soluzione al quesito è infatti presentata in una ricerca pubblicata la settimana scorsa sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, firmata da un team di tre studiosi della Radboud Universiteit di Nimega (Paesi Bassi): l’esperto di buchi neri Heino Falcke, il fisico quantistico Michael Wondrak e il matematico Walter van Suijlekom. Il lavoro dei tre scienziati segue le orme di un loro precedente articolo: pubblicato nel 2023, dimostrava chenon solo i buchi neri ma anche altri oggetti celesti compatti, come le stelle di neutroni, possono “evaporare” mediante un fenomeno analogo a quello della radiazione di Hawking. La pubblicazione aveva destato parecchie domande all’interno della comunità scientifica, incentrate soprattutto sulla durata del processo. Nel articolo della scorsa settimana i tre ricercatori chiariscono le perplessità, illustrando i risultati delle nuove scoperte.
Il decadimento dell’universo, stando alla nuova stima, potrebbe verificarsi tra circa 1078 anni, il tempo che occorre ai corpi celesti più persistenti – le nane bianche – per decadere attraverso la radiazione di Hawking. Un periodo lunghissimo ma conunque enormemente inferiore rispetto a quello proposto da studi precedenti, che fissavano la vita delle nane bianche a circa 101100 anni. «La fine ultima dell’universo arriverà assai prima del previsto, ma fortunatamente richiederà comunque molto tempo», rassicura Falcke, primo autore dello studio.
Rappresentazione artistica del decadimento di una stella di neutroni. Crediti: Radboud Universiteit
I calcoli messi a punto dagli studiosi si basano sulla reinterpretazione di un concetto rivoluzionario qual è quello della radiazione di Hawking. Nel 1975, l’astrofisico Stephen Hawking avanzò l’ipotesi che – diversamente da quanto sugeriva la teoria della relatività di Albert Einstein – particelle e radiazioni potessero, in alcuni casi specifici, fuoriuscire da un buco nero: se sull’orizzonte degli eventi si forma una coppia di particelle temporanee, può succedere che, prima della loro fusione, una venga inghiottita dalla singolarità e l’altra riesca a fuoriuscire. La radiazione di Hawking non ha sostituito del tutto i risultati della relatività generale, ma li ha essenzialmente estesi al contesto più ampio della fisica quantistica. La novità apportata dallo scienziato britannico ha come principale conseguenza il fatto che i buchi neri sono in grado di emettere radiazione e, quindi, seppur molto lentamente, decadono.
Lo studio della Radboud Universiteit propone due ulteriori aspetti rilevanti. Innanzitutto, il processo di radiazione di Hawking riguarda corpi molto diversi tra di loro, ma dotati di un campo gravitazionale. Interessante è, inoltre, il fatto che il tempo di decadimento dipende soltanto dalla densità dell’oggetto che si sta analizzando. Tali caratteristiche hanno portato a una coclusione che ha sorpreso gli stessi autori dello studio: stelle di neutroni e buchi neri stellari impiegano il medesimo tempo per decadere, ovvero circa 1067 anni. Avendo i buchi neri un campo di gravità molto intenso, si credeva che potessero “evaporare” in maniera più rapida. «I buchi neri non hanno superficie», spiega però Wondrak, «dunque sono capaci di riassorbire parte della propria radiazione, inibendo il processo».
A completamento del lavoro di ricerca, già che c’erano i tre studiosi hanno calcolato anche il tempo necessario a un essere umano per evaporare attraverso una radiazione simile a quella di Hawking, ottenendo un valore che si attesta sui 1090 anni. Naturalmente, osservano gli autori dello studio, ci sono altri processi che potrebbero portare alla scomparsa dell’umanità più in fretta di quanto suggeriscano i loro calcoli.
Per saperne di più:
- Leggi su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics l’articolo “An upper limit to the lifetime of stellar remnants from gravitational pair production”, di Heino Falcke, Michael F. Wondrak e Walter D. van Suijlekom
Prime immagini di singoli atomi in libertà
I fisici del Massachusetts Institute of Technology (Mit) hanno catturato per la prima volta immagini di singoli atomi che interagiscono liberamente nello spazio. Queste immagini mostrano correlazioni tra particelle libere, previste dalla teoria ma mai osservate direttamente, offrendo una nuova finestra sui fenomeni quantistici.
Utilizzando la microscopia con risoluzione a singolo atomo, i gas quantistici ultrafreddi composti da due tipi di atomi mostrano correlazioni spaziali nettamente diverse: i bosoni a sinistra mostrano un raggruppamento, mentre i fermioni a destra presentano un comportamento di anti-raggruppamento. Crediti: Sampson Wilcox
Il risultato, pubblicato su Physical Review Letters, è stato possibile grazie all’impiego di una tecnica innovativa – sviluppata dai ricercatori stessi – nella quale una nuvola di atomi viene lasciata libera di muoversi, poi congelata per un istante grazie a un reticolo di luce. Un laser illumina gli atomi sospesi, rivelandone la posizione precisa. Questo approccio, noto come microscopia con risoluzione atomica, consente di visualizzare singoli atomi e le loro interazioni.
Un atomo misura circa un decimo di nanometro, ossia è un milione di volte più piccolo dello spessore di un capello, ed è governato dalle leggi della meccanica quantistica, che ne rendono difficile la localizzazione esatta. Le tecniche convenzionali mostrano l’intera nuvola di atomi, ma non i singoli componenti. Come spiega il fisico Martin Zwierlein, «è come vedere una nuvola nel cielo, ma non le singole gocce».
Usando questa tecnica, i ricercatori hanno osservato direttamente bosoni e fermioni mentre interagivano nello spazio libero, un passo cruciale per comprendere fenomeni come la superconduttività. In particolare, Zwierlein e colleghi hanno fotografato per la prima volta una nube di bosoni composta da atomi di sodio. A basse temperature, una nube di bosoni forma il cosiddetto condensato di Bose-Einstein, uno stato della materia in cui tutti i bosoni condividono lo stesso stato quantico. Ketterle del Mit è stato uno dei primi a produrre un condensato di Bose-Einstein, di atomi di sodio, per il quale ha vinto il premio Nobel per la fisica nel 2001.
Il gruppo di Zwierlein è riuscito a “fotografare” i singoli atomi di sodio all’interno della nube e a osservare le loro interazioni quantistiche. Da tempo si prevede che i bosoni si “raggruppino” tra loro, avendo una maggiore probabilità di trovarsi l’uno vicino all’altro. Questo raggruppamento è una conseguenza diretta della loro capacità di condividere la stessa onda di de Broglie. Tale carattere ondulatorio è stato previsto per la prima volta dal fisico Louis de Broglie, che in parte ha dato il via alla meccanica quantistica moderna.
Il team ha anche fotografato una nuvola composta da due diversi tipi di atomi di litio. Ciascun tipo è un fermione, e come tali, i fermioni tendono naturalmente a respingersi. Tuttavia, alcuni fermioni possono interagire fortemente con altri di tipo diverso. Durante l’acquisizione delle immagini, i ricercatori hanno osservato che i due tipi di fermioni interagivano tra loro e formavano coppie, un meccanismo noto da tempo in teoria, ma mai osservato direttamente fino a ora.
Secondo i ricercatori, queste immagini rendono visibili concetti finora solo teorici. In futuro, la tecnica potrebbe permettere di esplorare stati quantistici ancora più complessi, come quelli dell’effetto Hall quantistico, tuttora poco compresi.
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Measuring Pair Correlations in Bose and Fermi Gases via Atom-Resolved Microscopy” di Ruixiao Yao, Sungjae Chi, Mingxuan Wang, Richard J. Fletcher e Martin Zwierlein
Sotto Venere, qualcosa si muove
Venere possiede una superficie geologicamente molto complessa, disseminata di strutture di origine tettonica e/o vulcanica, sia di forme familiari che insolite. Tra queste, forse le più distintive, e allo stesso tempo enigmatiche, sono le formazioni geologiche quasi circolari chiamate dagli esogeologi corone.
Scoperte negli anni ’80 nelle immagini dell’orbiter Pioneer Venus e nei dati delle due sonde gemelle Venara 15 e 16, le corone coprono il 9,5 per cento dell’intera superficie del pianeta. A oggi se ne conoscono 740, suddivise in vari gruppi e tipologie sulla base della topografia, distribuzione spaziale e proprietà, sebbene quelle ufficialmente denominate attraverso il processo di nomenclatura planetaria dello US Geological Survey siano 347.
Secondo una nuova ricerca, le corone di Venere, ampie formazioni geologiche presenti sulla superficie del pianeta, continuerebbero a essere modellate da processi tettonici. Le corone oggetto dello studio includono le corone Artemis, Quetzalpetlatl, Bahet e Fotla, visibili nell’immagine in questo ordine a partire dall’angolo in alto a sinistra e procedendo in senso orario. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
La loro formazione, un processo che chiama in causa la convezione del mantello e le interazioni pennacchio/litosfera, avviene in seguito alla risalita di magma dal sottosuolo. Secondo questo modello, a livello di particolari punti della superficie chiamati punti caldi, hot spot, in inglese, colonne di lava sarebbero risalite dalle profondità del pianeta, sollevando la crosta. Quando il materiale si è raffreddato, la litosfera (lo strato comprendente la crosta del pianeta e la parte più superficiale del suo mantello) sarebbe parzialmente collassato, creando le forme circolari osservate oggi.
Un team di ricercatori guidato dal Nasa Goddard Space Flight Center ha ora analizzato decine di queste strutture sul pianeta, scoprendo, sotto alcune di esse, prove di un’attività tettonica in corso, che sta modellando le corone venusiane.
Illustrazione artistica della Corona Quetzalpetlatl, situata nell’emisfero sud di Venere. Il vulcanesimo attivo e la subduzione fanno si che la crosta sprofondi all’interna del pianeta, creando queste depressioni. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Peter Rubin
Nello studio, i cui risultati sono pubblicati su Science Advances, i ricercatori hanno preso in esame in totale 75 strutture coronali. Tra queste, c’è la corona di Artemide: con un diametro di 2.500 chilometri, la più vasta delle corone presenti sul pianeta. Utilizzando sofisticati modelli geodinamici tridimensionali, gli scienziati hanno simulato vari scenari di formazione di queste formazioni geologiche. Successivamente, hanno confrontato i risultati ottenuti con i dati di gravità globale e di topografia raccolti oltre trent’anni fa dalla missione Magellano della Nasa. I risultati delle indagini hanno indicato che ben 52 delle 75 corone oggetto dello studio mostravano la presenza di anomalie termiche tipiche delle interazioni pennacchio-litosfera: la firma lasciata dalla recente, e forse ancora in corso, risalita di materiale verso la superficie.
«Le corone sono strutture di dimensioni molto grandi, presenti in numero elevato su Venere» sottolinea Anna Gülcher, geofisica dell’Università di Berna, in Svizzera, e co-autrice della pubblicazione. «I risultati del nostro studio ci permettono di affermare con buona probabilità che diversi processi attivi e in corso stiano guidando la loro formazione; processi che crediamo possano essere avvenuti anche nelle prime fasi della storia della Terra».
La domanda che si sono posti a questo punto gli scienziati è che tipo di interazioni tra il mantello e la litosfera guidino queste risalite di magma sulla superficie venusiana per produrre le corone. Ulteriori simulazioni hanno permesso di scartare diverse ipotesi, e appurare che il modello che meglio spiega la geodimamica e le firme di gravità è quello della subduzione, un processo che avviene anche sulla Terra, sebbene con modalità differenti.
Illustrazione che mostra diversi tipi di attività tettonica che si ritiene siano ancora attivi sotto le corone di Venere. Nella parte superiore sono rappresentati il “gocciolamento della litosfera” (a sinistra) e la “subduzione” (a destra). In basso, due scenari in cui materiale caldo proveniente da pennacchi del mantello risale e preme contro la litosfera, potenzialmente innescando fenomeni vulcanici in superficie. Secondo i ricercatori, un ruolo chiave nella formazione delle corone è giocato dalla subduzione. Crediti: Anna Gülcher
Subdurre significa letteralmente portare una cosa sotto un’altra. Dal punto di vista geologico, sul nostro pianeta la subduzione avviene quando il bordo di una placca tettonica scivola sotto la placca adiacente, con il conseguente trascinamento di questa nel mantello. Man mano che il materiale roccioso sprofonda, la roccia si fonde, per essere poi eventualmente riciclata in superficie attraverso le bocche dei vulcani. Su Venere, sebbene non vi sia una vera e propria tettonica a placche, a produrre le corone sarebbe qualcosa del genere, ma con un meccanismo diverso. In questo scenario, la risalita di un pennacchio di roccia fusa dal mantello verso la litosfera causerebbe un rigonfiamento della superficie, provocando l’espansione della crosta interessata verso i lati. Questo movimento laterale farebbe collidere la roccia superficiale con quella circostante, causandone la subduzione – ovvero lo sprofondamento verso il basso – e producendo le corone.
Lo studio si aggiunge ad altre ricerche che hanno identificato sul pianeta diversi siti tettonicamente attivi, suggerendo un’attività geologica più simile alla Terra di quanto si ritenesse in passato, concludono i ricercatori. Nonostante questo cambio di prospettiva, lo stato attuale della tettonica di Venere rimane in gran parte sconosciuto. Tuttavia, sono in programma diverse nuove missioni per approfondirne la comprensione. Veritas della Nasa ed EnVision dell’Esa sono tra queste. I dati che ci restituiranno avranno un livello di dettaglio senza precedenti rispetto alla risoluzione ottenuta con la missione Magellano, rendendo possibili analisi mirate di strutture di origine tettonica e vulcanica non possibili fino ad ora.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “A spectrum of tectonic processes at coronae on Venus revealed by gravity and topography” di Gael Cascioli, Anna J. P. Gülcher, Erwan Mazarico e Suzanne E. Smrekar
La scienza alla spina è servita
Un pub durante un’edizione passata di Pint of Science a L’Aquila. Crediti: C. Badia /Inaf Abruzzo
Proprio come amici al pub davanti a una birra. Ma parlando di scienza, scoperte e misteri del cosmo. Dal 19 al 21 maggio 2025, in oltre 25 città italiane si terrà la decima edizione del festival internazionale Pint of Science, un evento che ogni anno porta la scienza fuori dai laboratori e nei bar e locali di tutto il mondo. E anche quest’anno, ricercatori e ricercatrici dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) saranno protagonisti di una serie di eventi che offriranno al pubblico l’opportunità di entrare in contatto con la ricerca scientifica in modo informale e conviviale.
