Lo zuccheroso disco di V883 Orionis
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Utilizzando l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma), un team di astronomi guidato da Abubakar Fadul del Max Planck Institute for Astronomy (Mpia) ha scoperto molecole organiche complesse – tra cui la prima possibile rilevazione di glicole etilenico – nel disco protoplanetario della protostella V883 Orionis, attualmente in fase di outburst (ossia di aumento improvviso della luminosità).
Il confronto tra diversi ambienti cosmici mostra che l’abbondanza e la complessità di queste molecole aumentano dalle regioni di formazione stellare fino ai sistemi planetari completamente evoluti. Ciò suggerisce che i “semi della vita” vengano assemblati nello spazio e siano ampiamente diffusi. I risultati dello studio sono stati pubblicati ieri sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Questa illustrazione artistica mostra il disco di formazione planetaria attorno alla stella V883 Orionis. Nella parte più esterna del disco, i gas volatili si congelano sotto forma di ghiaccio, che contiene molecole organiche complesse. Un’esplosione di energia proveniente dalla stella riscalda il disco interno fino a temperature tali da far evaporare il ghiaccio e rilasciare le molecole complesse, permettendo così agli astronomi di rilevarle. L’immagine nel riquadro mostra la struttura chimica di alcune molecole organiche complesse rilevate o ipotizzate nel disco protoplanetario (da sinistra a destra): propionitrile (cianuro di etile), glicolonitrile, alanina, glicina, glicole etilenico, acetonitrile (cianuro di metile)
Gli astronomi avevano già trovato molecole organiche complesse (denominate Com, dall’inglese complex organic molecules) in vari luoghi associati alla formazione di stelle e pianeti. Le Com sono molecole con più di cinque atomi, di cui almeno uno di carbonio. Molte di esse sono considerate i mattoni della vita, come gli aminoacidi e gli acidi nucleici o i loro precursori. La scoperta di 17 Com nel disco protoplanetario di V883 Orionis – tra cui il glicole etilenico e il glicolonitrile – fornisce un tassello importante nel puzzle dell’evoluzione chimica di queste molecole, colmando il divario tra le fasi precedenti e successive alla formazione delle stelle e dei dischi protoplanetari. Il glicolonitrile, in particolare, è un precursore degli amminoacidi glicina e alanina, nonché della base nucleica adenina.
La transizione da protostella a giovane stella circondata da un disco di polvere e gas è accompagnata da una fase violenta, caratterizzata da shock di gas, intense radiazioni e una rapida espulsione di materiale. Questi processi energetici potrebbero compromettere gran parte della chimica complessa assemblata nelle fasi precedenti. Per questo motivo, gli scienziati avevano ipotizzato un cosiddetto scenario di “reset”, secondo cui la maggior parte dei composti chimici necessari all’evoluzione della vita avrebbe dovuto essere nuovamente sintetizzata all’interno dei dischi circumstellari, durante la formazione di comete, asteroidi e pianeti.
«Ora sembra che sia vero il contrario», sottolinea Kamber Schwarz, co-autrice di Mpia. «I nostri risultati suggeriscono che i dischi protoplanetari ereditano molecole complesse dalle fasi precedenti e che la formazione di molecole complesse può continuare durante la fase del disco protoplanetario». In effetti, il periodo che intercorre tra l’energica fase protostellare e la formazione di un disco protoplanetario sarebbe di per sé troppo breve per la formazione di Com in quantità rilevabili. Di conseguenza, le condizioni che preludono ai processi biologici potrebbero essere piuttosto diffuse, piuttosto che essere limitate a singoli sistemi planetari.
Gli astronomi hanno trovato le molecole organiche più semplici, come il metanolo, in dense regioni di polvere e gas che precedono la formazione delle stelle. In condizioni favorevoli, possono anche contenere composti complessi come il glicole etilenico, una delle specie ora scoperte in V883 Orionis. «Abbiamo recentemente scoperto che il glicole etilenico potrebbe formarsi per irradiazione ultravioletta dell’etanolamina, una molecola recentemente scoperta nello spazio», aggiunge Tushar Suhasaria, coautore e responsabile del laboratorio Origins of Life del Mpia. «Questa scoperta supporta l’idea che il glicole etilenico possa formarsi non solo in questi ambienti, ma anche nelle fasi successive dell’evoluzione molecolare, dominate dall’irradiazione Uv».
Molecole più complesse e fondamentali per la biologia, come amminoacidi, zuccheri e basi nucleiche – i componenti del Dna e dell’Rna – sono state rilevate in asteroidi, meteoriti e comete del Sistema solare. Le reazioni chimiche che sintetizzano questi Com avvengono in condizioni di freddo, preferibilmente su grani di polvere ghiacciata che in seguito si coagulano per formare oggetti più grandi. Nascoste in queste miscele di roccia, polvere e ghiaccio, di solito rimangono inosservate. L’accesso a queste molecole è possibile solo “scavando” con sonde spaziali o attraverso il riscaldamento esterno, che fa evaporare il ghiaccio. In questo modo, grazie alle tecniche spettroscopiche, è possibile rilevare le emissioni delle molecole liberate. Queste impronte spettrali (paragonabili a quelle digitali) aiutano gli astronomi a identificare le molecole che erano sepolte nel ghiaccio.
Un processo di riscaldamento simile è attualmente in corso nel sistema di V883 Orionis. La stella centrale è ancora in fase di accrescimento, accumulando gas dal disco circostante, finché nel suo nucleo non si innescheranno le reazioni di fusione. Durante questi periodi di crescita, il gas che si accumula si riscalda, generando intense esplosioni di radiazione. «Queste esplosioni sono abbastanza potenti da riscaldare il disco circostante fino a temperature tali da sciogliere le regioni altrimenti ghiacciate, rilasciando le sostanze chimiche che abbiamo rilevato», spiega Fadul.
«Le molecole complesse, tra cui il glicole etilenico e il glicolonitrile, irradiano a frequenze radio. Alma è perfetto per rilevare questi segnali», spiega Schwarz. «Anche se questo risultato è entusiasmante, non abbiamo ancora districato tutte le firme che abbiamo trovato nei nostri spettri. I dati a più alta risoluzione confermeranno i rilevamenti di glicole etilenico e glicolonitrile e forse riveleranno anche sostanze chimiche più complesse che semplicemente non abbiamo ancora identificato».
«Forse sarà il caso di esaminare anche altre regioni dello spettro elettromagnetico per trovare molecole ancora più evolute», conclude Fadul. «Chi sa cos’altro potremmo scoprire».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “A Deep Search for Ethylene Glycol and Glycolonitrile in the V883 Ori Protoplanetary Disk” di Abubakar M. A. Fadul, Kamber R. Schwarz, Tushar Suhasaria, Jenny K. Calahan, Jane Huang, and Merel L. R. van ’t Hoff
A caccia di asteroidi con gli eliostati
Diciamolo subito: non funziona. Non ancora, almeno. Elegantissimo concettualmente, il metodo ideato da John Sandusky dei Sandia National Laboratories (Usa), di asteroidi, non ne ha ancora visto uno. Ma lui è ottimista. È appena agli inizi. Ha usato per ora uno soltanto dei 212 eliostati della National Solar Thermal Test Facility, un’enorme distesa di specchi concavi e computerizzati che concentrano la luce verso una torre alta 60 metri. Ed è lì, in cima a quella torre, che Sandusky ha trascorso le notti dell’estate 2023 per mettere alla prova la sua idea: sfruttare tutta quella potenza riflettente, pensata per raccogliere durante il giorno l’energia che ci regala il Sole, anche durante le ore notturne. Per tentare, appunto, di rilevare il passaggio di asteroidi, e magari individuarne di sconosciuti e potenzialmente pericolosi.
La distesa di 212 eliostati e la torre di raccolta della National Solar Thermal Test Facility statunitense. Crediti: Sandia National Laboratories
«Le distese di eliostati di notte non lavorano. Se ne stanno semplicemente lì, inutilizzati. Il nostro paese ha l’opportunità di offrire loro un impiego notturno a un costo relativamente basso per individuare i cosiddetti Neo, oggetti near-Earth», spiega Sandusky. «Se sapessimo in anticipo che un asteroide sta arrivando e dove potrebbe colpire, avremmo maggiori possibilità di prepararci e ridurre i potenziali danni».
L’obiettivo, insomma, sarebbe analogo a quello di telescopi a grande campo come il Flyeye, che dovrebbe entrare in funzione a Monte Mufara, in Sicilia, per vegliare sul nostro pianeta. La tecnica è però completamente diversa. Non essendo pensato per osservazioni astronomiche, il sistema basato sugli eliostati non è infatti in grado di produrre immagini del cielo notturno, né dunque di analizzarle in cerca delle tracce di spostamento che costituiscono la firma tipica di un asteroide, o di un qualunque corpo – anche un telescopio spaziale – che si muova in cielo relativamente più veloce rispetto alle stelle. Il principio che tenta di sfruttare il metodo messo a punto da Sandusky si basa, dunque, soltanto sul lievissimo incremento di quantità di luce che la torre di raccolta dovrebbe registrare quando un asteroide, o un veicolo spaziale, attraversa durante le ore notturne il campo visivo dell’eliostato.
Parliamo però di quantità assolute infinitesimali. «Le torri solari raccolgono di giorno un milione di watt di luce solare», dice John. «Di notte, vogliamo raccogliere la luce solare riflessa dagli asteroidi, che è nell’ordine del femtowatt, vale a dire un milionesimo di miliardesimo di watt». E anche concentrandosi sulla rilevazione delle sole differenze d’ampiezza le cose non vanno molto meglio. Rispetto all’irraggiamento prodotto dalle stelle presenti in media in un campo di vista di circa mezzo grado, un asteroide con magnitudine ottica apparente pari a 18 aumenterebbe l’irraggiamento di circa 20 parti per milione.
Lo scienziato John Sandusky nel campo degli eliostati presso il National Solar Thermal Test Facility. Crediti: Craig Fritz
L’idea di Sandusky è dunque quella di tentare di analizzare il segnale nel dominio delle frequenze, facendo oscillare a velocità costante gli eliostati e misurando le variazioni di frequenza nel segnale cumulativo d’irraggiamento registrato dalla torre. «Disponiamo di metodi molto precisi per misurare le frequenze. Anche variazioni di frequenza minime, pari a un milionesimo di ciclo al secondo», spiega Sandusky, «sono misurabili grazie a standard disponibili in commercio, che usando segnali di riferimento come quello del Gps. Non occorre far altro che spazzare il cielo con l’eliostato a una velocità fissa. Se si riescono a mappare a mappare tutte le stelle su una frequenza, qualunque cosa che si muova rispetto alle stelle apparirà su una frequenza vicinissima ma comunque distinguibile».
Il principio è ben illustrato nello schema qui di seguito. La luce proveniente dalle singole stelle e dall’asteroide produce un impulso di fotocorrente ogni volta che la scansione dell’eliostato – che spazza l’ascensione retta a una frequenza di 18,5 milliHertz – concentra brevemente il loro riflesso sul fotorilevatore presente sulla torre solare, come indicato nel pannello inferiore per una singola stella (in corrispondenza delle intersezioni fra la linea blu, che rappresenta l’ascensione retta dell’eliostato, e la prima linea tratteggiata rossa, che rappresenta appunto la stella) e per l’asteroide (in corrispondenza, in questo caso, delle intersezioni fra la linea blu e la linea continua verde). L’insieme delle stelle presenti nel campo di vista produrrà dunque una fotocorrente stellare complessiva con periodo T, mentre quella – enormemente più debole – dovuta all’asteroide avrà un periodo pari a T+ΔT.
