Lanciato Cses-02, osserverà la ionosfera
Rappresentazione artistica del satellite Cses-02, noto anche come Zhangheng 1-02, dal nome dell’inventore del sismoscopio (nel 132 d.C.), un precursore del sismografo, il cinese Zhang Heng. Crediti: Cses collaboration
È stato lanciato con successo il satellite Cses-02 (China Seismo-Electromagnetic Satellite-02), secondo della serie Cses e frutto della cooperazione tra l’Agenzia spaziale italiana (Asi) e la China National Space Administration (Cnsa). Alla missione partecipa un’ampia componente scientifica italiana, che opera nell’ambito della collaborazione Limadou, una rete coordinata dall’Asi con l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e il contributo dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr – Ifac) e delle università italiane dell’Aquila, Bologna, Roma Tor Vergata, Torino, Trento e l’Università telematica internazionale UniNettuno.
Cses-02 opererà in tandem con il satellite gemello Cses-01, lanciato nel 2018 e ancora operativo. L’obiettivo della missione è l’osservazione e l’analisi di fenomeni ionosferici e magnetosferici legati a eventi geofisici estremi come i terremoti, nonché a fenomeni atmosferici e di space weather, come le tempeste geomagnetiche e le particelle solari ad alta energia.
La partecipazione italiana alla missione, guidata da Asi, vede il nostro Paese in prima linea nello sviluppo tecnologico e scientifico. Due degli undici strumenti a bordo del satellite sono stati progettati e realizzati in Italia: Hepd-02 (High-Energy Particle Detector), rivelatore di particelle di alta energia sviluppato dall’Infn in collaborazione con il Cnr e il mondo accademico, ed Efd-02 (Electric Field Detector), realizzato congiuntamente da Infn e Inaf per la misura del campo elettrico, entrambi riprogettati per incrementarne le prestazioni e l’informazione scientifica contenuta nei dati. Grazie a questi strumenti, Cses-02 sarà in grado di esplorare nuove frontiere nella comprensione dei fenomeni fisici che avvengono tra litosfera, atmosfera e ionosfera, con particolare attenzione alla ricerca di possibili correlazioni spazio-temporali con eventi sismici intensi. La missione rappresenta un esempio concreto di come la cooperazione scientifica internazionale possa tradursi in progresso tecnologico e nella capacità di affrontare questioni cruciali come il monitoraggio ambientale, la previsione dei rischi naturali e la comprensione dell’interazione Terra-Spazio, grazie all’impegno coordinato di agenzie, enti di ricerca e università.
Liftoff at 07:56UTC June 14, Long March 2D Y42 launched Zhangheng-1-02 electromagnetic field monitoring satellite from Jiuquan pic.twitter.com/0KTJg2vKnl— China ‘N Asia Spaceflight ️ (@CNSpaceflight) June 14, 2025
«Il lancio della missione Cses-02 rappresenta un momento di orgoglio per l’Agenzia spaziale italiana che ha guidato la realizzazione di tutti gli strumenti italiani a bordo del satellite, progettati, realizzati e testati nei laboratori degli istituti coinvolti, a dimostrazione della straordinaria capacità del nostro sistema di ricerca», ha dichiarato Francesco Longo, responsabile dell’unità Osservazione della Terra dell’Agenzia spaziale italiana. «I dati della missione saranno a disposizione della comunità tramite il centro dati Ssdc dell’Asi, nell’ottica di promuovere ricerche multidisciplinari nell’ambito della geofisica, della fisica della ionosfera e dello space weather».
«Con il lancio di Cses-02 prende forma la prima costellazione satellitare destinata allo studio dallo spazio dei fenomeni geofisici rapidi. L’analisi dei dati raccolti dal gemello Cses-01 ha portato in meno di sette anni alla pubblicazione di più di duecento articoli scientifici di elevata qualità», ha commentato Roberto Iuppa, responsabile nazionale per l’Infn del progetto. «Oggi, grazie all’aumentata sensibilità e al minore tempo di rivisitazione, le prospettive scientifiche di questa missione migliorano ulteriormente. L’Infn è stato responsabile dello sviluppo degli strumenti Hepd-02 (High-Energy Particle Detector) ed Efd-02 (Electric Field Detector), due apparati di misura con prestazioni senza precedenti».
«L’Inaf, in collaborazione con l’Infn ed il supporto dell’Asi, ha sviluppato e qualificato lo strumento Efd-02 per la misura del campo elettrico mettendo in campo la storica competenza in esperimenti di fisica del plasma spaziale. Efd-02 arricchisce e completa la notevole concentrazione di strumenti a bordo di Cses conferendo alla missione la possibilità di inediti risultati scientifici interdisciplinari», ha dichiarato Piero Diego, primo tecnologo dell’Inaf e deputy-principal investigator dello strumento Efd-02.
Per saperne di più sulla missione Cses (nota anche come Zhangheng):
- Leggi su Media Inaf l’intervista a Mirko Piersanti “La terra trema e l’atmosfera risponde” (30/10/2020)
- Leggi su Media Inaf l’intervista a Roberto Battiston “Tsunami e terremoti, così risuonano nello spazio” (20/09/2021)
Quelle piccole galassie illuminarono l’universo
Animazione che mostra la posizione delle piccole galassie starbust, vecchie di 13 miliardi di anni, individuate nello studio di Wold et al. Il telescopio spaziale James Webb della Nasa le ha individuate con l’aiuto dell’effetto lente gravitazionale prodotto dall’enorme ammasso di galassie Abell 2744, all’interno del quale si trovano. In tutto, sono state scoperte 83 galassie giovani, ma solo 20 sono state selezionate per uno studio più approfondito (qui mostrate etichettate dai rombi bianchi). Crediti: Nasa/Esa/Csa/Bezanson et al. 2024 e Wold et al. 2025
Nel corso di miliardi di anni, l’universo ha subito profonde trasformazioni. Una di queste, iniziata all’incirca 400 milioni di anni dopo il Big Bang, ha comportato il graduale passaggio da un ambiente buio, composto prevalentemente da dense nubi di idrogeno neutro, a quello attuale, in cui l’idrogeno è ionizzato. È l’epoca della reionizzazione, come la chiamano i cosmologi: la fine definitiva dell’età oscura.
Studi recenti hanno dimostrato che un ruolo chiave in questa fase dell’evoluzione dell’universo, conclusasi quando aveva appena un miliardo di anni, l’hanno avuto piccole galassie capaci di sfornare stelle a un ritmo forsennato, oggi molto rare – rappresentando solo circa l’un per cento di quelle che ci circondano – ma abbondanti a redshift 7, cioè quando l’universo aveva circa 800 milioni di anni: le galassie starburst.
Utilizzando i dati del telescopio spaziale James Webb, un team di astronomi ha ora identificato decine di questi oggetti celesti. I risultati della ricerca sono stati presentati da Isak Wold, ricercatore al Goddard Space Flight Center della Nasa, al 246mo meeting dell’American Astronomical Society, in corso in questi giorni ad Anchorage, in Alaska.
«Queste piccole galassie producono più luce ultravioletta di quanto, date le loro dimensioni, ci si aspetterebbe» sottolinea Wold. «Grazie a un’analisi dieci volte più sensibile rispetto agli studi precedenti, abbiamo scoperto che questi oggetti celesti erano sufficientemente numerosi e hanno rilasciato abbastanza luce ultravioletta da poter innescare la reionizzazione».
Le galassie in questione si trovano all’interno di Abell 2744, meglio conosciuto col nome di ammasso di Pandora: è un ammasso di galassie – situato a circa quattro miliardi di anni luce da noi, nella costellazione dello Scultore – la cui enorme massa crea una lente gravitazionale che ingrandisce le sorgenti distanti, potenziando ulteriormente la già considerevole vista di Webb.
Isak Wold e i suoi colleghi Sangeeta Malhotra e James Rhoads le hanno scoperte esaminando le immagini e gli spettri di luce acquisiti rispettivamente dagli strumenti NirCam e NirSpec di James Webb nell’ambito del programma osservativo Uncover (Ultradeep NIRSpec and NIRCam ObserVations before the Epoch of Reionization) guidato dalla scienziata dell’Università di Pittsburgh (Pennsylvania, Usa) Rachel Bezanson.
Scrutando le immagini NirCam dell’ammasso alla ricerca di segni di formazione stellare, il team ha inizialmente rivelato 83 piccole candidate galassie starburst risalenti a quando l’universo aveva 800 milioni di anni, ovvero circa il sei per cento della sua età attuale, pari a 13.8 miliardi di anni.
A sinistra, un’immagine infrarossa ingrandita dell’ammasso di galassie Abell 2744 con tre giovani galassie starbust evidenziate dai rombi verdi. I riquadri centrali mostrano primi piani di ciascuna galassia, insieme alle relative designazioni, all’ingrandimento fornito dalla lente gravitazionale dell’ammasso, ai loro redshift e alla massa stellare stimata. A destra, gli spettri di luce delle galassie ottenuti con lo strumento Nirspec di James Webb, in cui sono visibili le linee di emissione dell’ossigeno doppiamente ionizzato (rettangolo verdi), segno di un’intensa formazione stellare in corso. Crediti: Nasa/Esa/Csa/Bezanson et al. 2024 e Wold et al. 2025
Di questo campione, il team ne ha selezionate venti per una più approfondita analisi con lo strumento NirSpec. Ciò che gli astronomi cercavano nei dati dello spettrografo erano forti linee di emissione da parte dell’ossigeno doppiamente ionizzato (O III), la firma di un’intensa e vigorosa attività di formazione stellare. E le hanno trovate: ampi picchi centrati a 390 e 394 nanometri, lunghezze d’onda corrispondenti alla radiazione ultravioletta, erano visibili in tutte le galassie in esame.
«Le galassie poco massicce raccolgono attorno a sé meno idrogeno neutro, il che facilita la fuoriuscita della luce ultravioletta ionizzante», osserva Rhoads. «Gli episodi di starburst non solo producono abbondante luce ultravioletta, ma scavano anche canali nella materia interstellare di una galassia che favoriscono la fuoriuscita di questa luce»
Galassie simili a quelle scoperte in questo studio esistono anche nell’universo locale. I cittadini scienziati che le hanno individuate nel 2009 nell’ambito del progetto Galaxy Zoo le hanno chiamate, per via della loro forma e colore, green pea galaxies, galassie “pisello verde”. Si tratta di oggetti celesti con un’attività di formazione stellare insolitamente intensa per le masse che possiedono, in grado di rilasciare il circa il 25 per cento della luce ultravioletta che producono nello spazio circostante. Se le piccole galassie starburst scoperte in questa ricerca avessero rilasciato una quantità di luce Uv simile, questa potrebbe essere stata responsabile dell’evoluzione cosmica che ha trasformato l’universo primordiale in quello che vediamo oggi.
Solar Orbiter mostra al mondo il polo sud del Sole
Mercoledì scorso l’Agenzia spaziale europea (Esa) ha pubblicato le immagini del polo sud del Sole acquisite il 23 marzo 2025 dalla sonda Solar Orbiter. Sono immagini senza precedenti: tutte quelle che avevamo visto fino a oggi avevano infatti come punto di vista l’equatore del Sole. Una prospettiva forzata – e inevitabile, prima di Solar Orbiter – dovuta al fatto che la Terra, come del resto gli altri pianeti, e tutti gli altri telescopi spaziali orbitano attorno al Sole mantenendosi sul piano dell’eclittica. Essendo riuscita a imprimere alla sua orbita un’inclinazione che l’ha portata al di sopra e al di sotto dell’eclittica, Solar Orbiter può invece vedere il Sole da un’angolazione del tutto nuova.
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Il risultato lo possiamo ammirare nel video qui sopra. Un po’ come il cuore dell’Antartide per Amundsen il 14 dicembre 1911, quando con la sua spedizione raggiunse – primo nella storia – il Polo sud terrestre, terra incognita mai calpestata da nessun altro, a prima vista il polo sud del Sole sembrerebbe uguale al resto della superficie della nostra stella. Le cose però cambiano osservandolo con gli “occhi” speciali di cui è provvista Solar Orbiter, una suite di dieci strumenti dedicati allo studio del Sole, e in particolare con Phi, Eui e Spice – rispettivamente, una fotocamera polarimetrica ed eliosismica, una per l’ultravioletto estremo e una per l’imaging spettrale dell’ambiente coronale. Grazie per esempio alla capacità di Phi di produrre una mappa del campo magnetico, emerge che al polo sud il campo magnetico del Sole è attualmente alquanto scomposto. Mentre un normale magnete ha un polo nord e un polo sud ben definiti, le misurazioni del campo magnetico di Phi mostrano come al polo sud della nostra stella siano presenti campi magnetici con polarità sia nord che sud.
Per comprendere meglio la portata di queste osservazioni inedite e i loro possibili risvolti scientifici, Media Inaf ha raggiunto uno degli scienziati di Solar Orbiter, Alessandro Bemporad, fisico solare all’Inaf di Torino, responsabile scientifico del progetto Swelto (ben noto ai lettori di Media Inaf per l’appuntamento mensile con l’approfondimento video “Che Sole che fa”) e co-investigator nel team di Metis, uno fra gli strumenti della suite di Solar Orbiter.
Alessandro Bemporad, fisico solare all’Inaf di Torino e co-investigator nel team di Metis, uno fra gli strumenti della suite di Solar Orbiter. Crediti: Swelto/Inaf
Solar Orbiter ha per ora visto del Sole soltanto il polo sud o anche il polo nord?
«Dopo l’ultima Venus-Gam (il flyby con Venere per sfruttarne l’assist gravitazionale) del 18 febbraio 2025, la sonda Solar Orbiter ha finalmente iniziato a uscire progressivamente dal piano dell’eclittica. Ora si trova su un piano con un’inclinazione di 17 gradi, e l’inclinazione sarà progressivamente aumentata nei prossimi cinque anni fino a superare i 30 gradi di inclinazione. In questo primo passaggio sono già stati osservati entrambi i poli del Sole, prima il polo sud verso la fine di marzo, e poi il polo nord verso la fine di aprile, dall’inclinazione appunto di 17 gradi».
Come vi aspettavate che fossero, i poli della nostra stella?
«È difficile dire che cosa ci si aspettasse, perché i poli del Sole non erano mai stati osservati prima nella storia dell’umanità. Da molto tempo sappiamo che il Sole ha un certo grado di asimmetria, ad esempio nell’andamento del ciclo solare i due emisferi si comportano in modo diverso, con inversione magnetica che avviene spesso prima in un emisfero e poi nell’altro. L’origine di queste asimmetrie è uno dei problemi aperti nella nostra comprensione limitata della dinamo solare».
Mappa del campo magnetico centrata sul polo sud del Sole ottenuta dallo strumento Polarimetric and Helioseismic Imager (Phi) di Solar Orbiter. Il colore blu indica un campo magnetico positivo, rivolto verso la navicella, mentre il rosso indica un campo magnetico negativo. È evidente la compresenza di diverse polarità magnetiche (nord e sud) rappresentate dalle macchie blu e rosse visibili fino al polo sud del Sole. Ciò accade solo per un breve periodo di tempo durante ogni ciclo solare, al massimo solare, quando il campo magnetico raggiunge l’apice dell’attività e si inverte. Dopo l’inversione del campo, dovrebbe lentamente riaffermarsi ai poli un’unica polarità magnetica. Crediti: Esa & Nasa/Solar Orbiter/Phi Team, J. Hirzberger (Mps)
Perché tanta attenzione per i poli del Sole? È una stella, mica un pianeta… cosa cambia, per esempio, fra poli ed equatore?
«Avendo sempre osservato il Sole dal piano dell’eclittica (ossia il piano sul quale orbitano tutti i pianeti), la nostra conoscenza dei poli del Sole è limitatissima, per un semplice effetto di proiezione. In particolare ci sono pochissime misure dei campi magnetici del Sole, acquisite sfruttando il fatto che il suo asse di rotazione ha una piccola inclinazione di circa 7 gradi rispetto al piano dell’eclittica. In sostanza, avendo l’umanità sempre osservato il Sole dal piano dell’eclittica, tutta la regione dell’interno del Sole che si trova in prossimità del suo asse di rotazione (studiata dall’eliosismologia) è ignota. Lo studio dei poli del Sole potrebbe fornire alcuni tasselli mancanti nella nostra comprensione della dinamo solare».
Veniamo al comportamento bizzarro del campo magnetico riportato dall’Esa nell’ultimo comunicato stampa: durante i massimi del ciclo solare sembra essere contemporaneamente “positivo” e “negativo”. Fenomeno che in realtà è già noto da anni. Solar Orbiter ha aggiunto qualcosa di nuovo?
«È troppo presto per dirlo, l’analisi scientifica dei primi dati di marzo-aprile 2025 è ancora in corso, e non sono ancora uscite pubblicazioni scientifiche a riguardo. La prima sonda che scoprì – sfruttando appunto i 7 gradi di inclinazione menzionati prima – l’esistenza di campi multipolari molto intensi nel poli del Sole fu la sonda giapponese-americana Hinode (con osservazioni del 2007), tanto che all’epoca si parlò della possibile esistenza di mini-regioni attive nei poli del Sole. Questa scoperta era del tutto inattesa, poiché il Sole si trovava nel 2007 vicino al minimo di attività, quando tipicamente si pensava che i poli del Sole fossero invece unipolari. Ora il Sole si trova invece al massimo di attività, quindi la situazione è del tutto diversa, e l’esistenza di polarità multiple nei poli è meno sorprendente di allora. Sicuramente però l’analisi si concentrerà sul modo in cui queste polarità a piccola scala strutturano la bassa corona solare, dove avvengono continuamente jet a piccola scala e l’accelerazione di plasma che forma poi il vento solare. Non ci resta che attendere le prime pubblicazioni, e soprattutto vedere cosa la sonda osserverà nei prossimi anni mano a mano che l’inclinazione dell’orbita aumenterà».
Qual è secondo lei la cosa più rilevante che Solar Orbiter potrebbe aiutarvi a comprendere, nel corso dell’intera missione, osservando il Sole ad alte latitudini?
«Sicuramente la comprensione del ciclo solare avanzerà in modo rilevante, ma anche la comprensione di come il Sole plasma la forma di tutta l’eliosfera – la cavità che il vento solare “scava” all’interno del mezzo interstellare. Questo del resto è uno degli obiettivi principali della missione Solar Orbiter. Ricordiamoci che la forma dell’eliosfera non è del tutto compresa: molti ritengono che abbia una forma tipicamente a “coda di cometa”, ma altri ricercatori per esempio hanno proposto altre forme più simili a un croissant, e l’intensità dei campi magnetici dei poli del Sole è proprio uno dei parametri fondamentali per capire quale sia la vera forma di tutta l’eliosfera».
Agli scienziati di Ixpe il “Feltrinelli” 2025
Il premio internazionale “Antonio Feltrinelli” per le scienze fisiche, matematiche e naturali, destinato all’astronomia, è stato conferito ai fisici Ronaldo Bellazzini dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), Enrico Costa dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Martin Weisskopf della Nasa, per il loro straordinario contributo alla realizzazione e al successo della missione spaziale Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe), lanciata nel 2021 e tuttora operativa. Il premio è stato consegnato oggi, venerdì 13 giugno, dall’Accademia nazionale dei Lincei, la più antica accademia scientifica del mondo (1603), alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Cerimonia di consegna dei premi. Crediti: Accademia nazionale dei Lincei
«Sono veramente felice e onorato di ricevere questo prestigioso premio dell’Accademia nazionale dei Lincei perché è il riconoscimento di un lavoro creativo e serrato che ha portato alla concezione e allo sviluppo del gas pixel detector, strumento chiave della missione Ixpe», commenta Ronaldo Bellazzini. «Un lavoro visionario e lungimirante, condotto per oltre vent’anni dalla Sezione di Pisa dell’Infn in collaborazione con Enrico Costa dell’Inaf, grazie al quale oggi la comunità scientifica può contare su uno strumento unico, capace di aprire una nuova finestra osservativa sull’universo, attesa da oltre 50 anni».
«Il cielo a raggi X, svelato da Rossi e Giacconi 63 anni fa, è il mondo dei campi magnetici e gravitazionali estremi e delle geometrie fortemente asimmetriche», ricorda Enrico Costa. «Dagli albori si prevedeva una elevata polarizzazione ma la mancanza di una strumentazione adatta ne impediva la misura. Con Ixpe in tre anni abbiamo fatto per la prima volta la polarimetria X in sorgenti di tutte le classi, con risultati che hanno spesso scombinato i modelli prevalenti. E il comitato della Nasa che fa le strategie ha dichiarato che “le scoperte realizzate finora dalla polarimetria di Ixpe sono solo l’inizio di quello che la missione potrà insegnarci” e raccomandato che Ixpe venga mantenuto in attività, mentre la maggior parte delle altre missioni vengono interrotte da subito».
«Sono onorato che il nostro lavoro sia stato riconosciuto in tutto il mondo, è una grande soddisfazione, e grazie per questo meraviglioso premio», conclude Martin Weisskopf.
Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Ixpe. Crediti: Nasa
La missione Ixpe rappresenta un traguardo storico per l’astrofisica contemporanea perché ha permesso, per la prima volta, l’osservazione sistematica della polarimetria X di sorgenti cosmiche, come stelle di neutroni, buchi neri e nuclei galattici attivi, con sensibilità, risoluzione spaziale e capacità di analisi senza precedenti. Ixpe è frutto di una collaborazione internazionale tra la Nasa e l’Agenzia spaziale italiana (Asi), realizzata con il fondamentale contributo di Inaf, Infn e Ohb Italia. È una delle missioni più avanzate mai realizzate nel campo dell’astrofisica delle alte energie, sintesi di decenni di lavoro nel perfezionamento di ottiche a incidenza radente e di rivelatori innovativi.
Grazie all’attività di Ixpe, sono stati ottenuti risultati innovativi nello studio di pulsar, stelle di neutroni, buchi neri galattici ed extragalattici, Agn e blazar. La missione sta rivelando la struttura dei campi magnetici in ambienti fisici estremi e variabili nel tempo, aprendo nuove prospettive per la fisica fondamentale e l’astrofisica teorica. Le misure di Ixpe sono promettenti anche per testare effetti quantistici in campi gravitazionali forti, come la bi-rifrangenza del vuoto prevista dall’elettrodinamica quantistica. Tra i risultati più sorprendenti, la polarizzazione dei raggi X riflessi dalle nubi molecolari nel centro galattico ha rivelato che circa due secoli fa Sgr A*, il buco nero al centro della Via Lattea, ha sperimentato un episodio di intensa attività, con una luminosità paragonabile a quella di una galassia di tipo Seyfert.
I Premi Feltrinelli, per prestigio e consistenza economica (centomila euro), sono tra i più ambiti a livello internazionale e sono noti anche come “i Nobel italiani”. I riconoscimenti nascono nel 1942 da un lascito dell’imprenditore e artista Antonio Feltrinelli con lo scopo di premiare chi, in Italia e nel mondo, aveva saputo rendere lustro alle scienze e alle arti. Cinque gli ambiti disciplinari tra i quali, a rotazione annuale, viene assegnato il premio: scienze storiche e morali, scienze fisiche, matematiche e naturali, lettere, arti, medicina.
Ronaldo Bellazzini, fisico sperimentale, è stato ricercatore dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e dell’Università di Pisa. Già protagonista di numerosi esperimenti al Cern e della realizzazione del tracciatore al silicio della missione spaziale Fermi, è il principale sviluppatore del Gas Pixel Detector di Ixpe. Il suo lavoro ha trasformato una proposta concettuale in uno strumento operativo ad alta efficienza, in grado di misurare con precisione la polarizzazione dei fotoni X nella banda 2-10 keV. È inoltre il fondatore di Pixirad, spin-off dell’Infn, che ha trasferito le tecnologie di rivelazione in ambito industriale. Ronaldo Bellazzini è stato due volte insignito del premio “Bruno Rossi” della American Astronomical Society per il suo contributo alla missione Fermi e alla missione Ixpe.
Enrico Costa, nato a Sassari nel 1944, si è laureato in fisica a Roma e ha svolto i suoi esperimenti di astronomia X e gamma nel Cnr, poi all’Istituto nazionale di astrofisica. È tra i protagonisti della scoperta dell’origine cosmologica dei gamma-ray burst (Grb) grazie alla missione BeppoSax per la quale ha ricevuto nel 1998 il premio “Bruno Rossi” dell’American Astronomical Society (condiviso con Filippo Frontera e Jan van Paradijs). Ha contribuito allo sviluppo di missioni di punta come Agile e ha proposto, ideato e realizzato, insieme a Ronaldo Bellazzini, il Gas Pixel Detector, il rivelatore alla base della missione Ixpe. La sua attività scientifica, che ha avuto un impatto fondamentale nello sviluppo della strumentazione astrofisica spaziale, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti come il premio “Cartesio” 2002 (con Luigi Piro e Filippo Frontera), il premio “Fermi” nel 2010 (con Filippo Frontera) e il premio “Shaw” nel 2011 (con Gerald J. Fishman).
Martin Weisskopf, figura di riferimento internazionale, ha ricoperto il ruolo di project scientist della missione Chandra per oltre vent’anni. Come principal investigator di Ixpe ha concepito, guidato e portato a compimento una missione a lungo considerata irrealizzabile. Ha diretto lo sviluppo delle ottiche X che costituiscono il cuore della missione, ottenendo un livello di precisione e risoluzione spaziale senza precedenti. La sua carriera, che lo vede coautore di oltre 360 pubblicazioni, è coronata da numerosi prestigiosi riconoscimenti, tra cui il “Bruno Rossi” Prize dell’American Astronomical Society, ottenuto due volte, (2004 e 2024), la Nasa Medals for Exceptional Service in 1992 and for Scientific Achievement in 1999. Nel 1994 è stato eletto Fellow della American Physical Society, che ha riconosciuto il suo “lavoro pionieristico nella polarimetria a raggi X e negli studi sulla variabilità temporale delle sorgenti cosmiche di raggi X, nonché la sua illuminata leadership come project scientist dell’Advanced X-ray Astrophysics Facility”.