L’iniziativa, che si svolge in contemporanea in più di 27 paesi nei 5 continenti e nasce nel 2013 da un’idea di due ricercatori dell’Imperial College di Londra – Michael Motskin e Praveen Pau – mira a rendere la scienza accessibile, interessante e divertente per tutti, anche per chi non è esperto, ma ha la passione per la ricerca scientifica. Il festival, che nel 2025 festeggerà dieci anni di presenza italiana, offre l’opportunità unica di confrontarsi con esperti di primo piano che raccontano le ultime scoperte nel campo dell’astrofisica, della cosmologia, della fisica delle particelle e molto altro. I sei temi in cui si articola la rassegna sono: Beautiful Mind (neuroscienze, psicologia e psichiatria), From Atoms to Galaxies (chimica, fisica e astronomia), Our Body (biologia umana, biotecnologie, medicina) e Planet Earth (scienze della terra, evoluzione, botanica, zoologia), Tech me out (tecnologia e computer), Our Society (scienze sociali)
L’Inaf è anche per il 2025 sponsor nazionale assieme all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), che accompagna Pint of Science Italia dalla sua prima edizione, al National Quantum Science and Technology Institute (Nqsti) e Mnesys.
«Anche quest’anno Pint of Science si riconferma come un evento di riferimento nel panorama mondiale della divulgazione scientifica. Con la nostra attività vogliamo avvicinare quante più persone possibile a scienza e tecnologia», dice Alessia Tricomi, presidentessa dell’associazione Pint of Science Italia. Cuore pulsante dell’associazione sono anche giovani volontarie e volontari “pescati” dalle istituzioni scientifiche italiane per entrare a parte dei vari team cittadini che organizzano l’evento.
Come istituzione scientifica di riferimento per l’astronomia, Inaf avrà tanti ricercatori e ricercatrici presenti con numerosi interventi – con uno o più eventi sui temi affascinanti legati alla vastità e al mistero dell’universo, dalle esplosioni stellari all’osservazione di fenomeni cosmici a distanza, passando per le ultime ricerche sui buchi neri, energia oscura, missioni spaziali e radiazioni ad alta energia – nelle varie città che ospitano l’iniziativa.
A L’Aquila, Eleonora Loffredo e Diego Vescovi (Inaf Abruzzo) ci guideranno in un affascinante viaggio tra le stelle di neutroni, i buchi neri e gli eventi catastrofici nell’universo, rivelando i segreti delle onde gravitazionali e dei segnali e della produzione di elementi chimici nell’universo. Sempre dell’Inaf Abruzzo, Santi Cassisi esplorerà le connessioni tra spazio e oceano, svelando come le leggi della natura si manifestano sia nelle profondità marine che nelle distese cosmiche. Ad accompagnarlo, Dante Cetrioli (Atlantide Scuola Sommozzatori) che detiene il record mondiale di apnea sotto i ghiacci.
A Bologna, di reti neurali parlerà Cristiano Fanelli (Inaf Oas) presentando aspetti chiave della tecnologia moderna ed esplorando come la stessa teoria che modella l’universo possa essere utilizzata per trattare dati in astrofisica e medicina. Sempre a Bologna, Luca Ciotti (Università di Bologna, associato Inaf) ci condurrà in un’avventura scientifica, esplorando i misteri dell’universo e i metodi utilizzati per investigare fino alle galassie più lontane.
Non spritz ma birra accompagnerà la missione Juice a Padova dove Alice Lucchetti (Inaf Padova) parlerà delle lune ghiacciate di Giove e delle frontiere più promettenti della ricerca spaziale.
Grafica dell’edizione Pint 2025, con un tardigrado simbolo di resilienza. Crediti: Pint of Science
Doppio appuntamento a Milano: Paolo Franzetti (Iasf Milano) andrà a “caccia di spettri” mostrando le tecniche più avanzate utilizzate per “catturare” gli spettri di luce provenienti dalle stelle; Anna Wolter (Inaf Brera) guiderà il pubblico in un viaggio affascinante alla scoperta delle radiazioni ad alta energia che attraversano l’universo, svelando i fenomeni più estremi come le supernove e i buchi neri.
Saltando verso est, arriviamo a Trieste dove Marco Molinaro (Inaf Trieste) presenterà Eosc sottolineando l’importanza della scienza aperta e di come le federazioni europee stiano migliorando la collaborazione e la condivisione di dati scientifici per rispondere alle grandi sfide dell’astronomia. L’Osservatorio Vera Rubin, uno degli strumenti più avanzati per mappare il cielo e studiare fenomeni cosmici, sarà al centro del talk di Enrico Giro (Inaf Trieste). Non di bora e venti ma di comete e green deal parlerà Marco Fulle (Inaf Trieste) mostrando una connessione affascinante che dimostra come l’astrofisica possa contribuire alla comprensione di problemi ambientali terrestri.
A Frascati (RM) Paola Dimauro (Inaf Oar) presenterà Euclid, una missione spaziale europea che mira a mappare l’universo e investigare la materia oscura.
A Catania, Riccardo Giuseppe Urso (Inaf Catania) esplorerà le possibilità di trovare tracce di vita oltre la Terra, concentrandosi su come i ricercatori cercano segnali molecolari di vita nei luoghi più remoti dello spazio.
Di isola in isola, a Cagliari si spiegherà come i ricercatori riescono a osservare oggetti invisibili come i buchi neri e a studiarli con le onde radio. A farlo sarà Ciriaco Goddi (Inaf e Università di Cagliari).
E se la sete si fa ancora sentire, ci sono tanti altri appuntamenti a tema “From Atoms to Galaxies” nelle altre città italiane.
Per saperne di più:
- Visita il sito dell’iniziativa Pint of Science Italy
- I social di Pint of Science: Facebook, Twitter, Instagram
- Sito di Pint of Science international
Lo sguardo di Jwst sulle aurore Giove
Le aurore sono fenomeni luminosi che si manifestano nell’alta atmosfera d’un pianeta, tipicamente in prossimità dei poli magnetici. Le possiamo ammirare sulla Terra, ma si osservano anche su altri mondi del Sistema solare. Giove è uno di questi.
Il meccanismo che produce le aurore gioviane è simile a quello della Terra: quando le particelle cariche provenienti dal Sole interagiscono con la ionosfera del pianeta, eccitano gli atomi dei gas presenti. Una volta tornati allo stato fondamentale, questi atomi emettono luce visibile, la cui colorazione – verde, rossa, viola o blu – dipende dal particolare gas atmosferico coinvolto. Ciò che cambia è tuttavia la portata dell’evento. Il campo magnetico di Giove si estende per milioni di chilometri nello spazio, formando un’immensa magnetosfera. Questo vasto scudo magnetico permette al pianeta non solo di catturare particelle cariche rilasciate dal Sole, ma anche di inglobare particelle provenienti dall’ambiente circostante, come quelle espulse nello spazio dalla sua luna Io, nota per i suoi numerosi e imponenti vulcani. Il risultato? Aurore molto più vaste e centinaia di volte più energetiche rispetto a quelle terrestri.
Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, un team di scienziati ha ora studiato in dettaglio questi eventi, ottenendo nuove informazioni utili per comprendere meglio la magnetosfera del gigante gassoso. I risultati dello studio sono pubblicati su Nature Communications.
Alcune delle immagini delle aurore gioviane scattate dallo strumento NirCam di Jwst il 25 dicembre 2023. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Jonathan Nichols (Università di Leicester), Mahdi Zamani (Esa/Webb)
Le aurore in questione si sono verificate il 25 dicembre del 2023. Il team di scienziati guidato da Jonathan Nichols, ricercatore all’Università di Leicester, le ha individuate catturando l’emissione di luce del catione tri-idrogeno H3+, una specie chimica instabile, prodotta dalla ionizzazione dell’idrogeno molecolare. Poiché questa luce brilla intensamente nell’infrarosso, utilizzando la fotocamera a infrarossi NirCam, l’imager principale del telescopio Nasa/Esa/Csa, i ricercatori sono riusciti a osservarla, rivelando qualcosa di inaspettato.
A sinistra, un’immagine dell’aurora gioviana osservata da Jwst. A destra, la stessa immagine è sovrapposta alla visuale del pianeta. Crediti: Nasa, Esa, Csa, STScI, Ricardo Hueso (Upv), Imke de Pater (UC Berkeley), Thierry Fouchet (Osservatorio di Parigi), Leigh Fletcher (Università di Leicester), Michael H. Wong (UC Berkeley), Joseph DePasquale (STScI), Jonathan Nichols (Università di Leicester), Mahdi Zamani (Esa/Webb)
Analizzando il flusso dell’emissione infrarossa, il team scoperto che la luce emessa dallo ione era molto più variabile del previsto, con cambiamenti rilevabili su scale temporali di secondi. Secondo i dati raccolti, l’emissione aurorale del catione tri-idrogeno aveva una durata media di circa 150 secondi.
«Volevamo vedere quanto velocemente cambiassero le aurore», dice a questo proposito Nichols. «Ci aspettavamo che svanissero e riapparissero lentamente, magari nell’arco di un quarto d’ora circa. Invece, abbiamo osservato l’intera regione aurorale scintillare di luce, a volte variando di secondo in secondo».
Ma la vera sorpresa è arrivata quando gli scienziati hanno confrontato le immagini infrarosse di Webb con quelle ultraviolette catturate in contemporanea dal telescopio spaziale Hubble. «Stranamente», sottolinea il ricercatore, «la luce più brillante osservata da Webb non aveva una controparte nelle immagini di Hubble. Questo ci ha lasciati perplessi. Per spiegare la luminosità complessiva osservata dai due telescopi servirebbe una quantità elevata di particelle a bassissima energia che colpiscono l’atmosfera, cosa che in precedenza si pensava fosse impossibile. Non capiamo ancora come ciò accada».
Gli scienziati intendono ora indagare le cause delle differenze tra le osservazioni dei due telescopi, ed esplorare le implicazioni che queste hanno per l’atmosfera e l’ambiente di Giove. Per farlo, gli autori dello studio condurranno nuove osservazioni con il telescopio spaziale James Webb e confronteranno i risultati con i dati raccolti dalla sonda Juno, attualmente in orbita attorno al gigante gassoso per studiarne il campo magnetico. Una cosa è certa: dopo decenni di osservazioni, Giove riesce ancora a sorprendere. E a regalare spettacoli come questo immortalato da Jwst.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Dynamic infrared aurora on Jupiter” di J. D. Nichols, O. R. T. King, J. T. Clarke, I. de Pater, L. N. Fletcher, H. Melin, L. Moore, C. Tao e T. K. Yeoman
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube NasaWebbTelescope:
Violenta tempesta cosmica dal quasar Pds 456
Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite Xrism, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale Jaxa (Giappone), con la partecipazione di Nasa (Stati Uniti) ed Esa (Europa).
Grazie ai dati ad altissima precisione di Xrism, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar Pds 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20 e il 30 per cento della velocità della luce. Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.
Spettro di emissione ai raggi X di Pds 456 catturato dallo strumento Resolve. In un gas stazionario, le linee di emissione del ferro simile all’elio e simile all’idrogeno appaiono rispettivamente a 6,7 keV e 6,97 keV. In questo caso, il movimento all’interno del vento causa spostamenti Doppler: le linee spostate verso il blu provengono dal gas che si avvicina alla Terra, mentre quelle spostate verso il rosso dal gas che si allontana. Questi spostamenti si sovrappongono, creando linee di emissione allargate—una prova del fatto che il gas fluisce in quasi tutte le direzioni. Crediti: Jaxa
Pubblicato oggi su Nature, lo studio nato da questa collaborazione internazionale (Jaxa, Nasa, Esa) nell’ambito della missione Xrism, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30 per cento di quella della luce.
«Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri. Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie», dice Francesco Tombesi, professore associato di astrofisica al Dipartimento di fisica dell’Università di Roma Tor Vergata e associato Inaf. In qualità di Xrism guest scientist selezionato dall’Esa (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato Inaf), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar Pds 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve, del quale possiamo vedere un’animazione qui sotto nel video del Goddard Space Flight Center della Nasa.
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«Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano», prosegue Tombesi , «anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (Asss), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso Inaf ed ex dottorando Aass».
Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. «Le teorie finora accettate», conclude Tombesi, «non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici».
Spettro di assorbimento ai raggi X di Pds 456 ottenuto dallo spettrometro Resolve a bordo di Xrism. Il riquadro superiore mostra lo spettro osservato nel suo insieme. Le cinque zone inferiori illustrano come il gas in movimento a velocità diverse produca linee di assorbimento a energie leggermente differenti a causa dell’effetto Doppler. Le linee più profonde in ciascuna zona corrispondono a ioni di ferro simili all’elio. Crediti: Jaxa
«Pds 456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di Xrism», aggiunge Valentina Braito, ricercatrice Inaf a Milano.
Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di Pds 456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite Nasa con una importante partecipazione dell’Inaf con l’Agenzia spaziale italiana (Asi). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per Pds 456 utilizzati nell’analisi dei dati Xrism.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, della Xrism Collaboration
- Leggi su Nature il commento “Black hole flings out clumps of gas”, di Manuela Bischetti
Sn 1987A, un’esplosione fortemente asimmetrica
La complessa fisica che regola il collasso del nucleo di una stella massiccia e la successiva esplosione di una supernova può essere svelata da un’attenta analisi delle proprietà fisiche degli ejecta prodotti dall’esplosione, in particolare di quelli più interni, qualora essi non siano ancora stati investiti dalle onde d’urto riflesse che si propagano verso il centro del resto di supernova.
Diverse osservazioni del resto di supernova Sn 1987A, originato dall’esplosione di una supergigante blu nella Grande Nube di Magellano nel 1987, mostrano che gli ejecta interni presentano una morfologia fortemente asimmetrica. In particolare, il James Webb Space Telescope (Jwst) ha rivelato la presenza di ejecta ricchi in ferro con una struttura marcatamente bipolare, in espansione a una velocità di circa 2300 km/s. Questi ejecta sono particolarmente significativi, poiché si sono originati dalle regioni più profonde della stella progenitrice.
Nel pannello di sinistra, l’immagine di Sn 1987A ottenuta dalla camera NirCam del James Webb Space Telescope;
nel pannello centrale, la distribuzione di densità del resto di supernova, inclusi gli ejecta ricchi in ferro, come previsto da un modello sviluppato nel 2020 dal team di S. Orlando;
nel pannello di destra, la morfologia attuale del resto, come prevista dal nuovo modello presentato in questo studio. Crediti: S. Orlando et al., A&A, 2025
In uno studio in uscita su Astronomy & Astrophysics, un team di ricercatori guidato dall’astrofisico Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo ha sviluppato e analizzato un modello magnetoidrodinamico (ossia che tiene conto dell’interazione tra materia e campo magnetico) dell’evoluzione di Sn 1987A, dalla fase di supernova fino allo sviluppo del resto di supernova. Il modello riproduce con successo la morfologia bipolare degli ejecta ricchi in ferro osservata dal James Webb Space Telescope, mostrando come tali strutture derivino da un’esplosione fortemente asimmetrica. L’espansione degli ejecta è stata ulteriormente accelerata dal decadimento radioattivo del nichel in ferro, un processo che ha riscaldato il materiale interno del resto di supernova, aumentandone la pressione e contribuendo alla formazione di una “bolla di nichel”.