Modello concettuale della tecnica proposta nel dominio della frequenza per separare il segnale degli asteroidi dal fondo stellare. L’orientamento dell’eliostato varia periodicamente lungo l’ascensione retta ogni 54 secondi, producendo una fotocorrente stellare di periodo T. Anche la fotocorrente proveniente da un asteroide che si muove lungo la variazione segue un ciclo, ma il suo periodo è T+ΔT. Crediti: John V. Sandusky, Proceedings Volume 13149, Unconventional Imaging, Sensing, and Adaptive Optics, 2024
Se il sistema fosse in grado di rilevare questa differenza di frequenza, ecco che avrà rilevato il passaggio dell’asteroide. Ma è un grosso ‘se’. La campagna di misure di Sandusky, i cui risultati sono stati presentati l’anno scorso alla Spie, mostra che, per sperare di rilevare il passaggio di un asteroide, la stabilità di frequenza del sistema dovrebbe essere migliorata di un ordine di grandezza. E anche così, per ridurre il rumore, sarebbe comunque necessario usare tutti e 212 gli eliostati, non uno soltanto come fatto durante il test.
In tal caso potrebbe funzionare? C’è qualche altro accorgimento che si potrebbe usare? «Vogliamo sentire l’opinione dei nostri colleghi nel campo dell’ottica e della comunità che si occupa della ricerca di asteroidi», è l’appello lanciato da Sandusky. Nel frattempo, come prossimo obiettivo intermedio si è posto quello di rilevare il passaggio di un pianeta.
Per saperne di più:
- Leggi sui Proceedings Volume 13149, Unconventional Imaging, Sensing, and Adaptive Optics 2024 l’articolo “Prospect for cislunar spacecraft and near-earth asteroid detection using heliostat fields at night”, di John V. Sandusky
Orologi quantistici per sondare lo spaziotempo
media.inaf.it/2025/07/25/orolo…
Un nuovo studio condotto da Igor Pikovski dello Stevens Institute of Technology, Jacob Covey dell’Università dell’Illinois Urbana-Champaign e Johannes Borregaard dell’Università di Harvard suggerisce che le reti quantistiche siano più versatili di quanto si pensasse. Nell’articolo appena pubblicato sulla rivista Prx Quantum, i ricercatori dimostrano che questa tecnologia può essere utilizzata per indagare come la curvatura dello spaziotempo influenza la teoria quantistica. Si tratta del primo test sperimentale di questo genere.
Una rete quantistica di orologi distanti. Gli orologi entangled possono testare come si comporta la teoria quantistica in presenza di uno spaziotempo curvo, come previsto da Einstein, oppure se le nostre teorie attuali si rivelano inadeguate. Crediti: Igor Pikovski
Finora la fisica quantistica ha superato a pieni voti ogni test. Ma il suo comportamento quando entra in gioco la teoria della gravità di Einstein – la relatività generale – è meno chiaro. Nella teoria di Einstein, la gravità non è più una forza, bensì la manifestazione della curvatura dello spaziotempo. Questo porta a effetti unici, come il rallentamento del tempo in prossimità di pianeti o altri corpi dotati di massa: più massa c’è, più evidente è l’effetto. Basti pensare a Gargantua e al Pianeta di Miller, se siete amanti di Interstellar.
Questo vale anche per la Terra, ovviamente: il tempo sotto l’ombrellone in una spiaggia in riva al mare scorre più lentamente che sulla cima dell’Everest. Anche se questo non dovrebbe portarvi a ritenere più furbo trascorrere le vacanze al mare piuttosto che in montagna perché stiamo parlando di pochi microsecondi all’anno.
Il fenomeno è stato misurato e confermato con un’accuratezza straordinaria ed è stato reso popolare da film e romanzi di fantascienza, come per l’appunto Interstellar: chiunque l’abbia visto si ricorderà di quanto siano costate ai protagonisti, in termini di decine di anni, le poche ore trascorse sul Pianeta di Miller. Ma come influisce questa variazione nel flusso del tempo sulla meccanica quantistica? La teoria quantistica, la relatività generale – o entrambe – necessitano forse di una revisione nel punto in cui si incontrano?
Sebbene una teoria completa della gravità quantistica non esista ancora, viene suggerito che i principi della meccanica quantistica potrebbero cambiare in presenza di uno spaziotempo curvo. Tuttavia, esplorare sperimentalmente questa frontiera è stato finora impossibile.
In uno studio precedente apparso il 27 maggio su Physical Review Research, Pikovski e Borregaard hanno dimostrato che i tempi sono maturi per esplorare queste domande, utilizzando le reti quantistiche. In particolare, hanno mostrato come due caratteristiche uniche ma distinte della teoria quantistica e della gravità entrino in gioco contemporaneamente.
Nella teoria quantistica esistono le sovrapposizioni: la materia può esistere non solo in stati ben definiti, ma anche in combinazioni di essi, simultaneamente. L’informatica quantistica sfrutta questa proprietà agendo sui qubit– sovrapposizioni quantistiche degli stati |0> e |1>. Le reti quantistiche permettono di trasmettere questi qubit su grandi distanze. Tuttavia, in prossimità della Terra, questi qubit sono influenzati dalla curvatura dello spaziotempo, visto che lo scorrere del tempo varia a seconda della gravità.
I ricercatori hanno dimostrato che sovrapposizioni di orologi atomici – come se un orologio si trovasse in due posti contemporaneamente o stesse segnando due tempi diversi allo stesso momento – all’interno di reti quantistiche sarebbero in grado di “percepire” simultaneamente diversi flussi temporali, dovuti alla diversa gravità. In altre parole, se un orologio è in sovrapposizione tra due posizioni con gravità diversa, “vive” due flussi temporali diversi allo stesso tempo.
Questo risultato non è solo teorico: può essere usato per progettare esperimenti reali per testare come la meccanica quantistica si comporta quando entra in gioco la curvatura dello spaziotempo, cioè la gravità. «L’interazione tra teoria quantistica e gravità è uno dei problemi più impegnativi della fisica odierna, ma anche affascinante», afferma Pikovski. «Le reti quantistiche ci aiuteranno a testare questa interazione per la prima volta con esperimenti reali».
In collaborazione con il laboratorio di Covey, Pikovski e Borregaard hanno sviluppato un protocollo concreto di test, mostrando infine come gli effetti quantistici possono essere distribuiti tra i nodi della rete utilizzando i cosiddetti stati W entangled – un tipo specifico di entanglement multiplo, in cui più qubit (almeno 3) sono intrecciati in modo tale che se uno di essi viene misurato, gli altri restano comunque in uno stato entangled – e come viene registrata l’interferenza tra questi sistemi entangled.
Sfruttando le tecnologie avanzate di fisica quantistica di cui oggi disponiamo, che permettono esperimenti impensabili fino a pochi anni fa – come il teletrasporto quantistico (trasferimento dello stato quantistico di una particella a un’altra particella) e le coppie di Bell entangled (stati massimamente entangled di due qubit, chiamati così in onore del fisico John Bell, che formulò un teorema fondamentale sull’entanglement) nelle matrici di atomi – è possibile effettuare un test della teoria quantistica su uno spaziotempo curvo.
I risultati di Pikovski, Covey e Borregaard mostrano che le reti quantistiche non rappresentano solo uno strumento pratico per realizzare una futura Internet quantistica, ma offrono anche opportunità uniche per esplorare aspetti fondamentali della fisica che sarebbero irraggiungibili con le tecnologie classiche. Per la prima volta, diventa possibile testare il comportamento della meccanica quantistica in presenza di uno spaziotempo curvo.
Per saperne di più:
- Leggi su Prx Quantum l’articolo “Probing Curved Spacetime with a Distributed Atomic Processor Clock” di Jacob P. Covey, Igor Pikovski e Johannes Borregaard
Guarda su YouTube il video in italiano di Kamil Laurent su cosa sono i qubits:
Che vento tira sulla stella Hd 45166?
Uno degli enigmi più intriganti dell’astrofisica riguarda le magnetar, stelle di neutroni estremamente compatte, caratterizzate da campi magnetici che possono superare il miliardo di tesla. Nel 2023 è stata scoperta una stella che potrebbe aiutare gli scienziati a fare luce sui processi fisici che portano alla loro origine. Si tratta di Hd 45166, è composta principalmente da elio bollente e appartiene a un sistema binario. La sua massa è circa il doppio di quella del Sole e il suo campo magnetico è il più intenso mai osservato in una stella ancora attiva. Spettroscopicamente, viene classificata come stella di Wolf-Rayet, una classe rara di stelle massicce e calde, che espellono gli strati più esterni sotto forma di violenti venti stellari.
Rappresentazione artistica di Hd 45166, la stella che potrebbe diventare una magnetar. Crediti: Eso/L. Calçada
Ciò che ha suscitato maggiore interesse è il fatto che Hd 45166 potrebbe essere la progenitrice di una futura magnetar. In realtà, la possibilità che ciò accada dipende dalla quantità di massa che la stella perderà attraverso il suo vento stellare prima del collasso. Uno studio a guida Inaf pubblicato lo scorso maggio sulla rivista Astronomy & Astrophysics ha chiarito questo aspetto: per essere certi che la stella diventi una magnetar, bisogna capire “che vento tira” da quelle parti. Infatti, se il vento è troppo forte, può portare via abbastanza materiale da ridurre la massa della stella al di sotto del cosiddetto “limite di Chandrasekhar” (che corrisponde a circa 1,44 masse solari), dando luogo a una semplice nana bianca invece che a una magnetar.
«Una stima quanto più precisa possibile del suo tasso di perdita di massa è quindi cruciale per quantificare quanta massa avrà la stella poco prima della sua morte», spiega Paolo Leto dell’Inaf di Catania, primo autore dello studio.
Ma ottenere questa stima non è affatto semplice nel caso di una stella di Wolf-Rayet, il cui intenso campo magnetico influenza e confina il vento stellare, rendendo così insufficienti i metodi di misura tradizionali, basati su osservazioni nell’ultravioletto e nell’ottico. Per superare l’ostacolo, il team guidato da Leto ha adottato un approccio multi-frequenza, combinando dati nei raggi X (dal satellite Xmm-Newton) e onde radio (dall’interferometro Vla). Quello che è emerso dalle nuove misure è che, nonostante la stella di Wolf-Rayet sia molto brillante nei raggi X – a conferma del fatto che il campo magnetico influenza fortemente il vento stellare – non mostra alcuna emissione rilevabile nelle onde radio.
Paolo Leto, primo ricercatore all’Osservatorio astrofisico dell’Inaf di Catania e primo autore dello studio pubblicato su A&A
I modelli teorici adottati spiegano che questo risultato sorprendente è proprio la conferma che gli scienziati cercavano: la quantità di emissione radio rilevata (o meglio, non rilevata), è infatti direttamente collegata alla quantità di materia che la stella sta perdendo.
«Queste nuove misure ci dicono che il vento stellare è relativamente debole», continua Leto, «e questo rafforza l’ipotesi che Hd 45166 possa conservare una massa sufficiente per collassare in una magnetar».
Un significativo passo avanti nella comprensione dei venti nelle stelle magnetiche calde potrà essere fatto grazie all’utilizzo dell’interferometria di nuova generazione. In particolare il next-generation Vla (ngVla) e lo Square Kilometer Array (Ska), potrebbero permettere di rivelare anche i segnali radio più deboli, fornendo una visione senza precedenti dei processi fisici che caratterizzano le stelle più magnetizzate dell’universo.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “X-ray and radio data obtained by XMM-Newton and VLA constrain the stellar wind of the magnetic quasi-Wolf-Rayet star in HD45166”, di P. Leto, L.M. Oskinova, T. Shenar, G.A. Wade, S. Owocki, C.S. Buemi, R. Ignace, C. Trigilio, G. Umana, A. ud-Doula, H. Todt e W.-R. Hamann
Tensione di Hubble, l’indagine continua
Da anni, la cosmologia è alle prese con un enigma degno di un vero thriller scientifico: quanto velocemente si sta espandendo l’universo? Al centro del mistero c’è un numero cruciale, la costante di Hubble (H0), che dovrebbe dirci a che velocità lo spazio “si allarga” ogni milione di parsec — una distanza astronomica pari a circa 3,26 milioni di anni luce. Ma il problema è che questo numero, a seconda di come lo si misura, sembra cambiare. E questa discrepanza ha messo in discussione alcune delle certezze più solide sul nostro modello di universo.