Lo sguardo di Hubble sui satelliti principali di Urano
Urano è il settimo pianeta in ordine di distanza dal Sole, il terzo più grande del Sistema solare e il primo ad essere scoperto con l’ausilio di un telescopio. Il gigante di ghiaccio è circondato da 13 deboli anelli e 28 lune. Recentemente, un team di astronomi ha utilizzato il telescopio spaziale Hubble della Nasa per osservare quattro di questi satelliti naturali – Ariel, Umbriel, Titania e Oberon – cercando segni di interazione tra le loro superfici e la complessa magnetosfera del pianeta.
I risultati della ricerca, presentati questa settimana al 246mo Meeting dell’American Astronomical Society tenutosi ad Anchorage, in Alaska, hanno rivelato qualcosa di inaspettato: una luminosità degli emisferi di testa e di coda dei satelliti completamente diversa da quella attesa, segno che la magnetosfera del pianeta potrebbe non interagire con le sue grandi lune.
Immagine che mostra le cinque lune principali di Urano, Titania, Oberon, Umbriel, Miranda e Ariel. Crediti: Nasa, Esa, STScI, Christian Soto (STScI)
Urano è l’unico pianeta del Sistema solare il cui equatore forma un angolo di quasi 90 gradi con il piano dell’eclittica. Ciò significa che il pianeta completa la sua orbita di 84 anni terrestri attorno al Sole ruotando praticamente “di fianco”. Il pianeta, inoltre, possiede una magnetosfera – la regione attorno a un corpo celeste dominata dal campo magnetico – che si estende per milioni di chilometri nello spazio, il cui asse magnetico è inclinato di circa 60 gradi rispetto all’asse di rotazione del pianeta. Questa estrema inclinazione fa sì che le linee del campo magnetico, co-rotanti con il pianeta, colpiscano regolarmente le sue lune.
Finora, si riteneva che le particelle cariche che si muovono lungo le linee del campo magnetico di Urano colpissero preferibilmente l’emisfero “di testa” delle lune, ovvero le metà dei satelliti che “guardano” nella direzione del loro moto. Questi emisferi lunari sarebbero dovuti apparire meno luminosi degli emisferi “di coda”, le metà delle lune che “guardano” in direzione opposta al loro moto, ciò a causa dell’interazione della superficie con la radiazione prodotta dagli elettroni intrappolati nella magnetosfera.
Tuttavia, osservando le lune del pianeta, Ariel, Umbriel, Titania e Oberon, il team di astronomi dello Space Telescope Science Institute ha rilevato una situazione ben diversa. Sfruttando la capacità di Hubble di vedere nell’ultravioletto, i ricercatori hanno scoperto che le lune più interne, Ariel e Umbriel, non mostravano alcuna prova di oscuramento degli emisferi “di coda”: la loro luminosità è risultata infatti simile agli emisferi di testa. Le lune più esterne, Titania e Oberon, mostravano invece una condizione esattamente opposta a quella attesa, con gli emisferi “di testa” meno luminosi degli emisferi “di coda”.
Secondo gli autori dello studio, i cui risultati sono stati presentati da Christian Soto in un intervento dal titolo “Revealing the Classical Uranian Satellites in Ultraviolet”, le osservazioni indicherebbero una scarsa interazione della magnetosfera di Urano con le sue grandi lune, contraddicendo i dati esistenti, ottenuti alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso. Ma se così è, come spiegare la differente luminosità degli emisferi delle due lune esterne? I ricercatori un’idea se la sono fatta, e chiama in causa le lune irregolari del pianeta e le micrometeoriti.
I satelliti irregolari sono corpi celesti che hanno orbite ampie, eccentriche e inclinate rispetto al piano equatoriale del pianeta che orbitano, spiegano i ricercatori. Le micrometeoriti – piccolissimi meteoroidi che riescono a raggiungere la superficie di un corpo celeste senza essere completamente distrutti dall’attrito con l’atmosfera – colpiscono costantemente la superficie dei satelliti irregolari, espellendo piccoli frammenti di materiale in orbita attorno ai pianeti.
Nel caso di Urano, è possibile che nel corso di milioni di anni il materiale polveroso si sia spostato verso l’interno del sistema. Giunto in prossimità delle orbite di Titania e Oberon, le lune potrebbero aver attraversato la nube di polvere, raccogliendola principalmente sui loro emisferi di testa, che appaiono così meno luminosi. È un po’ come se degli insetti colpissero il parabrezza della tua auto mentre guidi in autostrada, sottolineano i ricercatori.
Come conseguenza, questi emisferi appaiono più scuri e meno luminosi. Il motivo per cui gli emisferi delle lune interne non mostrano differenze di luminosità, aggiungono gli scienziati, potrebbe dipendere semplicemente dal fatto che le lune esterne proteggono efficacemente le lune interne dalla polvere. «Vediamo la stessa cosa accadere nel sistema di Saturno e probabilmente anche in quello di Giove», osserva Bryan Holler, ricercatore dello Space Telescope Science Institute coinvolto nello studio. «Questa è una delle prime evidenze di un simile scambio di materia tra i satelliti di Urano».
Sulla base di questi risultati, i ricercatori sospettano che la magnetosfera di Urano possa essere piuttosto quiescente, o che possa essere più complessa di quanto si pensasse in precedenza. Dati complementari raccolti dal telescopio spaziale James Webb della Nasa contribuiranno a fornire una comprensione più completa del sistema di satelliti di Urano e delle sue interazioni con la magnetosfera del pianeta.
«Il nostro studio supporta una spiegazione diversa circa la differente luminosità degli emisferi delle lune esterne Titania e Oberon», conclude il ricercatore della Johns Hopkins University, Richard Cartwright, anche lui coinvolto nella ricerca. «La causa non sarebbe l’interazione con la magnetosfera, ma l’accumulo di polvere. Non mi aspettavo nemmeno di affrontare questa ipotesi, ma si sa, i dati ti sorprendono sempre».
Guarda la registrazione (dal min. 00:00 al min. 13:00) della press conference sul canale YouTube dell’AAS:
Da polvere di stelle a granelli di pianeti
Sono i venti stellari a favorire la trasformazione di granelli di polvere in ciottoli più massicci da cui si formano i pianeti. Questa scoperta, pubblicata oggi su Astronomy & Astrophysics, permette di aggiungere un tassello fondamentale al puzzle sul processo di formazione di pianeti rocciosi orbitanti intorno a stelle giovani. Studiando la chimica del gas molecolare denso presente negli involucri di un campione rappresentativo di protostelle di tipo solare, sono stati osservati in modo diretto per la prima volta in assoluto i grani di polvere millimetrici incastonati nelle pareti di una cavità associata a outflow protostellare, circa diecimila volte più grandi della tipica polvere interstellare.
Illustrazione artistica del viaggio dei granelli di polvere che crescono vicino alla protostella, vengono sollevati dai venti stellari e poi ricadono sul disco dando origine a nuovi pianeti. Crediti: M. De Simone
Lo studio è firmato da un team internazionale di astronomi e chimici che ha utilizzato l’interferometro Alma (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) nell’ambito del programma di ricerca Faust (Fifty UA Study of the chemistry in the disk/envelope systems of Solar-like protostars).
«Oggi sappiamo che il Sole e il Sistema solare si sono formati circa 4,6 miliardi di anni fa da una nube di polvere e gas interstellare, eppure non comprendiamo ancora del tutto il processo di formazione planetaria», ricorda Giovanni Sabatini dell’Inaf di Arcetri, alla guida dello studio.
Negli ultimi decenni gli scienziati hanno cercato di spiegare come i granelli di polvere nei dischi attorno alle stelle neonate aumentino di grandezza fino a formare corpi rocciosi di grandezza sufficiente per formare i planetesimi, i progenitori dei pianeti.
Giovanni Sabatini è ricercatore all’Inaf di Arcetri (Firenze), dove si occupa di studiare – in particolare con Alma e Vla – le proprietà fisiche e chimiche del mezzo interstellare e delle regioni associate al processo di formazione stellare e planetario, in vista dei dati che arriveranno dagli interferometri di nuova generazione. Crediti: G. Sabatini/Inaf
«Un problema cruciale dei modelli attuali è che i grani di polvere di dimensioni dell’ordine del millimetro/centimetro non riescono facilmente a crescere ulteriormente all’interno dei dischi protoplanetari. Questo accade perché muovendosi all’interno del disco, i grani si frammentano o vengono assorbiti dalla protostella prima di avere il tempo di formare corpi rocciosi delle dimensioni tipiche del metro, e poi i planetesimi», aggiunge Sabatini.
Questa sfida – detta meter-size barrier, la cosiddetta “barriera del metro” – sembra ora avere una risposta. Gli astronomi hanno osservato direttamente questi grani di polvere di dimensioni millimetriche nelle pareti della cavità associata all’outflow protostellare del sistema stellare binario giovane L1551 Irs5, nella regione di formazione stellare del Toro, dimostrando che possono diventare molto più grandi di quanto si pensasse in precedenza fin dalle prime fasi della formazione planetaria. A causa del vento stellare, i grani sembrano infatti essere sollevati dalle regioni più interne del disco protostellare e poi depositati più lontano, da una posizione in cui possono ricadere sul disco e poi continuare ad aggregarsi. Questo processo dà ai grani di polvere più tempo per crescere, potenzialmente superando la “barriera” della formazione planetaria.
«La scoperta di grani di polvere di dimensioni millimetriche lungo le cavità degli outflows protostellari offre una soluzione alternativa all’annoso problema della meter-size barrier. I grani millimetrici che si trovano nelle pareti delle cavità degli outflows possono infatti ricadere sui dischi protostellari a causa della gravità, dando loro più tempo per crescere ulteriormente e formare planetesimi», conclude Sabatini. «Questa scoperta non solo fornisce un nuovo meccanismo per la formazione dei pianeti, ma offre anche uno sguardo su come potrebbe essersi formato il Sistema solare».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “FAUST – XXIV. Large dust grains in the protostellar outflow cavity walls of the Class I binary L1551 IRS5” di G. Sabatini, E. Bianchi, C. J. Chandler, L. Cacciapuoti, L. Podio, M. J. Maureira, C. Codella, C. Ceccarelli, N. Sakai, L. Testi, C. Toci, B. Svoboda, T. Sakai, M. Bouvier, P. Caselli, N. Cuello, M. De Simone, I. Jímenez-Serra, D. Johnstone, L. Loinard, Z. E. Zhang e S. Yamamoto
Restaurato il telescopio che vide i “marziani”
Dettaglio del rifrattore Merz dell’Inaf di Brera, prima e dopo il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
“Non solo Dio non esiste, ma provate a cercare un idraulico nel week end”, recita una celebre battuta di Woody Allen. Ma se trovare il modo di riparare un tubo condotto è così difficile, figuriamoci se si tratta del tubo di un telescopio.
È questo il dilemma di fronte al quale si è trovato Roberto Della Ceca, direttore dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Brera, quando Mario Carpino, ricercatore e conservatore della collezione di strumenti antichi del Museo astronomico di Brera, gli ha riferito che si doveva intervenire al più presto, perché la finitura in gommalacca che ricopre il rivestimento in piuma di mogano del tubo del telescopio si era ormai definitivamente rovinata.
Il tubo in questione è quello dello storico telescopio di Giovanni Schiaparelli: il rifrattore Merz da otto pollici acquistato nel 1862 dal Regno d’Italia appena costituito e usato a partire dal 1875. Quello, per capirsi, di cui Schiaparelli si servì per le sue prime dirompenti osservazioni del pianeta Marte e che mise la basi per l’invenzione dei marziani negli anni successivi, grazie alla fantasia di Flammarion, Wells e tanti altri, che dalle ricerche dell’astronomo italiano presero spunto.
«Ma io ero in una situazione migliore di Woody Allen», sorride Della Ceca. «Tra i coinquilini di Palazzo Brera, possiamo contare su l’Accademia di belle arti di Brera e, per questo caso particolare, sul corso di restauro di manufatti e strutture lignee tenuto dal professo Luca Quartana».
Dall’alto, Francesco Carraffa e Francesco Fedeli durante il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
È proprio presso l’Accademia di belle arti di Brera, infatti, che si sono formati Francesco Carraffa e Francesco Fedeli, i due esperti a cui Della Ceca si è affidato. «La maggiore delle difficoltà è stata di fare il lavoro con lo strumento in posizione. Niente è stato smontato, né i meccanismi di regolazione micrometrici né la parte metallica in ottone», raccontano Francesco & Francesco – uno inizia una frase, l’altro la prosegue. «Per prima cosa, naturalmente, abbiamo identificato i solventi più idonei per rimuovere la vernice protettiva ammalorata, così da identificare lo strato ottimale di pulitura».
Nella parte terminale del telescopio, l’impiallacciatura si era distaccata dal supporto e rigonfiata, ma nella parte centrale si era addirittura staccata una porzione di impiallaccio. «Nel primo caso», spiegano, «si è provveduto a eseguire piccoli incollaggi con adesivo alifatico tramite iniezioni mirate. Mentre per colmare la lacuna, abbiamo sagomato ad hoc un nuovo elemento ligneo, realizzato in essenza differente rispetto all’originale, per rendere l’intervento riconoscibile in futuro. L’innesto è stato poi ritoccato (aniline) per garantire l’armonia visiva d’insieme, mantenendo però la leggibilità dell’intervento da vicino».
I due giovani restauratori sono però andati oltre, realizzando non solo un intervento mirato al ripristino del telescopio ma anche alla corretta conservazione. «La finitura in gommalacca è molto sensibile all’umidità. Abbiamo invece utilizzato una finitura diversa: un olio, applicato a tampone in più mani, che ci ha permesso di ottenere una resa estetica come prima del danno, ma che ha una grande resistenza agli sbalzi termoigrometrici. È una tecnica che abbiamo già testato e rodato in diverse occasioni, sia in musei che per un intervento allo Scurolo di San Carlo, all’interno del Duomo di Milano».
Il rifrattore Merz dell’Inaf di Brera, prima, durante e dopo il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
Fine della storia? Neanche per sogno.
«Ora sarà necessario intervenire con urgenza sulla cupola: gli infissi non si chiudono più in maniera adeguata e questo rischia di compromette la conservazione del telescopio stesso», dice Della Ceca. «È già in corso uno studio sullo stato di conservazione dei materiali della cupola come argomento di una tesi di laurea, sotto la supervisione di Giuliana Cardani, docente di restauro dell’architettura al Politecnico di Milano. E, soprattutto, stiamo per affidare l’incarico del progetto di fattibilità tecnico esecutivo del restauro. Insomma, siamo pronti per attivare una campagna di richiesta fondi per questa impresa: conservare un bene storico, architettonico e culturale. Chi altri al mondo possiede la cupola e il telescopio che hanno inaugurato la stagione dello studio di Marte e dei suoi presunti marziani?».
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista di Laura Barbalini ai due restauratori:
Restaurato il telescopio che vide i “marziani”
Dettaglio del rifrattore Merz dell’Inaf di Brera, prima e dopo il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
“Non solo Dio non esiste, ma provate a cercare un idraulico nel week end”, recita una celebre battuta di Woody Allen. Ma se trovare il modo di riparare un tubo condotto è così difficile, figuriamoci se si tratta del tubo di un telescopio.
È questo il dilemma di fronte al quale si è trovato Roberto Della Ceca, direttore dell’Inaf – Osservatorio astronomico di Brera, quando Mario Carpino, ricercatore e conservatore della collezione di strumenti antichi del Museo astronomico di Brera, gli ha riferito che si doveva intervenire al più presto, perché la finitura in gommalacca che ricopre il rivestimento in piuma di mogano del tubo del telescopio si era ormai definitivamente rovinata.
Il tubo in questione è quello dello storico telescopio di Giovanni Schiaparelli: il rifrattore Merz da otto pollici acquistato nel 1862 dal Regno d’Italia appena costituito e usato a partire dal 1875. Quello, per capirsi, di cui Schiaparelli si servì per le sue prime dirompenti osservazioni del pianeta Marte e che mise la basi per l’invenzione dei marziani negli anni successivi, grazie alla fantasia di Flammarion, Wells e tanti altri, che dalle ricerche dell’astronomo italiano presero spunto.
«Ma io ero in una situazione migliore di Woody Allen», sorride Della Ceca. «Tra i coinquilini di Palazzo Brera, possiamo contare su l’Accademia di belle arti di Brera e, per questo caso particolare, sul corso di restauro di manufatti e strutture lignee tenuto dal professo Luca Quartana».
Dall’alto, Francesco Carraffa e Francesco Fedeli durante il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
È proprio presso l’Accademia di belle arti di Brera, infatti, che si sono formati Francesco Carraffa e Francesco Fedeli, i due esperti a cui Della Ceca si è affidato. «La maggiore delle difficoltà è stata di fare il lavoro con lo strumento in posizione. Niente è stato smontato, né i meccanismi di regolazione micrometrici né la parte metallica in ottone», raccontano Francesco & Francesco – uno inizia una frase, l’altro la prosegue. «Per prima cosa, naturalmente, abbiamo identificato i solventi più idonei per rimuovere la vernice protettiva ammalorata, così da identificare lo strato ottimale di pulitura».
Nella parte terminale del telescopio, l’impiallacciatura si era distaccata dal supporto e rigonfiata, ma nella parte centrale si era addirittura staccata una porzione di impiallaccio. «Nel primo caso», spiegano, «si è provveduto a eseguire piccoli incollaggi con adesivo alifatico tramite iniezioni mirate. Mentre per colmare la lacuna, abbiamo sagomato ad hoc un nuovo elemento ligneo, realizzato in essenza differente rispetto all’originale, per rendere l’intervento riconoscibile in futuro. L’innesto è stato poi ritoccato (aniline) per garantire l’armonia visiva d’insieme, mantenendo però la leggibilità dell’intervento da vicino».
I due giovani restauratori sono però andati oltre, realizzando non solo un intervento mirato al ripristino del telescopio ma anche alla corretta conservazione. «La finitura in gommalacca è molto sensibile all’umidità. Abbiamo invece utilizzato una finitura diversa: un olio, applicato a tampone in più mani, che ci ha permesso di ottenere una resa estetica come prima del danno, ma che ha una grande resistenza agli sbalzi termoigrometrici. È una tecnica che abbiamo già testato e rodato in diverse occasioni, sia in musei che per un intervento allo Scurolo di San Carlo, all’interno del Duomo di Milano».
Il rifrattore Merz dell’Inaf di Brera, prima, durante e dopo il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
Fine della storia? Neanche per sogno.
«Ora sarà necessario intervenire con urgenza sulla cupola: gli infissi non si chiudono più in maniera adeguata e questo rischia di compromette la conservazione del telescopio stesso», dice Della Ceca. «È già in corso uno studio sullo stato di conservazione dei materiali della cupola come argomento di una tesi di laurea, sotto la supervisione di Giuliana Cardani, docente di restauro dell’architettura al Politecnico di Milano. E, soprattutto, stiamo per affidare l’incarico del progetto di fattibilità tecnico esecutivo del restauro. Insomma, siamo pronti per attivare una campagna di richiesta fondi per questa impresa: conservare un bene storico, architettonico e culturale. Chi altri al mondo possiede la cupola e il telescopio che hanno inaugurato la stagione dello studio di Marte e dei suoi presunti marziani?».
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista di Laura Barbalini ai due restauratori:
La supertintarella non ferma la nascita dei pianeti
Un nuovo studio condotto da una collaborazione internazionale – guidata da astronomi della Penn State University e di cui fa parte anche Veronica Roccatagliata, ricercatrice dell’Università di Bologna e associata all’Inaf Osservatorio di Arcetri – ha rivelato che i mattoni fondamentali per la formazione dei pianeti possono esistere anche in ambienti caratterizzati da intense radiazioni ultraviolette.
Utilizzando il James Webb Space Telescope (Jwst) e avanzate tecniche di modellazione termochimica, i ricercatori hanno analizzato un disco protoplanetario situato in uno degli ambienti più estremi della galassia. I risultati dello studio sono stati pubblicati il 20 maggio su The Astrophysical Journal.
Rappresentazione artistica di una regione di intensa formazione stellare nella nebulosa Ngc 6357, con il disco protoplanetario Xue 1 in primo piano. La regione è inondata da intensa luce ultravioletta proveniente da stelle massive, una delle quali è visibile nell’angolo in alto a sinistra. Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, i ricercatori hanno dimostrato che i mattoni fondamentali per la formazione dei pianeti possono esistere anche in questi ambienti caratterizzati da radiazione ultravioletta estrema. Crediti: Maria Cristina Fortuna
Lo studio si concentra su una giovane stella di massa simile al Sole, chiamata Xue 1, situata nella Nebulosa Aragosta (Ngc 6357), una regione nota per ospitare oltre 20 stelle massicce – tra cui due tra le più grandi conosciute nella nostra galassia – forti emettitrici di radiazione ultravioletta (Uv)
«Per comprendere tutti gli aspetti della formazione dei sistemi planetari è importante studiarli nei loro diversi ambienti», spiega Roccatagliata a Media Inaf. «Molti sistemi planetari giovani si formano in presenza di alti livelli di radiazione Uv, in regioni di formazione stellare massicce. Un ottimo esempio è l’ammasso stellare Pismis 24 visibile all’interno della nebulosa Ngc 6357 a una distanza di circa 5.500 anni luce, in una bolla a bassa densità creata dalla forte radiazione e i venti stellari provenienti da numerose stelle massicce OB, tra le più massicce della Galassia. Per comprendere l’impatto sulla formazione planetaria di questa radiazione abbiamo selezionato 15 dischi protoplanetari in tre aree di Pismis 24, al variare della radiazione ultravioletta».
«Il paper di Bayron Portilla-Revelo presenta il primo modello termochimico completo (con il codice ProDiMo) per modellare i dati spettroscopici ottenuti con Jwst/Miri e la fotometria visiva/vicinoinfrarossa d’archivio per capire la struttura fisica di Xue 1, un disco protoplanetario attorno a una stella di tipo solare che si trova vicino ad alcune delle stelle più massicce di Pismis 24», continua Roccatagliata.
In particolare, combinando le osservazioni di Jwst con sofisticati modelli astrochimici, i ricercatori hanno identificato la composizione dei minuscoli granelli di polvere nel disco protoplanetario attorno a Xue 1, che alla fine cresceranno per formare pianeti rocciosi. Hanno scoperto che il disco contiene materiale solido sufficiente a formare potenzialmente almeno dieci pianeti, ognuno con una massa paragonabile a quella di Mercurio. Gli autori hanno inoltre determinato la distribuzione spaziale nel disco di una varietà di molecole precedentemente rilevate, tra cui vapore acqueo, monossido di carbonio, anidride carbonica, cianuro di idrogeno e acetilene.
Spettro della radiazione emessa dal disco protoplanetario Xue 1 (tramite spettroscopia a media risoluzione con Jwst/Miri) pubblicato nel 2023: luminosità in funzione della lunghezza d’onda, da 13,3 a 15,5 micron, con i picchi di acetilene, cianuro di idrogeno, acqua e anidride carbonica evidenziati. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, J. Olmsted (Stsci), M. C Ramírez-Tannus (Max Planck Institute for Astronomy)
Il disco protoplanetario attorno a Xue 1 è stato infatti oggetto di uno studio precedente, pubblicato nel 2023, che aveva già evidenziato la presenza di questi elementi. «Nel primo articolo su Xue1, nel 2023, Ramírez-Tannus et al. evidenziano come questa sia la prima volta che tali molecole vengono rilevate in queste condizioni. Questo risultato inaspettato implica che le condizioni per la formazione planetaria e gli ingredienti per la vita sono presenti anche in uno degli ambienti più estremi della Galassia. Ciò dimostra che le condizioni per la formazione di pianeti terrestri sono altrettanto probabili nelle regioni di formazione stellare di grande massa quanto in quelle di piccola massa», continua Roccatagliata.
«Ci si aspetta che queste molecole contribuiscano alla formazione delle atmosfere dei pianeti emergenti», dice Konstantin Getman, professore del Dipartimento di astronomia e astrofisica della Penn State e coautore dello studio. «Il rilevamento di tali serbatoi di polvere e gas suggerisce che i mattoni fondamentali per la formazione dei pianeti possano esistere anche in ambienti con radiazioni ultraviolette estreme».
Veronica Roccatagliata, ricercatrice dell’Università di Bologna e associata all’Inaf di Arcetri, fa parte di un team internazionale che studia l’effetto di un’alta radiazione ultravioletta sui dischi protoplanetari dove si formano pianeti, utilizzando il Jwst. Crediti: V. Roccatagliata
Inoltre, basandosi sull’assenza di alcune molecole che fungono da traccianti dell’irradiazione Uv nella luce rilevata dal Jwst, il team ha dedotto che il disco protoplanetario è compatto e privo di gas nella sua periferia. Si estende solo per circa 10 unità astronomiche dalla stella madre, all’incirca la distanza tra il Sole e Saturno. Questa compattezza è probabilmente il risultato del fatto che la radiazione Uv esterna erode le regioni esterne del disco.
«Un’altra conseguenza è il drastico aumento della temperatura del gas nella parte esterna del disco e l’aumento dell’abbondanza di acqua in fase gassosa», conclude Roccatagliata. «La superficie del disco è poi popolata da grani di polvere composti da silicati, come in dischi protoplanetari in zone di formazione stellare di bassa massa. Le scoperte fatte fin qui su Xue 1 implicano che le regioni più interne dei dischi protoplanetari sono resistenti all’irradiazione esterna e in grado di conservare gli ingredienti di base necessari per la formazione planetaria».