Il modello ha anche permesso di fare previsioni sull’evoluzione dell’emissione nei raggi X da parte degli ejecta nei prossimi anni. In particolare, l’interazione tra le onde d’urto riflesse e gli ejecta esterni ha riscaldato il materiale a temperature elevate, portandolo a emettere radiazione X. Questa emissione è in aumento dal 2021, e ci si attende che cresca ulteriormente man mano che gli ejecta più interni vengono investiti dalle onde d’urto inverse. Future osservazioni con telescopi a raggi X, come il satellite Xrism dell’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa), forniranno importanti strumenti diagnostici per studiare le proprietà fisiche degli ejecta più interni.
Salvatore Orlando, astrofisico all’Inaf di Palermo e primo autore dello studio sugli ejecta di Sn 1987A in uscita su A&A. Crediti: Inaf Oa Palermo
«Le straordinarie immagini del telescopio Jwst hanno aperto una nuova finestra su Sn 1987A, l’esplosione stellare più iconica degli ultimi decenni. Grazie alla sua eccezionale sensibilità e risoluzione angolare», spiega Orlando, «Jwst ha rivelato che il ferro espulso durante l’esplosione non è distribuito in modo omogeneo, ma concentrato in due enormi “grumi” distinti, proiettati nello spazio a velocità elevatissime. Le difficoltà incontrate dai modelli attuali nel riprodurre questa sorprendente struttura del materiale espulso indicano che qualcosa di inatteso potrebbe essere avvenuto nei primissimi istanti dell’esplosione. Stiamo già considerando due possibili spiegazioni: da un lato, violente instabilità indotte dal flusso di neutrini nel cuore della stella morente; dall’altro, scenari più estremi in cui campi magnetici e rotazione giocano un ruolo cruciale nel generare un’esplosione bipolare. Tuttavia, nessuna di queste ipotesi riesce al momento a spiegare pienamente tutte le caratteristiche osservate. Per far luce su questo enigma, saranno fondamentali nuove osservazioni e simulazioni numeriche sempre più sofisticate».
- Per saperne di più:Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics “Tracing the ejecta structure of SN 1987A: Insights and diagnostics from 3D MHD simulations”, di S. Orlando, M. Miceli, M. Ono, S. Nagataki, M.-A. Aloy, F. Bocchino, M. Gabler, B. Giudici, R. Giuffrida, E. Greco, G. La Malfa, S.-H. Lee, M. Obergaulinger, O. Petruk, V. Sapienza, S. Ustamujic e J. Weng
Al via la terza edizione del Gerrei Astrofest
Da sabato 17 maggio a domenica 8 giugno, il Gerrei si trasformerà ancora una volta in un palcoscenico privilegiato per chi desidera avvicinarsi al mondo dell’astronomia con la terza edizione del Gerrei Astrofest, il festival di astronomia organizzato e finanziato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) in collaborazione con il Gal Sole Grano Terra (Gal Sgt) e l’Unione dei comuni del Gerrei.
La manifestazione diventa quest’anno, a tutti gli effetti, un festival diffuso che coinvolgerà, durante quattro fine settimana a partire dal prossimo sabato, ben otto municipalità: San Basilio (17 maggio e 8 giugno), Sant’Andrea Frius (18 maggio), Silius (24 maggio), Villasalto (25 maggio), San Nicolò Gerrei (31 maggio), Escalaplano (1 giugno), Armungia (6 giugno) e Ballao (7 giugno). Forte del successo delle passate edizioni, che hanno visto una crescente partecipazione di pubblico di tutte le età, il programma prevede circa sessanta iniziative tra conferenze pubbliche, laboratori didattici, mostre, installazioni creative, giochi da tavolo, serate di osservazione delle stelle e astrotrekking.
Fondamentali per la qualità e la buona riuscita della manifestazione sono anche i partenariati scientifici con enti e istituti di ricerca come l’Agenzia spaziale italiana (Asi), l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e l’Università di Cagliari, che porteranno contenuti di alto profilo su vari temi fisici, astrofisici e aerospaziali di grande attualità.
Ideato e realizzato nel 2022 in via sperimentale dall’astrofisica dell’Inaf di Cagliari Silvia Casu, il Gerrei Astrofest è cresciuto costantemente. «Lavoriamo a questo evento ormai da molti anni per connettere il Sardinia Radio Telescope a un territorio, il Gerrei, ricco di natura intatta e di siti peculiari, nonché di una grande capacità di accoglienza che merita di crescere», spiega Casu. «Noi abbiamo solo aggiunto un pezzo, il radio telescopio, certamente importante, ma facente parte di un ecosistema più vasto che lo ha preceduto, che lo accompagna e che esisterà anche dopo».
Il ruolo centrale non potrà che essere ricoperto, appunto, dal grande radiotelescopio dell’Inaf costruito a San Basilio, nella piana di Pranusanguni. Il festival partirà proprio da Santu Asili ‘e monti (San Basilio in sardo) nel cui centro urbano è prevista l’inaugurazione sabato 17 maggio, a partire dalle 17, con i saluti istituzionali del primo cittadino nonché presidente dell’Unione dei comuni del Gerrei Albino Porru, di Antonino Arba e Silvia Doneddu, rispettivamente presidente e direttrice del Gal Sgt, della direttrice dell’Inaf di Cagliari Federica Govoni, del responsabile delle operazioni del Sardinia Radio Telescope Sergio Poppi e della responsabile scientifica del festival Silvia Casu.
Il Gerrei Astrofest non è solo un festival dedicato all’affascinante mondo dell’astronomia, ma anche una preziosa occasione per valorizzare il territorio, promuovendone le bellezze paesaggistiche, storiche e culturali. «Siamo molto felici che dopo le prime edizioni, svolte solo a San Basilio, adesso sia coinvolta tutta l’area del Gerrei. Sono iniziative molto importanti che fanno crescere il territorio e permettono a chi arriva da fuori di conoscere i nostri luoghi», dichiara Porru.
«L’importante collaborazione che nasce intorno al Gerrei Astrofest», sottolinea il presidente Arba, «si interseca con i progetti di accoglienza e ospitalità privati e pubblici che il Gal Sgt ha finanziato nel territorio, ma ancor di più con gli obiettivi promossi dalle Azioni di sistema “Naturalmente PerSI Percorsi Sentieri e Itinerari nel Gal Sgt”, che uniscono con un filo rosso il nostro patrimonio materiale e immateriale».
San Basilio ospiterà anche la giornata finale dell’otto giugno con un astrotrekking tematico sul Sistema solare che partirà all’alba dal centro urbano e raggiungerà il Sardinia Radio Telescope dopo una passeggiata di circa tre ore.
In mezzo, distribuita sui quattro fine settimana, una serie di ben sessanta attività tra cui spiccano due particolari tipologie. Anzitutto gli appuntamenti in assoluto più attesi dal pubblico: le osservazioni del cielo notturno con i telescopi. Per garantirle, partecipano anche quest’anno gli astrofili della storica Associazione astrofili sardi e quelli del Gruppo di fotografia astronomica Sardegna. Poi ci sarà il gioco con alcune belle novità provenienti dai gruppi di lavoro sul gaming dell’Inaf e con le proposte ludiche de La tana dei Goblin di Cagliari, associazione specializzata in giochi di ruolo e da tavolo. E poi mostre su Srt, laboratori didattici per tutte le età, conferenze tematiche e tanto altro, sempre accompagnati dall’accoglienza garantita dalle tante Pro Loco e dai comitati dei paesi partecipanti presso cui si potranno prenotare pranzi e cene tra gli eventi.
Il programma completo è disponibile sul sito web del festival.
Cronaca d’un’esercitazione per la difesa planetaria
Nella seconda metà di febbraio 2025 l’asteroide near-Earth 2024 YR4 aveva raggiunto una probabilità di circa il tre per cento di colpire la Terra per il 12 dicembre 2032. In seguito a una riduzione dell’incertezza dei parametri orbitali grazie alle osservazioni del James Webb Space Telescope, ora questa probabilità è scesa a zero, anche se resta un quattro per cento di probabilità che possa colpire la Luna per la stessa data. Per nostra fortuna 2024 YR4 è un asteroide roccioso di soli 60 metri di diametro e non avrebbe potuto provocare grossi danni, ma se fosse stato un asteroide di maggiori dimensioni, che cosa si sarebbe potuto fare? Per migliorare le nostre capacità di difesa planetaria si possono simulare casi realistici, in modo da affinare tecniche, strategie di deflessione e linea di comando così da essere più preparati nel caso di vero pericolo.
L’ultimo esercizio di difesa planetaria – o Hypothetical Asteroid Impact Threat Scenario – si è svolto in occasione della 9° International Academy of Astronautics (Iaa) Planetary Defense Conference che si è tenuta a Stellenbosch, una cittadina vicino a Cape Town in Sudafrica, fra il 5 e il 9 maggio 2025. In questo meeting si sono discussi i diversi aspetti della difesa planetaria, cosa fare per proteggere il pianeta dal rischio impatto di asteroidi near-Earth (Nea) e come organizzare le osservazioni in occasione dell’imminente flyby di Apophis del 13 aprile 2029. Il rischio impatto dei Nea è un problema non solo di tipo fisico, astronomico e astronautico, ma anche di natura politica ed economica, e i talk ne hanno illustrato anche questo aspetto. Durante la conferenza sono stati esposti i risultati ottenuti lavorando su dati e misure di posizione simulate dell’ipotetico asteroide a rischio impatto con la Terra. Sono state inoltre introdotte anche osservazioni dallo spazio e una missione spaziale di flyby con l’asteroide per vedere come cambiassero gli scenari mano a mano che si avevano a disposizione dati sempre più completi e con incertezze progressivamente più ridotte, come avviene nella realtà e che abbiamo toccato con mano nel caso di 2024 YR4.
L’orbita simulata di 2024 PDC25 con indicata la data della scoperta e quella dell’impatto. Crediti: Nasa/Cneos
Nell’esercizio, il 5 giugno 2024 alla Catalina Sky Survey viene scoperto un asteroide di magnitudine +21,5 come se ne scoprono tanti. La presenza dell’asteroide viene confermata e il Minor Planet Center gli assegna la sigla identificativa 2024 PDC25. Già da qua si capisce che è un esercizio, perché le sigle reali degli asteroidi hanno una parte alfabetica composta da sole due lettere e non da tre. Chiaramente questo è un dettaglio che può sfuggire al grande pubblico e in ogni slide mostrata alla conferenza era specificato che si trattava di un esercizio e non di un caso reale. Nei giorni immediatamente successivi la scoperta, il numero di osservazioni astrometriche è limitato a un breve arco orbitale e la probabilità d’impatto con la Terra stimata da Nasa ed Esa è di uno su diecimila per il 24 aprile 2041. Si tratta di un valore molto piccolo che non impensierisce nessuno, ma inizia il lavoro di follow-up con i telescopi al suolo. Purtroppo l’asteroide si sta allontanando e diventa sempre più debole, per cui sono necessari strumenti sempre più grandi per poterlo riprendere. Vi ricorda qualcosa? Certo: è esattamente quello che è avvenuto nel caso di 2024 YR4. Ed è quello che generalmente accade con tutti gli asteroidi near-Earth: vengono scoperti solo quando sono già vicino al nostro pianeta e le osservazioni per ridurre l’incertezza degli elementi orbitali non sono agevoli perché diventano presto molto deboli.
La simulazione
Nell’esercizio, con l’aumento del numero di osservazioni, l’orbita di 2024 PDC25 diventa più definita e la probabilità d’impatto supera l’un per cento a fine luglio 2024, raggiungendo la soglia di notifica dell’Iawn (International Asteroid Warning Network). L’Iawn è una collaborazione mondiale di organizzazioni e singoli astronomi raccomandata dalle Nazioni Unite che lavorano collettivamente per la difesa planetaria allo scopo di rilevare, monitorare e caratterizzare asteroidi potenzialmente pericolosi. Nel caso della scoperta di un asteroide a rischio impatto con la Terra il compito dell’Iawn è la diffusione dell’informazione ai governi, allo scopo di aiutarli ad analizzare le conseguenze dell’impatto e a pianificare le opzioni di risposta per mitigarlo. Le notifiche dell’Iawn arrivano solo se la probabilità d’impatto è pari o superiore all’un per cento e se l’asteroide ha un diametro pari o superiore a dieci metri. Il 1° agosto 2024 (Epoca 1), la probabilità d’impatto è dell’1,6 per cento e la data del potenziale impatto è sempre il 24 aprile 2041, il che significa che il “tempo di preavviso” è di circa 16,5 anni.
Purtroppo delle caratteristiche fisiche di 2024 PDC25 si sa pochissimo. Le osservazioni fatte con il James Webb Space Telescope ci dicono che è un asteroide roccioso di tipo S e che ha un diametro compreso fra 90 e 160 m. Il diametro è uno dei parametri più importanti da determinare, insieme alla classe dell’asteroide, perché ci fornisce un’idea della massa e quindi dei danni che può causare l’asteroide nel caso colpisse la Terra. Con i dati orbitali disponibili, il corridoio d’impatto (ossia tutti i luoghi in cui potrebbe cadere l’asteroide) attraversa più della metà del globo, tagliando l’Europa orientale, il Mar Mediterraneo, l’Africa centrale fino al Capo di Buona Speranza, attraversa l’Atlantico meridionale fino alla costa antartica vicino alla Penisola Antartica, per poi entrare nel Pacifico meridionale. Dopo quattro anni dall’Epoca 1 (siamo nel 2028 all’Epoca 2), la situazione si definisce meglio, ma si aggrava: l’asteroide 2024 PDC25 ora ha una probabilità del cento per cento di colpire la Terra il 24 aprile 2041. Lo Space Mission Planning Advisory Group (Smpag) all’Epoca 1 aveva fatto delle raccomandazioni riguardo a diversi tipi di missioni spaziali che potevano essere fatte verso 2024 PDC25 e una di queste opzioni, una missione di flyby per determinarne meglio le caratteristiche fisiche, è stata effettivamente lanciata nel settembre 2027 e ha incontrato l’asteroide il 12 aprile 2028. Si conferma che l’asteroide è roccioso, ha un diametro equivalente compreso tra 145 e 155 metri e una forma molto allungata: si tratta di un sistema binario a contatto, con una forma simile a quella dell’asteroide Donaldjohanson visitato recentemente dalla missione Lucy della Nasa.
Il corridoio d’impatto di 2024 PDC25 dopo il flyby con la sonda all’Epoca 2. I cerchi rappresentano il punto nominale d’impatto su un corridoio di possibili luoghi d’impatto che oramai è molto ridotto. Crediti: Nasa/Cneos
Combinando le proprietà fisiche derivate dalla missione di flyby con la velocità d’impatto geocentrica di 13,8 km/s le energie d’impatto per l’asteroide vanno da 45 a 160 Mt, molto probabilmente da 60 a 105 Mt. Per confronto, l’energia emessa nella catastrofe di Tunguska, che è l’impatto più energetico mai osservato in tempi storici, è stimata in circa 10-15 Mt. La missione spaziale ha anche avuto un’altra ricaduta. La posizione dell’asteroide nello spazio ottenuto tramite la missione di flyby, insieme all’astrometria ottenuta da terra, ha ridotto notevolmente le incertezze orbitali e ora si sa che l’asteroide cadrà in un corridoio d’impatto di 470 × 200 km fra Congo e Angola. Il pericolo principale per quanto riguarda le cadute di piccoli asteroidi è l’airburst ad alta energia e bassa quota con conseguente creazione di onde d’urto distruttive su vaste aree. I danni al suolo raggiungerebbero probabilmente livelli insostenibili in prossimità dell’esplosione, con danni gravi che molto probabilmente si estenderebbero per circa 100-120 km di raggio e potenzialmente per 130 km o più. Con questi numeri e considerata la zona dell’impatto verrebbero coinvolte centinaia di migliaia di persone, con un numero variabile di vittime da diverse migliaia a oltre 1 milione a seconda del luogo esatto dell’impatto e dell’entità dei danni.