Gli scienziati hanno effettuato nuovi calcoli sulla velocità di espansione dell’universo, utilizzando i dati raccolti dal James Webb Space Telescope su diverse galassie. In alto, l’immagine del Jwst di una di queste galassie, nota come Ngc 1365. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Janice Lee (NoirLab), Alyssa Pagan (Stsci)
Metodi basati sull’osservazione della radiazione cosmica di fondo (Cmb), misurata con grande precisione dalla missione europea Planck, e quelli che usano stelle e supernove nelle galassie vicine non riescono a concordare su un valore univoco. Questo scarto, chiamato “tensione di Hubble”, pone una sfida che potrebbe portare a una revisione profonda del modello cosmologico standard, il quadro teorico che descrive l’evoluzione e la composizione dell’universo, inclusa la materia oscura e l’energia oscura.
Oltre cinquecento ricercatori si sono riuniti nel consorzio CosmoVerse per produrre un white paper, un libro bianco che approfondisce le varie tensioni cosmologiche tra teoria e osservazione, del quale abbiamo già parlato qui su Media Inaf nell’aprile scorso in un’intervista a Eleonora Di Valentino, editor del white paper insieme a Jackson Levi Said. Al dibattito ha contribuito anche un team guidato da Joe Jensen, docente della Utah Valley University negli Stati Uniti e che vede coinvolti diversi ricercatori dell’Inaf. Sfruttando anche la potenza del telescopio spaziale James Webb (Jwst), il gruppo ha ottenuto un nuovo valore di H0 che confermerebbe la tensione esistente, alimentando il dibattito sulla possibile necessità di una nuova fisica oltre il modello cosmologico standard.
Michele Cantiello, primo ricercatore all’Osservatorio astronomico d’Abruzzo, co-autore dello studio insieme ad altri ricercatori Inaf. Crediti: Riccardo Bonuccelli
Per comprendere meglio le implicazioni di queste nuove misure, la natura del dibattito scientifico in corso e cosa potrebbe significare tutto questo per il nostro modo di intendere l’universo, abbiamo posto qualche domanda a Michele Cantiello dell’Inaf d’Abruzzo, tra gli autori della ricerca.
Da circa un secolo, grazie ai lavori di Lemaître ed Hubble, sappiamo che l’universo è in espansione. Ma cosa si intende concretamente e perché alcuni affermano che l’universo si sta espandendo più velocemente del previsto?
«Le galassie si stanno allontanando le une dalle altre come effetto dell’espansione dello spazio, e per spiegarlo basta pensare alla lievitazione del pane condito con l’uvetta: man mano che l’impasto (lo spazio) si espande, le uvette (le galassie) si allontanano le une dalle altre, non perché si muovono attraverso l’impasto, ma perché l’impasto stesso cresce.
Tuttavia, verso la fine degli anni ’90, due gruppi indipendenti di astronomi, utilizzando le osservazioni delle supernove di tipo Ia, generate dalle esplosioni di nane bianche, hanno fatto la stessa scoperta sorprendente: non solo l’universo si sta espandendo, ma questa espansione sta accelerando. Tornando all’esempio del pane all’uvetta, è come se il pane non solo stesse lievitando, ma lo facesse sempre più rapidamente con il passare del tempo. Questa scoperta – che nel 2011 è valsa il premio Nobel per la fisica agli astronomi Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam Riess, alla guida dei due gruppi di ricerca – ha portato alla formulazione dell’ipotesi dell’energia oscura: una misteriosa componente dell’universo che agisce come una forza repulsiva su larga scala. Dire, quindi, che “l’universo si sta espandendo più velocemente del previsto” significa che, in contrasto ad esempio con l’idea che la gravità avrebbe dovuto rallentare l’espansione cosmica, l’universo sta invece accelerando la sua espansione. In altre parole, la velocità con cui le galassie si allontanano aumenta man mano che l’universo evolve».
Si nomina spesso la costante di Hubble: perché è così importante determinarla con precisione e come influenza la nostra comprensione del cosmo?
«La costante di Hubble, indicata con H0 (H-zero), misura il tasso di espansione dell’universo in un dato momento – in particolare nel tempo attuale t0, da cui lo “zero” nella notazione. Ci dice a quale velocità le galassie si allontanano tra loro in funzione della distanza: più una galassia è lontana, più rapidamente la vediamo allontanarsi da noi. Il valore di H0 quantifica esattamente questo rapporto e determinarlo con precisione è cruciale perché rappresenta una delle grandezze fondamentali dell’attuale Modello cosmologico standard – conosciuto come Lambda-Cdm, dall’inglese cold dark matter – con materia oscura fredda e costante cosmologica. In questo modello, l’universo è composto per circa il 73 per cento da energia oscura, per circa il 23 per cento da materia oscura, e solo per il 4 per cento circa dalla materia ordinaria che costituisce stelle, pianeti e galassie. Dunque, il valore di H0 influisce direttamente su molte grandezze cosmologiche, come l’età dell’universo, la sua dimensione, la velocità con cui si è evoluto e la sua dinamica futura. Una sua determinazione accurata è quindi essenziale per testare la coerenza del modello cosmologico e confrontare le previsioni teoriche con le osservazioni».
Negli ultimi anni, però, le misurazioni del tasso di espansione dell’universo hanno prodotto risultati discordanti, da cui la cosiddetta “tensione di Hubble”. Quali sono le principali differenze tra i metodi basati sulla radiazione cosmica di fondo e quelli che, per misurare le distanze cosmiche, usano come “candele standard” stelle e supernove nelle galassie vicine?
«Le misure della costante di Hubble basate sulle “candele standard” sfruttano la legge di Hubble e le distanze vengono stimate usando oggetti, ad esempio le supernove di tipo Ia, che hanno una luminosità intrinseca nota: confrontando questa con la luminosità apparente delle stelle si risale alla distanza della galassia. Queste misurazioni sono spesso chiamate dirette, o late-time, perché stimano H0 osservando l’universo relativamente vicino a noi, cioè in epoche cosmologiche recenti. Al contrario, il valore di H0 ottenuto dalla missione spaziale Planck non è una misura diretta, ma una stima indiretta (early-time) derivata dall’osservazione della radiazione cosmica di fondo (Cmb), cioè la luce fossile emessa circa 380mila anni dopo il Big Bang. In questo caso, il valore di H0 non è misurato, ma viene dedotto applicando il modello cosmologico standard: si parte dalle condizioni iniziali dell’universo misurate con altissima precisione da Planck, e si calcola quale dovrebbe essere oggi il tasso di espansione, assumendo che il modello sia corretto. In pratica, la differenza fondamentale è che metodi “locali” basati sulla misura diretta delle distanze con le candele standard e la legge di Hubble misurano il valore di H0 oggi; al contrario, i metodi “primordiali” come Planck determinano l’attuale H0 a partire dal passato, assumendo un modello cosmologico. Il fatto che questi due approcci portino a risultati discordanti – con una differenza superiore a quanto previsto dalle incertezze – è ciò che dà origine alla cosiddetta tensione di Hubble. E capire se questa discrepanza sia dovuta a errori sistematici o indichi una lacuna nella nostra comprensione dell’universo è una delle sfide più attuali e affascinanti della cosmologia moderna.
Illustrazione dell’accelerazione dell’espansione dell’universo. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab
Il vostro team ha adottato un metodo alternativo basato sulla tecnica della fluttuazione di brillanza superficiale (Sbf). In cosa consiste? E quali osservazioni ha richiesto?
«Uno dei maggiori problemi nelle stime della costante di Hubble basate sull’universo locale (late-time) è la propagazione delle incertezze quando si concatenano diversi indicatori di distanza (come le candele standard di cui sopra) per raggiungere distanze sufficientemente grandi da fornire una misura affidabile di H0. Il nostro team ha sviluppato un approccio alternativo, sfruttando dati combinati dei telescopi spaziali Hubble (Hst) e James Webb (Jwst), per collegare in modo diretto due indicatori di distanza molto precisi: il metodo della punta del ramo delle giganti rosse (tip of the red giant branch, Trgb) e il metodo della fluttuazione di brillanza superficiale (surface brightness fluctuations, Sbf) entrambi basati su popolazioni stellari simili, in particolare, sulle stelle del ramo delle giganti rosse (Rgb).
Il metodo Sbf si fonda su un’idea semplice ma potente: in alcune galassie – soprattutto quelle ellittiche – la luce osservata proviene principalmente da stelle vecchie e molto omogenee tra le galassie. Tuttavia, osservando una galassia in dettaglio, si notano piccole variazioni nella brillanza superficiale tra una regione e le altre adiacenti. Queste fluttuazioni statistiche sono dovute al fatto che in ciascun “pixel” dell’immagine c’è un numero finito di stelle che può variare rispetto ai pixel vicini. Questo provoca una naturale variazione nella luce emessa da un pixel all’altro; man mano che la galassia si trova più lontano, queste differenze diventano meno evidenti, ma possono comunque essere misurate e usate come un indicatore diretto per calcolare la distanza della galassia. Può sembrare un metodo “cervellotico”, ma il metodo Sbf è uno degli strumenti più affidabili per misurare distanze di galassie ellittiche comprese tra pochi e diverse centinaia di milioni di anni luce, con un’incertezza tipica inferiore al 5 per cento. Un’avvertenza: per ottenere misure precise, è essenziale selezionare galassie in cui la luce sia dominata da popolazioni stellari vecchie, senza contaminazioni significative da polvere, gas o regioni di formazione stellare attiva. Per questo motivo, il metodo Sbf è particolarmente efficace nelle galassie ellittiche, che presentano strutture regolari e prive di distorsioni dovute a interazioni recenti. Sebbene possa essere applicato anche ad altri tipi morfologici, è proprio nelle ellittiche che raggiunge la massima precisione».
E il metodo della “punta del ramo delle giganti rosse” cos’è? E come contribuisce a rendere le misure della distanza ancora più affidabili?
«Il metodo Trgb gioca un ruolo chiave nel nostro progetto perché è un indicatore di distanza particolarmente affidabile, basato su un fenomeno astrofisico molto conosciuto e in una fase precisa dell’evoluzione stellare. Quando una stella di piccola massa – come il nostro Sole, o anche meno massiccia – esaurisce l’idrogeno nel nucleo, sale lungo il ramo delle giganti rosse nel diagramma colore-magnitudine, diventando progressivamente più luminosa. A un certo punto, la temperatura e la densità centrali diventano sufficienti a innescare l’accensione dell’elio in un evento noto come helium flash, una sorta di reazione termica incontrollata. La stella abbandona così il ramo delle giganti rosse e passa rapidamente alla fase successiva, più stabile, sul cosiddetto ramo orizzontale (horizontal branch). Questa transizione avviene non solo in modo estremamente rapido – rispetto ai tempi evolutivi astronomici, naturalmente – ma sempre a una luminosità assoluta relativamente costante. Il risultato è un “gradino” netto, facilmente riconoscibile, nel diagramma colore-magnitudine di una popolazione stellare. Questo gradino è proprio la “punta” del ramo delle giganti rosse Trgb. Una volta che conosciamo quanto è luminosa realmente questa fase (la luminosità “vera” della stella), possiamo confrontarla con quanto appare luminosa nelle nostre osservazioni. Da questa differenza riusciamo a capire quanto è lontana la galassia. Uno dei grandi vantaggi del metodo Trgb è che la sua calibrazione può essere fatta direttamente, usando metodi geometrici, senza dover dipendere da altre candele standard come le stelle cefeidi o le supernove. Nel nostro caso, abbiamo usato una calibrazione molto affidabile basata sulla galassia Ngc 4258 di cui abbiamo determinato la distanza precisa».