Secondo i ricercatori, lo studio di Xue 1 rappresenta un passo fondamentale nella comprensione dell’impatto della radiazione esterna sui dischi protoplanetari e pone le basi per future campagne di osservazione con telescopi spaziali e terrestri, volte a costruire un quadro più completo della formazione planetaria in diversi ambienti cosmici.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “XUE: Thermochemical Modeling Suggests a Compact and Gas-depleted Structure for a Distant, Irradiated Protoplanetary Disk” di Bayron Portilla-Revelo, Konstantin V. Getman, María Claudia Ramírez-Tannus, Thomas J. Haworth, Rens Waters, Arjan Bik, Eric D. Feigelson, Inga Kamp, Sierk E. van Terwisga, Jenny Frediani, Thomas Henning, Andrew J. Winter, Veronica Roccatagliata, Thomas Preibisch, E. Sabbi, Peter Zeidler e Michael A. Kuhn
Piove sabbia sugli esopianeti
Spesso si invoca l’enorme numero di granelli di sabbia che coprono le spiagge del nostro pianeta per provare a immaginare l’altrettanto vasta moltitudine di stelle che popolano l’universo. E se qualcuno dei pianeti intorno a queste stelle fosse coperto – o circondato – di sabbia? È l’interessante scenario che emerge da un nuovo studio basato sulle osservazioni di due pianeti extrasolari realizzate con il telescopio spaziale James Webb (Jwst), i cui risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature.
I pianeti in questione orbitano attorno alla stella Yses-1, un giovane sole con un’età di appena 16,7 milioni di anni, che si trova a circa 300 anni luce dal nostro Sistema solare. Osservando direttamente la luce di questi esopianeti, un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’astrofisica Kielan Hoch dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, negli Stati Uniti, ha scoperto che l’atmosfera di uno dei due pianeti contiene nubi di silicati, composte da minerali che le conferiscono un colore rossiccio. L’altro pianeta del sistema, invece, appare circondato da un disco circumplanetario, anch’esso formato da silicati, dal quale potrebbero in futuro prendere forma corpi più piccoli, come ad esempio delle lune.
Illustrazione artistica del sistema planetario Yses-1. La stella è visibile al centro, il pianeta Yses-1 b con il disco di polvere circumplanetario si trova a destra mentre a sinistra si vede l’altro pianeta, Yses-1 c, con l’atmosfera contenente nubi di silicati. Crediti: Ellis Bogat.
La scoperta, che sarà presentata oggi durante il 246° meeting dell’American Astronomical Society in corso ad Anchorage, in Alaska, offre nuove prospettive sulle fasi iniziali della formazione dei sistemi planetari come il nostro, fornendo a ricercatrici e ricercatori l’opportunità di studiare in tempo quasi reale come nasce e si evolve un pianeta simile a Giove.
«Osservare le nubi di silicati, che sono praticamente delle nuvole di sabbia, nelle atmosfere dei pianeti extrasolari è importante perché ci aiuta a capire meglio come funzionano i processi atmosferici e come si formano i pianeti, un tema ancora in discussione poiché non c’è accordo sui diversi modelli», spiega la coautrice Valentina D’Orazi, ricercatrice presso l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e l’Università di Roma Tor Vergata, attualmente visiting research scholar all’Università del Texas a Austin nell’ambito del programma Fulbright. «La scoperta di queste nuvole di sabbia, che restano in alto grazie a un ciclo di sublimazione e condensazione simile a quello dell’acqua sulla Terra, ci svela meccanismi complessi di trasporto e formazione nell’atmosfera. Questo ci permette di migliorare i nostri modelli sui processi climatici e chimici in ambienti molto diversi da quelli del Sistema solare, ampliando così la nostra conoscenza di questi sistemi».
La prima immagine diretta del sistema planetario intorno alla stella Yses-1 (in alto a sinistra) con i due pianeti visibili nella parte inferiore dell’immagine, realizzata con lo strumento Sphere al Very Large Telescope. Crediti: Eso/Bohn et al.
Si tratta di due pianeti giganti gassosi, con masse pari a 14 volte quella di Giove per Yses-1 c e a 6 volte quella di Giove per Yses-1 b. Entrambi i pianeti si trovano molto lontano dalla loro stella, a distanze circa 5 e 10 volte superiori rispetto alla distanza tra il Sole e Nettuno, il pianeta più esterno del Sistema solare. È proprio la loro orbita molto estesa che ha permesso al team di osservare i due pianeti con Jwst attraverso la tecnica dell’imaging diretto, la cui applicazione è ancora oggi limitata a un piccolo numero di pianeti con caratteristiche molto particolari. Lo studio dimostra la capacità del potente telescopio spaziale di fornire dati spettrali di alta qualità per esopianeti osservati attraverso questa tecnica, aprendo nuove strade per lo studio delle atmosfere e degli ambienti circumstellari.
La presenza di nubi di silicati nelle atmosfere degli esopianeti era già stata prevista teoricamente e dedotta indirettamente da osservazioni precedenti, ma questa ricerca fornisce la prima osservazione diretta e spettroscopica di nubi di silicati in un esopianeta specifico, Yses-1 c. Questo permette di comprendere meglio la composizione atmosferica di un giovane gigante gassoso, confermando la presenza di nuvole di silicati ad alta quota, contenenti pirosseno ricco di ferro oppure una combinazione di bridgmanite (MgSiO3) e forsterite (Mg2SiO4).
Per quanto riguarda il pianeta gemello Yses-1 b, questo lavoro presenta la prima rilevazione di emissione di silicati da un disco circumplanetario, una specie di “mini-Sistema solare” in formazione. Solo due simili dischi circumplanetari sono stati osservati in precedenza, e la nuova ricerca fornisce informazioni dirette sulla composizione e sui processi fisici in questi ambienti: la presenza di granelli di olivina con dimensioni inferiori al micron, infatti, suggerisce un meccanismo di formazione attraverso collisioni di piccoli corpi, detti planetesimi, all’interno del disco.
«Studiando questi pianeti riusciamo a capire meglio come si formano i pianeti in generale, un po’ come sbirciare nel passato del nostro Sistema solare», conclude D’Orazi. «I risultati supportano l’idea che la composizione delle nubi negli esopianeti giovani e i dischi circumplanetari svolgano un ruolo cruciale nel determinare la composizione chimica atmosferica. Inoltre, questo studio sottolinea la necessità di modelli atmosferici dettagliati per interpretare i dati osservativi di alta qualità ottenuti con telescopi come Jwst».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Silicate clouds and a circumplanetary disk in the YSES-1 exoplanet system” di K. Hoch, M. Rowland, S. Petrus, E. Nasedkin, C. Ingebretsen, J. Kammerer, M. Perrin, V. D’Orazi, W. O. Balmer, T. Barman, M. Bonnefoy, G. Chauvin, C. Chen, R. J. De Rosa, J. Girard, E. Gonzales, M. Kenworthy, Q. M. Konopacky, B. Macintosh, S. E. Moran, C. V. Morley, P. Palma-Bifani, L. Pueyo, B. Ren, E. Rickman, J.-B. Ruffio, C. A. Theissen, K. Ward-Duong, e Y. Zhang
Via Lattea-Andromeda, l’apocalisse può attendere
Illustrazione artistica del satellite Gaia dell’Esa che osserva la Via Lattea. L’immagine del cielo sullo sfondo è stata compilata con i dati di oltre 1.8 miliardi di stelle raccolti dal satellite. Crediti: Esa/Atg Medialab; Esa/Gaia/Dpac; A. Moitinho
Diversi studi suggeriscono che la Via Lattea sia destinata a scontrarsi in modo catastrofico con la vicina galassia di Andromeda. Secondo queste ricerche, l’evento cosmico – potenzialmente capace di spingere il Sole e la Terra verso le remote periferie della supergalassia ellittica che ne deriverebbe, battezzata da alcuni astronomi “Milkomeda” (dalla contrazione dei termini Milky Way e Andromeda) – dovrebbe verificarsi tra 4 o 5 miliardi di anni.
Un nuovo studio condotto da un team di scienziati dell’Università di Helsinki mette ora in dubbio questa previsione, riscrivendo le ipotesi sul destino della nostra galassia. I risultati della ricerca, pubblicati la settimana scorsa su Nature Astronomy, suggeriscono che la probabilità d’una collisione tra le due galassie nei prossimi cinque miliardi sia molto bassa. È possibile che una fusione si verifichi nei prossimi dieci miliardi di anni, probabilmente tra 7-8 miliardi di anni, si legge nella pubblicazione, ma c’è comunque una probabilità del 50 per cento che l’evento non avvenga affatto.
Per giungere a queste conclusioni, i ricercatori hanno utilizzato i più recenti dati forniti dai telescopi Hubble e Gaia dell’Agenzia spaziale europea, simulando il modo in cui la Via Lattea, la galassia di Andromeda, la galassia del Triangolo e la Grande Nube di Magellano – le quattro galassie più grandi che formano il cosiddetto Gruppo Locale – potrebbero evolversi nel futuro. Considerando 22 diverse variabili, il team ha eseguito oltre 100mila simulazioni, ciascuna delle quali ha coperto un periodo di dieci miliardi di anni di evoluzione galattica.
Nello studio, in un primo momento i ricercatori hanno eseguito le simulazioni considerando la sola presenza della Via Lattea e della galassia di Andromeda, rilevando una fusione dopo 7-8 miliardi di anni in poco meno della metà dei casi. L’inclusione della galassia del Triangolo, la terza per dimensioni nel Gruppo Locale, ha fatto salire la probabilità di uno scontro entro i dieci miliardi di anni a circa due terzi. Tuttavia, quando i ricercatori hanno incluso nelle simulazioni le variabili relative alla galassia satellite della Via Lattea e la quarta più grande del gruppo, la Grande Nube di Magellano, le probabilità di una collisione sono tornate al 50 per cento.
Una selezione di immagini di galassie che illustra tre diversi possibili scenari a cui potrebbero andare incontro la Via Lattea e la vicina galassia di Andromeda. Nel pannello in alto a sinistra, un’immagine a campo largo di due galassie che si incrociano a grandi distanze. Nel riquadro in alto a destra, una coppia di galassie interagenti che mostra evidenti segni di disturbi mareali, tipici di un incontro ravvicinato. Il riquadro in basso mostra una “collisione cosmica”, in cui due galassie sono in fase di fusione attiva. Crediti: Nasa, Esa, Stsci, Till Sawala (University of Helsinki), Dss, J. DePasquale (Stsci)
In circa la metà delle simulazioni, le due galassie principali si sono avvicinate fino a una distanza di circa mezzo milione di anni luce – pari a cinque volte il diametro della Via Lattea, fino a fondersi dopo circa dieci miliardi di anni, spiegano i ricercatori. Il progressivo decadimento delle loro orbite è stato causato da un processo noto come attrito dinamico, che agisce tra i vasti aloni di materia oscura che avvolgono ciascuna galassia sin dall’inizio. Nell’altra metà delle simulazioni, aggiungono gli scienziati, le galassie non si sono mai avvicinate abbastanza da attrarsi reciprocamente. In questi casi, le due galassie hanno continuato a danzare l’una attorno all’altra in un lento valzer orbitale destinato a durare molto a lungo.
«Anche utilizzando i dati osservativi più recenti e precisi disponibili, l’evoluzione futura del Gruppo Locale, composto da diverse decine di galassie, resta incerta», sottolinea Till Sawala, astronomo all’Università di Helsinki e primo autore della ricerca. «Curiosamente, abbiamo riscontrato una probabilità quasi uguale tra lo scenario, ampiamente divulgato, della fusione tra Via Lattea e la galassia di Andromeda – sebbene con una fusione mediamente più tardiva – e quello in cui entrambe le galassie sopravvivono senza scontrarsi. Siamo giunti a questa conclusione includendo nel modello la Grande Nube di Magellano e, soprattutto, tenendo conto delle incertezze legate ai dati osservativi».
Lo scontro e le fusioni tra galassie sono eventi spettacolari e complessi. Quello tra la Via Lattea e la galassia di Andromeda innescherebbe numerosi cambiamenti nel nostro vicinato cosmico. Come anticipato, lo spostamento del Sole e della Terra verso remote periferie della supergalassia ellittica che ne deriverebbe è uno di questi. Gli astronomi si sono resi conto per la prima volta che la Via Lattea sarebbe potuta entrare in collisione con la vicina galassia di Andromeda nel 1912, quando l’astronomo Vesto Sliper, utilizzando il telescopio da 24 pollici dell’Osservatorio Lowell, ottenne la prima velocità radiale della galassia di Andromeda – all’epoca ritenuta solo una nebulosa. I suoi dati rivelarono un comportamento piuttosto insolito dell’oggetto celeste: invece di allontanarsi, come ci si sarebbe aspettati, Andromeda si stava muovendo verso di noi, a una velocità di circa 400mila chilometri all’ora.
Un secolo dopo, utilizzando i dati sul moto della galassia raccolti dal telescopio Hubble su un periodo di quasi sette anni, un team di astronomi della Nasa ha annunciato che lo scontro frontale tra le due galassie fosse quasi certo, e di aver previsto la possibile data della titanica collisione: tra non più di cinque miliardi di anni. Le simulazioni condotte nel nuovo studio indicano che una collisione tra le galassie tra 4-5 miliardi di anni sia possibile, ma la probabilità che ciò si verifichi è, tuttavia, solo del due per cento.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “No certainty of a Milky Way–Andromeda collision” di Till Sawala, Jehanne Delhomelle, Alis J. Deason, Carlos S. Frenk, Jenni Häkkinen, Peter H. Johansson, Atte Keitaanranta, Alexander Rawlings e Ruby Wright
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube del NASA Goddard:
Europa e Sudafrica insieme per un Vlbi senza rivali
È l’immagine ad altissima risoluzione del flusso di plasma ad alta energia espulso dai dintorni del buco nero supermassiccio J0123+3044 il primo prodotto scientifico di una nuova partnership nel campo del Vlbi, l’interferometria a lunghissima base: una tecnica radioastronomica che consente a più antenne di lavorare all’unisono per arrivare a livelli di dettaglio paragonabili a quelli che si otterrebbero con un unico radiotelescopio grande quanto la massima distanza – la lunghissima linea di base, appunto – fra le singole antenne.
Immagini dei getti di particelle ad alta energia, visibili a lunghezze d’onda radio, espulsi dal buco nero supermassiccio J0123+3044. A sinistra, l’immagine ottenuta con il solo array Evn, a destra con l’inclusione di MeerKat. La combinazione dei due array di radiotelescopi ha consentito di decifrare la struttura del getto con maggiore sensibilità e risoluzione – fino a circa due millisecondi d’arco, come si può vedere dall’ellissi in bianco in basso a sinistra del secondo grafico. Crediti: Jive, Sarao
A realizzare l’impresa – che ha richiesto in tutto 12 ore di osservazioni e il cui prodotto possiamo ammirare nell’immagine qui sopra a destra – è stata un’inedita collaborazione, come dicevamo, fra la rete europea Evn (European Vlbi Network) e l’array sudafricano di radiotelescopi MeerKat.
Costruito e gestito da Sarao, l’Osservatorio radioastronomico del Sudafrica, MeerKat è stato inaugurato nel 2018 e da allora è diventato uno strumento di punta per le scoperte astronomiche. È composto da 64 parabole, ciascuna di 13,5 metri di diametro, distribuite su un’area di otto km. Quanto all’Evn, attualmente la rete di radiotelescopi più sensibile al mondo, grazie alla sua baseline lunga fino a novemila km (la rete, come illustra l’infografica qui sotto, comprende infatti anche un’antenna in Sudafrica e altre in Asia) permette di compiere osservazioni scientifiche con una risoluzione nell’ordine dei millisecondi d’arco. La nuova partnership tra le due infrastrutture porterà a entrambe enormi benefici.
«La rete europea ha un nucleo di numerosi radiotelescopi all’interno del nostro continente, ma per raggiungere prestazioni migliori in termini di precisione dei dettagli studiati», spiega infatti a Media Inaf Marcello Giroletti, ricercatore all’Inaf di Bologna e rappresentante Inaf nel board dei direttori dell’Evn, «necessita di partner a distanze maggiori di quelle raggiungibili nel nostro piccolo continente. Da molti anni ci sono collaborazioni con antenne in estremo oriente (Cina, Corea, Giappone), abbiamo collaborato con il grande radiotelescopio di Arecibo a Portorico fino a quando è stato in funzione, e da molti decenni anche con una “piccola” antenna in Sudafrica, il radiotelescopio di 26 metri di diametro di Hartebeestoek, vicino a Johannesburg. Poter affiancare a quest’ultima le 64 antenne di MeerKat ha suscitato l’interesse della rete europea per la possibilità che queste offrono di raggiungere una grande sensibilità, così da ottenere dettagli molto precisi anche per sorgenti molto deboli».
Infografica con i radiotelescopi della rete Evn (nei circoletti bianchi) e delle antenne dei MeerKat (in basso). A sinistra, le due immagini dei getti del buco nero ottenute dalla rete Evn senza (in alto) e con (in basso) il contributo di MeerKat. Crediti: Benito Marcote/Jive, Sarao, Paul Boven, Nasa Visible Earth
«Ed è solo un antipasto di quello che potremo fare quando MeerKat verrà integrato all’interno di Skao», aggiunge Giroletti. MeerKat è infatti il precursore dell’array a media frequenza, attualmente in costruzione in Sudafrica, dello Square Kilometre Array Observatory (Skao, appunto). Questo rende MeerKat un apripista fondamentale per progetti e collaborazioni future, e la partnership con l’Evn pone le basi per la futura realizzazione di Ska-Vlbi.
Tornando alle osservazioni condotte insieme alle antenne europee, i due siti sudafricani – MeerKat e il radiotelescopio di Hartebeesthoek – hanno fornito le due baseline nord-sud più lunghe, determinando così la risoluzione angolare raggiunta dell’array interferometrico, pari a circa due millisecondi d’arco. Senza dimenticare che l’eccezionale sensibilità di MeerKat ha avuto un ruolo dominante nel determinare la risoluzione delle immagini più profonde.
«L’ingresso di MeerKat ha consentito di combinare risoluzione e sensibilità», sottolinea Giroletti a questo proposito. «Per ogni sorgente molto compatta e debole, l’inclusione di MeerKat nella rete Evn sarà decisiva. Penso naturalmente al caso dei transienti, come ad esempio le controparti di sorgenti di onde gravitazionali, che sono molto deboli, sfuggenti ed estremamente compatte. E anche allo studio di oggetti molto lontani, e quindi situati nell’universo giovane, che ci permetteranno di comprendere meglio alcuni aspetti attualmente molto dibattuti della cosmologia».
Guarda la voce video sull’interferometria dell’Alfabeto cosmico su Media Inaf Tv:
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Per saperne di più:
- Leggi la press release (in inglese) di Jive, il Joint Institute for Vlbi Eric
Ent, le esplosioni stellari più potenti
Utilizzando i dati del W. M. Keck Observatory sull’isola di Maunakea, alle Hawaii, gli astronomi hanno scoperto le esplosioni cosmiche più energetiche mai osservate, denominate eventi transitori nucleari estremi (Ent). Questi straordinari fenomeni si verificano quando stelle massicce – almeno tre volte più massicce del Sole – vengono distrutte dopo essersi avvicinate troppo a un buco nero supermassiccio. La loro distruzione rilascia enormi quantità di energia visibile anche a distanze estremamente elevate. I risultati del team sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances.
Rappresentazione artistica della formazione di eventi transitori nucleari estremi (Ent). Crediti: Osservatorio W. M. Keck / Adam Makarenko.
«Abbiamo osservato stelle distrutte da eventi di distruzione mareale per oltre un decennio, ma questi Ent sono creature diverse, raggiungendo luminosità quasi dieci volte superiori a quelle che osserviamo normalmente», dice Jason Hinkle, alla guida dello studio. «Non solo gli Ent sono molto più luminosi dei normali eventi di distruzione mareale, ma rimangono luminosi per anni, superando di gran lunga l’energia emessa persino dalle più luminose esplosioni di supernova conosciute».
L’emissione complessiva degli Ent è davvero senza precedenti: il più energetico finora osservato, denominato Gaia18cdj, ha sprigionato un’energia 25 volte superiore a quella delle supernove più potenti conosciute. Mentre una supernova tipica emette l’equivalente dell’energia prodotta dal Sole durante l’intero arco della sua vita (circa dieci miliardi di anni), gli Ent possono irradiare l’energia di ben cento soli.
Gli Ent furono scoperti per la prima volta quando Hinkle avviò una ricerca sistematica di brillamenti di lunga durata provenienti dai centri delle galassie, utilizzando i dati di survey pubbliche. Durante l’analisi, individuò due brillamenti insoliti nei dati della missione Gaia dell’Agenzia spaziale europea, rilevati rispettivamente nel 2016 e nel 2018. «Gaia non fornisce informazioni sulla fisica dell’evento, ma soltanto segnala che qualcosa è cambiato in termini di luminosità», spiega Hinkle. Questa scoperta ha dato il via a una campagna di follow-up durata diversi anni, con l’obiettivo di comprendere la natura di queste misteriose sorgenti.
Nel frattempo, un terzo evento con proprietà simili è stato scoperto nel 2020 dalla Zwicky Transient Facility (Ztf) e segnalato indipendentemente da due team nel 2023. L’utilizzo dei dati del Keck Observatory Archive (Koa) per questo nuovo oggetto Ztf ha mostrato che era simile ai due Ent di Gaia, rafforzando ulteriormente l’idea che gli Ent siano una nuova classe distinta di eventi astrofisici estremi.
Basandosi sulle osservazioni di una vasta gamma di telescopi terrestri e spaziali, il team ha determinato che questi eventi straordinari non potevano essere supernove. L’enorme bilancio energetico, combinato con le loro curve di luce uniformi e prolungate, indicava chiaramente un meccanismo alternativo: l’accrescimento su un buco nero supermassiccio.
Tuttavia, gli Ent differiscono significativamente dal normale accrescimento da buco nero, quando i materiali che circondano il buco nero si riscaldano ed emettono luce, mostrando tipicamente variazioni di luminosità irregolari e imprevedibili. I brillamenti uniformi e di lunga durata degli Ent indicano un processo fisico distinto: il graduale accrescimento di una stella distrutta da parte di un buco nero supermassiccio.
«Gli Ent forniscono un nuovo prezioso strumento per studiare i buchi neri massicci nelle galassie distanti. Essendo così luminosi, possiamo vederli a vaste distanze cosmiche e, in astronomia, guardare lontano significa guardare indietro nel tempo. Osservando questi brillamenti prolungati, otteniamo informazioni sulla crescita dei buchi neri durante un’epoca chiave nota come mezzogiorno cosmico, quando l’universo aveva la metà della sua età attuale e le galassie erano in fase di evoluzione, formando stelle e alimentando i loro buchi neri supermassicci con una frequenza dieci volte maggiore rispetto a oggi», commenta Benjamin Shappee, coautore dello studio.
La rarità degli Ent – che si verificano con una frequenza almeno dieci milioni di volte inferiore rispetto alle supernove – rende la loro individuazione estremamente difficile, richiedendo un monitoraggio continuo e su larga scala del cielo. Tuttavia, futuri osservatori come il Vera C. Rubin Observatory e il Nancy Grace Roman Space Telescope della Nasa promettono di scoprire molti altri di questi eventi spettacolari, aprendo nuove prospettive sulla comprensione dell’attività dei buchi neri nell’universo primordiale.
Guarda l’animazione di un Ent sul canale Vimeo del W. M. Keck Observatory:
player.vimeo.com/video/1090552…
Per saperne di più:
- Leggi su Science Andvaces l’articolo “The most energetic transients: Tidal disruptions of high-mass stars” di Jason T. Hinkle, Benjamin J. Shappee, Katie Auchettl, Christopher S. Kochanek, Jack M. M. Neustadt, Abigail Polin, Jay Strader, Thomas W-S. Holoien, Mark E. Huber, Michael A. Tucker, Christopher Ashall, Thomas de Jaeger, Dhvanil D. Desai, Aaron Do, Willem B. Hoogendam, Anna V. Payne
Sagittarius A* corre al massimo, parola di IA
Rappresentazione artistica di una rete neurale che collega le osservazioni (a sinistra) ai modelli (a destra). Crediti: Eht Collaboration/Janssen et al.
Nel 2019 la collaborazione Event Horizon Telescope (Eht) ha mostrato al mondo la prima immagine di un buco nero, quello al centro della galassia M87 – una vera pietra miliare nella storia dell’astrofisica. Nel 2022 è arrivata anche l’immagine del buco nero nel cuore della nostra Via Lattea, Sagittarius A*, che ha segnato un secondo traguardo storico. Ma quelle immagini erano solo la punta dell’iceberg, poiché i dati raccolti contenevano molte altre informazioni, complesse e difficili da interpretare. Oggi, un team internazionale di ricercatori ha utilizzato una rete neurale per analizzare i dati in profondità ed estrarne tutto ciò che non era ancora stato rivelato.
Una rete neurale artificiale è un sistema di intelligenza artificiale (Ia) che elabora informazioni e impara a riconoscere schemi, fare previsioni e a prendere decisioni. Ad esempio, se a una rete neurale mostriamo migliaia di immagini di gatti e cani dicendole cosa rappresentano, col tempo imparerà a riconoscere da sola se un’immagine “nuova” sta mostrando un gatto o un cane.