Giunti a questo punto della simulazione siamo nel 2028 e mancano solo 13 anni all’impatto. L’orbita dell’asteroide è piuttosto eccentrica quindi le date per una deflessione ottimale sono attorno al passaggio al perielio: novembre 2032, dicembre 2034, gennaio 2037 e marzo 2039, l’ultima data utile prima dell’impatto. Naturalmente, più la data della deflessione è avanti nel tempo e maggiore sarà la variazione di velocità richiesta per evitare l’impatto: fatto 1 il delta-v del 2032, quello per il 2039 è 3,9. Considerate le dimensioni dell’asteroide e il fatto che colpirà sulla terraferma in una zona densamente popolata, vengono proposte e analizzate diverse missioni spaziali per attuare la deflessione orbitale con diverse tecniche: impattore cinetico (Ki, kinetic impactor), esplosione nucleare (Ned, nuclear explosive devices) oppure flusso di ioni (Ibd, ion beam deflection) per cambiare la velocità dell’asteroide e modificarne di conseguenza l’orbita. Per asteroidi più piccoli di 40 metri l’opzione consigliata consiste invece nell’evacuazione della zona d’impatto. La tecnica dell’impattore cinetico è la sola realmente provata sul campo con la missione Dart della Nasa verso l’asteroide Dimorphos, le altre invece sono solo sulla carta. Qualsiasi sia la tecnica usata per cambiare l’orbita dell’asteroide, bisogna evitare che si spezzi in più parti e che, invece di un singolo asteroide, si generino diversi grossi frammenti in rotta di collisione. Per evitare questo scenario si adotta la regola empirica che ogni variazione di velocità impressa all’asteroide deve essere al massimo il dieci per cento della sua velocità di fuga, il che vuol dire, nel caso di un asteroide di 150 metri di diametro con una composizione rocciosa, restare con il delta-v al di sotto degli 8 mm/s.
L’esplosione del vulcano sottomarino Hunga Tonga – Hunga Ha’apai acquisita il 15 gennaio 2022 dallo strumento Abi a bordo del satellite Goes-West. Crediti: Noaa/Nesdis/Star
Analizzando in modo quantitativo le diverse tecniche di diflessione è stato dimostrato che è possibile spostare l’asteroide dal corridoio d’impatto originario. Usando gli impattori cinetici sarebbero necessarie da 4 a 7 missioni spaziali per spostare l’asteroide solo verso sud rispetto al corridoio d’impatto. Usando invece la tecnica dei raggi ionici, che consiste nel bombardare la superficie dell’asteroide con un flusso di ioni, basterebbero 2-3 sonde per la deflessione verso nord oppure 4-5 sonde per quella verso sud. Infine, nell’opzione nucleare, basterebbe una singola missione dotata di diversi dispositivi nucleari per deflettere l’asteroide prima dell’impatto previsto nel 2041. Quando si parla di deflessione nucleare bisogna pensare a un’esplosione nello spazio a breve distanza dalla superficie dell’asteroide che, emettendo raggi X, ne vaporizza una parte generando così un rinculo nella direzione opposta. In pratica si sfrutta l’effetto razzo generato dalla vaporizzazione della superficie: l’opzione nucleare non consiste nella disintegrazione dell’asteroide come si vede nei film. Nei vari scenari è stata considerata anche una deflessione parziale dell’asteroide ossia spostarlo dal corridoio d’impatto quel tanto che basta per farlo finire in un deserto come quello del Sahara. Tuttavia, anche la caduta in un luogo desertico provocherebbe non solo un cratere da impatto da 3 km di diametro, ma un meteotsunami, ossia uno tsunami non causato da un terremoto, bensì da una variazione improvvisa della pressione atmosferica sulla superficie marina. Se si vuole, un evento su scala maggiore di quello accaduto durante l’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga – Hunga Ha’apai nel 2022. L’altezza delle onde di tsunami come conseguenza della caduta di 2024 PDC25 è stata stimata in dieci metri sulle coste di Antartide, Africa e Sud America. Insomma un evento non proprio trascurabile e con delle ripercussioni molto più ampie di quanto si potesse immaginare. Per fortuna, nell’esercizio di difesa planetaria 2025, l’asteroide è di piccole dimensioni quindi senza modifiche del clima a livello globale.
Per chi volesse approfondire, i dati dell’esercizio di difesa planetaria alle Epoche 1 e 2 si trovano nella Planetary Defense Conference Exercise – 2025 del Cneos della Nasa.
Mentore Maggini, l’astronomo che dipingeva Marte
Mauro Dolci (direttore Inaf Abruzzo) e Paolo Maggini con in mano il manoscritto del libro “Il pianeta Marte” e una delle copertine di prova. Crediti: C. Badia/Inaf Abruzzo
Non solo scienziato, Mentore Maggini (Empoli, 1890 – Teramo, 1941) è stato un artista appassionato, capace di trasformare le sue osservazioni celesti in raffinati acquerelli. Tra gli astronomi italiani più importanti della prima metà del Novecento, Maggini ha diretto l’Osservatorio astronomico di Collurania (oggi Osservatorio astronomico d’Abruzzo) per quasi due decenni, distinguendosi per i suoi studi sui pianeti, in particolare Marte e Saturno, e per l’adozione precoce della fotometria fotoelettrica, una tecnica che all’epoca rappresentava l’avanguardia nell’analisi quantitativa della luce delle stelle.
Ma accanto alla competenza scientifica Maggini era anche un raffinato disegnatore: le sue osservazioni telescopiche si traducevano in acquerelli accurati e suggestivi, in cui il rigore si univa alla sensibilità estetica. Questa duplice anima — scienziato e artista — è oggi testimoniata da numerosi materiali originali, parte dei quali sono tornati simbolicamente “a casa” ieri, lunedì 12 maggio, grazie alla generosità del nipote, Paolo Maggini, che proprio a Teramo ha consegnato una serie di documenti appartenuti al nonno, tra cui spiccano il manoscritto originale del libro Il pianeta Marte (Ulrico Hoepli Editore – Milano, 1939) e una copia stampata, due copertine non utilizzate dello stesso volume (disegni/acquerelli su cartoncino nero), una fotografia con dedica di Padre Guido Alfani, il catalogo di orologi artistici “Die Kunst-Uhern” di Josef Georg Bohm (Praga, 1908), e due rarissimi volumi delle Misure di Stelle Doppie di Giovanni Schiaparelli (1888 e 1909), entrambi con dedica al fondatore dell’Osservatorio di Collurania, Vincenzo Cerulli.
Disegno di Marte eseguito con acquerello e china da Mentore Maggini. Crediti: C. Badia/Inaf Abruzzo
La raccolta donata non è solo un insieme di documenti d’archivio, ma un’importante testimonianza del metodo osservativo e del pensiero scientifico di Maggini, che aveva scelto di raccontare il cielo non solo con numeri e formule, ma anche con il colore e la forma. I suoi acquerelli planetari sono oggi considerati veri documenti scientifici, in cui si riconosce un’attenzione minuziosa per i dettagli visivi e per le variazioni atmosferiche registrabili al telescopio. In un’epoca in cui l’imaging elettronico non era ancora disponibile, la capacità di trasporre su carta quanto visto all’oculare rappresentava uno strumento fondamentale per la ricerca. I disegni di Maggini sono apprezzati ancora oggi per l’equilibrio tra precisione tecnica e senso estetico.
Tra le sue opere più rappresentative spicca Il pianeta Marte, del 1939, uno dei pochi volumi italiani dell’epoca interamente dedicati al Pianeta rosso. Ricco di disegni, mappe e confronti osservativi, il libro rappresenta una sintesi del lavoro di un’intera carriera. Le copertine illustrate, realizzate dallo stesso Maggini come proposte per l’editore, rivelano una sensibilità grafica inusuale per un’opera scientifica, e confermano la volontà dell’autore di avvicinare anche il pubblico non specialista alla bellezza dell’indagine astronomica.
In questo contesto si inserisce anche il legame affettivo con la sua famiglia, che trova espressione in un progetto editoriale poco noto ma significativo: Urania, un libro illustrato scritto da Maggini per la figlia, scomparsa prematuramente. Concepito come un racconto divulgativo per bambini, il volume univa contenuti scientifici e illustrazioni originali, nel tentativo di trasmettere la meraviglia del cielo alle nuove generazioni. Il titolo, evocativo e affettuoso, racchiude un doppio significato: Urania è la musa dell’astronomia, ma anche il nome della bambina per cui l’opera era stata pensata. Un gesto intimo che racconta l’uomo dietro lo scienziato.
I volumi di “Misure di Stelle doppie” con la dedica autografa di Schiaparelli. Crediti: C.Badia/Inaf Abruzzo
«Sono profondamente commosso. Questo materiale», ha raccontato Paolo Maggini, «è passato di mano in mano nella mia famiglia fin dagli anni Venti del secolo scorso. Era un debito che mio padre [il figlio di Mentore Maggini, ndr] sentiva verso l’Osservatorio, e che io ho ereditato. Questa, in fondo, è stata un po’ la nostra casa: qui hanno vissuto i miei nonni, mio padre e la sua sorellina Urania, scomparsa giovanissima».
I materiali donati saranno catalogati e resi disponibili per la consultazione nell’ambito dell’archivio storico dell’Osservatorio, recentemente digitalizzato, e sul portale Inaf dei beni culturali Polvere di Stelle, contribuendo così a restituire visibilità e accessibilità a una pagina importante della storia scientifica italiana. In un’epoca in cui la tecnologia domina lo studio dell’universo, il lavoro poliedrico di Maggini ricorda quanto l’occhio umano, armato di curiosità e strumenti modesti, possa cogliere la meraviglia dell’universo traducendosi in gesto creativo, emozione, memoria. «Donare questi documenti significa riportarli nel luogo a cui appartengono, e presto ne seguiranno degli altri», ha concluso Paolo Maggini. «È davvero come tornare a casa».
Einstein Telescope, a Firenze l’ottica adattiva
Nel quadro del progetto Pnrr Etic è stato inaugurato oggi, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva Adoni-Et all’Osservatorio astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’Inaf di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto Etic e responsabile internazionale di Einstein Telescope (Et), e Armando Riccardi, responsabile di Adoni-Et, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto Et e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.
La realizzazione del laboratorio Adoni-Et rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (Etic), finanziato dal Ministero dell’università e della ricerca (Mur), nell’ambito della Missione 4 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), di cui l’Infn è capofila. Inaf partecipa al progetto Pnrr Etic attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive Adoni, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici. Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio Adoni-Et è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di Et, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.
«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del Pnrr-Etic, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto nazionale di astrofisica e del suo laboratorio Adoni, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di Inaf Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma Pnrr-Etic ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».
«Come direttore della Sezione Infn di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio Etic-Adoni, presso l’Osservatorio di Arcetri. Etic-Adoni è stato finanziato nell’ambito del progetto Pnrr Etic, con capofila l’Infn, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’Inaf», aggiunge il direttore di Infn Firenze Giovanni Passaleva. «L’Inaf è un partner fondamentale per Etic e con il laboratorio Etic-Adoni giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede Infn e Inaf collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».
«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (Ligo, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di Adoni-Et Armando Riccardi. «Il laboratorio Adoni-Et, presso l’Osservatorio astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in Inaf con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di Et (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».
Con questo progetto del laboratorio Adoni, Inaf si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per Et anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.
Il consorzio Etic è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (Et), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di Esfri (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa. A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di Etic si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare Et, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.
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Sopravvivere su Venere? Il Pna ce la potrebbe fare
Immagine del pianeta Venere catturata dalla sona Mariner 10 della Nasa nel 1974. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Venere, il pianeta “gemello della Terra”, è un mondo estremamente inospitale. Ha una temperatura superficiale che raggiunge i 465 gradi Celsius, sufficiente a fondere il piombo. La sua pressione atmosferica è circa 94 volte quella terrestre, abbastanza da schiacciare qualsiasi cosa non sia stata appositamente progettata per resistere a condizioni così estreme. Inoltre, come se non bastasse, ha un’atmosfera avvolta da dense nubi cariche di acido solforico, una sostanza estremamente corrosiva. Eppure, nonostante queste condizioni proibitive, la possibilità della presenza di vita sul pianeta continua a stimolare l’interesse degli scienziati.
Ne è una dimostrazione un recente studio pubblicato su Science Advances in cui un team di ricercatori guidato da Janusz J. Petkowski, astrobiologo della Wrocław University of Science and Technology (Polonia), ha valutato la capacità dell’acido peptido nucleico – un analogo strutturale del Dna – di resistere in condizioni che simulano l’ambiente acido delle nubi venusiane.
La ricerca, dal titolo “Implicazioni astrobiologiche della stabilità e della reattività dell’acido peptido nucleico (Pna) nell’acido solforico concentrato”, prende spunto da due osservazioni e dai risultati di due studi. La prima osservazione riguarda la complessità strutturale delle molecole biologiche. Una caratteristica universale della vita è l’affidamento delle funzioni biologiche a polimeri complessi, sottolineano i ricercatori. Se gli esseri viventi richiedono queste molecole per portare avanti i loro processi, allora trovare candidati polimeri stabili nelle nubi venusiane è un passo necessario per stabilire la potenziale abitabilità del pianeta. La seconda osservazione ha a che fare con le caratteristiche proprie dell’atmosfera di Venere. Come anticipato, le nubi di Venere sono composte da acido solforico concentrato. Nonostante sia una sostanza corrosiva, diverse ricerche suggeriscono che è possibile che alcune molecole organiche complesse possano sopravvivere in un ambiente così ostile. Per quanto riguarda i due studi, il primo, condotto da un team di scienziati dell’Imperial College di Londra, è quello che riporta la dibattuta scoperta della fosfina – un gas che sulla Terra è prodotto da microbi che prosperano in ambienti privi di ossigeno. Il secondo studio, condotto da un gruppo di scienziati dell’Università Università di Cardiff, riguarda invece la rivelazione di ammonica.
Queste considerazioni, insieme al fatto che negli strati dell’atmosfera di Venere, ad altitudini comprese tra 48 e 60 chilometri, le temperature corrispondono a quelle riscontrate sulla superficie terrestre, hanno spinto gli scienziati a chiedersi se sia possibile che una molecola simile al Dna possa sopravvivere in condizioni analoghe a quelle delle nubi di Venere.