Diagramma Hertzsprung-Russell. Le stelle di piccola massa, come il Sole, trascorrono la maggior parte della loro vita nella sequenza principale (MS), dove fondono idrogeno in elio nel nucleo. Una volta esaurito il combustibile, salgono lungo il ramo delle giganti rosse (RGB), diventando più luminose. Alla “punta” di questo ramo (TRGB), si innesca l’accensione dell’elio nel nucleo: un evento rapido e violento noto come helium flash, che porta la stella sul ramo orizzontale (HB), dove brucia elio in modo più stabile. Questo percorso lascia tracce ben visibili nel diagramma colore-magnitudine, fondamentali per studiare l’evoluzione stellare e misurare le distanze cosmiche. Crediti: whitby-astronomers.com
Avete trovato un valore della costante di Hubble pari a 73,8 km/s/Mpc. Come si confronta con i risultati di altri gruppi e con le previsioni del modello cosmologico basato su Planck? Quali sono le conseguenze di questa differenza?
«La nostra è una stima pienamente compatibile con quella di Shoes, il team guidato da Adam Riess, che ha ottenuto un valore simile ma con un’incertezza più contenuta (73,0 ± 1,0 km/s/Mpc). Rispetto alla previsione del modello standard basata sui dati Planck (H0 = 67,4 ± 0,5 km/s/Mpc), il nostro valore risulta decisamente più alto. Un punto importante è che due metodi indipendenti — il nostro, basato su Trgb+Sbf, e quello di Reiss, che usa cefeidi e supernove — arrivano a risultati simili. Questo rafforza l’idea che il valore locale di H0 sia davvero più alto rispetto a quello previsto dalle osservazioni del cosmo primordiale, e rende meno probabile che questa differenza sia solo dovuta a errori sistematici non corretti».
Quindi si potrebbe escludere che la tensione di Hubble sia dovuta a errori nelle misure osservative?
«In effetti, questo è un punto cruciale. Per misurare il valore di H0 nell’universo locale, si usano diversi indicatori di distanza concatenati tra loro: si parte da metodi geometrici, si calibra una candela standard intermedia, e infine si arriva a metodi che misurano distanze molto grandi. Questo procedimento a “catena” porta inevitabilmente a un aumento delle incertezze, che influisce sulla precisione finale di H0: da una parte abbiamo il valore early-time stimato da Planck, molto preciso e basato sul modello standard; dall’altra, i valori late-time misurati localmente, che risultano più alti, ma anche soggetti a possibili errori sistematici. La differenza tra queste misure genera, appunto, la cosiddetta “tensione di Hubble”, che non deriva solo dai valori in sé, ma soprattutto dalla precisione con cui si pensa di conoscerli. È possibile che questa tensione dipenda da una sottostima degli errori sistematici, da una parte o dall’altra. Inoltre, altri gruppi di ricerca, hanno trovato valori intermedi che sembrano ridurre la tensione, ma questo è ancora oggetto di dibattito. Il nostro lavoro utilizza un approccio completamente differente, che usa popolazioni stellari simili e una metodologia indipendente, garantendo così un controllo autonomo degli errori sistematici. Il fatto che i nostri risultati confermino quelli di Shoes suggerisce che la differenza non è solo un errore, ma qualcosa di reale. Potrebbe indicare l’esistenza di una nuova fisica tutta da scoprire».
I dati ottenuti dal telescopio spaziale James Webb sembrano giocare un ruolo cruciale nella vostra analisi. In che modo Jwst ha migliorato le vostre capacità di misurazione rispetto a Hubble? Quali sono le principali sfide tecniche o osservative che il vostro team ha incontrato?
«Il nostro studio si basa su una catena di misure, per capire quanto brillano davvero (cioè, in termini assoluti) le stelle che si trovano sulla punta del ramo delle giganti rosse (Trgb). Per farlo, abbiamo usato una galassia speciale, Ngc 4258, la cui distanza è nota con grande precisione grazie a osservazioni radio di nubi di gas che ruotano attorno al suo buco nero centrale. Una volta fissata questa “luminosità di riferimento”, abbiamo usato il telescopio spaziale James Webb per osservare la luminosità apparente delle stelle in un gruppo di galassie relativamente vicine (entro 60 milioni di anni luce). Grazie alla risoluzione e alla sensibilità eccezionali dello strumento NirCam nel vicino infrarosso, Jwst ci ha fornito dati molto più dettagliati rispetto a quelli possibili con Hubble, soprattutto in regioni molto dense e affollate. Per queste stesse galassie avevamo già misurato le fluttuazioni di brillanza superficiale (Sbf), usando Hubble. Confrontando i due metodi, abbiamo potuto calibrare le Sbf in modo indipendente e molto preciso. A questo punto abbiamo applicato la nuova calibrazione a un campione di circa 60 galassie più lontane (fino a oltre 300 milioni di anni luce), e da lì abbiamo ricavato il valore della costante di Hubble: la misura dell’espansione dell’universo. Il contributo di Jwst è stato fondamentale: ci ha permesso di misurare la luminosità delle stelle con una precisione mai raggiunta prima, ponendo le basi per l’intera scala di distanze del nostro progetto. Il prossimo obiettivo è spingere ancora oltre la calibrazione, utilizzando solo dati Jwst: ciò renderà il campione di stelle completamente omogeneo e aumenterà ulteriormente l’affidabilità del metodo, riducendo le incertezze nelle stime della distanza e quindi del valore di H0.
Il vostro lavoro, dunque, sembra confermare la “tensione di Hubble”, un vero e proprio enigma della cosmologia moderna. Questa discrepanza indica che il modello attuale dell’universo è incompleto? È un’anomalia da risolvere?
«La risposta a questa domanda è al centro di un ampio dibattito che coinvolge l’intera comunità di cosmologi. Nel nostro caso, il compito che ci siamo dati è quello di fornire misure di distanze e, quindi, H0 affidabili, robuste e indipendenti. Questo significa verificare con attenzione la qualità dei dati, stimare correttamente le incertezze e, se possibile, sviluppare nuove strategie osservative che permettano misure con approcci alternativi. È proprio ciò che abbiamo cercato di fare nel nostro lavoro, e più in generale intendiamo portare avanti con il programma Trgb–Sbf basato su Jwst.
Detto questo, è indubbio che la tensione di Hubble abbia stimolato un’enorme varietà di proposte teoriche, molte delle quali prevedono modifiche più o meno radicali al modello cosmologico standard. Tra le numerosissime ipotesi avanzate quelle che hanno catturato la mia attenzione – non necessariamente perché più credibili di altre – sono l’esistenza di una forma di energia oscura dinamica, l’introduzione di una componente di radiazione oscura (tramite un neutrino “sterile”), una possibile rotazione globale dell’universo o la nostra collocazione all’interno di una regione sotto-densa (un “supervuoto”), che potrebbe alterare la misura apparente dell’espansione. Naturalmente, ogni possibile estensione o revisione del modello cosmologico attuale deve confrontarsi con l’esistenza di un’enorme quantità di dati osservativi di alta qualità. Non basta risolvere la tensione di H0: una nuova teoria deve anche risultare coerente con tutti gli altri vincoli ben noti, dalla nucleosintesi primordiale alla formazione delle strutture, dalle lenti gravitazionali all’evoluzione delle galassie. Il modello cosmologico standard Lambda-Cdm resta, almeno per ora, estremamente efficace nel descrivere l’universo su larga scala. Tuttavia, se la tensione di Hubble dovesse confermarsi con ulteriori misure indipendenti, coerenti e sempre più precise, rappresenterebbe un indizio forte che qualcosa di fondamentale ci sta ancora sfuggendo. In quel caso, potremmo trovarci davvero alle soglie di una nuova fase nella nostra comprensione dell’universo».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The TRGB−SBF Project. III. Rening the HST Surface Brightness Fluctuation Distance Scale Calibration with JWST” di Joseph B. Jensen, John P. Blakeslee, Michele Cantiello, Mikaela Cowles, Gagandeep S. Anand, R. Brent Tully, Ehsan Kourkchi e Gabriella Raimondo.
- Leggi su Physics World l’approfondimento “Cosmic conflict continues: new data fuel the Hubble tension debate“
Sulla costante di Hubble guarda il video della serie Alfabeto cosmico su MediaInaf Tv:
Individuato un buco nero di massa intermedia
Il telescopio spaziale Hubble e l’osservatorio a raggi X Chandra della Nasa hanno collaborato per individuare un nuovo possibile esemplare di una rara classe di buchi neri, quelli di massa intermedia. Chiamata Ngc 6099 Hlx-1, la luminosa sorgente di raggi X oggetto dello studio congiunto sembra risiedere in un ammasso globulare all’interno di una galassia ellittica gigante.
Le due galassie ellittiche visibili in questa immagine sono Ngc 6099 (sotto) e Ngc 6098 (sopra). Il pallino viola è il transiente X che si pensa essere dovuto al buco nero di massa intermedia. Il puntino bianco dentro il pallino viola è probabilmente un ammasso globulare di Ngc 6099 che contiene il buco nero di massa intermedia. Crediti: Nasa/Hst, Chang et al.
Pochi anni dopo il suo lancio, avvenuto nel 1990, Hubble ha scoperto che tutte le galassie possono ospitare nel loro centro buchi neri supermassicci, la cui massa è milioni o miliardi di volte quella del Sole. Inoltre, ospitano anche milioni di buchi neri più piccoli – i cosiddetti buchi neri stellari – ognuno dei quali si forma quando una stella massiccia (con una massa inferiore a 100 masse solari) raggiunge il termine della propria vita.
I buchi neri di massa intermedia (in inglese, Intermediate-mass black hole, o Imbh), con masse che vanno da alcune centinaia fino a centinaia di migliaia di volte quella del Sole, sono molto più elusivi. Non troppo grandi né troppo piccoli, spesso risultano invisibili perché non assorbono tanto gas e tante stelle quanto i buchi neri supermassicci, i quali, proprio grazie a questo processo, emettono potenti radiazioni e risultano visibili. I buchi neri di massa intermedia, per essere individuati devono essere colti nell’atto di “cibarsi”. Quando occasionalmente divorano una stella sfortunata che gli capita nei paraggi – in quello che gli astronomi chiamano evento di distruzione mareale – emettono una raffica di radiazioni, che possiamo riuscire a cogliere.
Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal, riporta l’identificazione del più recente candidato a buco nero di massa intermedia, individuato grazie ai dati dei due telescopi spaziali. L’oggetto si trova alla periferia della galassia Ngc 6099, a circa 40mila anni luce dal suo centro. La galassia stessa dista circa 450 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione di Ercole. Al centro di Ngc 6099 si presume risieda un buco nero supermassiccio attualmente in stato di quiete.
Gli astronomi hanno osservato per la prima volta un’insolita sorgente di raggi X nel 2009 grazie a una immagine ripresa dal telescopio Chandra e ne hanno seguito l’evoluzione con l’osservatorio spaziale Xmm-Newton dell’Esa. «Queste sorgenti di raggi X molto luminose sono estremamente rare e possono essere cruciali per identificare gli elusivi buchi neri di massa intermedia. Rappresentano un anello mancante fondamentale nell’evoluzione dei buchi neri, tra quelli di massa stellare e i buchi neri supermassicci», spiega la prima autrice Yi-Chi Chang, dottoranda presso la National Tsing Hua University di Hsinchu, Taiwan.