Nel caso specifico di questo studio, il team guidato da Michael Janssen della Radboud University, nei Paesi Bassi, ha utilizzato milioni di simulazioni di buchi neri e le ha inserite in una rete neurale bayesiana (Bnn): una rete che, oltre a “imparare dai dati” come una rete neurale classica, integra nelle proprie previsioni la probabilità e l’incertezza. Questa caratteristica è particolarmente rilevante in ambito scientifico, quando i dati sperimentali possono risultare rumorosi, parziali o affetti da variabili non osservabili.
Nei precedenti studi condotti dall’Eht, gli scienziati potevano contare solo su un numero limitato di simulazioni per confrontare i dati reali con i modelli teorici. Questo nuovo approccio ha, invece, reso possibile un confronto molto più preciso tra le osservazioni dell’Eht e le ipotesi teoriche. I risultati, riportati in tre articoli pubblicati venerdì scorso su Astronomy & Astrophysics, sembrano parlar chiaro: secondo i ricercatori, il buco nero al centro della Via Lattea ruota a una velocità vicinissima al limite teorico massimo. C’è di più: il suo asse sarebbe puntato verso la Terra. E non è tutto: l’energia emessa nelle sue vicinanze non sembrerebbe provenire da un getto, come ipotizzato in passato, ma piuttosto da elettroni estremamente caldi nel disco di gas che gli ruota intorno. Infine, è emerso che i campi magnetici in quella regione si comportano in modo diverso da quanto previsto dalle teorie attuali, aprendo nuove domande su come funzionino davvero questi ambienti così estremi.
«Stiamo mettendo in discussione la teoria più conosciuta e questo è ovviamente entusiasmante», dice Michael Janssen della Radboud University, primo autore dei tre articoli. «Tuttavia, considero il nostro approccio, basato sull’intelligenza artificiale e sull’apprendimento automatico, come un primo passo. In futuro, miglioreremo ed estenderemo i modelli e le simulazioni a essi associati».
Un successo non solo per la teoria ma anche, come sottolineano gli autori, per la complessa infrastruttura tecnologica utilizzata. L’addestramento della rete neurale e la possibilità di estendere l’analisi a milioni di simulazioni rappresenta infatti un risultato straordinario, reso possibile solo grazie a un sistema di elaborazione dati altamente complesso, enormi capacità di calcolo, supercomputer e software avanzati che operano in sinergia.
Lo studio non si ferma qui. Il team ha applicato lo stesso metodo anche al buco nero di M87, il primo mai fotografato. Anche in questo caso, il buco nero ruota velocemente, ma meno di Sagittarius A*. In più, la rotazione sembra muoversi nella direzione opposta rispetto al gas che lo circonda. Un comportamento anomalo che gli astronomi attribuiscono a una possibile fusione galattica avvenuta nel passato.
I ricercatori sono certi che questa nuova fase della ricerca, potenziata dall’intelligenza artificiale, rappresenti un passo importante verso una comprensione più approfondita delle leggi fondamentali che regolano l’universo.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics gli articoli “Deep learning inference with the Event Horizon Telescope“, “Deep learning inference with the Event Horizon Telescope II” e “Deep learning inference with the Event Horizon Telescope III” di Michael Janssen et al.
Fra le nubi marziane spunta la cima d’un vulcano
Quello che s’intravede emergere al di sopra di una fitta coltre di nubi nella fotografia riportata qui sotto è un antico vulcano marziano alto ben 20 km, uno fra i più grandi del Pianeta rosso: Arsia Mons. A immortalarlo, all’alba marziana dello scorso 2 maggio, è stato l’orbiter Mars Odyssey della Nasa. Lanciato nel 2001, è il più longevo satellite tutt’oggi attivo in orbita attorno a Marte – anzi, il più longevo fra quelli in orbita attorno a qualunque pianeta che non sia la Terra.
Arsia Mons, un antico vulcano marziano, è stato fotografato prima dell’alba del 2 maggio 2025 dall’orbiter Mars Odyssey 2001 della Nasa mentre la sonda studiava l’atmosfera del Pianeta Rosso, che qui appare come una foschia verdastra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu
Si tratta di una delle quattro immagini ad alta quota dell’orizzonte marziano prodotte da Mars Odyssey. Per ottenerle, la sonda è stata fatta ruotare di 90 gradi mentre orbitava attorno al Pianeta rosso, così che la fotocamera di bordo Themis (Thermal Emission Imaging System), costruita per studiare la superficie marziana, potesse invece immortalarne l’atmosfera, consentendo agli scienziati di osservare gli strati di polvere e ghiaccio d’acqua delle nubi. La sequenza di quattro immagini, distribuite nel tempo a partire dal 2023, ha inoltre permesso di cogliere i cambiamenti dovuti all’alternarsi delle stagioni, la cui durata è circa il doppio delle nostre, considerando che l’anno marziano è lungo circa 687 giorni terrestri.
«Stiamo osservando alcune differenze stagionali davvero significative in queste immagini dell’orizzonte», nota il planetologo Michael D. Smith del Goddard Space Flight Center della Nasa. «E questo ci offre nuovi indizi su come l’atmosfera di Marte si evolve nel tempo».
Pur avendo come obiettivo primario lo studio dell’atmosfera – in particolare delle nubi, cruciali per comprendere il clima del Pianeta rosso e l’origine di fenomeni come le tempeste di polvere, il cui impatto può essere decisivo per l’esito delle missioni dirette al suolo del pianeta – il team di Mars Odyssey non si è lasciato sfuggire l’occasione di cogliere tratti caratteristici, quali appunto la cima di Arsia Mons.
«Abbiamo scelto Arsia Mons sperando di vederne la cima spuntare sopra le nuvole di primo mattino. E non ci ha deluso», dice infatti Jonathon Hill dell’Arizona State University a Tempe, responsabile delle operazioni della fotocamera Themis.
Arsia Mons è il più meridionale dei tre vulcani che compongono i Tharsis Montes, mostrati al centro di questa mappa topografica di Marte ritagliata. L’Olympus Mons, il più grande vulcano del sistema solare, è visibile in alto a sinistra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Insieme ad altri due vulcani – Ascraeus Mons e Pavonis Mons – Arsia Mons forma il complesso dei cosiddetti monti di Tharsis, che vediamo disposti lungo a diagonale da sud ovest a nord est al centro dell’immagine qui sopra. Soprattutto nelle prime ore del mattino, le loro tre cime sono spesso circondate da nubi di ghiaccio d’acqua – nubi che si formano quando il vento che soffia sui fianchi della montagna fa sì che l’aria si espanda, raffreddandosi rapidamente. Nei pressi dell’afelio, quando Marte è più lontano dal Sole, le nubi diventano molto spesse, dando vita a quella che gli scienziati chiamano cintura di nubi dell’afelio.
Nell’Ottante c’è un supergioviano controcorrente
Ci sono stelle che trascorrono tutta la loro esistenza da sole. E poi ci sono le altre, la maggior parte: stelle che vivono in compagnia, formando sistemi stellari binari. Il sistema binario nu Octantis è uno di questi. Situato nell’omonima costellazione dell’Ottante, a circa 70 anni luce dalla Terra, il sistema è composto da una stella primaria, nu Oct A, con una massa pari a circa 1,6 volte quella del Sole, e da una stella secondaria, nu Oct B, con una massa pari a circa la metà di quella del Sole. Le due stelle orbitano l’una attorno all’altra con un periodo di 1.050 giorni.
Nel 2009, sulla base dei dati della velocità radiale – una misura della velocità con cui un oggetto celeste si muove lungo la linea di vista dell’osservatore – ottenuti nell’arco di 12 anni (circa quattro periodi orbitali), un team di ricercatori guidato da David Ramm, dell’Università di Canterbury, in Nuova Zelanda, ha rilevato perturbazioni periodiche nel sistema, suggerendo la possibile presenza di un corpo planetario in un’orbita stretta attorno alla coppia di stelle. Tuttavia, i modelli teorici di formazione planetaria per simili sistemi e l’assenza di precedenti osservativi avevano sollevato dubbi sull’effettiva esistenza del pianeta.
Illustrazione artistica del sistema planetario nu Octantis. Crediti: Università di Hong Kong
Ora un gruppo di scienziati guidati dall’Università di Hong Kong, con la partecipazione dello stesso David Ramm, ha condotto nuove misurazioni ad alta precisione delle velocità radiali del sistema, confermandone la presenza.
Oct Ab – questo il nome del pianeta – è un gigante gassoso con una massa circa il doppio di quella di Giove: un supergioviano, come gli astronomi chiamano i pianeti più massicci del nostro gigante gassoso. Il pianeta segue un’orbita coplanare al sistema, con un semiasse maggiore di 1,2 unità astronomiche e un’eccentricità di 0.2. A differenza dei pianeti circumbinari, o “tipo P”, che orbitano attorno a entrambe le stelle del sistema, Oct Ab ruota attorno alla sola stella primaria, completando un’orbita in circa 400 giorni. Pianeti di “tipo S”, o circumprimari, è così che li chiamano gli astronomi. Inoltre, lo fa con un moto retrogrado, cioè opposto a quello della stella: un comportamento molto insolito nei sistemi stellari binari.
L’avanzamento di grado di Oct Ab da candidato pianeta a pianeta confermato è stato reso possibile grazie nuove misurazioni ad alta precisione della velocità radiale del sistema, condotte dai ricercatori tra marzo 2018 e settembre 2019 con lo strumento Harps (High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher) montato sul telescopio da 3,6 metri di diametro sull’Osservatorio Eso di La Silla, in Cile. Utilizzando 213 misurazioni ad alta precisione della velocità radiale del sistema effettuate con lo spettrografo, e combinando questi dati con 1.437 misurate d’archivio ottenute con lo spettrografo Hercules sul telescopio McLellan da 1,0 m presso l’Università di Canterbury, il team ha confermato l’esistenza del segnale planetario.
«Abbiamo effettuato un’analisi dei nuovi dati e di quelli d’archivio sulla velocità radiale, raccolti nell’arco di 18 anni, e abbiamo ottenuto risultati che indicano come l’orbita del pianeta debba essere retrograda e quasi complanare a quella del sistema binario», osserva Ho Wan Cheng, ricercatore all’Università di Hong Kong e primo autore della pubblicazione
Nello studio, i cui risultati sono pubblicati su Nature, gli autori hanno anche indagato la natura della stella secondaria Oct B: la sua massa, come anticipato pari alla metà di quella del Sole, sarebbe compatibile con due tipi di astri: una stella di sequenza principale o una nana bianca, ciò che resta di una stella simile il Sole dopo che ha perso i suoi strati esterni e ha smesso di bruciare carburante. Per ottenere la carta d’identità della stella, i ricercatori hanno osservato il sistema con lo strumento di imaging Sphere, installato sul Very Large Telescope dell’Eso, scoprendo che la stella è in realtà una nana bianca. Questa rivelazione ha implicazioni rilevanti: secondo i ricercatori, infatti, l’architettura attuale del sistema planetario non può essere la stessa di quella originale, e ciò a causa dell’evoluzione di Oct B da stella di sequenza principale a nana bianca.
Per valutare quale fosse l’assetto primordiale del sistema, gli scienziati hanno esplorato tutte le possibili configurazioni orbitali, modellandone l’evoluzione tramite simulazioni. Le indagini hanno confermato quanto ipotizzato: quando si è formato, il sistema era molto diverso. Le simulazioni suggeriscono che il sistema era composto solo dalle dUe stelle. Oct Ab non poteva esserci, non potendo essersi formato contemporaneamente alle stelle. Il motivo è che, nella configurazione primordiale, le due stelle avrebbero avuto una distanza minima – periastro – di circa 1,3 unità astronomiche, coincidente con l’attuale semiasse maggiore dell’orbita planetaria (pari a 1,24 unità astronomiche). Ciò, spiegano i ricercatori, rende difficilmente plausibili gli scenari in cui l’orbita planetaria circumprimaria si sia formata contemporaneamente al sistema.
«Abbiamo scoperto che il sistema ha circa 2,9 miliardi di anni, che nu Oct B aveva inizialmente una massa di circa 2,4 volte quella del Sole e che si è evoluta in una nana bianca circa 2 miliardi di anni fa», dice Cheng. «La nostra analisi, inoltre, ha dimostrato che il pianeta non poteva essersi formato attorno a nu Oct A contemporaneamente alle stelle».
Come si è formato, allora, il pianeta? Gli scienziati avanzano due ipotesi. Una possibilità è che Oct Ab sia un pianeta di seconda generazione. Secondo questa ipotesi, il pianeta si sarebbe formato nel periodo in cui nu Oct B stava evolvendo in nana bianca, mentre l’orbita del sistema binario cambiava progressivamente fino a raggiungere, intorno ai 900 milioni di anni, la configurazione attuale con un periastro di 2,6 unità astronomiche. Il meccanismo di formazione proposto è il seguente: quando nu Oct B ha perso oltre una massa solare di materiale per diventare una nana bianca, circa 0,2 masse sarebbero state accresciute, nell’arco di 2 milioni di anni, da nu Oct A. Tale materia avrebbe formato attorno alla stella un disco di materia simile a un disco protoplanetario, dal quale si sarebbe originato il pianeta.
L’altra ipotesi è che il pianeta fosse inizialmente in un’orbita circumbinaria prograda e sia passato a un’orbita retrograda attorno a nu Oct A a seguito di un fenomeno di scattering planetario innescato dall’evoluzione del sistema binario. «Quando nu Oct B è evoluta in una nana bianca circa 2 miliardi di anni fa, il pianeta potrebbe essersi formato in un disco retrogrado di materiale attorno a nu Oct A, accumulato dalla massa espulsa da nu Oct B», sottolinea il ricercatore dell’Università di Hong Kong Man Hoi lee, co-autore dello studio. «In alternativa», continua lo scienziato, «Oct Ab potrebbe essere stato catturato da un’orbita prograda attorno al sistema binario in un’orbita retrograda attorno a nu Oct A».
Mentre gli astronomi continuano a cercare pianeti in ambienti diversi, questo studio evidenzia che i pianeti in sistemi binari stretti con componenti stellari evolute possano offrire indizi unici sulla formazione e l’evoluzione dei pianeti.
«Potremmo essere testimoni del primo caso convincente di pianeta di seconda generazione», conclude Trifon Trifonov, ricercatore al Centro di astronomia dell’Università di Heidelberg, in Germania, co-autore dell’articolo. «Si tratterebbe di un pianeta catturato o formatosi da materiale espulso dalla sua stella nu Oct B, in seguito alla perdita di oltre il 75 per cento della sua massa primordiale per diventare una nana bianca».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “A retrograde planet in a tight binary star system with a white dwarf” di Ho Wan Cheng, Trifon Trifonov, Man Hoi Lee, Faustine Cantalloube, Sabine Reffert, David Ramm e Andreas Quirrenbach
L’Himalaya cosmico dei quasar da record
Schierati come gli undici giocatori di una squadra di calcio. A presiedere il confine tra due ammassi di galassie. Stanno facendo parlare di sé per due ragioni: non ci si aspettava di trovarne così numerosi, in un’area larga “solo” quaranta milioni di anni luce, e poi perché non ci si aspettava di trovarli lì, al bordo fra due strutture di galassie in evoluzione. Sono gli undici quasar scoperti da un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Yongming Liang dell’Università di Tokyo e del National Astronomical Observatory of Japan. La scoperta più che raddoppia il record precedente, che era di cinque quasar in una stessa struttura, ed è stata pubblicata su The Astrophysical Journal questa settimana.
L’Himalaya cosmico (colonna arancione) spicca in questo istogramma che confronta il numero di quasar rivelati nella sovradensità con quello degli oggetti in altre regioni (punti neri). Crediti: Sdss, Liang et al.
La sorprendente formazione di quasar è stata scoperta grazie ai dati della Sloan Digital Sky Survey (Sdss), una delle più grandi campagne osservative mai realizzate, che ha mappato circa un terzo del cielo notturno. Sovradensità – o overdensity, in inglese – viene detta un’associazione di oggetti che non sono distribuiti a caso nel cielo ma fanno parte di una stessa struttura, più densamente popolata di quanto accada in media nell’universo circostante. Questa sovradensità svetta in modo particolare, rispetto alle altre regioni del cielo, come si vede nel grafico qui accanto. Per questo i ricercatori l’hanno ribattezzata col roboante nome di Himalaya cosmico (“Cosmic Himalayas”, in inglese). O per lo meno, questo è uno dei motivi.
Il secondo motivo lo hanno fornito agli astronomi i dati dell’Hyper Suprime-Cam, camera montata sul telescopio da 8.2 metri Subaru, situato alle Hawaii. Curiosi di approfondirne la natura, i ricercatori hanno scandagliato un’area di cielo che si estende per centocinquanta milioni di anni luce attorno a questi quasar. Scoprendo centinaia di giovani, flebili galassie, aggregate in due ammassi in piena crescita. Il fatto anomalo è che la sovradensità dei quasar non coincide spazialmente con nessuno dei due ammassi di galassie. Bensì, gli undici oggetti sono situati al confine fra queste due gigantesche strutture in evoluzione, un po’ come una catena di montagne, elemento di separazione tra regioni distinte. Da qui la seconda ragione per l’epico nome di Himalaya cosmico.
L’Himalaya cosmico in un’immagine del telescopio Subaru (immagine di sfondo). Gli undici quasar sono visibili nei quadrati. La regione rossa e quelle blu indicano rispettivamente la sovradensità dei quasar e le due sovradensità di galassie. Crediti: Subaru Telescope, Sdss, Liang et al.
Hanno partecipato alla scoperta Sebastiano Cantalupo e Andrea Travascio dell’Università di Milano Bicocca. «Questa regione di universo corrisponde alla più grande concentrazione di quasar osservati dalla survey Sdss, sorprendentemente, però le nostre osservazioni con il telescopio Subaru non hanno mostrato in questa regione una corrispondente concentrazione di galassie che emettono nell’ottico. Anzi, le osservazioni attuali sembrano suggerire che i quasar si trovino al bordo di due concentrazioni di galassie. Non esattamente il posto dove ci saremmo aspettati di trovarli», dice Cantalupo a Media Inaf. E aggiunge: «Non abbiamo ancora una chiara spiegazione per questo. Una possibilità è che nella regione dei quasar ci siano delle galassie oscurate da polveri o più difficili da individuare nell’ottico. Stiamo conducendo osservazioni addizionali a diverse lunghezze d’onda per cercare di fare luce su questa questione.»
I quasar sono fra gli inquilini più vivaci dell’universo. Alimentati da copiose quantità di gas in caduta su di un buco nero supermassiccio, producono talmente tanta luce da eclissare le galassie che li ospitano. Sono degli animali da palcoscenico, insomma. Si ritiene che le interazioni fra galassie favoriscano l’approvvigionamento di materiale da parte dei buchi neri situati nelle loro regioni nucleari. In quelle grandi concentrazioni di oggetti che sono gli ammassi di galassie, le interazioni sono più frequenti e dunque ci si aspetta che i buchi neri supermassicci si accendano come quasar più facilmente che altrove. Ecco perché la posizione dell’Himalaya cosmico ha lasciato i ricercatori sbalorditi. Alla luce delle teorie attuali, gli scienziati si sarebbero aspettati di trovarlo piazzato al centro di uno dei due ammassi, piuttosto che in questa regione di confine. Questa scoperta costringe gli scienziati a riconsiderare gli ambienti in cui i buchi neri supermassicci si evolvono.
In questa immagine le “X” in giallo indicano la posizione degli undici quasar, al confine tra i due ammassi di galassie. La scala di colore rappresenta la densità di idrogeno, più alta nelle regioni rosse (gas neutro) e più bassa in quelle blu (gas ionizzato). I contorni neri indicano la densità di galassie, mentre le aree grigie sono state mascherate a causa della scarsa copertura o per la presenza di stelle nelle vicinanze. L’immagine in basso mostra invece la catena montuosa dell’Himalaya, che ha ispirato il nome della struttura appena scoperta. Crediti: Subaru Telescope/Sdss, Liang et al.; Google, Image Landsat/Copernicus
«Abbiamo scoperto che questi quasar si raccolgono ai margini di una zona in cui le condizioni cambiano», afferma Liang. «Questo potrebbe indicare che la loro potente radiazione sta attivamente rimodellando il gas circostante, mentre, allo stesso tempo, i quasar potrebbero tracciare regioni in cui strutture massicce come gli ammassi di galassie sono ancora in fase di assemblaggio. Ecco perché l’abbiamo chiamata Himalaya Cosmico: si staglia come una catena montuosa che separa strutture distinte nell’universo primordiale.»
I ricercatori hanno studiato anche la distribuzione dell’idrogeno nel mezzo intergalattico, ovvero il gas diffuso tra una galassia e l’altra. Scoprendo che la zona in cui risiedono i quasar coincide con la regione di transizione dall’idrogeno neutro a quello ionizzato. «Trovare una tale concentrazione di buchi neri attivi – e scoprire che la distribuzione delle galassie e dei gas circostanti si discosta dalla nostra immagine convenzionale dell’universo – è davvero sorprendente», afferma il professor Masami Ouchi, membro del team. «Potrebbe essere che abbiamo semplicemente trovato un posto unico e speciale nel cosmo. Ma potrebbe anche indicare qualcosa di più profondo: forse stiamo assistendo a un raro momento nella storia cosmica in cui molti buchi neri diventano attivi tutti insieme. Studi futuri saranno essenziali per svelare la vera natura di questa scoperta.»
Un ambiente in effervescente evoluzione, dunque, quello rivelato dall’Himalaya cosmico, in cui due grandi strutture stanno crescendo lungo un filamento, ovvero una struttura allungata su grande scala, e galassie, buchi neri supermassicci e gas intergalattico si stanno evolvendo in maniera simultanea.
L’Himalaya Cosmico lo si può ammirare a 10,8 miliardi di anni luce dalla Terra, guardando verso la costellazione della Balena. Per il futuro i ricercatori vogliono approfondirne la natura con il Prime Focus Spectrograph, spettrografo sempre del telescopio Subaru, che aiuterà a comprendere meglio come certe strutture si evolvano fino ad assumere la conformazione che osserviamo nell’universo di oggi.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Cosmic Himalayas: The Highest Quasar Density Peak Identified in a 10,000 deg2 Sky with Spatial Discrepancies between Galaxies, Quasars, and IGM HI” di Yongming Liang, Masami Ouchi, Dongsheng Sun, Nobunari Kashikawa, Zheng Cai, Sebastiano Cantalupo, Kentaro Nagamine, Hidenobu Yajima, Takanobu Kirihara, Haibin Zhang, Mingyu Li, Rhythm Shimakawa, Xiaohui Fan, Kei Ito, Masayuki Tanaka, Yuichi Harikane, J. Xavier Prochaska, Andrea Travascio, Weichen Wang, Martin Elvis, Giuseppina Fabbiano, Junya Arita, Masafusa Onoue, John D. Silverman, Dong Dong Shi, Fangxia An, Takuma Izumi, Kazuhiro Shimasaku, Hisakazu Uchiyama e Chenghao Zhu
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Così Bologna celebra l’Anno cassiniano
Logo ideato per le celebrazioni dell’Anno Cassiniano.
Nel 2025, in occasione del quarto centenario della nascita di Giovanni Domenico Cassini – avvenuta l’8 giugno 1625 a Perinaldo, in provincia di Imperia, in Liguria – la città di Bologna commemora l’astronomo più celebre della sua epoca. L’eco dei suoi studi superò i confini nazionali, tanto che Luigi XIV, il Re Sole, lo volle al suo fianco a partire dal 1669 per la fondazione dell’Observatoire de Paris, il primo osservatorio astronomico moderno.
Per celebrare questa figura storica, le principali istituzioni culturali e di ricerca italiane legate a Cassini – l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf, con le sedi di Bologna e Roma), l’Università di Bologna (Dipartimento di fisica e astronomia, Difa) e l’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna – in collaborazione con le istituzioni locali, in particolare il Comune di Perinaldo, hanno promosso presso il Ministero della cultura l’istituzione del Comitato nazionale per le celebrazioni del IV centenario della nascita di G.D. Cassini.
Domenica 8 giugno, alle ore 17, presso l’Oratorio di San Filippo Neri (Via Manzoni 5, Bologna), si terrà la conferenza pubblica “Cassini, da 400 anni… un astronomo pop”. Nel giorno esatto della nascita di Giovanni Domenico Cassini, due noti astronomi e divulgatori scientifici, Patrizia Caraveo e Amedeo Balbi, racconteranno le principali scoperte dell’astronomo ligure e ne ripercorreranno l’eredità scientifica, con particolare attenzione all’esplorazione del Sistema solare e alle moderne missioni spaziali. L’ingresso è libero.
Domenica 8 giugno, alle ore 17, presso l’Oratorio di San Filippo Neri (Via Manzoni 5, Bologna), si terrà la conferenza pubblica “Cassini, da 400 anni… un astronomo pop”. Patrizia Caraveo e Amedeo Balbi racconteranno le principali scoperte dell’astronomo ligure e ne ripercorreranno l’eredità scientifica, con particolare attenzione all’esplorazione del Sistema solare e alle moderne missioni spaziali. L’ingresso è libero
Dal 18 al 20 giugno 2025, presso la Sala Ulisse dell’Accademia delle scienze (Via Zamboni 31, Bologna), si svolgerà il congresso storico-scientifico “Giovanni Domenico Cassini, astronomo europeo del Seicento nel quarto centenario della nascita”. L’incontro sarà un’occasione di confronto e approfondimento tra studiosi, dedicato a un periodo storico segnato da una rapida accelerazione del progresso scientifico e astronomico. L’emergere di nuove idee, strumenti innovativi, nuovi metodi e l’apertura allo scambio di informazioni e alla collaborazione tra gli scienziati, anche oltre i confini nazionali, favorì la conquista di importanti scoperte sul Sistema solare – l’universo conosciuto all’epoca – in tempi sorprendentemente rapidi. Il congresso intende restituire la complessità e il fermento culturale di quel contesto, in cui Cassini fu protagonista di primo piano.