«Sia l’ammoniaca che la fosfina sono biomarcatori, possono cioè indicare la presenza di vita. Ma le nubi di Venere sono assolutamente ostili alla vita come la conosciamo sulla Terra», dice William Bains, ricercatore all’Università di Cardiff e co-autore dello studio. Per questo la nostra ricerca mira a esplorare il potenziale dell’acido solforico concentrato come solvente capace di supportare la chimica complessa necessaria alla vita in nubi apparentemente inabitabili».
In particolare, nello studio i membri del team hanno testato la stabilità e la reattività di un analogo strutturale della molecola del Dna in una soluzione concentrata di acido solforico. La molecola oggetto della ricerca è, come detto, l’acido peptido nucleico (Pna), un polimero a singolo filamento in grado di interagire strettamente e specificamente con il Dna e l’Rna, e per questa caratteristica ampiamente utilizzato come analogo degli acidi nucleici nella ricerca biomedica e in molti altri campi della scienza, compresa l’astrobiologia e le scienze planetarie. Sebbene si tratti di una molecola non presente oggi in natura, si ritiene che possa essere stata la prima macromolecola biologica utilizzata dalla vita sulla Terra.
Dal punto di vista strutturale, l’acido peptido nucleico è una molecola molto simile all’Rna, dal quale differisce però per la struttura che tiene insieme i diversi nucleotidi – i mattoncini che costituiscono gli acidi nucleici: non il classico scheletro zucchero (desossiribosio nel Dna e ribosio nell’Rna)/fosfato, ma un’ossatura fatta di N- (2-amminoetil) glicina (Aeg).
Nel riquadro (A), esameri di Pna composti da sei unità identiche e consecutive delle basi azotate: adenina (A6), guanina (G6), citosina (C6) e timina (T6). Lo scheletro di N- (2-amminoetil) glicina (Aeg) è colorato in rosso, le basi azotate in blu, i linker tra le due sottostrutture in rosa. Nel riquadro (B), le strutture dei monomeri che costituiscono la molecola di Pna: mA , mG , mC e mT. Crediti: Janusz J. Petkowski et al., Science Adavances, 2025
Per esplorare il potenziale della molecola di sopravvivere nelle condizioni delle nubi venusiane, i ricercatori hanno utilizzato quattro filamenti singoli di Pna, ciascuno composto da sei unità identiche (esameri) e consecutive delle basi azotate adenina, guanina, citosina e timina. Successivamente, hanno immerso i campioni in una soluzione di acido solforico al 98 per cento. Infine, hanno valutato la stabilità delle molecole a diverse temperature su scale temporali di ore, giorni e settimane.
Andiamo ai risultati: tutti gli omoesameri di Pna sono sopravvissuti alle concentrazioni testate, mostrando una degradazione inferiore al 28,6 per cento per almeno 14 giorni a temperatura ambiente (da 18 a 25 gradi Celsius), spiegano i ricercatori.
«Si pensa che l’acido solforico concentrato distrugga tutte le molecole organiche e quindi uccida ogni forma di vita, ma non è vero», osserva Petkowski. «Anche se molte biomolecole, come gli zuccheri, sono instabili in un simile ambiente, le nostre ricerche hanno dimostrano finora che altre sostanze presenti negli organismi viventi, come le basi azotate, gli amminoacidi e alcuni dipeptidi, non si degradano. Il nostro studio apre un nuovo capitolo sul potenziale dell’acido solforico come solvente per la vita, dimostrando che il Pna, una molecola complessa strutturalmente simile al Dna e nota per interagire in modo specifico con gli acidi nucleici, mostra una stabilità notevole nell’acido solforico concentrato a temperatura ambiente».
Le cose sono tuttavia cambiate a temperature più elevate: dopo 24 ore di incubazione in acido solforico a 80 gradi Celsius, i ricercatori hanno infatti osservato la completa degradazione (solvolisi) di tutti e quattro gli esameri.
«Il nostro studio dimostra che il Pna non è più stabile in acido solforico a temperature superiori a 50 °C. Pertanto, la nostra futura ricerca si concentrerà sulla creazione di un polimero genetico – una molecola in grado di svolgere il ruolo del Dna per vita sulla Terra – che sia stabile in acido solforico concentrato nell’intervallo di temperatura delle nubi di Venere, tra 0 e 100 gradi Celsius, e non solo a temperatura ambiente».
Aver trovato che una molecola come il Pna è in grado di resistere alle condizioni venusiane simulate naturalmente non significa che l’origine della vita nell’acido solforico concentrato sia possibile. Tuttavia, la possibilità che l’atmosfera di Venere possa supportare la vita basata esclusivamente sull’acido solforico non può essere esclusa. È possibile, ad esempio, che la vita possa usare l’acido solforico concentrato come solvente al posto dell’acqua, assente nell’atmosfera del pianeta.
«Scoprire che il Pna, con le sue somiglianze con il Dna, possa rimanere immerso nell’acido solforico concentrato per ore è davvero sorprendente. È un nuovo tassello di un puzzle molto più grande che ci aiuta a comprendere come la vita, seppur molto diversa dalla nostra, si forma e in quale parte dell’universo potrebbe esistere».
Secondo il team, queste scoperte offrono nuovi modi per comprendere la chimica dell’acido solforico: dimostrando la stabilità di un polimero come il Pna in acido solforico al 98 per cento, sottolineano i ricercatori, abbiamo compiuto un sostanziale passo avanti nell’esplorazione del potenziale di questo acido come solvente in grado di supportare la complessa chimica necessaria per la vita, dimostrando la potenziale abitabilità dell’atmosfera di Venere.
Il nostro lavoro è il primo passo fondamentale verso l’identificazione di un polimero di tipo genetico stabile in questo solvente unico, concludono i ricercatori. Sosteniamo l’idea che l’acido solforico liquido concentrato, sia nelle goccioline liquide delle nubi di Venere che sugli esopianeti, possa sostenere una vasta gamma di reazioni chimiche organiche che potrebbero essere in grado di supportare forme di vita diverse da quelle terrestri.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Astrobiological implications of the stability and reactivity of peptide nucleic acid (PNA) in concentrated sulfuric acid”, di Janusz J. Petkowski, Sara Seager, Maxwell D. Seager, William Bains,Nittert Marinus, Mael Poizat, Chad Plumet, Jim van Wiltenburg, Ton Visser e Martin Poeler
Space Jaws: lo squalo spaziale azzanna una stella
Se ne stava appostato, silente e invisibile, apparentemente innocuo, sepolto nel nero degli spazi interstellari in una galassia a seicento milioni di anni luce dalla Terra, pronto a sferrare l’attacco letale. Nel frattempo, da qualche parte nei paraggi, come nella scena di apertura della celebre pellicola di Spielberg del ‘75 una giovane e allegra bagnante si immergeva in un piacevole bagno notturno nelle acque del New England, potremmo supporre che, se fosse dotata di sentimenti umani, con la stessa spensierata noncuranza, una stella andava incontro alla sua morte. L’ha azzannata senza pietà, oltraggiando la sua stellare simmetria, stirandola da parte a parte, sparpagliandone il cadavere in un luminoso disco di accrescimento, prima di inghiottirla e fare pure un bel ruttino. Ruttino che non è passato inosservato agli occhi attenti di diversi telescopi, vera e propria prova del delitto appena consumato, traccia inconfutabile che inchioda il colpevole del cosmico misfatto.
Chi è l’artefice di tale azione feroce? Ma un buco nero, ovviamente. Squalo spaziale (“Space jaws”), lo hanno soprannominato così, quelli della Nasa. Il delitto, invece, in inglese viene detto tidal disruption event (Tde), ovvero evento di distruzione mareale. E ha coinvolto una povera stella che si trovava a transitare nei paraggi. L’impressionante forza di gravità del buco nero è più intensa per la parte della stella più prossima ad esso, mentre la regione più lontana è meno attratta. Questa differenza nella forza gravitazionale, che dà luogo alle cosiddette forze di marea, stira – o, se preferite, spaghettifica – la stella, i cui resti cominciano ad orbitare attorno al buco nero prima di essere inevitabilmente inghiottiti. Questo fenomeno sprigiona una grande quantità di energia – quella che teneramente chiamavamo prima ruttino – che può essere osservata in diverse bande dello spettro elettromagnetico. Quello che era dapprima un invisibile, quiescente, ignoto buco nero in questo modo si palesa, e gli scienziati possono studiarne le proprietà.
Illustrazione artistica che rappresenta le diverse fasi di un evento di distruzione mareale (Tde). Un buco nero supermassiccio inizialmente quiescente (1) cattura gravitazionalmente una stella che si trova nei paraggi (2). Le forze di marea spaghettificano la stella (3) e ciò che ne rimane viene distribuito in un disco di accrescimento che alimenta il buco nero (4). A seguito dell’accrescimento di materia il buco nero sprigiona una gran quantità di energia (5) che lo rende visibile dai telescopi a terra e nello spazio. Nel caso di At2024tvd, il lampo di energia appare spostato rispetto al centro della galassia che ospita il buco nero (6). Crediti: Nasa, Esa, StScI, R. Crawford (Stsci)
Questo qui ha la faccia di un buco nero supermassiccio, grosso quanto un milione di soli. E a differenza della maggior parte dei buchi neri supermassicci, che se ne stanno più e meno vivaci nel centro delle galassie che li ospitano, questo se ne sta discosto, a 2600 anni luce dal nucleo della galassia che lo accoglie. Il cuore di quest’ultima sembrerebbe infatti già occupato da un altro enorme buco nero, cento volte più massiccio di quello che ha provocato l’evento di distruzione mareale, e già noto agli scienziati. Stranamente, i due buchi neri non sono gravitazionalmente legati – vuol dire che in pratica l’uno non avverte l’influenza dell’altro – ma, secondo gli astronomi, è possibile che alla lunga il più piccolo possa spiraleggiare verso il centro della galassia e fondersi con l’altro in un buco nero più grande. Al Tde che ha consentito di scovare il crudele, sebben più piccino, buco nero è stato assegnato il criptico nome di At2024tvd. È la prima volta che un Tde viene localizzato fuori dal centro di una galassia. Lo studio che ne riporta la scoperta verrà presto pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.
«At2024tvd è il primo Tde decentrato catturato da survey ottiche del cielo e apre la possibilità di scoprire questa sfuggente popolazione di buchi neri vaganti con future survey», dice la prima autrice dello studio, Yuhan Yao, dell’University of California a Berkeley. «Al momento, i teorici non hanno prestato molta attenzione ai Tde spostati dal centro. Credo che questa scoperta motiverà gli scienziati a cercare altri esempi di questo tipo di evento.»
Come si diceva agli inizi, l’episodio cruento è stato immortalato da diversi telescopi situati sulla Terra, che quotidianamente scandagliano l’intera volta celeste. Un luminoso e improvviso lampo, così si è presentato al mondo ignaro, simile a quelli sprigionati dalle esplosioni di supernova. Solo che in questo caso il lampo era particolarmente energetico e presentava larghe righe di emissione di svariati elementi chimici, segno inequivocabile della presenza di un buco nero supermassiccio. È stato lo specchio da poco più di un metro del telescopio ottico Zwicky Transient Facility, dell’Osservatorio di Monte Palomar, e che scandaglia ogni 48 ore l’intero emisfero celeste boreale, a notare per primo che qualcosa di anomalo stava accadendo, a diverse centinaia di milioni di anni luce dalla nostra galassia.
«Gli eventi di distruzione mareale sono molto promettenti per “illuminare” la presenza di buchi neri massicci che altrimenti non saremmo in grado di rivelare», spiega Ryan Chornock, professore associato a Berkeley e membro del team del telescopio che ha scoperto At2024tvd. «Gli astrofisici teorici hanno previsto che debba esistere una popolazione di buchi neri massicci situati lontano dai centri delle galassie, ma ora possiamo usare i Tde per trovarli.»
Da un confronto con dati preesistenti gli astronomi hanno notato lo scostamento del Tde dal centro della galassia ospitante. Un indizio ulteriore è venuto dal Chandra X-ray Observatory, che ha monitorato il brillamento della sorgente, visibile anche nei raggi X, rivelando anch’esso una posizione dell’evento non coincidente con il centro della galassia. Per fugare ogni dubbio, gli scienziati hanno osservato la sorgente di energia con il telescopio spaziale Hubble, sensibile stavolta alla componente ultravioletta del Tde, e sfruttandone la sopraffina risoluzione angolare, hanno potuto determinare con estrema accuratezza l’origine dell’evento, che si è confermato spostato rispetto al centro.
La galassia ospite dell’evento di distruzione mareale (Tde). Il buco nero supermassiccio responsabile del Tde è spostato rispetto al centro della galassia, come rivela il lampo di luce emesso in occasione del Tde. L’immagine, che mostra la posizione accurata del Tde, è stata realizzata col telescopio Hubble nell’ultravioletto. Crediti: Nasa, Esa, StScI, Y. Yao (Uc Berkeley); Elaborazione: J. DePasquale (Stsci)
Come ci sia finito là, lontano dal centro, gli scienziati ancora non se lo spiegano. Un’ipotesi la racconta Yao e avrebbe a che fare con altri due buchi neri supermassicci: «Se il buco nero ha subito una tripla interazione con altri due buchi neri nel nucleo della galassia, può comunque rimanere legato ad essa, orbitando attorno alla regione centrale». Un secondo scenario tira in ballo una passata fusione (merger) tra la galassia in cui il buco nero risiede attualmente e una galassia più piccola, fusione avvenuta oltre un miliardo di anni fa. Il buco nero responsabile del Tde non era altro che il buco nero centrale della piccola galassia interagente. Se così stanno le cose, gli scienziati prevedono che i due buchi neri supermassicci prima o poi si uniranno, nel centro della galassia attuale.
In futuro, strumenti come il Vera Rubin Observatory e Nancy Grace Roman Space Telescope consentiranno di osservare numerosi fenomeni transienti, eventi che si accendono all’improvviso e poi si placano, come quello che ha visto protagonista il buco nero di questa scoperta.