L’emissione di raggi X proveniente da Ngc 6099 Hlx-1 ha una temperatura di 3 milioni di gradi, compatibile con un evento di distruzione mareale. Hubble da parte sua ha trovato prove dell’esistenza di un piccolo ammasso stellare intorno al buco nero, che darebbe al buco nero molto da mangiare, visto che le sue stelle sono ammassate l’una all’altra, a distanze di pochi mesi luce (circa 800 miliardi di chilometri).
Il presunto Imbh ha raggiunto la massima luminosità nel 2012 e poi ha continuato ad affievolirsi fino al 2023. Le osservazioni ottiche e a raggi X del periodo non si sovrappongono e questo complica l’interpretazione. Il buco nero potrebbe aver fatto a pezzi una stella catturata, creando un disco di plasma che mostra variabilità, oppure potrebbe aver formato un disco la cui luminosità aumenta quando il gas precipita verso il buco nero.
Roberto Soria, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Torino, secondo autore dello studio. Crediti: R. Soria
«Se l’Imbh sta mangiando una stella, quanto tempo impiega per inghiottire il suo gas? Nel 2009, Hlx-1 era abbastanza luminoso. Poi, nel 2012, era circa 100 volte più luminoso. E poi è sceso di nuovo», riferisce il coautore dello studio Roberto Soria dell’Istituto nazionale di astrofisica di Torino, uno dei supervisor della prima autrice. «Dobbiamo attendere e vedere se avrà altri picchi di attività, oppure se c’è stato un inizio, un picco, e adesso la sua luminosità diminuirà fino a scomparire».
Come sottolineato dal team, una survey sui buchi neri di massa intermedia potrebbe rivelare come si formano i buchi neri supermassicci più grandi. Attualmente esistono due ipotesi alternative in proposito. Una prevede che i buchi neri di massa intermedia siano i semi per la nascita di buchi neri ancora più grandi attraverso la coalescenza, poiché le grandi galassie crescono accogliendo galassie più piccole. Anche il buco nero al centro di una galassia cresce con queste fusioni. Le osservazioni di Hubble hanno scoperto che più massiccia è la galassia, più grande è il buco nero. Il quadro che emerge da questa nuova scoperta è che le galassie potrebbero avere Imbh “satelliti” che orbitano nell’alone della galassia ma non sempre cadono al centro.
Un’altra ipotesi è che le nubi di gas al centro degli aloni di materia oscura nell’universo primordiale non producano prima stelle, ma collassino direttamente in un buco nero supermassiccio. La scoperta da parte del James Webb Space Telescope che i buchi neri molto distanti sono sproporzionatamente più massicci rispetto alla galassia che li ospita tende a sostenere questa idea.
Tuttavia, potrebbe esserci un pregiudizio osservativo nell’individuazione dei buchi neri estremamente massicci nell’universo lontano, poiché quelli di dimensioni inferiori sono troppo deboli per essere rilevati. In realtà, potrebbe esistere una maggiore varietà nei modi in cui l’universo accresce i buchi neri. I buchi neri supermassicci che collassano all’interno di aloni di materia oscura potrebbero semplicemente crescere in modo diverso rispetto a quelli che si trovano nelle galassie nane, dove l’accrescimento potrebbe rappresentare il meccanismo di crescita predominante.
«Quindi, se siamo fortunati, troveremo più buchi neri liberi che diventano improvvisamente luminosi ai raggi X a causa di un evento di distruzione mareale. Se riuscissimo a fare uno studio statistico, sapremmo quanti di questi Imbh ci sono, quanto spesso distruggono una stella, come le galassie più grandi sono cresciute assemblando galassie più piccole», conclude Soria.
Chandra e Xmm-Newton osservano solo una piccola frazione del cielo, quindi rilevano nuovi eventi di distruzione mareale – in cui i buchi neri divorano le stelle – solo occasionalmente. Il Vera C. Rubin Observatory, in Cile, potrebbe invece individuare questi eventi in luce ottica fino a centinaia di milioni di anni luce di distanza. Osservazioni successive con Hubble e Webb potranno rivelare l’ammasso di stelle che circonda il buco nero.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Multiwavelength Study of a Hyperluminous X-Ray Source near NGC 6099: A Strong IMBH Candidate” di Yi-Chi Chang, Roberto Soria, Albert K. H. Kong, Alister W. Graham, Kirill A. Grishin, and Igor V. Chilingarian
Sulla costante di Hubble guarda il video della serie Alfabeto cosmico su MediaInaf Tv:
L 98-59: quattro nuovi mondi e una promessa
A circa 35 anni luce dalla Terra, una piccola stella rossa ospita un sistema planetario che ha riservato agli astronomi una scoperta inaspettata. Si chiama L 98-59 ed è una nana rossa, una tipologia di stella tra le più comuni nella nostra galassia. Poco luminosa, è diventata oggetto di grande interesse scientifico quando, nel 2019, il telescopio spaziale Tess (Transiting Exoplanet Survey Satellite) della Nasa ha identificato tre pianeti in orbita attorno a lei. Un quarto è stato scoperto poco dopo, grazie allo spettrografo europeo Espresso (Echelle Spectrograph for Rocky Exoplanet and Stable Spectroscopic Observations). Ma è con l’ultima analisi, i cui risultati sono in corso di pubblicazione su The Astronomical Journal, che il sistema cambia volto: un team di ricerca del Trottier Institute for Research on Exoplanets (Irex) dell’Université de Montréal (Canada) ha rivisitato i dati con strumenti nuovi, ottenendo misurazioni molto più precise di massa, dimensioni e orbite. E da questa indagine dettagliata è emersa una nuova sorpresa: un quinto pianeta, forse il più interessante di tutti, nella zona abitabile.
llustrazione del sistema planetario di L 98-59: cinque piccoli esopianeti orbitano attorno a questa nana rossa, situata a 35 anni luce di distanza. In primo piano si trova la super-Terra abitabile L 98-59 f, la cui esistenza è stata confermata in questo studio. Crediti: Benoit Gougeon, Université de Montréal
Un’indagine meticolosa, che ha sfruttato dati già disponibili ma riletti con strumenti analitici nuovi e di precisione mai raggiunta prima. Il risultato? La conferma dell’esistenza di cinque pianeti, tutti con massa e dimensioni simili a quelle terrestri, e una ricchezza di dettagli che rende questo sistema un vero e proprio laboratorio cosmico. «È una scoperta emozionante», dice Charles Cadieux, primo autore dello studio. «Ci mostra quanto possano essere complessi e diversificati i sistemi planetari attorno alle stelle più piccole. E ci fornisce bersagli ideali per future osservazioni atmosferiche, anche per la ricerca di segnali di vita».
Tutti i pianeti del sistema di L 98-59 presentano masse e dimensioni simili a quelle della Terra. Il più vicino alla stella, L 98-59 b, è particolarmente piccolo, misura appena l’84 per cento del diametro terrestre e ha circa la metà della sua massa, rendendolo uno dei pochi pianeti sub-Terra noti con parametri misurati con grande accuratezza. L 98-59 c e d, gli altri due pianeti più interni, potrebbero essere veri e propri inferni vulcanici, simili alla luna Io di Giove, in preda a intense forze mareali. Invece, L 98-59 e, il terzo in ordine di distanza, si distingue per la sua bassa densità, segno che potrebbe trattarsi di un “mondo acquatico”, con una concentrazione d’acqua senza pari nel nostro Sistema solare. Le nuove misurazioni rivelano orbite quasi perfettamente circolari per i pianeti interni, una configurazione favorevole per future rilevazioni atmosferiche.
Questa infografica mostra un confronto esemplificativo tra il sistema planetario L 98-59 (in alto) e una parte del Sistema solare interno (Mercurio, Venere e Terra), mettendo in evidenza le somiglianze tra i due. Il diagramma – costruito sulle temperature, non sulle distanze, che non sono in scala – è stato ridimensionato in modo da far coincidere la zona abitabile del Sistema Solare con quella di L 98-59. Come indicato nell’infografica, che include una scala di temperatura (in kelvin), la Terra e il pianeta L 98-59 f ricevono quantità simili di luce e calore dalle rispettive stelle. Crediti: Eso/L. Calçada/M. Kornmesser, Wikipedia
A queste scoperte, secondo i ricercatori, si aggiunge ora quella più interessante: L 98-59 f. Un pianeta che non transita davanti alla sua stella e quindi non è visibile con i telescopi tradizionali, poiché la sua orbita non è allineata con il nostro punto di osservazione. La sua presenza è stata però rivelata grazie a piccolissime oscillazioni nel movimento della stella, causate dalla sua attrazione gravitazionale e misurate con gli spettrografi Harps (High Accuracy Radial velocity Planet Searcher) ed Espresso. Ed è qui che le cose si fanno interessanti: questo quinto pianeta riceve dalla sua stella una quantità di energia simile a quella che la Terra riceve dal Sole, il che lo colloca saldamente nella “zona abitabile”, una regione in cui l’acqua potrebbe trovarsi allo stato liquido. «Trovare un pianeta temperato in un sistema così compatto rende questa scoperta particolarmente entusiasmante», dice Cadieux. «Evidenzia la straordinaria diversità dei sistemi esoplanetari e rafforza la necessità di studiare mondi potenzialmente abitabili attorno a stelle di piccola massa».
Questo studio sfrutta i dati provenienti da due telescopi terrestri: il Very Large Telescope (in alto a sinistra) e il telescopio Eso da 3,6 metri, con lo strumento Harps (in alto a destra), nonché da due telescopi spaziali: Tess e Jwst, qui raffigurati rispettivamente in rappresentazioni artistiche in basso a sinistra e in basso a destra. Crediti: Eso/G. Hüdepohl; Eso; Nasa
Per ottenere questi risultati, i ricercatori non hanno utilizzato i telescopi, ma solo dati d’archivio provenienti da Tess, Espresso, Harps e perfino dal Jwst (James Webb Space Telescope), sfruttando algoritmi avanzati da loro sviluppati. Con il metodo di analisi “line by line” – introdotta dai ricercatori dell’IREx nel 2022 – e un indicatore di temperatura differenziale innovativo, il team è riuscito a separare le interferenze dovute all’attività stellare dai segnali planetari veri e propri, rivelando il segnale planetario con un dettaglio senza precedenti.
Con questa nuova mappa in mano, L 98-59 entra nell’élite dei sistemi planetari più promettenti da studiare con il Jwst. La sua vicinanza, le dimensioni contenute della stella e la varietà dei pianeti lo rendono perfetto per analisi atmosferiche, cruciali per comprendere la composizione, la storia e – chissà – l’abitabilità di questi mondi.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astronomical Journal “Detailed Architecture of the L 98-59 System and Confirmation of a Fifth Planet in the Habitable Zone“, di Charles Cadieux, Alexandrine L’Heureux, Caroline Piaulet-Ghorayeb, René Doyon, Étienne Artigau, Neil J. Cook, Louis-Philippe Coulombe, Pierre-Alexis Roy, David Lafrenière, Pierrot Lamontagne, Michael Radica, Björn Benneke, Eva-Maria Ahrer, Drew Weisserman e Ryan Cloutier
Riparazione a distanza di 600 milioni di km per Juno
Avete presente la vecchia tecnica “spegni e riaccendi”, ultima (ma a volte anche prima) spiaggia per tentare di emergere da anomalie informatiche sconosciute? Senza sapere quale sia il problema né come risolverlo, a volte basta semplicemente riavviare. Una cosa simile, ma a una distanza di quasi 600 milioni di km, l’ha provata la Nasa per sistemare i danni provocati dalle radiazioni di Giove sulla fotocamera della missione Juno, in orbita attorno al pianeta. I risultati di questa manovra sperimentale sono stati presentati durante una sessione tecnica il 16 luglio scorso alla Nsrec 2025, la conferenza annuale sugli effetti delle radiazioni nucleari e spaziali dell’Institute of Electrical and Electronics Engineers (Nashville, Usa).