A corollario del Congresso, sarà proposto un programma di eventi rivolti a studenti e cittadinanza, che culminerà sabato 21 giugno, giorno del solstizio d’estate, con una giornata dedicata all’osservazione del Sole nel cuore di Bologna. Esattamente 370 anni dopo la storica osservazione del transito solare condotta da Giovanni Domenico Cassini presso la meridiana di San Petronio – alla quale invitò “li professori di Matematica e Filosofia e gli altri curiosi” – la città ne rievoca lo spirito con un’iniziativa pubblica. Dalle 10:30 alle 14:30, in Piazza Nettuno, il pubblico potrà osservare il Sole attraverso telescopi solari, affiancato da astronomi di Inaf e Difa ed esperti dell’Associazione astrofili Bolognesi (Aab), che guideranno le osservazioni e illustreranno le caratteristiche della nostra stella. L’evento è a ingresso libero. In caso di pioggia o maltempo, l’iniziativa sarà annullata.
Particolare della meridiana di Cassini, a Bologna. Crediti: F. Bonoli
Sempre in occasione del solstizio d’estate, sabato 21 giugno 2025, dalle 12:30 alle 13:30, sarà possibile assistere all’osservazione del passaggio del Sole sulla linea meridiana di San Petronio, la più lunga del mondo, costruita proprio da Giovanni Domenico Cassini, trasmessa in diretta sul canale YouTube MediaInaf Tv. La stessa osservazione sarà effettuata anche presso la meridiana della Visitazione di Perinaldo, città natale dell’astronomo. Il confronto tra i due eventi, reso possibile dalla misurazione dell’intervallo di tempo tra i passaggi del Sole sulle due meridiane, offrirà al pubblico una dimostrazione diretta della differenza di longitudine tra Bologna e Perinaldo. Durante l’iniziativa, astronomi ed esperti illustreranno al pubblico il funzionamento e il valore scientifico della meridiana. L’ingresso libero.
Nel pomeriggio di sabato 21 giugno, dalle 15:00 alle 18:00, il programma proseguirà presso Sala Borsa con un ricco calendario di attività dedicate al pubblico. Sarà possibile assistere a uno spettacolare viaggio nel cielo all’interno del planetario gonfiabile allestito per l’occasione: un’esperienza immersiva pensata per tutte le età (posti limitati a 35 persone per turno ogni 45 minuti). L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria. In parallelo, sempre in Sala Borsa, si terrà un laboratorio creativo per bambine e bambini, che potranno costruire un vero orologio solare da portare a casa. Il laboratorio prevede tre turni da 20 partecipanti ciascuno, con prenotazione obbligatoria.
Illustrazione rappresentativa del planetario in sala borsa. Crediti: Notte dei Ricercatori/Society
Anche oltre i confini cittadini, a Loiano, sede della Stazione osservativa dell’Inaf Oas, il cui telescopio maggiore è dedicato a “G.D. Cassini”, è previsto un ricco calendario di appuntamenti dedicati al pubblico nei mesi di giugno e luglio. Maggiori informazioni e prenotazioni nel sito web dedicato.
Tutte le iniziative previste per l’Anno cassiniano 2025 a Bologna sono promosse dal Comitato nazionale per le celebrazioni del IV centenario della nascita di G.D. Cassini. Il progetto è reso possibile grazie al contributo del Ministero della cultura, dell’Istituto nazionale di astrofisica e dell’Università di Bologna, e gode del patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Bologna, del Comune di Loiano, dell’Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna e della Basilica di San Petronio.
Per saperne di più:
- Ascolta la puntata di Radio3 Scienza dedicata all’evento
- Visita la pagina web dell’Anno cassiniano
- Visita la pagina del congresso “Giovanni Domenico Cassini, 17th century European astronomer on the fourth centenary of his birth”
- Visita la pagina web di Inaf Oas dedicata agli eventi
Premi Sait 2025, ecco i vincitori
Il 66esimo congresso della Sait si è svolto in questi giorni a Palazzo Affari a Firenze. Crediti: C.Badia/Inaf
Il congresso nazionale della Società astronomica italiana (Sait) si è concluso oggi con la premiazione delle migliori tesi di dottorato e dei lavori di ricerca che si sono distinti per la qualità scientifica e il loro impatto nel campo dell’astrofisica.
Durante la 66esima edizione del convegno, che si è svolta dal 3 al 6 giugno 2025 a Firenze, sono stati consegnati il premio “Pietro Tacchini”, alla miglior tesi di dottorato in astronomia e astrofisica, e il premio “Giuseppe Lorenzoni” per il miglior articolo di carattere scientifico pubblicato nell’ultimo triennio da giovani ricercatori e ricercatrici.
A vincere il premio di duemila euro intitolato a Pietro Tacchini, astronomo che negli anni dell’Unità d’Italia fondò assieme a Padre Angelo Secchi la Sait – al tempo chiamata Società degli spettroscopisti italiani – è stato Massimiliano Parente, ricercatore presso la Sissa di Trieste. Il suo lavoro per la tesi di dottorato Dust in hydrodynamical and semi-analytic galaxy evolution simulation spiega come la polvere interstellare influisce sulla formazione e sull’evoluzione delle galassie, un aspetto fondamentale per la comprensione della fisica galattica. La commissione del premio ha apprezzato non solo la solidità metodologica della ricerca, ma anche l’originale idea di incorporare modelli di polvere nelle simulazioni idrodinamiche consentendo di ottenere nuove intuizioni sulla dinamica delle galassie.
Menzione speciale per Federico Esposito dell’Università di Bologna: la sua tesi di dottorato dal titolo Impact of active galactic nuclei on the molecular gas: a radiative and kinematic perspective fornisce un’importante contributo nell’elaborazione di modelli teorici sull’emissione di righe da parte degli nuclei galattici attivi (Agn), con particolare attenzione alle interazioni tra i campi gravitazionali e i gas molecolari nei nuclei galattici.
È di Andrea Botteon, ricercatore all’Osservatorio di Leiden nei Paesi Bassi e all’Istituto di radioastronomia Inaf a Bologna, il miglior articolo scientifico di carattere astrofisico pubblicato nell’ultimo triennio. La pubblicazione è stata insignita del premio dedicato alla figura di Giuseppe Lorenzoni, quarto direttore della Specola di Padova e primo astronomo padovano a compiere ricerche astrofisiche. ll lavoro dal titolo “Magnetic fields and relativistic electrons fill entire galaxy cluster”, è stato pubblicato su Science Advances nel 2022 e ha riguardato l’analisi dei campi magnetici e delle particelle relativistiche all’interno degli ammassi di galassie, con particolare focus sull’ammasso di galassie Abell 2255. Botteon ha fornito, per la prima volta, prove dell’emissione di sincrotrone su enormi distanze, oltre 16 milioni di anni luce (cinque megaparsec). Grazie alle osservazioni a bassa frequenza, il lavoro confermerebbe che i fenomeni di shock e turbolenza nelle zone esterne degli ammassi trasferiscono energia alle particelle relativistiche – particelle che si muovono a velocità vicine a quella della luce – alimentando la formazione di campi magnetici. I risultati potrebbero avere un forte impatto nel campo della fisica degli ammassi di galassie, offrendo nuove informazioni sulla materia non termica al loro interno, materia che non è semplicemente riscaldata ma che viene accelerata a velocità estreme.
Andrea Botteon (sx) e Massimiliano Parente (dx), vincitori rispettivamente del premio “Giuseppe Lorenzoni” e del premio “Pietro Tacchini” assegnati dalla Sait. Crediti: Inaf
In aggiunta, la commissione del premio “Giuseppe Lorenzoni” ha voluto segnalare il lavoro di Michele Fiori dell’Osservatorio astronomico di Padova per la sua ricerca “Modelling the gamma-ray pulsar wind nebulae population in our galaxy”. Pubblicato nel 2022 su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, lo studio di Fiori e di molti colleghi e colleghe dell’Inaf ha modellato la popolazione di plerioni – o pulsar wind nebula – nella nostra galassia, offrendo uno strumento utile per l’interpretazione dei dati gamma e delle alte energie provenienti dalle osservazioni future.
L’evento fiorentino – che ha visto la partecipazione di circa 120 tra soci, ricercatori, astronomi e docenti scolastici – ha rappresentato un’opportunità per fare il punto sullo stato della ricerca astronomica in Italia e per discutere delle sfide future. In particolare, sono stati presentati aggiornamenti su progetti di grande rilievo, come le missioni spaziali in corso e le nuove generazioni di telescopi, tra cui quelli in grado di osservare in nuove bande di frequenza come l’infrarosso e le alte energie.
«I congressi della Società astronomica italiana sono importanti per rafforzare la coesione della comunità scientifica e per sostenere, anche grazie a premi e riconoscimenti, giovani ricercatori e ricercatrici», ha sottolineato Patrizia Caraveo, nuova presidente della Sait. «La scienza non deve mai fermarsi, anche in un periodo di incertezze globali, e la ricerca astronomica deve continuare a fare importanti passi avanti grazie all’impegno di ricercatori e istituzioni. Per questo motivo, oltre a trattare argomenti della scienza di punta, durante queste giornate abbiamo voluto sottolineare l’importanza dell’insegnamento dell’astronomia nelle nostre scuole, senza dimenticare la valenza strategica della divulgazione scientifica».
Guarda su MediaInaf Tv l’intervista video alla nuova presidente della Sait, Patrizia Caraveo:
Webb scruta il passato con la lente di Abell
Abell S1063, un gigantesco ammasso di galassie situato a 4,5 miliardi di anni luce della Terra è il protagonista della nuova immagine del mese del telescopio spaziale James Webb di Nasa, Esa e Csa. Ma ciò che colpisce di più non è il centro dell’ammasso, bensì ciò che si trova sullo sfondo: un intricato insieme di archi luminosi che avvolge il gruppo centrale di galassie. Queste strisce distorte di luce sono in realtà immagini di galassie lontanissime e molto deboli, la cui luce, proveniente dagli albori dell’Universo, è stata amplificata e deformata dall’enorme massa di Abell. Ed è proprio su queste galassie primordiali che si concentra l’attenzione degli astronomi.
Un campo di galassie nello spazio, dominato da un’enorme e luminosa galassia ellittica che costituisce il nucleo di un massiccio ammasso galattico. Attorno a essa si vedono molte altre galassie ellittiche. Nelle vicinanze si notano anche brevi linee curve luminose di colore rosso, che sono immagini di galassie di sfondo lontanissime, ingrandite e distorte dalla lente gravitazionale. Crediti: Esa/Webb, Nasa/Csa, H. Atek, M. Zamani (Esa/Webb)
Abell S1063, già osservato in passato dal programma Frontier Fields del Telescopio Spaziale Hubble della Nasa/Esa, è un classico esempio di lente gravitazionale, un fenomeno previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein. L’ammasso è così massiccio che la sua gravità curva lo spaziotempo e devia la luce proveniente dalle galassie lontane situate dietro di esso. Il risultato è proprio la formazione degli archi luminosi che possiamo osservare nell’immagine. Seppur distorte, queste immagini appaiono ingrandite e luminose a sufficienza da poter essere studiate. L’obiettivo di Hubble era proprio questo: utilizzare l’ammasso Abell come una lente d’ingrandimento per esplorare l’Universo primordiale.
La nuova immagine è stata scelta da Esa Webb come immagine del mese di maggio. Ottenuta con la NirCam di Webb, combina nove scatti acquisiti a diverse lunghezze d’onda nel vicino infrarosso, per un totale di circa 120 ore di osservazione. Il risultato è un deep field, una delle immagini più profonde mai realizzate da Webb su una singola porzione di cielo. Concentrare una tale potenza osservativa su una lente gravitazionale massiccia come quella di Abell offre la possibilità di osservare alcune delle primissime galassie formatesi nell’universo primordiale.
Il programma osservativo che ha prodotto questa immagine si chiama Glimpse (Gravitational Lensing In Multi-band Photometry Surveys and Extragalactic studies), già presentato in un articolo dello scorso marzo, e ha come obiettivo quello di studiare ed esplorare il periodo noto come “alba cosmica”, quando l’universo aveva solo pochi milioni di anni.
La quiete dopo la tensione di Hubble
L’universo è in espansione, ma la velocità con cui sta avvenendo è al centro di un acceso dibattito, noto come tensione di Hubble. Questo nome deriva dalla celebre costante di Hubble, che sembra assumere valori diversi a seconda che venga calcolata a partire dalle misurazioni sull’universo primordiale oppure da osservazioni dell’universo locale. Se confermata, questa discrepanza metterebbe in discussione il modello standard della cosmologia, attualmente la teoria più solida a nostra disposizione per descrivere l’universo. Tuttavia, un nuovo studio guidato da Wendy Freedman, scienziata dell’Università di Chicago, non ha riscontrato anomalie. Utilizzando i dati del telescopio spaziale James Webb (Jwst), il team non ha rilevato discrepanze significative nei valori ottenuti.
Gli scienziati hanno calcolato in modo più preciso la velocità di espansione dell’universo, utilizzando i dati raccolti dal potente telescopio spaziale James Webb su diverse galassie. Qui sopra, l’immagine di Webb di una di queste galassie, nota come Ngc 1365. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Janice Lee (NoirLab), Alyssa Pagan (StScI)
Esistono due principali approcci per calcolare la velocità di espansione dell’universo. Il primo si basa sull’osservazione del fondo cosmico a microonde, la radiazione fossile del Big Bang, che offre agli astronomi preziose informazioni sulle condizioni dell’universo primordiale. Il secondo approccio, nel quale Freedman è specializzata, consiste invece nel misurare la velocità di espansione dell’universo attuale, ovvero dell’universo locale. Paradossalmente, quest’ultimo metodo è molto più complesso, perché richiede misurazioni estremamente precise delle distanze cosmiche – un compito tutt’altro che semplice.
Negli ultimi cinquant’anni circa, gli scienziati hanno ideato diversi metodi per misurare le distanze cosmiche relativamente vicine. Uno dei più noti si basa sull’osservazione delle supernove di tipo Ia, una tipologia di supernove originata dall’esplosione di una nana bianca. Poiché il picco di luminosità di queste esplosioni è ben conosciuto, confrontarlo con la loro luminosità apparente consente di calcolarne la distanza.
Freedman ha sviluppato altri due metodi, sfruttando le proprietà di due tipi di stelle: le stelle all’apice del ramo delle giganti rosse (Trgb, dall’inglese tip of the red giant branch) – stelle di bassa massa in una fase evolutiva molto avanzata, poco prima dell’accensione dell’elio nel loro nucleo – e le stelle al carbonio (Jagb, dall’inglese J-band asymptotic giant branch), una sottoclasse delle stelle del ramo asintotico delle giganti, particolarmente luminose nella banda J dell’infrarosso.
Nello studio appena pubblicato su The Astrophysical Journal, gli autori presentano gli ultimi risultati del programma Chicago-Carnegie Hubble Project (Cchp), volto alla misurazione della costante di Hubble utilizzando i dati di Jwst. Il programma ha l’obiettivo di calibrare tre metodi indipendenti per la determinazione della costante: quello basato sulle stelle Trgb, quello sulle Jagb e quello che impiega le Cefeidi.
Lo studio si basa su un campione di 10 galassie vicine che ospitano in totale 11 supernove di tipo Ia, oltre alla galassia Ngc 4258, la cui distanza geometrica fornisce una calibrazione di riferimento fondamentale. Nell’articolo vengono discussi i risultati ottenuti tramite i due metodi basati sulle stelle Trgb e Jagb, che portano a una stima della costante di Hubble pari a 70,39 ± 1,22 (stat) ± 1,33 (sist) ± 0,70 (σₛₙ) km s⁻¹ Mpc⁻¹. Questo valore si basa esclusivamente sul metodo Trgb, utilizzando un totale di 24 supernove di tipo Ia come calibratori, derivate dai dati del Telescopio Spaziale Hubble (Hst) e del Jwst.
Considerando invece solo i nuovi dati ottenuti con Jwst, gli autori trovano un valore di 68,81 ± 1,79 (stat) ± 1,32 (sist) km s⁻¹ Mpc⁻¹ per il metodo Trgb e 67,80 ± 2,17 (stat) ± 1,64 (sist) km s⁻¹ Mpc⁻¹ per il metodo Jagb.
Le distanze misurate con i metodi Trgb e Jagb risultano in accordo tra loro a un livello superiore all’uno per cento, e mostrano una concordanza con le distanze derivate dalle Cefeidi del programma SHoES (Supernovae, H₀, for the Equation of State) a un livello di poco superiore all’uno per cento.
Wendy Freedman. Crediti: University of Chicago
I risultati ottenuti sono coerenti con il modello cosmologico standard ΛCdm (Lambda Cold Dark Matter), che descrive un universo composto principalmente da materia oscura fredda ed energia oscura, senza richiedere l’introduzione di nuova fisica. Tuttavia, per affinare ulteriormente la precisione e l’accuratezza della scala delle distanze locali, saranno necessari nuovi dati osservativi di Jwst.
Prossimamente, Freedman e il suo team utilizzeranno Jwst per effettuare misurazioni nell’Ammasso della Chioma, un gruppo di galassie che potrà fornire ulteriori dati da una prospettiva indipendente. «Queste misurazioni ci permetteranno di determinare direttamente la costante di Hubble, senza il passaggio dell’osservazione delle supernove», spiega Freedman.
In sintesi, l’ultima stima della costante di Hubble ottenuta da Freedman, che integra i dati di Hst e Jwst, fornisce un valore di circa 70,4 chilometri al secondo per megaparsec, con un’incertezza di circa il 3 per cento. Questo valore risulta statisticamente compatibile con le più recenti misurazioni del fondo cosmico a microonde, che indicano un valore di 67,4 chilometri al secondo per megaparsec, con un’incertezza inferiore all’uno per cento.
Con una (apparente) buona pace per la costante della discordia.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Status Report on the Chicago-Carnegie Hubble Program (CCHP): Measurement of the Hubble Constant Using the Hubble and James Webb Space Telescopes” di Wendy L. Freedman, Barry F. Madore, Taylor J. Hoyt, In Sung Jang, Abigail J. Lee e Kayla A. Owens
S’apre l’occhio del Flyeye sul cielo di Matera
Galassia di Andromeda vista con Flyeye (cliccare per ingrandire). Flyeye è un telescopio di rilevamento progettato per scansionare rapidamente l’intero cielo notturno alla ricerca di nuovi oggetti vicini alla Terra. Questa immagine è stata acquisita utilizzando solo un sedicesimo dell’intero campo visivo di Flyeye. Per osservare l’intera galassia di Andromeda in questo modo con un telescopio astronomico come il telescopio spaziale Hubble sarebbe necessario mettere insieme molte centinaia di osservazioni individuali. Crediti: Esa
Ispirandosi all’occhio composto di un insetto, l’Agenzia spaziale europea (Esa) e Ohb Italia hanno progettato il telescopio Flyeye, in grado di catturare in una singola esposizione una regione del cielo grande oltre 200 volte la Luna piena – dunque molto più estesa di quanto riesca a osservare un telescopio convenzionale.
Flyeye utilizzerà questo ampio campo visivo per sorvegliare automaticamente il cielo ogni notte, senza necessità d’intervento umano, e identificare nuovi asteroidi che potrebbero rappresentare un pericolo per la Terra.
«In futuro, fino a quattro telescopi Flyeye distribuiti nei due emisferi lavoreranno in rete per migliorare ulteriormente la velocità e la completezza di queste rilevazioni automatiche del cielo e per ridurre la dipendenza dal bel tempo in ogni singolo sito», dice Ernesto Doelling, responsabile del progetto Flyeye dell’Esa.
«Prima riusciamo a individuare asteroidi potenzialmente pericolosi, più tempo abbiamo per analizzarli e, se necessario, preparare una risposta», sottolinea Richard Moissl, responsabile dell’Ufficio per la difesa planetaria dell’Esa. «I telescopi Flyeye dell’Esa rappresenteranno un sistema di allerta rapida, e le loro scoperte saranno condivise con la comunità globale della difesa planetaria».
Il Near-Earth Object Coordination Centre (Neocc) dell’Esa verificherà ogni potenziale nuovo asteroide rilevato dai telescopi Flyeye e sottoporrà i risultati al Minor Planet Center, l’hub terrestre per i dati osservativi sugli asteroidi. Gli astronomi, compresi gli esperti del Neocc, effettueranno quindi osservazioni di follow-up per valutare ulteriormente il pericolo che l’oggetto potrebbe rappresentare per il nostro pianeta.
Delegazione in visita al telescopio Flyeye presso la sua fabbrica di Matera, in Italia, il 4 giugno 2025, durante la campagna di test finale. Crediti: Esa
«L’esclusivo design ottico del telescopio Flyeye è ottimizzato per condurre ampie ricognizioni del cielo mantenendo un’elevata qualità dell’immagine su tutto il grande campo di vista», spiega Roberto Aceti, amministratore delegato di Ohb Italia. «Il telescopio è dotato di uno specchio primario di un metro capace di catturare efficacemente la luce in ingresso. Questa luce viene poi suddivisa in 16 canali separati, ciascuno dotato di una telecamera in grado di rilevare oggetti molto deboli. Ciò consente osservazioni simultanee ad alta sensibilità su un’ampia regione del cielo».
Durante le operazioni, il programma osservativo di Flyeye sarà ottimizzato per tenere conto di fattori quali la luminosità della Luna e l’attività di altri telescopi di rilevamento, come quelli del sistema Atlas, finanziato dalla Nasa, la Zwicky Transient Facility e il futuro osservatorio Vera Rubin.
Timelaspe con l’asteroide 2025 KQ ottenuto con il Flyeye durante la campagna di “prima luce”. Queste immagini sono state acquisite il 21 maggio, appena due giorni dopo la scoperta dell’asteroide. Dimostrano la capacità del telescopio Flyeye di condurre rapide osservazioni di follow-up di oggetti vicini alla Terra appena scoperti. Crediti: Esa
Queste immagini del cielo sopra Matera sono più di un semplice test: sono la prova che Flyeye è pronto per iniziare la sua missione. Il telescopio lascerà presto il Centro di geodesia spaziale dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) per essere trasportato a Monte Mufara, in Sicilia, dove si unirà all’impresa globale di sorveglianza dei cieli della Terra.
Fonte: press release Esa (in inglese)
Con Eris, anatomia d’un gigante della Lepre
Successore al Very Large Telescope (Vlt) degli strumenti Naco e Sinfoni, Eris non disattende le aspettative e non fa rimpiangere il passato. Dotato di uno spettrografo a campo integrale e di un modulo di ottica adattiva, lo strumento ha dato dimostrazione di poter migliorare le osservazioni in termini di contrasto, risoluzione e sensibilità. A dirlo è uno studio guidato dall’Eht di Zurigo, al quale ha partecipato anche l’Inaf, pubblicato questa settimana su Astronomy & Astrophysics. Gli autori hanno usato Eris (acronimo di Enhanced Resolution Imager and Spectrograph) per caratterizzare l’atmosfera e l’orbita di AF Lep b, un gigante gassoso che orbita attorno a una stella di tipo F a 87,5 anni luce dal Sistema solare, nella costellazione della Lepre. L’obiettivo principale dell’osservazione era proprio quello di dimostrare le potenzialità scientifiche dello strumento e testare i suoi limiti di rilevamento.
Rappresentazione artistica dell’esopianeta AF Leporis b. Crediti: Nasa
Installato e operativo dal 2022 al telescopio Vlt dell’Osservatorio dell’Eso a Paranal, in Cile, Eris è uno fra gli strumenti più avanzati per caratterizzare le proprietà orbitali e atmosferiche di pianeti cosiddetti super-gioviani. La combinazione di immagini ad alto contrasto e spettroscopia garantite dallo strumento grazie al suo spettrografo a campo integrale Spiffier e al modulo di ottica adattiva – quest’ultimo completamente a firma italiana, progettato e realizzato nella sede di Firenze dell’Inaf da un team guidato da Simone Esposito e Armando Riccardi – consente infatti di separare la luce proveniente dal pianeta da quella della sua stella ospite, distinguendo le firme spettrali caratteristiche di entrambi i corpi. Lo strumento giusto, dunque, per analizzare in dettaglio la complessa atmosfera di AF Lep b.
Questo giovane pianeta ha una massa pari a 3,7 volte quella di Giove e percorrere in 24 anni un’orbita quasi circolare attorno alla sua stella, dalla quale dista circa 8.98 unità astronomiche (un’unità astronomica corrisponde alla distanza media tra il Sole e la Terra). Nella sua atmosfera gli astronomi hanno trovato le firme chimiche di acqua e monossido di carbonio, mentre sono risultati assenti metano e anidride carbonica: un quadro che rispecchia assai poco le previsioni teoriche. Data la temperatura della fotosfera della stella AF Lep, circa 800 gradi kelvin, in condizioni di equilibrio chimico il metano dovrebbe infatti essere la specie di carbonio dominante, mentre il monossido di carbonio dovrebbe essere meno abbondante. Gli autori ipotizzano dunque una condizione di disequilibrio chimico dovuto, scrivono, a un trasporto verticale di molecole dagli strati più bassi e caldi dell’atmosfera del pianeta. Ipotesi però tutta da verificare.