Potrebbe farlo ancora? Di mangiarsi una stella, s’intende. Certamente sì. Il quando non lo sappiamo. Il temibile tema di John Williams, due note sole per evocare il terrore assoluto di una minaccia che non si vede, continua a suonare. Nel nero impenetrabile degli spazi tra le stelle, nulla possono ardite spedizioni di sceriffi, cacciatori di squali e biologi marini. Il buco nero è ancora in agguato. E aspetta.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal Letters “A Massive Black Hole 0.8 kpc from the Host Nucleus Revealed by the Offset Tidal Disruption Event AT2024tvd”, di Yuhan Yao, Ryan Chornock, Charlotte Ward, Erica Hammerstein, Itai Sfaradi, Raffaella Margutti, Luke Zoltan Kelley, Wenbin Lu, Chang Liu, Jacob Wise, Jesper Sollerman, Kate D. Alexander, Eric C. Bellm, Andrew J. Drake, Christoffer Fremling, Marat Gilfanov, Matthew J. Graham, Steven L. Groom, K. R. Hinds, S. R. Kulkarni, Adam A. Miller, James C. A. Miller-Jones, Matt Nicholl, Daniel A. Perley, Josiah Purdum, Vikram Ravi, R. Michael Rich, Nabeel Rehemtulla, Reed Riddle, Roger Smith, Robert Stein, Rashid Sunyaev, Sjoert van Velzen e Avery Wold
Nicer e Xmm-Newton prendono il polso ad Ansky
Immagine ottenuta dalla Sloan Digital Sky Survey che mostra, al centro, Sdss 1335+0728, la galassia che ospita il buco nero supermassiccio Ansky, le cui eruzioni quasi periodiche sono oggetto dello studio. Crediti: Sloan Digital Sky Survey
Gli addetti ai lavori le chiamano eruzioni quasi periodiche, quasi-periodic eruption (Qpe), in inglese. Sono potenti esplosioni di raggi X che si ripetono periodicamente su scale temporali che vanno da poche ore a settimane, generate da buchi neri supermassicci situati al centro di galassie di piccola massa.
Utilizzando i dati raccolti da diversi telescopi per raggi X, un team di ricercatori e ricercatrici guidati dal Massachusetts Institute of Technology ha ora studiato, per la prima volta, l’ambiente fisico in cui si verificano queste emissioni, migliorando la comprensione del meccanismo che ne è alla base. I risultati dello studio, pubblicati la settimana scorsa sulla rivista The Astrophysical Journal, confermano quanto precedentemente ipotizzato dagli scienziati: alcune Qpe sarebbero causate dalle collisioni periodiche di un corpo orbitante di massa stellare con il disco di accrescimento del buco nero.
Il punto di partenza della ricerca è stata l’osservazione del buco nero supermassiccio soprannominato Ansky, un gigante cosmico da un milione di masse solari situato a 300 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, in direzione della costellazione della Vergine.
Posizionato al centro della galassia Sdss 1335+0728, l’oggetto compatto ha fatto parlare di sé nel 2019, quando, dopo decenni di quiescenza, è improvvisamente tornato attivo, emettendo radiazione a diverse lunghezze d’onda e trasformando la galassia ospite in un nucleo galattico attivo. Ma è nel febbraio del 2024 che gli astronomi hanno notato qualcosa di strano: un’emissione di raggi X a intervalli quasi regolari. Per gli scienziati non ci sono dubbi: si tratta di emissioni quasi periodiche, una classe di brillamenti di raggi X a bassa energia, di breve durata, la cui origine resta tuttora incerta, nonostante le diverse ipotesi formulate.
Il buco nero supermassiccio Ansky è una delle dieci sorgenti di eruzioni quasi periodiche identificata finora. Tra tutte, è la più interessante: le sue emissioni ricorrenti sono le più energetiche che si conoscano. Inoltre, mostrano la cadenza e la durata più lunghe mai osservate, pari a 4,5 e 1,5 giorni rispettivamente.
Proprio le straordinarie caratteristiche dei lampi ricorrenti di raggi X di Ansky hanno spinto Joheen Chakraborty, ricercatore al Massachusetts Institute of Technology, e i suoi colleghi, tra cui gli italiani Riccardo Arcodia, Margherita Giustini, Giovanni Miniutti e Claudio Ricci, a studiare in dettaglio il buco nero, ottenendo informazioni utili a comprendere meglio la natura di queste emissioni.
Fotogramma del video Nasa che mostra l’oggetto di massa stellare (il pallino bianco) in orbita attorno al buco nero supermassiccio Ansky (rappresentato dal pallino nero). Impattando ripetutamente sul disco di accrescimento che circonda il buco nero, l’oggetto celeste produrrebbe degli shock che sarebbero alla base delle eruzioni quasi periodiche osservate nello studio. Crediti: Nasa.
Il meccanismo che genera le Qpe è infatti non del tutto conosciuto. Una delle teorie più accreditate circa la loro origine coinvolge un oggetto di massa stellare la cui orbita incrocia quella del buco nero. Secondo questa ipotesi, i brillamenti di raggi X quasi periodici sarebbero il prodotto di shock collisionali provocati dal corpo celeste che attraversa ripetutamente il disco di accrescimento del buco nero. Il meccanismo proposto è questo: a ogni orbita, l’oggetto di massa stellare perturberebbe il disco di accrescimento dell’oggetto compatto. Le interazioni, due per ogni giro, genererebbero onde d’urto che riscaldano localmente il disco, provocando l’espulsione di materia che emette nei raggi X. Le successive interazioni tra l’oggetto e il disco darebbero origine a nuove espulsioni di gas caldo, visibili come emissioni quasi-periodiche nei raggi X. In questo scenario, le emissioni si ripeterebbero fino alla scomparsa del disco o alla disintegrazione dell’oggetto in orbita, un processo che potrebbe richiedere anche alcuni anni. Orbiter–disk collision model: è così che gli scienziati chiamano questo modello.
Grazie ai dati raccolti dai telescopi spaziali Nicer della Nasa e Xmm-Newton dell’Esa, il team di ricerca ha analizzato le variazioni nell’intensità dei raggi X emessi da Ansky e mappato la rapida evoluzione del materiale espulso, confermando, almeno per Ansky, la validità del modello proposto.
«Le Qpe sono fenomeni misteriosi e di grande interesse», sottolinea Joheen Chakraborty. «Uno degli aspetti più affascinanti è la loro natura quasi periodica. Stiamo ancora sviluppando le metodologie e i modelli necessari per comprenderne le cause, e le proprietà insolite di Ansky ci stanno aiutando a perfezionare questi strumenti». I ricercatori hanno scoperto che ad ogni collisione tra l’oggetto compagno e il disco del buco nero viene espulsa una massa pari a quella di Giove. Le analisi indicano anche che il plasma viene rapidamente accelerato dalla pressione di radiazione ed eiettato a velocità che i ricercatori calcolano sia pari a circa il 15 per cento della velocità della luce. Nel corso dell’eruzione, inoltre, la massa di materiale espulso viene dispersa radialmente, espandendosi con una geometria sferica.
Margherita Giustini, ricercatrice al Centro de Astrobiología di Madrid e co-autrice dello studio pubblicato la scorsa settimana su ApJ
«I modelli più accreditati per spiegare l’origine delle eruzioni quasi-periodiche di raggi X sono collegati all’attività del buco nero supermassiccio che si trova al centro delle galassie ospiti», spiega a Media Inaf la co-autrice dello studio Margherita Giustini, ricercatrice italiana oggi al Centro de Astrobiología di Madrid. «Una classe di modelli spiega le eruzioni con un corpo/oggetto di piccola massa (ad esempio una stella, o un piccolo buco nero) in orbita attorno al buco nero centrale; altri tipi di modelli invocano instabilità magnetiche del flusso di materia in accrescimento sul buco nero. Nel caso di Ansky, il modello più plausibile per spiegare le osservazioni è lo scenario in cui una stella impatta ripetutamente sul disco di accrescimento che circonda il buco nero supermassiccio centrale della galassia. Ad ogni impatto sono prodotti degli shock che provocano l’espansione di nubi di gas molto caldo, che osserviamo brillare in raggi X. L’orbita della stella non perfettamente circolare, e i forti effetti gravitazionali dovuti alla presenza del buco nero supermassiccio centrale, fanno sì che le eruzioni di raggi X non siano perfettamente periodiche, bensì quasi-periodiche».
L’auspicio dei ricercatori è che in futuro si riescano a perfezionare i modelli che descrivono questi sistemi, migliorando così la capacità di studiarne le emissioni. Secondo Giustini, per fare ciò «sarà fondamentale avere a disposizione telescopi spaziali con una grande capacità di raccolta di raggi X “soffici” (ovvero fotoni con energia compresa tra circa 200 e 2000 eV) e capaci di osservare sorgenti cosmiche per lunghi periodi di tempo: in questa maniera potremo studiare in dettaglio l’evoluzione dell’emissione delle sorgenti di eruzioni quasi-periodiche di raggi X, e forse svelare i misteri della dinamica dei nuclei delle galassie e dei loro buchi neri supermassicci. In questo senso», conclude la ricercatrice, «Ansky è una sorgente davvero spettacolare, che potrà aiutarci a comprendere meglio alcuni dei fenomeni più misteriosi che l’universo ci ha svelato negli ultimi anni».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Rapidly Varying Ionization Features in a Quasi-periodic Eruption: A Homologous Expansion Model for the Spectroscopic Evolution” di Joheen Chakraborty, Peter Kosec, Erin Kara, Giovanni Miniutti, Riccardo Arcodia, Ehud Behar, Margherita Giustini, Lorena Hernández-García, Megan Masterson, Erwan Quintin, Claudio Ricci e Paula Sánchez-Sáe
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Quando un buco nero si risveglia” (11 aprile 2025)
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della Nasa:
Al cospetto di Eos, gigantesca nube molecolare
Se si manifestasse nel cielo buio in tutta la sua magnificenza, Eos, nube molecolare scoperta da un gruppo di ricercatori guidati da Blakesley Burkhart e Thavisha Dharmawardena, sovrasterebbe buona parte dello skyline di New York, come ci racconta questa immagine. Che vuol rendere l’idea della vastità di questa struttura che sovrasta le nostre inconsapevoli teste.
Rappresentazione artistica della nube molecolare Eos sui cieli di New York. La nube è invisibile ai nostri occhi perché emette luce nel lontano ultravioletto. Crediti: NatureLifePhoto/Flickr (New York City Skyline), Burkhart et al. 2025
Inconsapevoli perché, differentemente da quella delle stelle che punteggiano le notti terrestri, la luce prodotta da Eos è invisibile ai nostri occhi. E in verità anche a quelli di molti strumenti. Tant’è che solo ora gli scienziati ne scoprono l’esistenza, benché si tratti a tutti gli effetti di una nostra dirimpettaia cosmica. Solo trecento anni luce separano infatti Eos dalla Terra. Eppure egregia è stata nascondersi, fino a che i ricercatori non l’hanno guardata con gli occhi giusti. Occhi sensibili all’ultravioletto lontano, come quelli dello spettrografo Fims-Spear, a bordo del satellite coreano Stsat-1. Che hanno visto, per la prima volta, l’emissione delle molecole di idrogeno che compongono la nube.
La scoperta ha ricevuto anche l’attenzione del New York Times ed è stata pubblicata su Nature Astronomy alla fine di aprile. «Questa è la prima nube molecolare in assoluto scoperta osservando direttamente l’emissione nel lontano ultravioletto dell’idrogeno molecolare», dice Burkhart, professoressa associata presso la School of Arts and Sciences della Rutgers University nel New Jersey, Stati Uniti. «I dati hanno mostrato molecole di idrogeno luminose rilevate tramite fluorescenza nell’ultravioletto lontano. Questa nube sta letteralmente brillando nel buio». Non a caso i suoi scopritori le hanno attribuito il nome della dea greca dell’aurora. Eos apre nuovi, inaspettati scenari nello studio delle nubi molecolari.
È un fatto inedito, quello di stanare una nube molecolare in virtù della sua radiazione ultravioletta. Le nubi molecolari, dense strutture di gas freddo, costituiscono la materia prima per generare le stelle. Il loro ingrediente principale è l’idrogeno molecolare, seguito, in misura molto minore, da altre molecole come il monossido di carbonio (in formula chimica, CO). E proprio quest’ultimo, visibile da terra con relativa facilità utilizzando strumenti operanti nel radio e alle lunghezze d’onda millimetriche – uno fra tutti, l’interferometro Alma –, viene da anni utilizzato come tracciante di queste importanti regioni, culle di nuove stelle e sistemi planetari.
Esempio di una nube molecolare (in questo caso M16) vista dal telescopio Hubble. Crediti: Nasa, Esa, StScI, J. Hester e P. Scowen (Arizona State University)
Esistono delle “ricette” che gli scienziati utilizzano per convertire la luce emessa dal monossido di carbonio nella massa di idrogeno molecolare della nube, che come si diceva è il costituente che fa da padrone in queste regioni. Si ricorre a questi metodi un po’ tortuosi per stabilire quanto idrogeno molecolare è presente in quanto osservare direttamente questa componente del mezzo interstellare è opera decisamente ardua. Per questo lo studio di Burkhart e collaboratori fa notizia, perché anziché “fare il giro” del monossido di carbonio, gli scienziati sono andati a guardare dritta in viso l’emissione delle molecole di idrogeno. Aprendo nuove strade per lo studio delle nubi molecolari.
«L’uso della tecnica di emissione di fluorescenza nell’ultravioletto lontano potrebbe riscrivere la nostra comprensione del mezzo interstellare, svelando nubi nascoste nella [nostra] galassia e persino fino ai limiti più lontani rilevabili all’alba cosmica», spiega Dharmawardena, fellow del programma Nasa Hubble presso la New York University, co-prima autrice dello studio.
Anche volendo, il monossido di carbonio in questa nube proprio non si vede. CO-dark, vengono dette le nubi che contengono poco monossido di carbonio e che eludono dunque le tecniche convenzionali per rivelarle. Questo spiega perché Eos sia stata scoperta solo adesso, nonostante la sua prossimità al Sistema solare. Si tratta infatti di una delle strutture più vicine al nostro sistema planetario ed è situata al bordo della Bolla Locale, una cavità del mezzo interstellare che ci accoglie al suo interno. Gli astronomi hanno stimato per Eos una massa pari a 3400 volte quella del Sole, e un’estensione della nube sul piano del cielo larga quanto quaranta lune piene.
Rappresentazione artistica della Bolla Locale, una cavità svuotata di gas all’interno della quale giace il Sistema solare. Crediti: Leah Hustak (StScI)/Cfa
Il gruppo di ricercatori spera di rivelare nuove nubi molecolari come Eos, che sfuggono alle tecniche canoniche. E di svelarne a distanze decisamente più remote, che tracciano epoche prossime al Big Bang. Studiare il gas molecolare è fondamentale per comprendere i processi che portano alla formazione delle stelle e dei sistemi planetari nel corso della vita dell’universo. Utilizzando il James Webb Space Telescope (Jwst), Burkhart assieme ad altri scienziati potrebbe aver rivelato l’emissione di idrogeno molecolare più lontana mai osservata. «Utilizzando Jwst, potremmo aver trovato le molecole di idrogeno più lontane dal Sole. Quindi, abbiamo trovato sia alcune delle molecole più vicine sia alcune di quelle più lontane, utilizzando l’emissione nel lontano ultravioletto», conclude la scienziata.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A nearby dark molecular cloud in the Local Bubble revealed via H2 fluorescence” di Blakesley Burkhart, Thavisha E. Dharmawardena, Shmuel Bialy, Thomas J. Haworth, Fernando Cruz Aguirre, Young-Soo Jo, B-G Andersson, Haeun Chung, Jerry Edelstein, Isabelle Grenier, Erika T. Hamden, Wonyong Han, Keri Hoadley, Min-Young Lee, Kyoung-Wook Min, Thomas Müller, Kate Pattle, J. E. G. Peek, Geoff Pleiss, David Schiminovich, Kwang-Il Seon, Andrew Gordon Wilson e Catherine Zucker
Dal Mur quasi 27 milioni per lo studio delle stelle
Un finanziamento di quasi 27 milioni di euro per la realizzazione di laboratori, la riqualificazione di spazi per la ricerca e per la divulgazione. Sono le risorse destinate per il 2025 all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) dal Ministero dell’università e la ricerca (Mur) nell’ambito del Fondo per l’edilizia e le infrastrutture di ricerca per gli enti di ricerca.