A necessitare dell’intervento era lo strumento JunoCam, una fotocamera a colori sensibile alle lunghezze d’onda della luce visibile. L’unità ottica della fotocamera è situata all’esterno di una sorta di forziere antiradiazioni con pareti in titanio, la radiation vault, che protegge le componenti elettroniche di molti degli strumenti ingegneristici e scientifici di Juno. Questo satellite che orbita attorno a Giove, infatti, si trova in uno degli ambienti spaziali più ostili perché pervaso da campi di radiazione fra i più intensi del Sistema solare. Un problema noto, questo. E infatti, sebbene i progettisti della missione fossero fiduciosi che JunoCam potesse funzionare durante le prime otto orbite di Giove, nessuno sapeva per quanto tempo lo strumento sarebbe durato dopo.
La granulosità e le linee orizzontali visibili in quest’immagine della JunoCam (cliccare per ingrandire) sono dovute ai danni da radiazioni subiti dalla fotocamera a bordo della missione Juno della Nasa. L’immagine ritrae uno dei cicloni circumpolari sul polo nord di Giove ed è stata scattata il 22 novembre 2023. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss
Durante le prime 34 orbite di Juno (quelle che rientravano nella cosiddetta “missione principale”), JunoCam ha funzionato normalmente, restituendo immagini in linea con le aspettative. Poi, durante la 47esima orbita, il sensore di immagini ha iniziato a mostrare tracce di danni da radiazioni. All’orbita 56, quasi tutte le immagini erano corrotte.
Pur conoscendo la causa del problema, individuare con precisione cosa fosse danneggiato all’interno di JunoCam era piuttosto difficile, stando a centinaia di milioni di chilometri di distanza. Gli indizi indicavano un regolatore di tensione danneggiato, un componente vitale per l’alimentazione di JunoCam. Non sapendo bene come uscirne, il team di Juno alla Nasa ha deciso di tentare un processo chiamato ricottura (in inglese annealing), in cui un materiale viene riscaldato per un periodo di tempo specifico e poi lasciato raffreddare lentamente. Sebbene non si sappia bene come agisca questo processo (e qui il parallelismo con il metodo “spegni e riaccendi”), l’idea è che il riscaldamento possa ridurre i difetti fisici nel materiale.
«Sapevamo che la ricottura può talvolta alterare un materiale come il silicio a livello microscopico, ma non eravamo certi che questo avrebbe riparato il danno», ricorda Jacob Schaffner, ingegnere di JunoCam, della Malin Space Science Systems di San Diego, che ha progettato e sviluppato JunoCam e fa parte del team che la gestisce. «Abbiamo comandato al riscaldatore di JunoCam di aumentare la temperatura della telecamera a 25 gradi Celsius – molto più alta del normale per JunoCam – e abbiamo atteso con ansia di vedere i risultati».
Poco dopo il completamento del processo di ricottura, JunoCam ha iniziato a produrre immagini nitide per le successive orbite. Ma la sonda si stava addentrando sempre di più nel cuore dei campi di radiazione di Giove. All’orbita 55, le immagini hanno iniziato a mostrare nuovamente problemi.
«Dopo l’orbita 55, le nostre immagini erano piene di striature e rumore», continua Michael Ravine, responsabile dello strumento JunoCam di Malin Space Science Systems. «Abbiamo provato diversi schemi di elaborazione delle immagini per migliorarne la qualità, ma niente ha funzionato. Con l’incontro ravvicinato con Io in arrivo tra poche settimane, era giunto il momento dell’Ave Maria: l’unica cosa che non avevamo ancora provato era alzare al massimo il riscaldatore di JunoCam e vedere se un annealing più estremo ci avrebbe salvato».
Le immagini di prova inviate sulla Terra durante la fase di annealing più estrema hanno mostrato scarsi miglioramenti. Poi, però, a pochi giorni di distanza dall’incontro ravvicinato con Io, le immagini hanno iniziato a migliorare drasticamente. Quando Juno è arrivata a 1500 chilometri dalla superficie della luna gioviana, il 30 dicembre 2023, la qualità delle immagini era quasi paragonabile al giorno del lancio. Una di queste la potete vedere qui di seguito: si tratta della regione polare settentrionale di Io, e mostra blocchi montuosi ricoperti di brine di anidride solforosa che si ergono bruscamente da pianure e vulcani fino a quel momento inesplorati e con estesi campi di colata lavica.
La regione polare settentrionale della luna vulcanica Io di Giove è stata ripresa dalla fotocamera JunoCam a bordo della sonda Juno della Nasa durante il 57esimo passaggio ravvicinato della sonda al gigante gassoso il 30 dicembre 2023. Per riparare i danni causati dalle radiazioni alla fotocamera in tempo per catturare questa immagine è stata utilizzata una tecnica chiamata ricottura. Dati dell’immagine: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss. Elaborazione dell’immagine: Gerald Eichstädt
A oggi la sonda ha orbitato attorno a Giove 74 volte, e purtroppo il rumore nelle immagini è tornato. Fin dai primi esperimenti con JunoCam, il team di Juno ha applicato derivazioni di questa tecnica di ricottura a diversi strumenti e sottosistemi ingegneristici. Servirà, prima o dopo, anche per i satelliti per la difesa e commerciali in orbita attorno alla Terra, dicono gli scienziati del team. Quanto alla missione scientifica di Juno, rimaniamo in attesa di nuove immagini e nuovi aggiornamenti.
Al Cern, la materia prevale sull’antimateria
media.inaf.it/2025/07/22/lambd…
Protone e antiprotone, elettrone e positrone, quark e antiquark. Cosa succede se una particella incontra la sua antiparticella? Si annichilano. Quando un elettrone si annichila con un positrone, ad esempio, vengono prodotti due fotoni. Un lampo di luce. Le due si annichilano e producono altre particelle. Per ogni particella di materia “normale” che costituisce il nostro universo esiste una anti-particella, e all’inizio il loro numero era identico. Come ha fatto allora la materia a prevalere sull’antimateria? Cosa ha impedito che tutte le particelle si annichilassero subito dopo essere state prodotte dal plasma primordiale? A questa domanda i fisici cercano risposta in un fenomeno che chiamano “violazione della simmetria CP (charge-parity)”, usando esperimenti ad altissima energia come le violente collisioni fra particelle prodotte al Large Hadron Collider (Lhc) del Cern, a Ginevra. Nei primi anni Duemila, i fisici hanno trovato indizi e prove di questa violazione di simmetria in particolari particelle chiamate mesoni, ma non tali da spiegare come mai la materia abbia prevalso sull’antimateria. Poi più nulla. Infine lo scorso marzo, durante la conferenza annuale Rencontres de Moriond, che si tiene in Italia, a La Thuile (Valle d’Aosta), un annuncio: anche i barioni sono soggetti a questa violazione di simmetria, e finalmente è arrivata la conferma sperimentale. L’articolo scientifico che ne parla è stato pubblicato la scorsa settimana su Nature.
L’esperimento Lhcb al Cern. Crediti: Cern
Le nuove scoperte si basano su esperimenti condotti al Cern nell’ambito dell’esperimento Lhcb (dove la b sta per beauty, e fra un attimo capiremo perché), che ha lo scopo di misurare i parametri della violazione della simmetria CP e i decadimenti relativi agli adroni in cui è presente il quark beauty (quark b), da cui appunto il nome dell’esperimento. Ora, facciamo un passo indietro e cominciamo facendo l’appello dei soggetti coinvolti in questa vicenda.
Primi fra tutti i barioni, particelle che costituiscono la materia “visibile” dell’universo fra i quali troviamo ad esempio protoni e neutroni. A loro volta, protoni e neutroni sono composti di particelle elementari chiamate quark, di cui ne esistono diversi tipi, o sapori, come dicono i fisici. Un neutrone ad esempio è composto di due quark down e un quark up, mentre un protone di due quark up e un quark down. Ma la vera protagonista dell’esperimento che ha condotto alla notizia di oggi è una sorta di cugina alla lontana di protoni e neutroni e si chiama “barione beauty-lambda”, o lambda-b, essenzialmente un neutrone in cui un quark down è stato sostituito da un quark beauty. Questa particella può essere prodotta dallo scontro fra protoni e, in seguito, decade in un protone e altre tre particelle.
Durante il primo e il secondo ciclo di Lhc, dal 2009 al 2013 e dal 2015 al 2018, i fisici hanno osservato il decadimento della particella lambda-b e anche della sua antiparticella, cercando differenze fra i due processi. Ci sono voluti circa 80mila decadimenti per accumulare la statistica necessaria a formulare una risposta valida: la differenza tra il numero di decadimenti lambda-b e anti-lambda-b differisce da zero di 5,2 deviazioni standard. In altre parole, il decadimento di lambda-b sarebbe un poco più probabile del decadimento della sua antiparticella. È la prima volta che si raccolgono osservazioni della violazione di CP nei barioni, e l’importanza di questa scoperta riguarda proprio il fatto che la materia ordinaria di cui è fatto l’universo – noi compresi – è proprio costituita da barioni.
Questa osservazione comunque non basta per spiegare come mai la materia abbia finalmente prevalso sull’antimateria permettendo l’esistenza dell’universo, e i fisici pensano che la risposta vada cercata anche oltre le violazioni previste dall’attuale Modello standard delle particelle elementari.
«Più sono i sistemi in cui osserviamo violazioni di CP e quanto più precise sono le misurazioni, tanto maggiori sono le opportunità che abbiamo di testare il Modello standard e di cercare fisica al di là di esso», dice Vincenzo Vagnoni, portavoce dell’esperimento Lhcb. «La prima osservazione in assoluto di violazione di CP in un decadimento barionico apre la strada a ulteriori indagini teoriche e sperimentali sulla natura della violazione di CP, offrendo potenzialmente nuovi vincoli per la fisica al di là del Modello standard».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Observation of charge-parity simmetry breaking in baryon decays“, della Lhcb Collaboration
La stella che sfidò il buco nero due volte
I fulmini potranno anche non colpire due volte lo stesso punto, ma a quanto pare i buchi neri sì. E quando una stella si avvicina troppo a un buco nero, sappiamo già come va a finire. Viene fatta a pezzi e in parte inghiottita, dando vita a uno spettacolare lampo di luce che gli astronomi chiamano “evento di distruzione mareale“, o tidal disruption event (Tde). Ma questa volta le cose sono andate diversamente.
Rappresentazione artistica di una stella fatta a pezzi da un buco nero. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Nel 2022 un gruppo internazionale di ricercatori ha osservato nello spazio profondo l’evento catalogato come At 2022dbl, uno dei tanti banchetti cosmici in cui un buco nero divora una stella. La storia sembrava conclusa, ma due anni dopo il colpo di scena: un secondo brillamento, quasi identico al primo, è stato rilevato nello stesso punto del cielo. Gli autori dello studio ritengono che entrambi i segnali provengano dalla stessa stella, sopravvissuta al primo incontro con il buco nero. La scoperta, guidata da Lydia Makrygianni, attualmente ricercatrice presso l’Università di Lancaster (Regno Unito), è stata pubblicata a inizio luglio sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Nel cuore di ogni grande galassia si nasconde un buco nero supermassiccio, con una massa pari a milioni o miliardi di volte quella del Sole. Anche la nostra Via Lattea ne ha uno, Sagittarius A*, e la sua scoperta è stata premiata nel 2020 con il Nobel per la fisica. Ma oltre a sapere che ci sono, non si comprende bene come si formino, questi oggetti, né come influenzino le galassie che li ospitano. Una delle principali sfide nella comprensione dei buchi neri è che appaiono, appunto, “neri”. Per individuarli occorre affidarsi a segnali indiretti, come la luce delle stelle, e uno dei momenti in cui un buco nero “si fa vedere” è mentre ne divora una.