«Questo studio, guidato dall’Eht di Zurigo, oltre al risultato scientifico in sé, che ha migliorato la conoscenza degli elementi orbitali e della composizione dell’atmosfera del pianeta super-gioviano AF Lep b, ha dimostrato la capacità di Eris/Spiffier di produrre ricerca di punta in applicazioni spettroscopiche di alto contrasto ed elevata risoluzione spaziale al livello dei migliori strumenti in dotazione all’astronomia osservativa attuale», dice Armando Riccardi dell’Inaf di Arcetri, responsabile tecnico del modulo di ottiche adattive di Eris. «La qualità del sistema di ottica adattiva, sviluppata per Eris dall’Inaf di Arcetri, ha avuto un ruolo cruciale nel raggiungimento di questo risultato, permettendo di separare la luce del pianeta da quella della stella intorno a cui orbita attraverso la correzione in tempo reale dei disturbi introdotti dalla turbolenza della nostra atmosfera che degradano, se non corretti con elevata qualità, la risoluzione spaziale dell’oggetto osservato. Lo studio ha anche dimostrato che Eris ha la potenzialità di spingersi oltre a questo risultato ed eseguire osservazioni di pianeti con distanze angolari ancora più ridotte dalla sua stella aprendo a nuove ricerche e nuovi risultati».
Lo strumento Eris (Enhanced Resolution Imager and Spectrograph) al Very Large Telescope. Crediti: Ric Davies/Eso
«Il lavoro pubblicato su A&A», aggiunge Mauro Dolci, direttore dell’Inaf d’Abruzzo, dov’è stata realizzata l’unità di calibrazione di Eris, «è stato reso possibile dall’estrema precisione con cui è possibile eseguire osservazioni astronomiche, data dalle caratteristiche assolutamente innovative dello strumento. L’unità di calibrazione di Eris è servita fin da subito per l’integrazione dei moduli di cui è costituito lo strumento, e continua a fornire un riferimento fondamentale per dare un significato fisico quantitativo ai dati acquisiti al telescopio».
«Eris è uno strumento progettato per offrire un’ampia gamma di modalità osservative, e questo lavoro appena pubblicato dimostra anche come le osservazioni siano caratterizzate da una elevata precisione di misura. Per raggiungere la precisione richiesta, oltre a un sofisticato sistema di ottica adattiva, a due eccellenti canali scientifici infrarossi e a una avanzata unità di calibrazione, è richiesto un complesso software di controllo che orchestri tutte le procedure necessarie per l’esecuzione delle operazioni di osservazione e di calibrazione. Il software di controllo di Eris è stato realizzato da un team internazionale coordinato dal gruppo software dell’Inaf di Padova, che ha messo a frutto la competenza e la lunga esperienza del team nello sviluppo di software per strumentazione astronomica per i maggiori osservatori astronomici del mondo», conclude Andrea Baruffolo dell’Inaf di Padova. «Ed è anche grazie al successo di questo lavoro che è stato possibile effettuare studi come la caratterizzazione dell’orbita e dell’atmosfera di AF Lep b».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “High-contrast spectroscopy with the new VLT/ERIS instrument: Molecular maps and radial velocity of the gas giant AF Lep b”, di Jean Hayoz, Markus Johannes Bonse, Felix Dannert, Emily Omaya Garvin, Gabriele Cugno, Polychronis Patapis, Timothy D. Gebhard, William O. Balmer, Robert J. De Rosa, Alexander Agudo Berbel, Yixian Cao, Gilles Orban de Xivry, Tomas Stolker, Richard Davies, Olivier Absil, Hans Martin Schmid, Sascha Patrick Quanz, Guido Agapito, Andrea Baruffolo, Martin Black, Marco Bonaglia, Runa Briguglio, Luca Carbonaro, Giovanni Cresci, Yigit Dallilar, Matthias Deysenroth, Ivan Di Antonio, Amico Di Cianno, Gianluca Di Rico, David Doelman, Mauro Dolci, Frank Eisenhauer, Simone Esposito, Daniela Fantinel, Debora Ferruzzi, Helmut Feuchtgruber, Natascha Förster-Schreiber, Xiaofeng Gao, Reinhard Genzel, Stefan Gillessen, Adrian Glauser, Paolo Grani, Michael Hartl, David Henry, Heinrich Huber, Christoph Keller, Matthew Kenworthy, Kateryna Kravchenko, John Lightfoot, David Lunney, Dieter Lutz, Mike Macintosh, Filippo Manucci, Thomas Ott, David Pearson, Alfio Puglisi, Sebastian Rabien, Christian Rau, Armando Riccardi, Bernardo Salasnich, Taro Shimizu, Frans Snik, Eckhard Sturm, Linda Tacconi, William Taylor, Angelo Valentini, Christopher Waring, Erich Wiezorrek e Marco Xompero
Due minuti ogni 44: un enigma di lungo periodo
Gli scienziati hanno scoperto una stella con un comportamento mai visto prima: Askap J1832-0911, individuato nell’immagine dal cerchio bianco. Crediti: Raggi X: Nasa/Cxc/Icrar, Curtin Univ./Z. Wang et al.; Infrarossi: Nasa/Jpl/CalTech/Ipac; Radio: Sarao/MeerKAT; Elaborazione immagini: Nasa/Cxc/Sao/N. Wolk
Gli astronomi dell’International Centre for Radio Astronomy Research (Icrar), in collaborazione con un team internazionale, hanno fatto una scoperta sorprendente: un oggetto situato nella nostra galassia, a circa 15mila anni luce dalla Terra – noto come Askap J1832-0911 – emette impulsi di onde radio e raggi X per due minuti ogni 44 minuti. Si tratta della prima rilevazione nei raggi X di un oggetto di questo tipo, classificato come transiente a lungo periodo (Lpt, dall’inglese long-period transient). Gli scienziati sperano che questa scoperta possa contribuire a far luce sull’origine di altri misteriosi segnali simili osservati nel cielo.
L’oggetto è stato osservato utilizzando il radiotelescopio Askap nella contea di Wajarri in Australia, dell’agenzia scientifica nazionale australiana Csiro. I ricercatori hanno correlato i segnali radio con gli impulsi di raggi X rilevati dall’Osservatorio a raggi X Chandra della Nasa, che per pura (e fortunata) coincidenza stava osservando la stessa parte del cielo.
«Scoprire che Askap J1832-0911 emetteva raggi X è stato come cercare un ago in un pagliaio», afferma il primo autore, Ziteng (Andy) Wang del nodo Icrar della Curtin University. «Il radiotelescopio Askap ha un campo visivo ampio del cielo notturno, mentre Chandra ne osserva solo una frazione. Quindi, è stata una fortuna che Chandra abbia osservato la stessa area del cielo notturno nello stesso momento».
Le sorgenti Lpt, che emettono impulsi radio a intervalli di minuti o addirittura ore, sono una scoperta relativamente recente. Dalla prima osservazione effettuata dai ricercatori dell’Icrar nel 2022, gli astronomi di tutto il mondo ne hanno individuate dieci. Al momento, non esiste ancora una spiegazione chiara per l’origine di questi segnali, né per il motivo dei loro lunghi, regolari e insoliti intervalli di accensione e spegnimento.
Curve di luce radio e X che mostrano come Askap J1832-0911 pulsi in entrambe le bande. Crediti: Ziteng Wang, Icrar
«Questo oggetto è diverso da qualsiasi cosa abbiamo visto prima», spiega Wang. «Askap J1831-0911 potrebbe essere una magnetar (il nucleo di una stella morta con potenti campi magnetici), oppure potrebbe essere una coppia di stelle in un sistema binario in cui una delle due è una nana bianca altamente magnetizzata (una stella di piccola massa alla fine della sua evoluzione)».
Tuttavia, anche queste teorie non riescono a spiegare pienamente ciò che stiamo osservando. Questa scoperta potrebbe aprire la strada a una nuova fisica o a modelli alternativi di evoluzione stellare. L’individuazione di questi oggetti sia nei raggi X che nelle onde radio potrebbe aiutare gli astronomi a identificarne altri e a comprendere meglio la loro natura. Poiché i raggi X possiedono un’energia molto più elevata rispetto alle onde radio, qualsiasi ipotesi dovrà tenere conto di entrambe le forme di emissione – un indizio cruciale, considerato che l’origine di questi segnali resta, per ora, un mistero.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Detection of X-ray emission from a bright long-period radio transient” di Ziteng Wang, Nanda Rea, Tong Bao, David L. Kaplan, Emil Lenc, Zorawar Wadiasingh, Jeremy Hare, Andrew Zic, Akash Anumarlapudi, Apurba Bera, Paz Beniamini, A. J. Cooper, Tracy E. Clarke, Adam T. Deller, J. R. Dawson, Marcin Glowacki, Natasha Hurley-Walker, S. J. McSweeney, Emil J. Polisensky, Wendy M. Peters, George Younes, Keith W. Bannister, Manisha Caleb, Kristen C. Dage, Clancy W. James, Mansi M. Kasliwal, Viraj Karambelkar, Marcus E. Lower, Kaya Mori, Stella Koch Ocker, Miguel Pérez-Torres, Hao Qiu, Kovi Rose, Ryan M. Shannon, Rhianna Taub, Fayin Wang, Yuanming Wang, Zhenyin Zhao, N. D. Ramesh Bhat, Dougal Dobie, Laura N. Driessen, Tara Murphy, Akhil Jaini, Xinping Deng, Joscha N. Jahns-Schindler, Y. W. Joshua Lee, Joshua Pritchard, John Tuthill e Nithyanandan Thyagarajan
Mini stella con maxi pianeta: una coppia al contrario
Immagine artistica del pianeta gigante appena scoperto – Toi-6894 b in orbita attorno a una stella ospite con massa pari ad appena il venti per cento di quella del Sole. Crediti: Università di Warwick/Mark Garlick
La stella Toi-6894 è simile a molte altre nella nostra galassia: una piccola nana rossa con una massa pari solo al 20 per cento di quella del Sole. E come molte stelle di piccole dimensioni, non si ritiene che possa offrire condizioni adeguate alla formazione di un pianeta di grandi dimensioni. Invece, è stato pubblicato ieri su Nature Astronomy un articolo in cui si afferma di aver trovato l’inconfondibile traccia di un pianeta gigante, Toi-6894b, in orbita attorno alla piccola stella. Traccia che appare nei dati del Transiting Exoplanet Survey Satellite, Tess, in un’indagine su larga scala che cercava proprio pianeti giganti attorno a stelle di bassa massa. Il caso in questione, però, è molto più estremo di quanto si aspettavano gli autori della scoperta e porta con sé alcuni primati, come vedremo in seguito.
«Sono stato molto entusiasta di questa scoperta. Inizialmente cercavo pianeti giganti tra le osservazioni Tess di oltre 91mila stelle nane rosse di bassa massa», dice Edward Bryant, ricercatore postdoc all’Università di Warwick, primo autore dello studio e alla guida del programma osservativo. «Poi, utilizzando le osservazioni effettuate con uno dei telescopi più grandi al mondo, il Vlt dell’Eso, ho scoperto Toi-6894b, un pianeta gigante in transito attorno alla stella di massa più bassa conosciuta fino ad oggi che ospita un pianeta di questo tipo. Non ci aspettavamo che pianeti come Toi-6894b potessero formarsi attorno a stelle di massa così bassa. Questa scoperta sarà fondamentale per comprendere gli estremi della formazione dei pianeti giganti».
E il primo record l’ha rivelato proprio Bryant: si tratta del pianeta gigante in transito attorno alla stella di più piccola massa conosciuta. Il pianeta è stato catalogato infatti come “gigante gassoso” (categoria alla quale appartengono anche Giove, Saturno e Urano nel Sistema solare, ad esempio), ha un raggio leggermente superiore a quello di Saturno, ma una densità molto inferiore dato che ha solamente il 50 per cento circa della massa di Saturno. La stella, dicevamo, è la stella con la massa più bassa che abbia mai ospitato un pianeta gigante in transito e ha una dimensione pari solo al 60 per cento della seconda in classifica.
E se da un lato gli scienziati ancora non hanno una teoria di formazione planetaria che riesca a spiegare in maniera soddisfacente la strana presenza del gigante attorno alla piccola nana rossa, dall’altro questa scoperta crea un precedente: dato che di stelle come Toi-6894 ce ne sono tante, nella nostra galassia, la stima del numero di pianeti giganti esistenti va probabilmente rivista a rialzo.
Tornando alle ipotesi, la teoria oggi più diffusa sulla formazione dei pianeti è chiamata teoria dell’accrescimento del nucleo (in inglese, core accretion theory). In sostanza, il nucleo planetario si formerebbe attraverso il graduale accumulo di materiale dal disco protoplanetario e, man mano che diventa più massiccio, comincia ad attrarre i gas che formano l’atmosfera. In questa fase, il pianeta in formazione potrebbe accumulare abbastanza massa da entrare in un processo di accrescimento di gas incontrollato e diventare, alla fine, un gigante gassoso. In questo processo, però, la formazione di giganti gassosi è più difficile intorno alle stelle di bassa massa perché la quantità di gas e polvere nel disco protoplanetario attorno alla stella (la materia prima della formazione dei pianeti) è troppo limitata per consentire la formazione di un nucleo sufficientemente massiccio e innescare l’accrescimento incontrollato. Va cercata quindi una teoria alternativa. Potrebbe essere l’accrescimento graduale di materiale e gas senza la fase di accrescimento incontrollato, oppure il disco protoplanetario di partenza potrebbe essere gravitazionalmente instabile. In questo caso, il disco potrebbe frammentarsi, e il gas e la polvere in esso contenuti collassare per formare un pianeta. Tutte ipotesi che, considerando i dati attualmente disponibili, ancora non spiegano completamente la formazione di Toi-6894b.
Un modo per far luce sulla questione sarebbe quindi condurre un’analisi dettagliata dell’atmosfera del pianeta. Misurando la distribuzione del materiale all’interno del pianeta, sarebbe possibile determinare le dimensioni e la struttura del suo nucleo e comprendere quale percorso di formazione fra quelli descritti sopra abbia seguito Toi-6894b. Non solo, l’analisi spettroscopica sarebbe interessante anche perché, secondo quanto misurato finora, l’atmosfera del pianeta sarebbe insolitamente fredda per un gigante gassoso. La maggior parte di quelli scoperti finora sono infatti gioviani caldi, giganti gassosi massicci con temperature comprese tra circa 1000 e 2000 kelvin. Toi-6894b, invece, ha una temperatura di soli 420 kelvin – vale a dire, 147 gradi Celsius.
«Sulla base dell’irraggiamento stellare di Toi-6894b, prevediamo che l’atmosfera sia dominata dalla chimica del metano, che è estremamente rara da identificare», spiega Amaury Triaud, professore dell’Università di Birmingham e coautore dello studio. «Le temperature sono sufficientemente basse da consentire alle osservazioni atmosferiche di rilevare anche l’ammoniaca, che sarebbe la prima volta che viene trovata nell’atmosfera di un esopianeta. Toi-6894b rappresenta probabilmente un esopianeta di riferimento per lo studio delle atmosfere dominate dal metano e il miglior “laboratorio” per studiare un’atmosfera planetaria contenente carbonio, azoto e ossigeno al di fuori del Sistema solare».
L’atmosfera di Toi-6894b è già stata programmata per essere osservata dal telescopio spaziale James Webb – chi, se non lui – nei prossimi dodici mesi. Speriamo di tornare con aggiornamenti interessanti da scrivere, quindi, il prossimo anno.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A transiting giant planet in orbit around a 0.2-solar-mass host star“, di Edward M. Bryant, Andrés Jordán, Joel D. Hartman, et al.
Buchi neri come super collisori di particelle
Ai costruttori di mega acceleratori di particelle non piacerà l’articolo uscito ieri su Physical Review Letters a firma di Andrew Mummery e Joseph Silk, fisico teorico a Oxford il primo, cosmologo vincitore nel 2011 del premio Balzan il secondo, oggi professore emerito anch’egli a Oxford. Articolo nelle cui conclusioni possiamo leggere, senza troppi giri di parole, che i buchi neri nel cuore degli Agn potrebbero rappresentare un complemento astrofisico dai costi relativamente contenuti alla costruzione di un Fcc – acronimo per Future Circular Collider. Detto altrimenti: collisori di particelle in grado di sprigionare un’energia paragonabile ai 100 TeV promessi dal successore di Lhc – costo stimato attorno ai 40 miliardi, dice Sabine Hossenfelder – potrebbero già essere disponibile in natura.
L’analogia fra oggetti celesti e acceleratori di particelle non è certo nuova, anzi: è un’immagine che anche qui su Media Inaf abbiamo usato più volte per descrivere processi in grado di spingere raggi cosmici e neutrini a energie impensabili – ultimo in ordine di tempo il superneutrino intercettato dall’esperimento Km3Net al largo di Portopalo di Capo Passero. La novità che più balza agli occhi nell’articolo di Mummery e Silk è proprio l’esplicito riferimento ai costi, riferimento che soprattutto in quest’epoca di tagli feroci alla scienza come quelli auspicati dall’amministrazione Trump non passa certo inosservato.
Rappresentazione artistica di un buco nero supermassiccio – con una massa pari a miliardi di volte quella del Sole – come quelli che si trovano al centro delle galassie. La rapida rotazione del buco nero e i potenti campi magnetici che lo circondano possono produrre enormi getti di plasma nello spazio, un processo che potrebbe potenzialmente generare gli stessi risultati dei supercollisori costruiti qui sulla Terra. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University
«Una delle grandi speranze riposte nei collisori di particelle come il Large Hadron Collider è che possano generare particelle di materia oscura, ma per ora non abbiamo ancora avuto alcuna prova di ciò. Ecco dunque che si sta valutando di costruirne una versione molto più potente», ricorda Silk, professore di astrofisica alla Johns Hopkins e all’Università di Oxford, «un supercollisore di nuova generazione. Ma non è escluso che la natura stessa – mentre stiamo investendo 30 miliardi di dollari, disposti ad attendere 40 anni per costruire questo supercollisore – possa fornirci attraverso i buchi neri supermassicci un assaggio del futuro».
In che modo è presto detto. I flussi di gas in caduta nei pressi di un buco nero potrebbero arrivare – se si tratta di un cosiddetto buco nero di Kerr, dunque se sta ruotando attorno al proprio asse – ad avere un’energia persino maggiore di quella pur notevole che già gli astrofisici stimano. Gli urti caotici fra particelle che ne conseguono fanno sì che un buco nero come quello descritto si comporti, appunto, da collisore di particelle naturale con energie del centro di massa comprese tra 10 e 100 teraelettronvolt. In altre parole, un supercollisore.
Poi però occorre intercettarle e misurarle, le nuove particelle eventualmente prodotte da queste collisioni. Negli acceleratori costruiti qui sulla Terra ci pensano i rivelatori: strumenti come Atlas e Cms, i due rivelatori di Lhc che hanno consentito di confermare l’esistenza del bosone di Higgs. Ma per le particelle che dovessero formarsi attorno ai buchi neri?
«Alcune delle particelle provenienti da queste collisioni finiscono giù nella gola del buco nero e spariscono per sempre. Ma la loro energia e la loro quantità di moto fanno sì che altre, invece, riescano a uscirne fuori, e sono proprio queste che escono ad essere accelerate a energie mai viste prima», spiega Silk. A rilevarle potrebbero dunque pensarci gli osservatori che già usiamo per le supernove, per le emissioni dai buchi neri massicci e altri eventi cosmici, continua Silk: osservatori come IceCube al Polo Sud o, appunto, Km3Net, il Cubic Kilometre Neutrino Telescope, in via di completamento nel Mediterraneo
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Black hole supercolliders”, di Andrew Mummery e Joseph Silk
Con Jwst, all’origine di Wasp-121b
Wasp-121b, anche noto col nome di Tylos, è un gigante ultra-caldo situato a circa 858 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Poppa. L’esopianeta è in rotazione sincrona con la sua stella madre, Wasp-121: ciò significa che il periodo di rotazione su se stesso del pianeta è uguale al periodo di rivoluzione – il tempo necessario a completare un’orbita intorno alla stella, pari a circa 30 ore. La conseguenza di questo fenomeno è che Wasp-121 presenta due emisferi distinti: uno sempre rivolto verso la stella madre, con temperature superficiali superiori ai 3mila gradi Celsius, e uno perennemente in ombra, con temperature che possono scendere fino a 1500 gradi.
Illustrazione artistica che mostra Wasp-121b nella fase di accumulo della maggior parte del suo gas. Secondo i ricercatori, durante la sua formazione, il pianeta ha ripulito la sua orbita originale, molto distante dalla stella, dai ciottoli solidi. Questo vuoto ha impedito ad altri aggregati di raggiungere il pianeta. Successivamente, Wasp-121b è migrato dalle fredde regioni esterne verso il disco interno, dove ora orbita vicino alla sua stella. Crediti: T. Müller (Mpia/HdA)
Utilizzando il James Webb Space Telescope, un team di ricercatori guidati dal Max Planck Institute for Astronomy (Mpia, Germania) ha ora caratterizzato la composizione chimica dell’atmosfera di entrambe gli emisferi, ricavando nuove informazioni su dove e come il pianeta potrebbe essersi formato nel disco di gas e polveri che circondava la sua stella.
I risultati dello studio, pubblicati questa settimana su Nature Astronomy, si basano su osservazioni effettuate con lo spettrografo nel vicino infrarosso NirSpec del telescopio per l’intera orbita del pianeta. Poiché la radiazione termica emessa dal pianeta varia durante la sua rotazione, i ricercatori sono riusciti a osservare porzioni diverse della sua atmosfera. Inoltre, sono state effettuate osservazioni durante il transito del pianeta davanti alla stella, fase in cui parte della luce stellare attraversa l’atmosfera, lasciando firme spettrali rivelatrici della sua composizione chimica.
«I materiali gassosi sono più facili da identificare rispetto ai liquidi e ai solidi», dice Cyril Gapp, ricercatore al Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, in Germania, e co-autore dello studio. «Poiché molti composti chimici sono presenti in forma gassosa, gli astronomi usano Wasp-121b come laboratorio naturale per sondare le proprietà delle atmosfere planetarie».
Con circa 40 ore di osservazioni, il team ha generato oltre 300 curve di fase spettroscopiche – grafici che mostrano le variazioni di luminosità della stella durante e dopo il transito, in funzione della posizione del pianeta rispetto alla stella – e altrettanti spettri di emissione degli emisferi diurno e notturno, la cui analisi ha rivelato la presenza di molteplici molecole: acqua, monossido di carbonio e monossido di silicio nell’atmosfera dell’emisfero illuminato del pianeta, metano nell’atmosfera di quello in ombra. Ma cosa ci dice questa scoperta sull’origine di Wasp-121b?
«L’abbondanza relativa di carbonio, ossigeno e silicio offre spunti su come questo pianeta si è formato e ha acquisito la sua materia» spiega il primo autore dello studio, l’astronomo del Max Planck Institute for Astronomy Thomas Evans-Soma.
Secondo i ricercatori, il pianeta avrebbe accumulato la maggior parte di questi gas in una regione del disco sufficientemente fredda da mantenere l’acqua allo stato solido, ma abbastanza calda da permettere al metano di evaporare. In un disco protoplanetario – il disco di gas e polveri da cui originano i pianeti – queste condizioni si verificano a una distanza dalla stella tale per cui la radiazione genera temperature appropriate. Nel Sistema solare, questa regione si trova tra le orbite di Giove e Urano. Il fatto che Wasp-121b orbiti estremamente vicino alla sua stella suggerisce che, dopo la sua formazione, il pianeta si sia spostato dalle regioni esterne ghiacciate verso il centro del sistema planetario.
Illustrazione artistica che mostra l’orbita di Wasp121-b attorno alla sua stella madre. L’immagine evidenzia come il pianeta presenti porzioni variabili del suo lato diurno, illuminato e caldo. Osservando il pianeta per tutta la sua orbita, il team ha ricavato informazioni dalle variazioni nelle emissioni atmosferiche. La fase in cui il pianeta passa davanti alla stella ha inoltre permesso al team di analizzare come il sottile bordo dell’atmosfera planetaria modificasse la luce stellare che lo attraversava. In questo modo, hanno rilevato la presenza di diversi gas, utili per sondare l’origine del pianeta. Crediti: Patricia Klein
Wasp-121-b si potrebbe essere formato in una zona in cui i grani di metano sono evaporati, spiegano i ricercatori, arricchendo il pianeta di carbonio. Al contrario, i ciottoli contenenti acqua sono rimasti congelati, intrappolando l’ossigeno. Con l’evoluzione del sistema, Wasp-121b ha continuato ad accrescere monossido di carbonio anche dopo che il flusso di ciottoli ricchi di ossigeno si è interrotto, definendo così la composizione finale del suo involucro atmosferico. Quanto al monossido di silicio, secondo i ricercatori la molecola è stata incorporata attraverso l’acquisizione di materiale roccioso immagazzinato nei planetesimi, che il pianeta ha inglobato dopo aver formato gran parte del suo involucro gassoso.
Un discorso a parte merita la rilevazione di metano nell’atmosfera del lato notturno del pianeta, segno di dinamiche atmosferiche complesse, non previste dai modelli attuali.
In generale, al variare della temperatura atmosferica, cambia anche la presenza relativa delle molecole. Alle altissime temperature del lato diurno di Wasp-121b il metano è altamente instabile e non è presente in quantità rilevabili. Tuttavia, anche le quantità sul lato diurno dovrebbero essere tali, ciò a causa del mescolamento dei gas tra le due facce del pianeta. Come anticipato, però, gli astronomi hanno trovato abbondanti quantità di metano sulla faccia non illuminata del pianeta. Come spiegare questo risultato?
I ricercatori un’idea se la sono fatta: la sua presenza potrebbe essere dovuta al fatto che la molecola viene rapidamente rimpinguata. Un meccanismo plausibile per questo processo, propongono gli autori dello studio, potrebbe essere la presenza di forti correnti verticali che sollevano il metano dagli strati inferiori dell’atmosfera, dove la molecola si conserva grazie alle temperature relativamente basse.