Il ministro Anna Maria Bernini ha firmato il decreto che va a ripartire la nuova annualità che ha una dotazione complessiva di 94 milioni di euro. «I nostri enti di ricerca sono gioielli, un vanto per l’Italia, un riferimento scientifico a livello internazionale», spiegaBernini. «Noi abbiamo la responsabilità di far sì che queste eccellenze possano crescere e proseguire nel percorso intrapreso. È necessario poter garantire risorse per nuovi progetti, finanziare infrastrutture sempre più complesse, sostenere le tecnologie più avanzate. Il nuovo finanziamento di 94 milioni del Fondo dell’edilizia e di ammodernamento delle infrastrutture di ricerca va in questa direzione. Permette agli enti scientifici di rafforzare le loro attività di studio e di aprire nuovi fronti di studio capaci di generare concrete e positive ricadute per migliorare la qualità della vita. Vogliamo dare continuità a un lavoro già eccellente, fiore all’occhiello del Paese. Noi ci crediamo. E i risultati si ottengono credendoci».
94 milioni di euro per la ricerca scientifica italiana.Nuove risorse, relative alla nuova annualità 2025, per potenziare le infrastrutture di 10 Enti di Ricerca: un investimento concreto per affrontare le grandi sfide del presente e costruire il futuro. pic.twitter.com/khtQXFmBE7
— Ministero dell’Università e della Ricerca (@mur_gov_) May 11, 2025
«È con grande soddisfazione che accogliamo questo stanziamento», commenta Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, «che consente di continuare a dare forma ai tanti interventi di ammodernamento strutturale e tecnologico presso gli osservatori di Torino, Milano, Padova, Firenze, Roma (assieme anche all’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali), Napoli, Catania e Palermo. In un momento così trasformazionale dell’astronomia, l’Inaf riqualifica, valorizza, acquisisce e costruisce spazi per studi, laboratori, aree per la divulgazione attraverso progetti che interessano l’intera nazione».
I 94 milioni di euro del Fondo per l’edilizia e le infrastrutture di ricerca sono stati ripartiti tenendo conto delle richieste e dei progetti formulati da ciascun ente per interventi di edilizia e di ammodernamento delle infrastrutture scientifiche. Per ciascun ente, il monitoraggio delle risorse assegnate sarà effettuato tenendo conto del cronoprogramma delle attività da realizzare sulla base dello stesso finanziamento concesso.
Buchi neri: sono davvero oggetti singolari?
Il terreno nel quale devono incontrarsi e raccordarsi le due grandi teorie della fisica moderna, la Relatività generale e la fisica quantistica, è il luogo più sconosciuto dell’universo: il centro dei buchi neri. Più precisamente, tutto quel che c’è dentro l’orizzonte degli eventi, il limite osservabile oltre il quale la luce stessa è catturata dalla gravità e non può più uscire, oggi conosciuto come singolarità. Il terreno nel quale si sono incontrati fisici di tutto il mondo per parlarne, invece, è Trieste. È successo nel novembre 2024, e dalla discussione è nato un articolo, pubblicato questa settimana nel Journal of Cosmology and Astroparticle Physics. Fra gli organizzatori dell’incontro e coautori dell’articolo c’è anche Stefano Liberati, nato a Roma e ora professore ordinario alla Sissa di Trieste. L’abbiamo raggiunto durante un meeting di lavoro a Bruxelles, per farci raccontare di più su questa discussione.
Stefano Liberati, professore ordinario di fisica delle particelle alla Sissa, Trieste. Attualmente è presidente della Sigrav – Società italiana di relatività generale e fisica gravitazionale, direttore dell’Ifpu – Istituto di fisica fondamentale dell’universo, e coordinatore nazionale dell’iniziativa specifica Infn Quagrap sulla fenomenologia della gravità quantistica. È anche membro del consiglio scientifico di Sissa MediaLab e svolge attività editoriale per le riviste internazionali Jcap, Universe, e Proceedings of the Royal Society A. Crediti: Stefano Liberati
Innanzitutto, cos’è una singolarità?
«È una regione dove la Relatività generale non è predittiva e quindi sono punti dove lo spaziotempo non è definito. A volte si dice che la curvatura dello spaziotempo e la densità di energia esplodono (vanno all’infinito) ma a essere rigorosi non c’è un “lì” ben definito. Possiamo solo dire che “lì” gli aspetti quantistici della gravità non sono trascurabili».
Per questo nell’incontro che avete fatto lo scorso novembre avete parlato di buchi neri “alternativi” a quelli descritti dalla Relatività generale?
«I buchi neri descritti dalla Relatività generale sono strutture “incomplete”. Solitamente si presume che qualunque effetto esercitato dalla gravità quantistica sulla singolarità non influenzi le osservazioni esterne. Tuttavia, il fatto che differenti modi di “completare” la soluzione di un buco nero possano generare fenomenologie diverse, potenzialmente testabili in futuro, sfida questo presupposto. In altre parole, potremmo ottenere indizi su ciò che accade alla singolarità senza dover necessariamente accedere alla regione “singolare” stessa».
Quindi le altre soluzioni che avete discusso si allontanano dalla Relatività o la includono?
«Le soluzioni che abbiamo discusso sono, se vuole, anche una conseguenza dei limiti della Relatività Generale e di quanto ci aspettiamo dagli effetti della gravità quantistica, che generalmente evitano la formazione della singolarità: la relatività generale è incompleta perché prevede un punto dove non è più predittiva, ma gli effetti della gravità quantistica suggeriscono come estendere lo spaziotempo oltre quel punto e ottenere oggetti regolari (nel senso di non-singolari)».
Queste teorie alternative, che voi chiamate appunto non-singolari dato che evitano l’esistenza di una singolarità al centro del buco nero, sono una novità recente?
«Sebbene idee di questo tipo siano presenti fin dalla fine degli anni Sessanta, nell’ultimo decennio questo studio ha avuto un impulso importantissimo grazie all’osservazione diretta delle onde gravitazioni e alle immagini dei buchi neri prodotte dall’Event Horizon Telescope. Come dicevamo, non stiamo parlando di teorie alternative, ma dell’idea che gli effetti quantistici della gravità debbano in ultima istanza evitare la realizzazione di una singolarità, regolarizzandola e producendo quindi uno spaziotempo ovunque ben definito, regolare. Questi oggetti possono essere esteriormente molto simili ai buchi neri della relatività generale ma non completamente uguali e quindi offrono una possibilità di testare indirettamente deviazioni dalla teoria standard».
Vogliamo descriverle, allora, queste altre possibilità generate dalla gravità quantistica?
«Ce ne sono, essenzialmente, tre. Una prima possibilità è che si produca un buco nero con un orizzonte esterno (il bordo oltre il quale neanche la luce può sfuggire) ma che abbia anche un orizzonte interno. All’interno di questo secondo orizzonte si ha una regione regolare con una metrica spesso (ma non necessariamente) simile a quella di un universo in espansione. Per analogia pensi a una pesca: il bordo esterno è il solito orizzonte del buco nero, il bordo interno della polpa è l’orizzonte interno e il nocciolo è la regione con una metrica cosmologica che “supporta” l’intera struttura e previene che collassi. Questi sono i tipici buchi neri regolari».
Rappresentazione schematica di un buco nero che ammette una regione di “singolarità” al centro (a sinistra), secondo la Relatività generale, e delle due alternative non singolari: il buco nero regolare con due orizzonti, uno interno e uno esterno (al centro), e il wormhole (a destra). Crediti: Sissa Medialab/ Immagine di sfondo di Eso/Cambridge Astronomical Survey Unit (eso.org/public/images/eso1101a…)
E fra i due orizzonti, ovvero nella “polpa”, che cosa c’è?
«C’è la regione di intrappolamento, ovvero la regione dove anche i raggi di luce che tenderebbero ad andare verso l’estero sono curvati verso l’interno, fino ad accumularsi sull’orizzonte interno. Dentro l’orizzonte interno i raggi di luce si possono invece muovere verso l’esterno, ma finiscono per accumularsi dietro l’orizzonte interno senza attraversarlo».
La seconda?
«Una seconda alternativa è che invece di un orizzonte interno (un bordo interno della regione dalla quale neppure la luce può scappare) ci sia un raggio minimo e che oltre quello tutto si inverta, ovvero che tutto quello che collassando raggiunge quel raggio da li in poi si riespanda. Questo è il caso in cui all’interno dell’orizzonte del buco nero ci sia un wormhole ovvero un passaggio che si connette con una regione che espelle tutto quello che è stato ingoiato dal buco nero. Questa è un tipo di soluzione che si può descrivere anche come una transizione da buco nero a buco bianco di cui, per esempio, ha parlato anche Rovelli in un suo recente libro. Alcuni modelli di gravità quantistica favoriscono questa soluzione, che noi chiamiamo black-bounces o hidden wormholes».
Ma questi hidden wormholes potrebbero esistere davvero?
«In realtà al momento delle tre possibilità questa sembra quella meno afflitta da potenziali instabilità, anche se è presto per dirlo definitivamente. Se ci fossero instabilità, oggetti ultracompatti senza orizzonte corrispondenti agli hidden wormholes sarebbero dei wormholes come quello di Interstellar, se ha visto il film. Ovvero un’evoluzione degli hidden wormholes potrebbe lasciare come relitto un wormhole attraversabile. Ma non abbiamo evidenza al momento di un meccanismo che comporti tale evoluzione».
L’ultima?
«Infine, un’altra possibilità, la più radicale, è che l’oggetto non possieda neppure un orizzonte, risultando simile a una stella, ma estremamente più compatto, persino rispetto a una stella di neutroni. Esistono soluzioni statiche di questo tipo, generalmente sostenute da effetti quantistici del vuoto. Tuttavia, non è ancora stato dimostrato che tali oggetti possano formarsi direttamente attraverso un collasso gravitazionale. È anche ipotizzabile che, poiché un buco nero regolare è soggetto a una serie di instabilità legate al suo orizzonte interno, possa evolvere in un tale oggetto privo di orizzonte».
Una domanda un po’ provocatoria: queste soluzioni parlano sempre di cose che sono dentro l’orizzonte degli eventi. Ma se quella regione non è esplorabile a livello osservativo, come facciamo a capire se una di queste è valida? Non si corre il rischio che sia pura speculazione?
«Il punto è che le modifiche all’interno dell’orizzonte comportano una soluzione che, globalmente, è leggermente diversa da quella della Relatività generale e quindi, almeno in teoria, testabile con osservazioni esterne: sia attraverso le onde gravitazionali che potrebbe emettere, sia attraverso le caratteristiche della sua ombra/immagine. È su queste possibilità che molta ricerca si sta concentrando al momento. Per trovare qualcosa bisogna sapere dove andare a cercarla».
Per saperne di più:
- Leggi su Journal of Cosmology and Astroparticle Physics l’articolo “Towards a Non-singular Paradigm of Black Hole Physics“, di Raúl Carballo-Rubio, Francesco Di Filippo, Stefano Liberati e Matt Visser
Campionati di astronomia, ecco i 18 vincitori
Urania, la mascotte dei Campionati nazionali 2025. Crediti: Giulia Iafrate
I partecipanti lo avevano indovinato: quest’anno la mascotte della finale nazionale dei 23esimi Campionati italiani di astronomia, che si è tenuta a Giulianova e Teramo dal 6 all’8 maggio 2025, era il pastore abruzzese Urania. La gara, alla quale hanno preso parte 90 studenti e studentesse provenienti da tutta Italia, è il punto di arrivo di un percorso iniziato a novembre 2024 con 9754 partecipanti da 326 scuole, comprese cinque scuole italiane all’estero. La fase di preselezione di dicembre 2024 ha ridotto i concorrenti a 1128, rimasti poi in 90 al termine della gara interregionale, che si è svolta a febbraio 2025.
I partecipanti alla finale nazionale – divisi in quattro categorie: 22 Junior 1, 22 Junior 2, 32 Senior e 14 Master – hanno dovuto aiutare Urania e il suo amico pastore delle Alpi Wolfgang a calcolare le coordinate delle stelle Arturo e Markab. E non solo: hanno anche dovuto salvare la Terra dall’impatto dell’asteroide Werewolf, calcolare con quale velocità il campione di discesa libera su Marte taglia il traguardo lungo la pista del Monte Olimpo, studiare le orbite delle stelle di un sistema binario, calcolare la magnitudine dell’ammasso M13 osservato da un pianeta al suo centro e disegnare l’analemma (il percorso apparente del Sole in cielo nel corso dell’anno) se l’asse terrestre fosse perpendicolare all’eclittica. Ps: se volete sapere la risposta all’ultimo quesito, il Sole si muoverebbe avanti e indietro su un segmento orizzontale! Le due prove, teorica e pratica, si sono svolte presso il liceo scientifico “Albert Einstein” di Teramo, con problemi di difficoltà e contenuti diversi a seconda della categoria.
Tutto questo in poche ore e, soprattutto, senza alcun aiuto: niente computer, niente telefonini e niente appunti. Solo carta, penna, righello, calcolatrice e cervelli fumanti, ma con una straordinaria dose di studio, concentrazione e una travolgente passione per l’astronomia!
La Finale ha avuto inizio con la cerimonia di apertura, martedì 6 maggio, presso il palazzo Kursaal di Giulianova. Nell’occasione sono stati premiati i plurifinalisti, alcuni dei quali anche con 5 o 6 esperienze alle spalle, ed è intervenuta la professoressa Marica Branchesi, ordinario di astrofisica presso il Gran Sasso Science Institute, che ha raccontato l’avvincente scoperta delle onde gravitazionali.
Le prove si sono svolte il giorno successivo a Teramo e, appena finite, sono iniziate le valutazioni, che hanno visto la giuria – composta da Giuseppe Cutispoto, Silvia Galleti, Giulia Iafrate, Marco Lucente, Agatino Rifatto, Daniele Spiga e Gaetano Valentini, tutti dell’Inaf, e Angela Misiano della Sait Planetario di Reggio Calabria – fare notte fonda per avere la classifica pronta per la mattina successiva, giovedì 8 maggio, in modo da procedere alla stampa dei diplomi in tempo per la cerimonia di chiusura, che si è tenuta nel pomeriggio sempre nel palazzo Kursaal.
Nel frattempo, la mattina dell’8 maggio, i partecipanti e i loro docenti si sono sfidati nelle astronomiadi: veloci tornei di beach volley, calcio balilla e padel in riva al mare. Eclatante il risultato della partita di beach volley in cui i docenti hanno battuto i loro studenti 21 a 18.