Le stelle che finiscono troppo vicine a un buco nero sono sfortunate, certo, ma a noi fanno un grande favore: illuminano l’invisibile, offrendo agli astronomi una preziosa opportunità di studiarne le proprietà. Una volta ogni 10-100mila anni, una stella si avvicina troppo al buco nero supermassiccio al centro della sua galassia, finendo per essere fatta a pezzi. Una parte della stella viene “inghiottita” dal buco nero e la parte che resta viene scagliata verso l’esterno.
Quando la materia cade su un buco nero, lo fa in modo circolare, come l’acqua che gira nello scarico di una vasca da bagno, ma qui la velocità raggiunge valori vicini a quella della luce, riscaldando la materia che emette una radiazione intensa sotto forma di flare – brillamenti. Nel caso della stella protagonista di questa storia, tuttavia, i brillamenti non si sono comportati come previsto. La loro luminosità e temperatura sono risultate molto inferiori a quelle che ci si aspettava di rilevare. Fino a oggi, si pensava che questi incontri fossero per lo più fatali per le stelle, ma At 2022dbl racconta un’altra storia. Eventi come i Tde potrebbero non segnare la fine della stella, ma solo un passaggio, o forse uno di una serie. Il fatto che il primo brillamento si sia ripetuto in modo quasi identico due anni dopo suggerisce che quel primo evento non abbia distrutto completamente la stella. Gran parte di essa è sopravvissuta e ha compiuto un secondo, quasi identico, passaggio.
Ora gli scienziati si chiedono: ci sarà un terzo brillamento nel 2026? Se sì, vorrebbe dire che la stella è sopravvissuta. Oltre al colpo di scena, la scoperta ha un grande valore scientifico. Studiare questi brillamenti, soprattutto se ripetuti, permette ai ricercatori di studiare meglio il comportamento dei buchi neri. Ogni bagliore, ogni variazione nella luce emessa, ogni “spuntino” cosmico racconta qualcosa della fisica estrema che si cela là dove lo spazio si piega su sé stesso.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “The Double Tidal Disruption Event AT 2022dbl Implies that at Least Some “Standard” Optical Tidal Disruption Events Are Partial Disruptions“, di Lydia Makrygianni, Iair Arcavi, Megan Newsome, Ananya Bandopadhyay, Eric R. Coughlin, Itai Linial, Brenna Mockler, Eliot Quataert, Chris Nixon, Benjamin Godson, Miika Pursiainen, Giorgos Leloudas, K. Decker French, Adi Zitrin, Sara Faris, Marco C. Lam, Assaf Horesh, Itai Sfaradi, Michael Fausnaugh, Ehud Nakar, Kendall Ackley, Moira Andrews, Panos Charalampopoulos, Benjamin D. R. Davies, Yael Dgany, Martin J. Dyer, Joseph Farah, Rob Fender, David A. Green, D. Andrew Howell, Thomas Killestein, Niilo Koivisto, Joseph Lyman, Curtis McCully, Morgan A. Mitchell, Estefania Padilla Gonzalez, Lauren Rhodes, Anwesha Sahu, Giacomo Terreran e Ben Warwick
In attesa di Giove, Rime passa il test lunare
È agosto 2024 e Juice è vicino alla Luna. Sì, proprio così: nonostante sia stata lanciata nell’aprile del 2023, la sonda si trova ancora vicino a noi, impegnata in una serie di cosiddetti flyby. Una serie di sorvoli ravvicinati di Luna, Terra e Venere – che continueranno fino al gennaio 2029 – fondamentali per aumentare gradualmente la velocità della sonda e modificarne la traiettoria, permettendole di dirigersi verso la sua destinazione finale: il sistema di Giove, che raggiungerà nel luglio del 2031.
Durante il flyby del sistema Terra-Luna avvenuto il 19 e 20 agosto dello scorso anno, per la prima volta tutti e dieci gli strumenti scientifici a bordo di Juice sono stati attivati e testati su una superficie solida nello spazio. Il test era particolarmente critico per Rime (Radar for Icy Moon Exploration), uno strumento particolarmente sensibile al rumore elettronico proveniente dagli altri apparati di bordo. Un’antenna, quella di Rime, balzata agli onori delle cronache pochi giorni dopo il lancio, quando due dei tre segmenti non si erano aperti, mettendo a rischio uno degli strumenti di punta della missione: un problema – poi ingegnosamente risolto – affrontato anche in un episodio del nostro podcast Houston.
Confronto tra la immagine radar della superficie lunare ottenuta con Rime (in basso) e un modello di elevazione ottenuto dai dati del Lunar Orbiter Laser Altimeter (Lola) della Nasa (in alto). Cliccare per usare lo slider. Crediti: Esa/Juice/Rime, Lola Science Team
Per ridurre al minimo le interferenze, durante il sorvolo della Luna – avvenuto a circa 750 km dalla superficie – a Rime sono stati concessi otto minuti di osservazione in completa solitudine, con tutti gli altri strumenti spenti o impostati in modalità silenziosa. In questo modo è stato possibile valutare l’impatto del rumore elettronico sulle prestazioni dello strumento e sviluppare un algoritmo per correggere il problema. La nuova, splendida immagine pubblicata in questi giorni mostra quanto il team di Rime sia riuscito nel suo intento.
Durante il test, Rime ha emesso onde radio verso la superficie lunare e ne ha raccolto gli echi di ritorno, elaborandoli in un’immagine simile a un’ecografia – la vediamo qui sopra, nel pannello inferiore. Il risultato è il primo radargramma mai ottenuto dallo strumento, e rivela l’altimetria della regione sorvolata. Confrontata con il modello di elevazione – qui sopra, nel panello superiore – fornito dallo strumento Lola (Lunar Orbiter Laser Altimeter) della Nasa, mostra una corrispondenza sorprendente. La linea luminosa che va dal rosa al giallo, serpeggiante sullo sfondo viola scuro, traccia l’altezza della superficie lunare mentre Juice sorvolava direttamente quella zona. La linea bianca nella mappa di elevazione, invece, indica il percorso seguito dalla sonda sopra la superficie lunare.
Le protuberanze e le depressioni rivelate da Rime corrispondono chiaramente alle variazioni di quota presenti nella mappa altimetrica di Lola. Questo è particolarmente evidente nella zona del cratere Pasteur e nelle terre più elevate che lo circondano.
La Terra in lontananza sorge all’orizzonte della superficie lunare. L’ovale rosso evidenzia il cratere da impatto chiamato “Anders’ Earthrise”. Crediti: Nasa, Esa
A rendere ancora più speciale quest’immagine è il fatto che ritrae la stessa regione fotografata dall’astronauta della Nasa William Anders il 24 dicembre 1968, durante la missione Apollo 8. La celebre foto dell’alba terrestre, scattata da Andres, è diventata un’icona del programma Apollo, tanto che il cratere più grande visibile in primo piano è stato rinominato da “Pasteur T” a “Anders’ Earthrise”.
Il prossimo passo per la sonda Juice sarà un sorvolo di Venere, previsto per il mese prossimo. Si tratterà di una manovra puramente operativa, che sfrutterà la gravità del pianeta per dare alla sonda una spinta nel suo viaggio verso Giove. Durante questo passaggio, gli strumenti a bordo resteranno spenti: sono stati progettati per operare nel freddo delle lune gioviane, non nel calore infernale dell’atmosfera di Venere.
Forze che plasmano le nubi interstellari
Utilizzando Fast, il Five-hundred-meter Aperture Spherical radio Telescope, i ricercatori dell’Osservatorio Astronomico di Shanghai (Shao) dell’Accademia Cinese delle Scienze, in collaborazione con altri istituti, hanno osservato nel dettaglio G165, un’enorme nube di idrogeno atomico che si muove nello spazio a circa 300 chilometri al secondo. Nubi del genere vengono chiamate Vhvc, acronimo di very-high-velocity cloud – nubi con una velocità molto elevata. Situata a circa 50mila anni luce dalla Terra e ben al di sopra del piano galattico, G165 si presta particolarmente bene a essere studiata, offrendo una visione rara e priva di ostacoli delle fasi iniziali della formazione delle nubi interstellari.
Rappresentazione artistica di una nube ad alta velocità con una complessa struttura interna. Il colore verde rappresenta l’idrogeno neutro ad altissima velocità. Crediti: Shao
Le Vhvc sono meno influenzate dalle stelle vicine, dalla gravità o da altre perturbazioni presenti nelle zone più affollate della galassia. Questo le rende regioni ideali per studiare la formazione delle strutture nel gas interstellare. Mentre studi precedenti sulle più comuni nubi ad alta velocità (Hvc) hanno rilevato una miscela di gas freddo e caldo, i nuovi dati di Fast mostrano che G165 è composta principalmente da mezzo neutro caldo (Wnm), con poca o nessuna componente fredda. Questa differenza suggerisce che le Vhvc possano rappresentare una fase più pulita e precoce nell’evoluzione delle nubi.
Ciò che ha sorpreso maggiormente è stato il livello di dettaglio rivelato nel gas. Grazie all’eccezionale risoluzione di Fast, la riga a 21 cm dell’idrogeno neutro mostra che il Wnm di G165 non è né calmo né privo di dettagli, come si supponeva in passato sulla base delle osservazioni del piano galattico più denso. Al contrario, è supersonico e altamente strutturato, ricco di una rete intricata di filamenti che formano una struttura a ragnatela attraverso molteplici strati di velocità. Questi filamenti si intersecano e si attorcigliano nello spazio, formando un reticolo tridimensionale di gas con chiari segni di turbolenza, visibili nei dati come “oscillazioni” di velocità.
Per indagare i processi fisici che determinano questa complessità, i ricercatori hanno condotto simulazioni magnetoidrodinamiche. I risultati dimostrano che la turbolenza supersonica, agendo di concerto con i campi magnetici, può generare in modo naturale le strutture filamentose e i moti dinamici del gas osservati in G165. Sorprendentemente, queste caratteristiche emergono senza il coinvolgimento delle forze gravitazionali, suggerendo che turbolenza e magnetismo da soli potrebbero essere sufficienti a plasmare la struttura primordiale delle nubi interstellari.
Questa scoperta fornisce nuove preziose informazioni su come il gas atomico si comporta e si organizza nelle zone più tranquille ed esterne della Galassia. Approfondisce inoltre la nostra comprensione di come il gas potrebbe alimentare le regioni di formazione stellare e quale ruolo queste nubi distanti potrebbero svolgere nel più ampio ciclo di vita della materia nelle galassie.
Rivelando la natura supersonica e filamentosa di una nube con una velocità molto elevata dominata da mezzo neutro caldo, questo lavoro apre nuove entusiasmanti strade per esplorare la formazione di strutture nel cosmo, soprattutto in ambienti in cui la gravità non è la forza dominante.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A network of velocity-coherent filaments formed by supersonic turbulence in a very-high-velocity H i cloud” di Xunchuan Liu, Tie Liu, Pak-Shing Li, Xiaofeng Mai, Christian Henkel, Paul F. Goldsmith, Sheng-Li Qin, Yan Gong, Xing Lu, Fengwei Xu, Qiuyi Luo, Hong-Li Liu, Tianwei Zhang, Yu Cheng, Yihuan Di, Yuefang Wu, Qilao Gu, Ningyu Tang, Aiyuan Yang & Zhiqiang Shen
Protopianeta in posa nella polvere
Per la prima volta potrebbe essere stato osservato in modo diretto, attorno alla stella Hd 135344b, un pianeta in formazione all’interno di una spirale nel disco di gas e polveri – il disco protoplanetario. Si stima che il candidato pianeta in formazione abbia dimensioni doppie rispetto a Giove e una distanza dalla stella madre pari a quella di Nettuno dal Sole, ed è stato osservato mentre modella l’ambiente circostante all’interno del disco protoplanetario durante la fase di sviluppo per diventare un pianeta vero e proprio.