Lo studio di Wasp-121b fornisce indizi sulla formazione dei pianeti giganti, la dinamica atmosferica e l’evoluzione planetaria. I risultati sembrano sfidare i modelli di dinamica atmosferica attuali, soprattutto per quanto riguarda la circolazione verticale.
«Il nostri risultati mettono in discussione i modelli dinamici degli esopianeti», conclude Evans-Soma. «Tali modelli dovranno probabilmente essere adattati per spiegare il forte mescolamento che abbiamo scoperto sul lato notturno di Wasp-121b»
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “SiO and a super-stellar C/O ratio in the atmosphere of the giant exoplanet WASP-121 b”, di Thomas M. Evans-Soma, David K. Sing, Joanna K. Barstow, Anjali A. A. Piette, Jake Taylor, Joshua D. Lothringer, Henrique Reggiani, Jayesh M. Goyal, Eva-Maria Ahrer, Nathan J. Mayne, Zafar Rustamkulov, Tiffany Kataria, Duncan A. Christie, Cyril Gapp, Jiayin Dong, Daniel Foreman-Mackey, Soichiro Hattori e Mark S. Marley
Minuta nana bruna con un disco tutto per sé
Rappresentazione artistica creata con l’AI di una nana bruna circondata da un disco protoplanetario. Crediti: Inaf/OpenAI’s Dall·E
Le nane brune sono oggetti affascinanti che rappresentano un ponte tra le stelle e i pianeti. Difficili da individuare e studiare a causa della loro bassa luminosità, celano ancora numerosi misteri irrisolti, come ad esempio il loro meccanismo principale di formazione: sono il prodotto di massa più bassa del processo di formazione stellare, oppure si formano come i pianeti? Anche le proprietà e l’evoluzione dei loro dischi protoplanetari restano in gran parte da chiarire. Questi dischi sono di particolare interesse: nelle stelle di massa maggiore possono infatti evolvere in sistemi planetari, come conseguenza della rapida (nell’ordine di pochi milioni di anni) formazione di corpi rocciosi su cui può successivamente accrescersi del gas. Una delle domande ancora aperte quindi è: anche i dischi attorno alle nane brune sono capaci di formare pianeti?
Le nane brune non sono solo poco luminose, ma anche oggetti freddi, con temperature efficaci comprese tra 1500 e 2500 gradi. A queste temperature, la loro emissione è concentrata principalmente nella banda dell’infrarosso. La bassa luminosità e l’emissione infrarossa rendono le nane brune bersagli ideali per il James Webb Space Telescope (Jwst), il supertelescopio delle agenzie spaziali Nasa, Esa e Csa. Il Jwst è infatti non solo in grado di rilevare nane brune in sistemi lontani (studi recenti hanno individuato candidate nane brune perfino nelle Nubi di Magellano), ma anche di ottenere osservazioni spettroscopiche con qualità sufficiente a studiarne la chimica atmosferica e quella dei dischi protoplanetari nelle nane brune più vicine.
In primo piano, lo spettro di Cha 1107-7626 prodotto dagli spettrografi NirSpec-Prism (viola) e Miri-Lrs (giallo) di Jwst. Sullo sfondo, immagine Wise nel medio infrarosso prodotta con EsaSky da M. Guarcello/Inaf
Recenti osservazioni spettroscopiche condotte con il Jwst dell’oggetto Cha 1107-7626, situato nella regione di formazione stellare di Chamaeleon I, sono state presentate in uno studio, in uscita su The Astrophysical Journal, guidato dall’astrofisica Laura Flagg della Johns Hopkins University. Con la sua massa pari a circa 6-10 volte quella di Giove, Cha 1107-7626 è l’oggetto isolato più piccolo conosciuto ad essere circondato da un disco protoplanetario ricco di gas e polveri. Grazie agli strumenti NirSpec e Miri del Jwst, gli autori dello studio hanno costruito e analizzato lo spettro di Cha 1107-7626 nella banda del medio infrarosso, dove l’emissione del disco protoplanetario risulta predominante rispetto a quella dell’oggetto centrale. Questo ha permesso di identificare segnali legati all’accrescimento di gas dal disco verso l’oggetto, con un tasso stimato tra 10-10 e 10-11 masse solari per anno. Inoltre, sono stati individuati segnali spettroscopici indicativi della presenza di molecole organiche come etilene e metano. Tali caratteristiche, comuni nei dischi attorno a stelle giovani di massa maggiore, ma osservate qui per la prima volta in un oggetto di massa così bassa, suggeriscono che la chimica e l’evoluzione dei dischi attorno alle nane brune possano essere simili a quelle dei dischi attorno alle stelle.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal “Detection of Hydrocarbons in the Disk around an Actively-Accreting Planetary-Mass Object”, di Laura Flagg, Aleks Scholz, V. Almendros-Abad, Ray Jayawardhana, Belinda Damian, Koraljka Muzic, Antonella Natta, Paola Pinilla e Leonardo Testi
Così Planet Nine potrebbe aver preso il largo
Nelle zone periferiche di sistemi planetari, alcuni corpi celesti orbitano ben lontani dalle loro stelle, arrivando persino a migliaia di unità astronomiche (Ua) di distanza. Si tratta di pianeti “a orbita larga”, tra i quali figura anche l’ipotetico Pianeta Nove, la cui effettiva esistenza nel Sistema solare è ancora oggetto di accese discussioni. Dopo anni di dubbi su come avvenga la formazione di tali oggetti, uno studio pubblicato la scorsa settimana su Nature Astronomy, guidato da un team di ricercatori della Rice University e del Planetary Science Institute, potrebbe aver trovato una risposta plausibile.
Gli autori si sono serviti di una lunga e complessa serie di simulazioni, giungendo a concludere che i corpi a orbita larga non sono strane anomalie, ma piuttosto sottoprodotti naturali di uno sviluppo iniziale caotico dei sistemi planetari. Difatti, quando le stelle sono fortemente compresse negli ammassi in cui hanno origine, gli oggetti celesti che si formano nelle epoche iniziali devono cercare di “sopravvivere” in regioni con grandi turbolenze. Così il primo autore dello studio, André Izidoro della Rice University (Usa), descrive cosa accade nelle fasi primordiali dei sistemi planetari: «In sostanza, è come se stessimo guardando dei flipper in una sala giochi cosmica. Quando i pianeti giganti si disperdono a vicenda attraverso interazioni gravitazionali, alcuni vengono scagliati lontano dalla loro stella. Se le circostanze sono perfette questi oggetti non vengono espulsi, ma rimangono intrappolati in orbite molto ampie».
Rappresentazione artistica di Planet Nine. Crediti: Nasa
Le simulazioni hanno riprodotto migliaia di ambienti realistici differenti di ammassi stellari, realizzando modelli con condizioni fisiche di ogni tipo: da sistemi simili al nostro Sistema solare solare a sistemi binari. Nella maggior parte dei casi, il risultato finale ha presentato uno schema frequente: le instabilità interne portano alcuni pianeti a seguire orbite ampie ed eccentriche e, una volta giunti a grande distanza dalla loro stella, questi corpi vengono stabilizzati dall’influenza gravitazionale degli astri vicini nell’ammasso. «Quando le spinte gravitazionali si verificano al momento giusto, l’orbita di un pianeta si disaccoppia dal sistema interno. Il corpo assume un’orbita ampia e rimane essenzialmente congelato sul posto dopo la dispersione dell’ammasso», spiega il coautore dello studio Nathan Kaib.
Considerando che la comunità scientifica definisce pianeti in orbita larga gli oggetti aventi un semiasse maggiore dell’orbita compreso tra 100 e 10mila unità astronomiche, le recenti scoperte potrebbero chiarire alcuni dubbi sull’esistenza dell’ormai celebre Planet Nine. Si ritiene che l’ipotetico corpo celeste orbiti attorno al Sole ad una distanza che va da 250 a mille unità astronomiche. Sebbene a oggi non sia mai stato osservato, la sua presenza è suggerita da particolarità nelle orbite di alcuni oggetti transnettuniani.
«Le simulazioni mostrano che se il Sistema solare primordiale ha attraversato due specifiche fasi di instabilità (la crescita di Urano e Nettuno e la dispersione tra i giganti gassosi), c’è fino al 40 per cento di possibilità che un corpo simile a Pianeta Nove possa essere rimasto intrappolato durante quel periodo», sottolinea Izidoro.
Nel lavoro di ricerca, gli astronomi si sono dedicati anche al confronto tra i pianeti in orbita larga e quelli liberi (o erranti), ossia corpi celesti espulsi dai loro sistemi d’origine. e che dunque non sono legati gravitazionalmente ad alcuna stella. «Non tutti i pianeti sparsi restano vincolati alla propria stella», dice Kaib, «la maggior parte finisce per essere scagliata nello spazio interstellare». La probabilità che corpi simili restino gravitazionalmente legati alle proprie stelle prende il nome di “efficienza d’intrappolamento”. E i sistemi simili al Sistema solare risultano avere un’efficienza d’intrappolamento piuttosto elevata, compresa tra il 5 e il 10 per cento.
Il nuovo studio promette sviluppi interessanti anche nell’ambito della ricerca di esopianeti. Sembra infatti esserci una maggiore probabilità che pianeti “a orbita larga” si trovino intorno a stelle ad alta metallicità, fornendo così potenziali candidati per campagne di deep imaging. Quanto al mistero sull’esistenza o meno di Pianeta Nove, una riposta potrebbe arrivare una volta che l’Osservatorio Vera C. Rubin – destinato a essere usato anche per la ricerca di oggetti distanti del Sistema solare – sarà operativo.
«Man mano che affiniamo la comprensione di dove e cosa cercare», conclude Izidoro, «non solo aumentiamo le probabilità di trovare il Pianeta Nove, ma apriamo anche una nuova finestra sull’architettura e l’evoluzione dei sistemi planetari in tutta la galassia».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Very-wide-orbit planets from dynamical instabilities during the stellar birth cluster phase” di André Izidoro, Sean N. Raymond, Nathan A. Kaib, Alessandro Morbidelli e Andrea Isella
Pioggia di plasma solare a risoluzione mai vista
Queste che a prima vista possono sembrare dettagli di tele di Pollock, o nubi di Turner virate al fucsia, sono protuberanze solari – getti di plasma che spesso appaiono come archi o anse che si estendono verso l’esterno della superficie del Sole.
A sinistra, un fotogramma del timelapse prodotto con il nuovo sistema di ottica adattiva coronale Cona del Goode Solar Telescope. Mostra come il plasma di una protuberanza solare “danzi” e si contorca con il campo magnetico del Sole. A destra un altro fotogramma che evidenzia il fenomeno della “pioggia coronale”, che si forma quando il plasma più caldo della corona del Sole si raffredda e diventa più denso. Come le gocce di pioggia sulla Terra, la pioggia coronale viene trascinata verso la superficie del Sole dalla gravità. Poiché il plasma è elettricamente carico, invece di cadere in linea retta segue le linee del campo magnetico, che formano enormi archi o anelli. Il timelapse dal quale è tratto il fotogramma è composto dalle immagini a più alta risoluzione mai realizzate della pioggia coronale, e ha consentito agli autori dello studio di dimostrare che i filamenti possono avere uno spessore inferiore a 20 km. Entrambe le immagini sono ottenute osservando il plasma solare in H-alpha e colorate successivamente, con il colore più scuro là dove la luce è più intensa. Crediti: Schmidt et al./Njit/Nsoi/Aura/Nsf
Presentate martedì scorso su Nature Astronomy in uno studio guidato da Dirk Schmidt del National Solar Observatory, Boulder, Colorado (Usa), sono le immagini più nitide mai ottenute della struttura fine della corona solare. A renderle così affascinanti è proprio il livello di dettaglio, quasi incredibile pensando che sono state acquisite da un telescopio terrestre nemmeno troppo grande, il Goode Solar Telescope (Gst), un telescopio solare da 1.7 metri che si trova in California, al Big Bear Solar Observatory, ed è gestito dal Center for Solar-Terrestrial Research (Cstr) dell’Njit, il New Jersey Institute of Technology.
A consentire al Gst di raggiungere a una risoluzione così spinta – quasi al limite di diffrazione teorico del telescopio – è stato un nuovo sistema di ottica adattiva, ovvero la tecnologia che, correggendo le distorsioni introdotte dalla turbolenza atmosferica, consente ai grandi telescopi terrestri di produrre immagini astronomiche con una definizione paragonabile a quelle acquisite dallo spazio. In particolare, Gst si avvale di un sistema di ottica adattiva chiamato Cona in grado di modificare in continuazione, 2200 volte al secondo, la forma di uno specchio così da annullare – o quasi – la distorsione dell’immagine dovuta, appunto, alla turbolenza dell’aria.
Altro fotogramma tratto da un timelapse prodotto garzie al sistema Cona che mostra la rapida, fine e turbolenta ristrutturazione di una protuberanza solare con un dettaglio senza precedenti. La superficie del Sole, dall’aspetto soffice, è costellata da “spicole”: getti di plasma di breve durata, la cui creazione è ancora oggetto di dibattito scientifico. Le striature sulla destra sono piogge coronali che cadono sulla superficie del Sole. Crediti: Schmidt et al./Njit/Nsoi/Aura/Nsf
«L’ottica adattiva è come un autofocus potenziato e una stabilizzazione ottica dell’immagine analoghi a quelli presenti nella fotocamera del vostro smartphone, solo che invece di contrastare il tremolio delle mani corregge gli errori dell’atmosfera», spiega uno dei coautori dello studio, Nicolas Gorceix, ingegnere ottico e osservatore capo al Big Bear Solar Observatory.
I grandi telescopi solari terrestri si avvalgono delle ottiche adattive dall’inizio degli anni Duemila, e questo ha consentito di rivoluzionare l’osservazione della superficie del Sole, ma ancora non avevano avuto particolare impatto sulle osservazioni della corona, le cui caratteristiche erano fino a oggi inchiodate a una risoluzione nell’ordine dei mille chilometri se non peggio – livelli rimasti pressoché immutati per un’ottantina d’anni.
«Il nuovo sistema di ottiche adattive coronali colma questa lacuna decennale e fornisce immagini delle caratteristiche coronali con una risoluzione di 63 chilometri, il limite teorico del Goode Solar Telescope da 1.6 metri», conclude un altro coautore dello studio, Thomas Rimmele, il chief technologist del National Solar Observatory che ha costruito le prime ottiche adattive operative per la superficie del Sole e ne ha promosso lo sviluppo.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Observations of fine coronal structures with high-order solar adaptive optics”, di Dirk Schmidt, Thomas A. Schad, Vasyl Yurchyshyn, Nicolas Gorceix, Thomas R. Rimmele e Philip R. Goode
Politica, scienza, società: lo spazio a tutto tondo
Emilio Cozzi, “Geopolitica dello spazio. Storia, economia e futuro di un nuovo continente”, Il Saggiatore, 2025, 438 pagine, 26 euro
Oggi più che mai, lo spazio è uno specchio di quello che succede sulla Terra. In un mondo sempre più lacerato da conflitti dove le spinte espansionistiche si tingono di motivazioni patriottiche, religiose e sociali, l’affannosa corsa all’occupazione delle orbite terrestri riflette ed amplifica la realtà che viviamo tutti i giorni.
Quando Emilio Cozzi ha deciso di scrivere Geopolitica della Spazio sapeva di affrontare un argomento complesso dove la tecnologia, necessaria per sviluppare la strumentazione satellitare, si coniuga con le molteplici ricadute economiche e politiche delle attività spaziali. Di certo aveva pianificato fin dall’inizio di raccontare la storia di SpaceX e di come questa compagnia, creata nel 2002 da Elon Musk, abbia cambiato il modo di fare spazio, ma non poteva immaginare che il libro sarebbe uscito nel momento dell’ascesa politica di Elon Musk, quando l’uomo più ricco del mondo è diventato anche quello politicamente più rilevante nella nuova amministrazione americana. Chi avesse dubitato sulla valenza geopolitica delle attività spaziali, adesso ha ampiamente modo di ricredersi. L’importanza strategica dei servizi offerti dallo spazio è un argomento di attualità. Siamo stati bombardati dalle discussioni sull’opportunità o meno che il governo italiano sottoscriva un contratto per utilizzare Starlink per connettere le aree non raggiunte dalla fibra ottica, ma anche per disporre di un canale sicuro per le comunicazioni istituzionali mentre si aspetta che l’Europa si doti di Iris2, la costellazione Ue per fornire connessione internet orbitale. Purtroppo il vecchio continente ha accumulato gravissimi ritardi anche nel settore, altrettanto strategico, dei lanciatori e Cozzi esamina i motivi di una vera e propria disfatta strategica e industriale. Nel 2024, contro i 134 lanci dei Falcon di SpaceX, l’Europa ha fatto solo tre lanci ed è stata costretta a comperarne più del doppio da SpaceX. Ma Geopolitica dello spazio non tratta solo di Musk. È un saggio completo sulle attività spaziali di tutto il mondo, parla dei turisti spaziali e delle colonie (vuoi orbitali, vuoi marziane) che piacciono tanto ai miliardari che investono nello spazio perché, per dirla come Jeff Bezos, “Ci vorrà un po’ di tempo, ma sarà il miglior affare della mia vita”. Ho molto apprezzato la prima parte, dedicata ai protagonisti dell’inizio dell’era spaziale, dove Cozzi cerca di umanizzare i personaggi inserendo le loro visioni nel contesto storico. Raccomando anche una lettura attenta dell’Appendice dall’esplicito titolo “Space law poche norme e nessuno sceriffo”, dove Cozzi dialoga con la professoressa Agatina Latino, esperta di diritto internazionale, sulla necessità di regole che aggiornino lo Outer Space Treaty del 1967. Nello spazio nulla è più come allora: l’imprenditoria privata è ora azionista di maggioranza dell’orbita circumterrestre e pianifica lo sfruttamento delle risorse della Luna.
Carlo di Leo e Antonio Lo Campo, “Fondamenti di fisica spaziale”, IBS editore, 2025, 269 pagine, 22 euro
Quelle che rimangono immutabili sono le leggi della fisica che regolano come i satelliti vanno in orbita, come vengono stabilizzati e puntati in una determinata direzione, come rientrano nell’atmosfera. Nel loro Fondamenti di fisica spaziale Carlo Di Leo e Antonio Lo Campo ci ricordano che tutto (o quasi) dipende dalla legge di gravitazione universale elaborata da Newton nei suoi Principia datati 1687.
La mela che cade obbedisce alla stessa legge che il 10 maggio ha fatto precipitare nell’Oceano Indiano il satellite Kosmos-482, un relitto sovietico che, dopo avere fallito l’immissione nella traiettoria verso Venere nel 1972, ha orbitato per 53 anni intorno al nostro pianeta. Sono le meraviglie della meccanica celeste che ha infinite sfaccettature, non sempre gradite dal nostro organismo abituato alla gravità terrestre. Non che in orbita la gravità scompaia, semplicemente è compensata dall’accelerazione del moto orbitale. Gli astronauti che fluttuano ne sono un esempio e, pur sapendo quanto la permanenza in microgravità sia dannosa per i tessuti ossei e muscolari, competono per essere assegnati a missioni orbitali di lunga durata. Mica tutti hanno la fortuna di essere “abbandonati“ sulla Iss come è successo a Sunita Williams e Butch Wilmore che, complice il malfunzionamento della navetta Starliner, hanno trascorso nove mesi in orbita. Nonostante la politica abbia cercato di farli diventare dei naufraghi spaziali, loro non si sono mai lamentati, anzi hanno sempre spiegato che stavano realizzando un sogno.
Andare nello spazio è un privilegio che porta con sé pesanti responsabilità. Lo ha vissuto sulla sua pelle Sally Ride, la prima astronauta americana diventata, suo malgrado, un personaggio così iconico da decidere di tenere nascosto il fatto di essere diversa. Solo nel suo necrologio il pubblico ha scoperto che, per 27 anni, Sally avevo vissuto con Tam O’Shaughnessy, la sua compagna segreta. È lei che racconta la loro difficile storia in un documentario di National Geographic intitolato semplicemente Sally, vincitore del 2025 “Alfred P. Sloan Feature Film Prize”. Scopriamo che l’eroina americana temeva che ammettere la sua diversità avrebbe distrutto la sua carriera e l’avrebbe squalificata agli occhi del pubblico. L’aveva visto succedere ad altri e non voleva fare la stessa fine. La regista Cristina Costantini utilizza filmati d’archivio per documentare un’epoca di trasformazione del programma spaziale americano che faticava ad accettare l’ingresso delle donne. Purtroppo, l’umanità porta nello spazio anche i suoi pregiudizi.
Guarda il trailer di Sally sul canale YouTube del National Geographic:
Stasera, giovedì 29 maggio, dalle 21, ci troviamo al #Museo Malmerendi (Via Medaglie d'Oro 51, #Faenza) per una conferenza dal tema "Giove e le sue lune".
A cura di Paolo Tortora, che ha lavorato per la missione #NASA #EuropaClipper, in viaggio verso #Giove per scoprire se su #Europa può esserci vita.
Ingresso libero e #gratis, non mancare!
mobilizon.it/events/d07508bd-4…
#astronomia #spazio #scienza #divulgazione #astronautica #spacex #esa #science #space #astronomy #romagna #italia
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Mistral, un vento di innovazione per Srt
Il ricevitore Mistral installato sul Sardinia Radio Telescope. Crediti: Inaf
Mistral è il ricevitore di nuova generazione installato sul Sardinia Radio Telescope (Srt) e costruito da Sapienza Università di Roma per l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) nell’ambito del potenziamento del radiotelescopio per lo studio dell’universo alle alte frequenze, finanziato da un progetto Pon (Programma Operativo Nazionale), concluso nel 2023 e che oggi vede risultati sempre più concreti.
Mistral sta per “MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids”, ovvero ricevitore di onde millimetriche per il Sardinia Radio Telescope basato su una rete di rivelatori a induttanza cinetica.
È un ricevitore innovativo sotto molteplici aspetti. I ricevitori radioastronomici sono tipicamente “mono pixel”, cioè sensibili alla radiazione proveniente da una sola direzione e questo richiede lunghe scansioni con il telescopio per poter realizzare immagini panoramiche della zona di cielo di interesse. Una soluzione per superare questa limitazione è costruire ricevitori “multi pixel”, sensibili cioè alla radiazione proveniente da più direzioni simultaneamente. Mistral porta questo concetto all’estremo. Al suo interno è infatti custodito un cuore ultra-freddo composto da una matrice di 415 rivelatori a induttanza cinetica (Kids) sviluppati in collaborazione con il Cnr-Ifn di Roma e raffreddati ad appena una frazione di grado dalla temperatura di zero assoluto, pari a -273,15 gradi Celsius. «È proprio questo elevato numero di rivelatori accoppiato con un sistema ottico sviluppato appositamente a rendere Mistral uno strumento estremamente efficace e rapido per l’imaging a largo campo di sorgenti deboli ed estese», commenta Paolo de Bernardis, coordinatore scientifico del ricevitore per Sapienza Università di Roma.
Mistral è stato installato nel maggio 2023 nel fuoco gregoriano, localizzato al centro della grande parabola di 64 metri di diametro di Srt. Subito dopo è iniziata la messa in servizio del ricevitore, il cosiddetto commissioning: un’intensa serie di test tecnici e osservativi con l’obiettivo di integrare il ricevitore nel sistema del telescopio.
Un team di ricercatori di Inaf e Sapienza sta lavorando fianco a fianco con l’obiettivo di portare Mistral alle sue massime prestazioni e poterlo quindi offrire alla comunità scientifica per osservazioni regolari. «Il commissioning è normalmente un passaggio di routine nell’installazione di nuova strumentazione», spiega Matteo Murgia, responsabile scientifico del ricevitore per Inaf. «Tuttavia, si trasforma in una vera sfida nel caso di un ricevitore nel millimetrico come Mistral, che richiede che le prestazioni del telescopio siano spinte al limite sotto ogni aspetto».
«Inizialmente si sono affrontati e superati diversi ostacoli legati alla criogenia davvero eccezionale del ricevitore, ottenendo infine la temperatura necessaria per mettere in misura i Kids, ossia appena 0,2 gradi sopra lo zero assoluto», dichiara Elia Battistelli, project manager del ricevitore per Sapienza Università di Roma. Il miglioramento delle prestazioni della superficie attiva di Srt ha permesso, a partire da settembre 2024, di raggiungere la sensibilità adeguata per calibrare lo strumento. È stato quindi possibile procedere all’ottimizzazione dell’allineamento tra le ottiche di Mistral e quelle di Srt.
Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore Mistral. Crediti: Mistral commissioning team
Il team di commissioning ha inoltre lavorato senza sosta per sviluppare le procedure e il software necessari per il puntamento e la messa a fuoco. Contemporaneamente, Inaf e Sapienza hanno realizzato le procedure di calibrazione e composizione delle immagini. A questo punto Mistral era finalmente pronto per le osservazioni di “prima luce” di sorgenti radio estese. In successione sono stati osservati tre oggetti celesti iconici: la Nebulosa di Orione, la radiogalassia M87, e il resto di supernova Cassiopea A. Queste osservazioni hanno evidenziato la grande versatilità di Mistral e confermato le sue capacità di realizzare immagini di grande dettaglio di oggetti celesti in contesti astrofisici anche molto diversi tra loro.