I vincitori dei 23esimi Campionati italiani di astronomia. Da sinistra in piedi: Gaia Palumbo, Ilenia Trunfio, Nicola Bortoluzzi, Gabriele Lambertini, Francesco Leccese, Luca Di Maria, Giulio Dandrea, Ettore Costantini, Alessandro Fabi, Davide Barberi. Da sinistra davanti: Matteo Cerrano, Rachele Pia Matarazzi, Irene Di Egidio, Andrea Di Silvestro, Chiara De Paoli. Nella foto sono assenti Luca Rucco, Riccardo Brunetta e Andrea Cusimano. Crediti: Giulia Iafrate/Inaf
Nel corso della cerimonia di chiusura è stata nominata la squadra nazionale che rappresenterà l’Italia alle Olimpiadi internazionali di astronomia e astrofisica (Ioaa) che si svolgeranno a Piatra Neamț (Romania) dal 18 al 25 ottobre per la categoria Junior 2 e a Mumbai (India) dall’11 al 21 agosto per le categorie Senior e Master. I dieci azzurri, selezionati fra i 18 vincitori dei Campionati nazionali, sono: Gaia Palumbo (Junior 2), Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria; Ettore Costantini (Junior 2), Licei “Ampezzo e Cadore”, Cortina d’Ampezzo (BL); Alessandro Fabi (Junior 2), Liceo scientifico e delle S.A. “P. Ruffini”, Viterbo; Luca Rucco (Junior 2), Liceo scientifico e delle S.A. “E. Fermi”, Aversa (CE); Davide Barberi (Junior 2), Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria; Gabriele Lambertini (Senior), Liceo scientifico e delle S.A. “G. Bruno”, Budrio (BO); Francesco Leccese (Senior), Liceo scientifico “G. Banzi Bazoli”, Lecce; Ilenia Trunfio (Master), Liceo scientifico “Leonardo da Vinci”, Reggio Calabria; Riccardo Brunetta (Master), Liceo scientifico “Leopardi-Majorana”, Pordenone; Andrea Cusimano (Master), Liceo scientifico “T. Levi Civita”, Roma.
«Questa finale ha messo alla prova ragazzi e ragazze dotati di una preparazione straordinaria e di una passione per l’astronomia che va ben oltre la semplice competizione», dice Daniele Spiga, autore dell’esercizio sull’asteroide in rotta di collisione. «Per loro, l’astronomia e l’astrofisica non sono solo materie da studiare, ma vere e proprie fonti di ispirazione, che danno sapore e slancio alla vita. La finale è anche un’ottima occasione per stringere nuove amicizie che si rafforzano da un anno all’altro. L’unico piccolo neo? Nessuno è riuscito a scongiurare l’impatto dell’asteroide Werewolf con la Terra!».
Piacevolmente sorpresa dall’alto livello della preparazione dei partecipanti, oltre a proclamare i 18 vincitori dei Campionati, che si aggiudicano la medaglia “Margherita Hack”, la giuria ha assegnato anche 18 diplomi di merito e due menzioni speciali (l’elenco completo dei diplomi e testi e soluzioni delle prove sono disponibili sul sito dei Campionati). E ora, mentre applaudiamo tutti i finalisti e i vincitori e ci prepariamo a tifare per la nostra squadra nazionale, l’appuntamento è all’edizione 2026 dei Campionati italiani di astronomia, la cui finale si terrà a Monza.
Napoli, tra città e cosmo
Per il 250esimo anniversario della Mappa topografica della città di Napoli e de’ suoi contorni, la prima cartografia moderna realizzata a Napoli con strumenti scientifici, l’Osservatorio astronomico di Capodimonte ha realizzato la mostra “Napoli, tra città e cosmo: 250 anni di cartografia a Napoli tra panorami urbani e mappe celesti”, curata da Mauro Gargano in collaborazione con la casa d’arte Hubert Bowinkel. Per celebrare questa importante ricorrenza, verranno esposte straordinarie e rare carte geografiche e topografiche del territorio napoletano e meravigliose tavole astronomiche che accompagnano lo sviluppo coevo della cartografia celeste. Un viaggio tra Terra e cielo, dove la rappresentazione dello spazio terrestre si intreccia con la scoperta dei misteri dell’universo. La mostra sarà aperta venerdì 9 maggio alle ore 18:30 nella Sala delle Colonne dell’Osservatorio di Capodimonte. Il percorso si articola in tre suggestive sezioni: panorami urbani, che racconta l’evoluzione del paesaggio napoletano attraverso mappe e vedute storiche; mappe celesti, che testimonia il progresso della cartografia astronomica e il desiderio umano di esplorare l’universo; e strumenti di misura, veri e propri capolavori della tecnica che hanno reso possibile la rappresentazione sempre più accurata del cielo e della Terra. Un percorso che intreccia scienza e arte, conducendo il visitatore attraverso il tempo e lo spazio.
Programma della giornata inaugurale
A partire dalle 16:30, si terrà l’incontro “Visioni di Napoli” a cui parteciperanno storici, architetti e astrofisici, autori dei saggi per il volume Visions of Naples, edito da Arte’m, che rifletteranno sull’importanza, in ambito locale e nel più ampio contesto nazionale e internazionale, della cartografia urbana e celeste, e sui progressi delle due discipline nello sviluppo della pianificazione urbana e nella comprensione dell’universo.
Questa veduta di Napoli del 1648, realizzata da Abraham Verhoeven e pubblicata da Martin Binnart ad Anversa, occupa un posto di rilievo nella storia dell’iconografia urbana della città. Si tratta della prima riduzione della celebre veduta Orlandi-Baratta. Crediti: Collezione Bowinkel
Dalle ore 18:00 sarà attiva una postazione mobile di Poste Italiane per l’emissione di un annullo filatelico speciale dedicato alla Mappa del Duca di Noja, un’opera che ha segnato la storia della cartografia urbana e scientifica e di cui l’Osservatorio conserva un esemplare dal giugno 1813. Gli appassionati e i collezionisti potranno ottenere questo annullo esclusivo, che vuole rendere omaggio a un documento che ha contribuito alla conoscenza e alla rappresentazione del territorio napoletano.
La serata di Capodimonte proseguirà alle 20:30 con una conversazione scientifica di Pietro Schipani, direttore dell’Osservatorio di Capodimonte, dal titolo “Messaggeri celesti e come captarli”, un viaggio fra gli strumenti dell’astronomia del presente e del futuro che permettono di raccogliere le informazioni dall’universo vicino e lontano e comprenderne la struttura. Seguiranno le osservazioni ai telescopi dell’Osservatorio.
Per saperne di più:
Per la difesa planetaria, rimanete in ascolto
Elizabeth Silber, ricercatrice al Sandia National Laboratories ed esperta in rilevazione di infrasuoni in atmosfera. In particolare, la sua ricerca si concentra sul rilevamento degli infrasuoni di sorgenti esplosive e non convenzionali, sulla fisica delle onde d’urto atmosferiche e sulla modellazione computerizzata delle esplosioni meteoriche, con applicazioni che vanno dalla difesa planetaria alla sicurezza globale. Ha inoltre contribuito al rilevamento e all’analisi geofisica del rientro della capsula Osiris-Rex, facendo progredire la nostra capacità di monitorare i veicoli spaziali e le entrate nell’atmosfera utilizzando sensori a terra e in volo. Crediti: Elizabeth Silber
Per monitorare l’ingresso in atmosfera di meteoroidi, bolidi o detriti spaziali, bisogna rimanere in ascolto. È quanto afferma chi, come Elizabeth Silber, ricercatrice al Sandia National Laboratories, si dedica allo studio degli ingressi in atmosfera attraverso gli infrasuoni, onde sonore di frequenza troppo bassa per essere udite dall’orecchio umano. Una tecnica, quella del rilevamento con gli infrasuoni, che si basa sul fatto che qualunque corpo massiccio entri nell’atmosfera a una velocità elevata genera un’onda d’urto, che si propaga nello spazio come un’onda sonora a bassa frequenza. Onda d’urto che può essere registrata da reti già esistenti, in particolare quella gestita dalla Ctbto (Comprehensive Test Ban Treaty Organization), un’organizzazione che ha il compito di
di rilevare esplosioni nucleari. Ma come si può sfruttare questo metodo di rilevazione in favore della difesa planetaria? Media Inaf l’ha chiesto alla stessa Silber, che ha presentato i risultati del suo ultimo studio all’assemblea generale dell’Egu (la European Geosciences Union) che si è tenuta dal 27 aprile al 2 maggio 2025 a Vienna.
Come e quando viene utilizzato il rilevamento di infrasuoni?
«Innanzitutto, con infrasuoni si intendono le onde sonore con frequenze troppo basse per essere udite dall’uomo, in genere inferiori a circa 20 Hz. Queste onde a bassa frequenza possono percorrere grandi distanze attraverso l’atmosfera terrestre con una minima perdita di energia, caratteristica che rende gli infrasuoni uno strumento eccellente per il monitoraggio di una varietà di eventi naturali e di origine umana, come meteoriti, fulmini, eruzioni vulcaniche, esplosioni, cascate, eccetera. Il rilevamento degli infrasuoni offre un approccio robusto e versatile per l’osservazione di potenti fenomeni atmosferici, di giorno o di notte, con la pioggia o con il sole, in regioni remote dove altri metodi di osservazione sono difficili. Per quanto riguarda i meteoroidi (palle di fuoco luminose) che entrano nell’atmosfera terrestre, gli infrasuoni possono aiutarci a stimare l’energia e la posizione dell’evento. Inoltre, sensori di infrasuoni appositamente posizionati hanno registrato il rientro atmosferico di capsule spaziali, come Osiris-Rex della Nasa, fornendo una convalida della traiettoria».
Sarebbe quindi possibile seguire l’ingresso e la traiettoria di un meteoroide?
«Non proprio, e infatti a riguardo è opportuno fare una precisazione. Gli infrasuoni non possono tracciare in tempo reale oggetti come bolidi o detriti spaziali, semplicemente perché le onde sonore viaggiano relativamente lente, e impiegano minuti o addirittura ore per raggiungere le stazioni di rilevamento. Tuttavia, il rilevamento degli infrasuoni può individuare l’origine di questi segnali dopo il verificarsi dell’evento. Quando più stazioni rilevano lo stesso evento, le loro direzioni misurate dovrebbero idealmente convergere verso un’unica posizione. Ma a volte queste direzioni non si allineano perfettamente, lasciandoci delle incertezze».
Come mai?
«Le mie ricerche indicano che queste discrepanze potrebbero essere dovute alla geometria di ingresso dell’oggetto stesso. In particolare, nel caso di eventi ad angolo ridotto, le diverse stazioni potrebbero rilevare il suono proveniente da diverse parti della traiettoria dell’oggetto piuttosto che da un unico punto. Comprendere e tenere conto di questo fattore geometrico può migliorare la nostra capacità di determinare con precisione il luogo in cui si è verificato un evento, a vantaggio sia della difesa planetaria che delle attività di monitoraggio dei detriti spaziali».
Quindi, quello che si vede è solo il momento dell’ingresso in atmosfera?
«In genere, quando non sono disponibili informazioni supplementari dettagliate (come i dati ottici o radar, spesso nel caso di località remote), si approssima l’emissione acustica del bolide come se provenisse da un singolo “lampo”, coincidente con il punto di massima deposizione di energia o con il picco di luminosità. Sebbene questa semplificazione sia efficace per i bolidi in forte discesa, diventa sempre più problematica per le entrate ad angolo ridotto che estendono la loro deposizione di energia lungo lunghe traiettorie. Il mio studio attuale affronta questa limitazione, dimostrando che la considerazione esplicita della geometria dell’ingresso può migliorare l’accuratezza della localizzazione e, di conseguenza, le capacità di difesa planetaria».
A questo punto, però, sorge una domanda: come si può conoscere la traiettoria in anticipo?
«Questa è una grande domanda: è proprio così! In genere non conosciamo in anticipo la traiettoria precisa dei bolidi, soprattutto quando vengono rilevati su aree remote. Invece, ne deduciamo la traiettoria dopo l’evento utilizzando i dati osservativi disponibili, comprese le osservazioni ottiche e le rilevazioni satellitari e radar, quando sono disponibili. Per i detriti orbitali, invece, spesso prevediamo il rientro in anticipo perché le caratteristiche orbitali dei satelliti e dei detriti sono continuamente monitorate. Questi rientri avvengono di solito con angoli poco profondi, poiché gli oggetti in orbita terrestre bassa di solito si abbassano gradualmente a spirale mentre perdono quota, anziché cadere a picco. Allo stesso modo, le capsule spaziali per il rientro dei campioni, come Osiris-Rex, sono progettate e controllate per entrare nell’atmosfera con traiettorie specifiche e predeterminate. Quindi, anche se gli infrasuoni da soli non sono in grado di avvertire in anticipo del percorso di un oggetto, l’integrazione di questi dati acustici con le traiettorie conosciute o dedotte fa progredire notevolmente la nostra capacità di interpretare e localizzare con precisione questi eventi dopo il fatto».
Quanto comune è, oggi, l’utilizzo di questa tecnica a servizio della difesa planetaria?
«L’infrasuono è stato effettivamente utilizzato per rilevare grandi meteoroidi e piccoli asteroidi che entrano nell’atmosfera terrestre per molti decenni. In particolare, il primo rilevamento infrasonico noto di un evento di questo tipo è stata l’esplosione di Tunguska del 1908 in Siberia. Tuttavia, per la maggior parte del 20esimo secolo, le rilevazioni di bolidi tramite infrasuoni sono rimaste accidentali, in gran parte catturate da reti progettate principalmente per altri scopi. Solo negli ultimi decenni, in particolare in seguito alla creazione di reti di monitoraggio infrasoniche globali dedicate, la rilevazione sistematica e di routine dei bolidi è diventata importante».
Lei ha citato diverse volte anche i detriti spaziali, oltre alle capsule di rientro sulle quali abbiamo controllo. Possono essere considerati anche questi alla stregua dei bolidi e quindi beneficiare dello stesso metodo di localizzazione?
«Sì, i detriti spaziali che rientrano nell’atmosfera terrestre producono segnali infrasonori molto simili a quelli dei bolidi naturali. Entrambi gli oggetti viaggiano a velocità molto elevate, generando forti onde d’urto quando interagiscono con l’atmosfera. Di conseguenza, i metodi di rilevamento degli infrasuoni utilizzati per i bolidi sono direttamente applicabili anche ai detriti spaziali. La mia ricerca dimostra che considerare la geometria di ingresso, particolarmente importante per i detriti che rientrano nell’atmosfera terrestre con angoli poco profondi, può migliorare la nostra capacità di localizzare questi eventi. Poiché la quantità di detriti orbitali continua a crescere, è sempre più importante tracciare con precisione il loro rientro. Pertanto, quantificare l’effetto della geometria di ingresso sulla direzione apparente di arrivo del segnale infrasonico offre vantaggi per il monitoraggio degli eventi di rientro dei detriti spaziali».
Guarda sul canale YouTube della CtbTo il video sulla rete per infrasuoni:
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