«Il traguardo raggiunto con le immagini di prima luce di Srt a 90 GHz», commenta Isabella Pagano, direttrice scientifica dell’Inaf, «segna un passo importante nell’ampliamento degli orizzonti scientifici del radiotelescopio che dimostra così di essere in grado di operare con successo alle alte frequenze radio per le quali era stato progettato». Con la “prima luce” ottenuta osservando questi affascinanti oggetti cosmici, si conclude questa prima fase di test tecnici e inizia una fase, non meno importante, di validazione scientifica, volta a verificare le prestazioni di Mistral con sorgenti sempre più deboli, per garantire che sia pronto per le numerose sfide scientifiche per cui è stato progettato.
Mistral affronterà un’ampia gamma di questioni scientifiche, dalla cosmologia e fisica degli ammassi di galassie, allo studio dei nuclei galattici attivi, della struttura delle nubi molecolari e della loro relazione con la formazione stellare nelle galassie vicine e nella Via Lattea, fino allo studio dei corpi celesti del nostro Sistema solare. Le attività del team di commissioning continuano quindi con l’obiettivo di verificare le prestazioni di Mistral in ciascuno di questi casi scientifici e di rendere il ricevitore disponibile alla comunità scientifica il prima possibile.
LE PRIME IMMAGINI DI MISTRAL
A dicembre 2024 lo strumento è stato puntato verso la famosa Nebulosa di Orione (nota anche come M42) al centro della omonima costellazione. Situata a una distanza di circa 1350 anni luce dalla Terra, M42 è una delle regioni di formazione stellare attive più vicine ed è caratterizzata da idrogeno ionizzato eccitato da un gruppo di stelle massicce, noto come il Trapezio. M42 fa parte di un vasto complesso di nubi molecolari che si estende per 30 gradi nel cielo, mentre Mistral ne ha osservato la parte centrale a una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco. Nell’immagine è ben visibile la Barra di Orione a sud, che segna un confine netto tra la regione di idrogeno ionizzato e la nube molecolare sottostante. Si notano inoltre i picchi di emissione in prossimità delle stelle del Trapezio e della Nebulosa Kleinmann–Low, una densa nube molecolare di formazione stellare che ospita un ammasso stellare interessato in passato da un evento esplosivo. L’emissione di M42 visibile a 90 GHz è una miscela pressoché uguale di radiazione prodotta dall’idrogeno ionizzato e quella delle polveri fredde contenute nel complesso di nubi molecolari sottostante.
Nel riquadro a sinistra si nota l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore Mistral. A destra una sovrapposizione con una immagine a più largo campo ottenuta dall’Hubble Space Telescope. Crediti: Mistral commissioning team; Nasa, Esa, e The Hubble Heritage Team (StscI/Aura)
A febbraio 2025 Mistral ha osservato, sempre alla frequenza di 90 GHz, la radiogalassia M87, il cui nucleo attivo contiene l’ormai famoso buco nero supermassiccio presente nella costellazione della Vergine, il primo di cui è stata ottenuta una immagine diretta grazie alla storica osservazione dell’Event Horizon Telescope nel 2019. La sorgente radio che circonda M87 ha una struttura complessa, costituita da lobi interni delle dimensioni di circa trentamila anni luce (poco più della distanza che ci separa dal centro della Via Lattea) circondati da una bolla di plasma esterna su più larga scala. Queste strutture sono il risultato dell’attività del buco nero centrale nel corso dei precedenti milioni di anni. Nell’immagine di Mistral sono visibili i lobi radio interni, le strutture più recenti tuttora alimentate da una coppia di getti radio relativistici che si propagano dal buco nero centrale. Osservare queste strutture a frequenze così alte fornisce informazioni nuove e preziose sui meccanismi fisici che alimentano le particelle radio emittenti all’interno della sorgente.
Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da Mistral a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta a una immagine ottica, in toni di blu, della galassia. Crediti: Mistral commissioning team; Sloan Digital Sky Survey
Infine, nell’ultima sessione di aprile 2025, Mistral ha osservato, attraverso due scansioni incrociate di circa mezz’ora ciascuna, il resto di supernova Cassiopea A (Cas-A): una delle più intense radio sorgenti del cielo avente una dimensione angolare di circa 5 minuti d’arco (circa un sesto del diametro apparente della Luna piena). Nell’immagine ottenuta, il guscio di gas in espansione è visibile nella sua interezza e, grazie alla risoluzione angolare di Srt a queste lunghezze d’onda, si possono apprezzare i dettagli e le variazioni di luminosità della struttura filamentare.
A Brera, mappe celesti e mappe terrestri
All’Osservatorio astronomico di Brera è conservata una ricca, meravigliosa raccolta di carte celesti, terrestri e di altro genere, formatasi fin dai primi anni di vita della Specola alla metà del 18esimo secolo. Un elenco di questo materiale è da oggi disponibile al sito dell’Inaf di Brera e rappresenta un altro tassello per la conoscenza dell’intero patrimonio storico dell’Osservatorio milanese.
La cartografia, intesa come misura e descrizione della Terra, era una disciplina affine all’astronomia, che aveva come scopo, invece, quello della misura e della rappresentazione dei cieli. Infatti, carte della Terra e del cielo sono spesso presenti nelle raccolte storiche degli osservatori astronomici.
Stato di Milano, 1777: ai piedi della carta, in primo piano, una scena bucolica di svago campestre ma, più in profondità, il duro lavoro nei campi
A Brera questa situazione diventa ancora più vera dal momento che gli astronomi braidensi furono “cartografi” essi stessi, coinvolti in prima persona nella realizzazione, nel 18esimo secolo, della Carta del Milanese e del Mantovano e poi, durante la dominazione francese, nelle successive operazioni topografiche sul territorio allora lombardo. Inoltre non possiamo dimenticare il ruolo che Giovanni Schiaparelli, direttore dell’Osservatorio dal 1862 al 1900, ebbe come “cartografo” di Marte, applicando per primo alla descrizione del pianeta gli stessi criteri definiti per la descrizione della Terra. Insomma, la cartografia, celeste o terrestre, è sempre stata di casa all’Osservatorio milanese.
Scorrendo le circa 330 descrizioni raccolte nell’elenco (incluse quelle delle lastre di rame con l’incisione della Carta della Lombardia, la prima carta “moderna” del territorio lombardo, che fu commissionata agli astronomi di Brera da Cesare Beccaria) si viaggia attraverso due mondi: quello terrestre e quello celeste.
La guerra di oggi nelle carte di ieri: i territori della Russia (a sx) e della Palestina (a dx) nell’Atlante di Sanson della fine del Seicento
Per quanto riguarda la Terra, a stupire non è solo la gran quantità dei luoghi attraversati, che comprendono tutto l’orbe terracqueo, descritto secondo le conoscenze del tempo a partire dalla seconda metà del Seicento, ma anche la raffinatezza dell’intaglio e la ricchezza degli ornamenti di corredo alla rappresentazione geografica, come appare, ad esempio, in due carte dell’atlante dei Sanson, un’importante famiglia di cartografi di origine francese. Due carte dell’atlante non scelte a caso, perché raffigurano per noi, oggi, due sanguinosi teatri di guerra: “La Russie Blanche ou Moscovie” il cui cartiglio è chiuso dalla grande testa dell’orso, simbolo della potenza, della forza e della paura che l’animale incute e la “Iudaea seu Terra Sancta”, che viene rappresentata, secondo il racconto biblico, con le figure di Adamo ed Eva ai lati dell’albero della conoscenza, con il serpente, e da due cornucopie che versano l’abbondanza di animali, fiori e frutti del paradiso terreste. Per rimanere in zone più vicine a noi, ovvero nello Stato di Milano del 1777, troviamo una carta alla cui base, quasi come a fondamento dello Stato stesso, sono raffigurate le allegorie dei fiumi – e l’acqua era alla base della florida agricoltura lombarda – e, poco oltre, il duro lavoro dei contadini nei campi.
Una rara carta della Luna (cliccare per ingrandire), probabilmente la sola conservata in Italia, presentata dalla delegazione sovietica al Congresso di astronautica a Belgrado nel 1967
Non mancano poi le carte celesti, che ci svelano, sotto tante angolature, il mondo sopra di noi. Tra le altre ne ricordiamo una insolita, ossia la carta della Luna presentata dalla delegazione sovietica all’International Astronautical Congress di Belgrado nel 1967 e che, a quanto scrive il direttore dell’Osservatorio Francesco Zagar in un piccolo cartellino che la accompagna, dovrebbe essere l’unica copia esistente in Italia.
L’elenco delle carte, curato da Cristina Zangelmi e dalla scrivente, si caratterizza anche per essere un riconoscimento alle attività legate all’alternanza scuola-lavoro (ora Pcto) svolte dai ragazzi all’Osservatorio di Brera. A tutti gli studenti che ospitiamo, infatti, viene sempre mostrato il patrimonio storico dell’Osservatorio. Tra i libri, destano sempre molto interesse quelli legati alla rappresentazione della Terra con i suoi fenomeni e a quella del cielo con i suoi “abitanti” – costellazioni, comete, pianeti e satelliti – e con i suoi fenomeni – eclissi, occultazioni o esplosioni che siano.
Per iniziativa dei ragazzi, quindi, è stato avviato, partendo dai volumi schedati in biblioteca, un censimento delle raffigurazioni di Terra e cielo; finora ne sono state prese in considerazione oltre un centinaio. Queste scelte sono indubbiamente soggettive e incomplete rispetto al patrimonio della biblioteca (e infatti il progetto è in divenire) e si basano spesso su un criterio estetico, ma sono state fatte dai nostri studenti in piena autonomia e come tali le abbiamo accolte nell’elenco che pubblichiamo. Un ringraziamento, quindi, alle studentesse Isabella Pepita Mandrino, Emma Della Ceca e Giorgia Leone che, finora, hanno lavorato a questo progetto.
L’impronta magnetica racconta la storia della Luna
Un nuovo studio condotto dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology (Mit), pubblicato la settimana scorsa su Science Advances, potrebbe aver trovato una risposta a una domanda aperta da decenni riguardo al magnetismo delle rocce lunari. Un grande impatto sulla superficie della Luna – questo lo scenario suggerito dallo studio – potrebbe aver temporaneamente intensificato il suo debole campo magnetico, generando un picco momentaneo registrato in alcune rocce lunari.
Le prime evidenze del magnetismo lunare risalgono alle missioni Apollo degli anni ’60 e ’70, alle quali si sono aggiunte le rilevazioni delle sonde orbitali più recenti. Queste hanno infatti confermato la presenza di magnetismo residuo, specialmente sul lato nascosto della Luna. La spiegazione più accettata di questo fenomeno è l’esistenza di un campo magnetico globale generato da una dinamo interna, cioè da un nucleo di materiale fuso in movimento, simile a quello terrestre. Tuttavia, il nucleo lunare, molto più piccolo di quello della Terra, avrebbe prodotto un campo magnetico troppo debole per spiegare la forte magnetizzazione osservata in alcune rocce. Un’ipotesi alternativa riguarda un impatto gigante sulla superficie lunare, che avrebbe generato del plasma capace di interagire con un campo magnetico debole già esistente, amplificandolo localmente. Simulazioni che consideravano un campo magnetico solare molto debole, a distanza della Luna, avevano però escluso questo scenario.
Un’immagine del lato nascosto della Luna. Crediti: Nasa/Gsfc/Università Statale dell’Arizona
L’approccio adottato nel nuovo lavoro ipotizza un debole campo magnetico lunare, con un’intensità di circa 1 microtesla (50 volte più debole di quello terrestre attuale). Partendo da questo scenario, è stato simulato un impatto delle dimensioni di quello che ha formato il bacino di Imbrium, uno dei più grandi crateri lunari, situato sul lato visibile della Luna. Le simulazioni mostrano una nube di plasma sollevarsi dalla superficie di impatto e, in parte, diffondersi attorno alla Luna, concentrandosi sul lato opposto. In quel punto, il plasma avrebbe compresso e temporaneamente amplificato il debole campo magnetico lunare. Il tutto sarebbe avvenuto in un tempo incredibilmente rapido: appena 40 minuti.
Secondo gli autori, anche un intervallo di tempo così breve sarebbe stato sufficiente per imprimere l’impronta magnetica osservata. Questo, non solo grazie al campo magnetico amplificato, ma anche all’onda d’urto generata dall’impatto, che si sarebbe propagata fino al lato opposto, “disturbando” gli elettroni presenti nelle rocce. Questi, una volta ristabiliti, hanno assunto una nuova orientazione, allineata al campo magnetico momentaneamente rafforzato.
Questi risultati offrono una spiegazione completa della presenza di rocce altamente magnetizzate, specialmente sul lato nascosto della Luna. Un modo per verificarla sarebbe prelevare direttamente campioni di quelle rocce e cercare tracce di shock e forte magnetizzazione. Questo potrebbe diventare possibile grazie al programma Artemis della Nasa, che prevede l’esplorazione proprio del lato nascosto, in prossimità del polo sud lunare.
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Ixpe svela i segreti di una magnetar attiva
Osservata per la prima volta la polarizzazione di una magnetar dopo una fase di attivazione, chiamata outburst, grazie all’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe), missione spaziale nata dalla collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia spaziale italiana (Asi). I due lavori che riportano l’osservazione, uno guidato da ricercatrici e ricercatori italiani dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dell’Università di Padova, e l’altro da ricercatrici e ricercatori che lavorano negli Stati Uniti, sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico. Crediti: Esa
La magnetar 1E 1841-045, una stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73 a circa 28mila anni luce dalla Terra, ha sorpreso la comunità scientifica riattivandosi il 20 agosto 2024. È stata osservata da tutti i telescopi sensibili alle alte energie, compreso Ixpe, che per la prima volta in assoluto è riuscito a osservare la radiazione X polarizzata di una magnetar in uno stato di attività. La luce polarizzata è la luce in cui le onde elettromagnetiche oscillano su un piano preferenziale, e non in modo disordinato come succede con la luce “normale”. Misurare come e quanto la luce è polarizzata offre indizi cruciali sulla sua origine e sull’ambiente che ha attraversato per giungere fino a noi.
Una stella di neutroni è il residuo di una stella massiccia che, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo, collassa su se stessa, lasciando un nucleo estremamente denso, con una massa simile a quella del Sole, ma compresso in una sfera dal diametro paragonabile all’estensione di una città come Roma. Poiché le stelle di neutroni esaltano le proprietà delle loro stelle progenitrici, come la velocità di rotazione e l’intensità del campo magnetico, danno luogo ad alcuni dei fenomeni fisici più estremi dell’universo osservabile, offrendo opportunità uniche per studiare condizioni che sarebbero impossibili da replicare in un laboratorio sulla Terra.
Michela Rigoselli, ricercatrice Inaf. Crediti: Inaf/R. Bonuccelli
Le magnetar, stelle di neutroni con campi magnetici estremamente intensi, sono tra gli oggetti più affascinanti ed enigmatici dell’universo. Quando una di queste stelle si attiva, può rilasciare fino a mille volte l’energia che emetterebbe normalmente, dando luogo a fenomeni fisici ancora più estremi. Tuttavia, i meccanismi alla base di queste fluttuazioni energetiche non sono ancora del tutto compresi. In questo contesto, la misurazione della luce polarizzata gioca un ruolo cruciale: i dati raccolti mostrano che l’emissione di raggi X da 1E 1841-045 diventa sempre più polarizzata a livelli di energia più elevati, pur mantenendo lo stesso angolo di polarizzazione. Questo significa che le diverse componenti di emissione sono legate tra loro e che quella più ad alta energia, finora la più elusiva, è fortemente influenzata dal campo magnetico.
«È la prima volta che riusciamo a osservare la polarizzazione di una magnetar in stato di attività e questo ci ha permesso di vincolare i meccanismi e la geometria di emissione che si celano dietro a questi stati attivi», dice Michela Rigoselli, ricercatrice dell’Inaf di Milano e prima autrice dell’articolo. «Ora sarà interessante osservare 1E 1841-045 una volta tornata allo stato di quiescenza per monitorare l’evoluzione delle sue proprietà polarimetriche».
Questa osservazione evidenzia chiaramente le potenzialità della scienza delle magnetar, che può ancora essere approfondita attraverso la polarimetria ad alta energia.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “IXPE detection of highly polarized X-rays from the magnetar 1E 1841-045”, di Rigoselli M., Taverna R., Mereghetti S., Turolla R., Israel G.L., Zane S., Marra L., Muleri F., Borghese A., Coti Zelati F., De Grandis D., Imbrogno M., Kelly R. M. E., Esposito P., Rea N.
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “X-ray polarization of the magnetar 1E 1841-045”, di Stewart R., Younes G., Harding A.K., Wadiasingh Z., Baring M.G., Negro M., Strohmayer T.E., Ho W.C.G., Ng M., Arzoumanian, Z., Dinh Thi H., Di Lalla N., Enoto T., Gendreau K., Hu C., van Kooten A., Kouveliotou C., McEwen A.
Con Diana a bordo di Tianwen-2, verso un asteroide
Mancano meno di due giorni al lancio della missione cinese Tianwen-2, in programma a partire dalle 18:00 ora italiana di domani, mercoledì 28 maggio, dalla base di lancio di Xichang, nella Cina sud-occidentale, a bordo di un razzo Long March 3B. Obiettivo principale è un’impresa mai tentata prima dalla Cina: posarsi su un asteroide – il corpo celeste 469219 Kamoʻoalewa, noto anche come 2016 HO3 – e riportarne un campione sulla Terra. La consegna è prevista per la fine del 2027. Terminata questa prima fase della missione, la sonda proseguirà poi la sua avventura dirigendosi, questa volta, verso una cometa della fascia principale, la 311P/PanStarrs, che dovrebbe raggiungere nell’arco di sei anni.
Tianwen-2 asteroid sample return and comet exploration mission is planned to launch in 2025. Comet 311P/PANSTARRS will be studied after the spacecraft returning samples from asteroid 2016HO3. pic.twitter.com/so25RBdxTu— China ‘N Asia Spaceflight ️ (@CNSpaceflight) May 23, 2022
A bordo della sonda – che oltre ad ampliare le capacità di esplorazione planetaria della Cina mira a raccogliere nuove informazioni sulle origini e l’evoluzione di asteroidi e comete – è presente anche uno strumento scientifico interamente italiano, Diana, acronimo di Dust in situ Analyzer: sviluppato da un consorzio dall’Inaf Iaps di Roma, dal Cnr e dal Politecnico di Milano, avrà il compito di misurare e caratterizzare sul posto polveri e ghiaccio.
Diana2, una delle due teste sensoriali che compongono lo strumento italiano Diana a bordo della missione cinese Tianwen-2. Crediti: E. Palomba/Inaf
«Diana comprende due teste sensoriali, Diana1 e Diana2», spiega a Media Inaf uno degli scienziati che lo hanno realizzato, l’astrofisico Ernesto Palomba dell’Inaf di Roma. «Diana1 si occuperà di misurare la massa totale della polvere raccolta e di rilevare la presenza di ghiaccio d’acqua, mentre Diana2 sarà dedicata all’identificazione e alla caratterizzazione di composti organici altamente volatili».
«Il cuore del funzionamento dello strumento è basato sull’utilizzo di microbilance a cristalli in quarzo», prosegue Palomba, che allo sviluppo di microbilance ad altissima precisione per impieghi spaziali lavora da lungo tempo. «Lo strumento è miniaturizzato, e infatti ogni testa sensoriale pesa solo 90 grammi, occupando un volume di circa 50x50x35 mm ed è in grado di misurare fino a un milionesimo di grammo di polvere presente nello spazio. Le sue eccezionali prestazioni e la sua compattezza hanno motivato l’Agenzia spaziale cinese a sceglierci come unico strumento europeo della missione».
Quelli collezionati da Tianwen-2 – nome tratto dal titolo di un’opera del poeta cinese Qu Yuan, che potremmo tradurre come “Domande al cielo” – saranno, dicevamo, i primi campioni di asteroide portati sulla Terra dalla Cina, ma non certo la sua prima sample-return mission: le missioni cinesi Chang’e-5 nel 2020 e Chang’e-6 nel 2024 già hanno raccolto e recapitato con successo campioni lunari. E da un certo punto di vista anche questi che raccoglierà Tianwen-2 potrebbero essere considerati campioni del nostro satellite naturale: alcune analisi preliminari suggeriscono infatti che 469219 Kamoʻoalewapossa essere un frammento di Luna staccatosi in seguito a un impatto.
La raccolta del materiale sarà essa stessa un esperimento: verrà infatti tentata in tre differenti modalità. Anzitutto con un campionamento in volo, allungando un braccio robotico fino a “grattare” la superficie dell’asteroide mentre la sonda lo sorvola da vicino. Poi con il cosiddetto approccio touch-and-go, già sperimentato con successo dalla sonda giapponese Hayabusa2 e dalla sonda Nasa Osiris-Rex. Infine con un atterraggio vero e proprio, un approdo al termine del quale – se le caratteristiche del suolo lo consentiranno – la sonda si ancorerà al terreno e tenterà di trapanarlo.
Il lato caldo della Luna
Variazioni del campo gravitazionale lunare misurate dal Gravity Recovery and Interior Laboratory (Grail) della Nasa da marzo a maggio 2012. Il campo mostrato ha una risoluzione superficie di circa 20 chilometri. Il rosso corrisponde agli eccessi di massa e il blu alle carenze di massa. La mappa mostra maggiori dettagli su piccola scala sul lato lontano della Luna rispetto al lato vicino, perché il lato lontano presenta molti più piccoli crateri. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Mit/Gsfc
Come molti lettori sapranno, la Luna presenta marcate differenze tra il lato visibile dalla Terra e quello nascosto. Il primo è in gran parte ricoperto da mari di scuro basalto, solcati da crateri da impatto e da chiari raggi di regolite, mentre il secondo mostra una presenza molto più ridotta di mari rispetto alla faccia ben nota.
Le differenze non si limitano all’aspetto superficiale: si riscontrano anche nello scostamento tra il centro di massa e il centro geometrico del satellite, nello spessore della crosta, nella distribuzione superficiale degli elementi radiogeni e nella geologia complessiva. Diverse ipotesi sono state avanzate per spiegare questa asimmetria, ma la sua origine resta ancora oggetto di dibattito.
Alcuni studi suggeriscono che queste differenze possano derivare da variazioni nella struttura interna della Luna, in particolare nella distribuzione degli elementi radiogeni responsabili della produzione di calore. Tale distribuzione potrebbe aver generato, nel corso del tempo, una persistente differenza di temperatura tra il lato visibile e quello nascosto. Questi modelli riescono, ad esempio, a spiegare la concentrazione del vulcanismo sul lato visibile della Luna, offrendo al contempo preziosi vincoli sulle masse e sulla distribuzione degli elementi radiogeni stessi, che restano in gran parte poco conosciuti.
Tuttavia, fino a oggi non era stata trovata alcuna evidenza osservativa inequivocabile di differenze termiche o di variazioni strutturali profonde. Ora, uno studio recentemente pubblicato su Nature ha quantificato la presenza di tali differenze analizzando la risposta gravitazionale della Luna alle forze mareali periodiche esercitate dalla Terra, rivelando che l’interno del nostro satellite è più caldo sul lato vicino, quello rivolto verso il nostro pianeta, e suggerendo che le strutture interne lunari siano irregolari.
Questo è stato dedotto da Ryan Park e colleghi, analizzando i dati della missione Grail (Gravity Recovery and Interior Laboratory) della Nasa, lanciata nel 2011 con lo scopo di mappare con altissima precisione il campo gravitazionale della Luna. I ricercatori hanno calcolato con precisione quanto la Luna sia suscettibile a deformarsi in risposta alla gravità terrestre, scoprendo che tale misura è superiore del 72 per cento rispetto a quanto ci si aspetterebbe se l’interno lunare fosse perfettamente uniforme e simmetrico. In particolare, utilizzando i dati delle sonde gemelle Ebb e Flow – le due componenti della missione Grail – il team ha rilevato una differenza del 2-3 per cento nella capacità del mantello lunare di deformarsi tra il lato vicino e quello nascosto.
Modello concettuale dell’evoluzione dell’interno lunare. Circa 4 miliardi di anni fa (a sinistra), una parziale fusione del mantello nel lato vicino della Luna — legata a un’anomalia termica — risale verso la superficie, dando origine ai mari lunari. Con il progressivo raffreddamento dell’interno (a destra), la zona di fusione si è ritirata in profondità, stabilizzandosi oggi tra 800 e 1.200 km sotto la superficie. La scala cromatica rappresenta la temperatura del mantello (dal giallo chiaro per le zone più calde all’arancione scuro e al verde per quelle più fredde). Le croci gialle indicano la posizione dei terremoti lunari, localizzati all’interno o in prossimità delle attuali regioni parzialmente fuse del mantello. Crediti: Park et al., Nature
Il team ha esplorato diverse possibili cause dell’anomalia, tra cui la composizione chimica della Luna. Tuttavia, i ricercatori sono giunti alla conclusione che tali dati potrebbero essere ben spiegati da una differenza termica fino a 170 °C tra l’interno dell’emisfero vicino e quello del lato lontano. Si ipotizza che tale differenza sia sostenuta dal decadimento radioattivo di elementi come torio e titanio, concentrati nell’interno del lato visibile, forse come residuo dell’intensa attività vulcanica che ha modellato quella regione tra 3 e 4 miliardi di anni fa.
Secondo gli autori, i metodi utilizzati per sondare l’interno della Luna potrebbero essere applicati anche ad altri corpi planetari, come Marte, Encelado e Ganimede, in quanto non richiedono l’atterraggio diretto di una sonda sulla superficie.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Thermal asymmetry in the Moon’s mantle inferred from monthly tidal response” di R. S. Park, A. Berne, A. S. Konopliv, J. T. Keane, I. Matsuyama, F. Nimmo, M. Rovira-Navarro, M. P. Panning, M. Simons, D. J. Stevenson & R. C. Weber
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