A sinistra: l’immagine realizzata con Eris al Vlt mostra la possibile nascita di un pianeta attorno alla giovane stella Hd 135344b. Il cerchio nero centrale è dovuto alla presenza di un coronografo, un dispositivo che blocca la luce della stella per rivelare deboli dettagli intorno ad essa. A destra: la combinazione di osservazioni precedenti effettuate con lo strumento Sphere sempre al Vlt (rosso) e con Alma (arancione e blu). Crediti: Eso/F. Maio et al./T. Stolker et al./ Alma (Eso/Naoj/Nrao)/N. van der Marel et al.
«Non potremo mai assistere alla formazione della Terra, ma qui, intorno a una giovane stella a 440 anni luce di distanza da noi, potremmo trovarci davanti alla nascita di un pianeta in tempo reale», dice il primo autore dello studio pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics, Francesco Maio, dottorando di ricerca dell’Università di Firenze presso l’Inaf di Arcetri.
Francesco Maio, dottorando di ricerca all’Università di Firenze e all’Inaf di Arcetri, primo autore dello studio su A&A
Grazie alle osservazioni dello strumento Eris installato al Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, in Cile, gli autori dello studio ritengono di aver trovato il principale candidato, individuato proprio alla base di uno dei bracci a spirale del disco, esattamente dove la teoria aveva previsto la presenza del pianeta responsabile della formazione di tale struttura.
«Questo studio riporta la prima possibile rilevazione di un protopianeta in un disco protoplanetario alla base di una spirale, esattamente nel punto previsto dai modelli teorici, nel sistema Hd 135344b. Le spirali osservate nei dischi sono interpretate come possibili segnali indiretti della presenza di pianeti, ma non si era mai vista direttamente la “causa” della struttura. Qui, per la prima volta, si osserva un oggetto substellare esattamente dove la teoria prevede che debba trovarsi il pianeti», specifica Maio.
I dischi protoplanetari sono stati osservati intorno ad altre stelle giovani e spesso presentano strutture complesse, come anelli o spirali. Gli astronomi hanno a lungo previsto che queste strutture fossero causate da pianeti in fase di formazione che trascinano materia orbitando intorno alla stella madre. Ma fino a ora non erano stati osservati direttamente.
«Questa scoperta è anche la prima rilevazione fatta con il coronografo del nuovissimo strumento Eris al Vlt. Questo componente dello strumento permette di nascondere la stella luminosa dietro ad un occultatore per enfatizzare le strutture deboli che la circondano», aggiunge Maio.
La regione di cielo attorno alla stella Hd 135344b. Proprio al centro dell’immagine ci sono due stelle luminose vicine tra loro: Hd 135344B è quella in basso. Crediti: Eso/Digitized Sky Survey 2/D. De Martin
Nel caso del disco di Hd 135344B, i vorticosi bracci a spirale erano stati rivelati in precedenza da un altro gruppo di astronomi utilizzando Sphere (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet Research), un altro strumento installato al Vlt, ma finora nessuna delle osservazioni di questo sistema aveva trovato finora alcuna prova della formazione di un pianeta all’interno del disco.
«Questo lavoro ha portato alla luce la presenza di un proto-pianeta “nascosto” all’interno del disco protoplanetario attorno alla stella Hd 135344b, una neo-stella di qualche milione di anni, simile al nostro Sole. Il suo disco è ben noto agli astronomi per la spettacolare struttura a spirale la cui origine è dibattuta», ricorda Davide Fedele dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio. «Grazie al nostro lavoro, oggi sappiamo che è proprio il candidato proto-pianeta appena scoperto a dare origine ai bracci di spirale nel disco. L’osservazione diretta di un nuovo proto-pianeta ancora immerso nel disco progenitore, fornisce informazioni preziose su dove e quando si formano i pianeti e come interagiscano con il disco dal quale assorbono materia ed energia».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Unveiling a protoplanet candidate embedded in the HD 135344B disk with VLT/ERIS” di F. Maio, D. Fedele, V. Roccatagliata, S. Facchini, G. Lodato, S. Desidera, A. Garufi, D. Mesa, A. Ruzza, C. Toci, L. Testi, A. Zurlo, G. Rosotti.
Fonte: comunicato stampa Eso
Fotografata la compagna di Betelgeuse
Se ne sospettava l’esistenza già da un po’. Ora arriva la conferma: Betelgeuse, la celebre supergigante rossa, data più volte in procinto d’esplodere, ha una compagna. Una “piccola” stella bianco blu di pre-sequenza principale. Come lo sappiamo? C’è la foto, la vedete qui sotto: è la chiazza blu a ore otto rispetto alla ciclopica partner.
Crediti: International Gemini Observatory / NoirLab / Nsf /Aura. Image Processing: M. Zamani (Nsf NoirLab)
A immortalarla è stato, dalle Hawaii, il telescopio Gemini North, uno dei due dell’Osservatorio Gemini, gestito dal NoirLab statunitense. Uno scatto virtuosistico, il suo, ai limiti dell’impossibile. Anzitutto Betelgeuse – che con un raggio pari a 700 volte quello del Sole risulta anche in banda ottica una fra le stelle più brillanti nel cielo notturno – è enormemente più luminosa della compagna, di oltre sei magnitudini più debole. In più quest’ultima, che una ha massa stimata pari a circa una volta e mezzo quella del Sole, le ruota attorno in orbita molto stretta: appena quattro unità astronomiche, vicina dunque al punto da trovarsi letteralmente a solcare l’atmosfera di Betelgeuse.
Ma torniamo a Betelgeuse. Situata in corrispondenza della spalla della costellazione di Orione, è da millenni che osservandola – prima solo a occhio nudo, poi con i telescopi – si è notato che la sua luminosità varia nel tempo, seguendo due cicli lunghi, grosso modo, uno 400 giorni e l’altro sei anni. Un drastico calo della sua luminosità registrato tra il 2019 e il 2020 portò alcuni astronomi a supporre che la stella stesse per esplodere come supernova. In effetti, nonostante abbia solo dieci milioni di anni – pochissimi, per gli standard astronomici – le sue dimensioni monstre fanno sì che le rimanga ormai poco da vivere. Successivamente si è però scoperto che il momentaneo oscuramento era dovuto all’espulsione di una grande nube di polvere da parte della stella stessa.
Chiarito il mistero dell’indebolimento, rimaneva però quello della periodicità. Il ciclo sessennale, in particolare, ha portato a ipotizzare la presenza di una stella compagna. Ma riuscire a vederla, per i motivi che dicevamo prima, non era impresa alla portata di tutti. Ci ha provato il telescopio spaziale per raggi X Chandra. Ci ha provato Hubble. Niente da fare, della compagna nessuna traccia.
La cupola del telescopio Gemini North a Maunakea (hawaii). Crediti: International Gemini Observatory / NoirLab / Nsf / Aura /J. Chu
Ci voleva un particolare strumento montato sul Gemini North, per riuscirci, una sorta di super kiss cam astronomica: ‘Alopeke (parola che in hawaiano significa ‘volpe’, derivata a sua volta dal greco), un cosiddetto speckle imager, ovvero in grado di creare immagini a partire da macchie. Lo speckle imaging è una tecnica di imaging astronomico che, avvalendosi di numerose immagini tutte con tempi di esposizione brevissimi, riesce a eliminare le distorsioni causate dall’atmosfera terrestre e a raggiungere una risoluzione molto alta.
«La capacità di Gemini North di ottenere elevate risoluzioni angolari e forti contrasti ha permesso la rilevazione diretta della compagna di Betelgeuse», dice infatti Steve Howell, ricercatore all’Ames Research Center della Nasa alla guida del team che ha firmato la scoperta, in uscita su The Astrophysical Journal Letters. «Una rilevazione, questa, al limite estremo ciò che è possibile fare con Gemini in termini di imaging ad alta risoluzione angolare, e che ha funzionato. Aprendo ora la strada ad altre osservazioni di natura simile».
«Le capacità di speckle imaging offerte dall’Osservatorio Gemini continuano a rappresentare uno strumento spettacolare, aperto a tutti gli astronomi per una vasta gamma di applicazioni», aggiunge Martin Still della National Science Foundation statunitense, program director dell’Osservatorio Gemini. «Aver sciolto l’enigma di Betelgeuse, rimasto aperto per centinaia di anni, sarà ricordato come un risultato evocativo».
Un’opportunità imperdibile per approfondire lo studio della stella compagna di Betelgeuse si presenterà nel novembre 2027, quando raggiungerà nuovamente la sua massima separazione dalla supergigante rossa, risultando quindi più facile da rilevare. Howell e il suo team attendono con impazienza di osservare la coppia prima e durante l’evento, per meglio comprendere la natura della stella compagna.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Probable Direct Imaging Discovery of the Stellar Companion to Betelgeuse”, di Steve B. Howell et al.
Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube del NoirLab:
Centinaia di esopianeti con una taglia in più
media.inaf.it/2025/07/21/esopi…
Per gli astronomi dell’Università della California, Irvine, oltre 200 degli esopianeti a oggi noti hanno molto probabilmente “una taglia in più”. In altre parole, sono più grossi del previsto.
Premesso che, date le distanze in gioco e il fatto che i pianeti extrasolari non emettono luce propria ma riflettono quella della loro stella, appaiono troppo deboli per poterne ottenere immagini dirette – a parte rarissimi casi – quello che spesso si fa è attendere che il pianeta transiti davanti alla sua stella per misurare la lievissima attenuazione della luce stellare che questo parziale oscuramento comporta.
Un esopianeta davanti alla sua stella, con diverse altre stelle sullo sfondo. Se non corretta, la luce proveniente dalle stelle sullo sfondo può portare a sottostimare le dimensioni dell’esopianeta. La griglia quadrata rappresenta i singoli pixel del satellite Tess della Nasa. Crediti: Nikolai Berman / Uc Irvine
Studiando le osservazioni di centinaia di esopianeti rilevati dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (Tess) della Nasa, i ricercatori hanno scoperto che la luce stellare osservata per carpire il passaggio del pianeta può essere “contaminata” dalla luce emessa dalle stelle vicine. Questo può far apparire il pianeta più piccolo di quanto sia in realtà, perché i pianeti più piccoli bloccano meno luce rispetto a quelli più grandi. In altre parole, non è il pianeta a essere più piccolo… è la stella che sembra più luminosa.
Te Han, primo autore dello studio, ha raccolto centinaia di ricerche sugli esopianeti scoperti dalla missione Tess della Nasa e li ha classificati in base al metodo utilizzato per misurarne i raggi, in modo da poter stimare, con l’aiuto di un modello computerizzato, il grado di distorsione di tali misurazioni dovuto alla contaminazione luminosa proveniente dalle stelle vicine. Per farlo, ha sfruttato le osservazioni di un’altra missione satellitare, Gaia, per quantificare l’entità della contaminazione luminosa che influenza le rilevazioni di Tess.
«I dati di Tess sono contaminati e il modello personalizzato di Te Han corregge meglio di chiunque altro la contaminazione», spiega Paul Robertson. «Quello che abbiamo scoperto con questo studio è che questi pianeti potrebbero essere sistematicamente più grandi di quanto inizialmente pensato. Ciò solleva la domanda: quanto sono comuni i pianeti delle dimensioni della Terra?».
Il numero di esopianeti ritenuti di dimensioni simili a quelle della Terra era già esiguo. «Dei sistemi planetari singoli scoperti finora da Tess, solo tre si pensava avessero una composizione analoga a quella terrestre», dice Han. «Con questa nuova scoperta, tutti risultano in realtà più grandi di quanto si pensasse».
Anziché essere pianeti rocciosi come la Terra, sono molto probabilmente “mondi acquatici”: pianeti coperti da un unico oceano che tendono a essere più grandi della Terra, oppure pianeti gassosi ancora più grandi, come Urano o Nettuno. Ciò potrebbe avere un impatto sulla ricerca della vita su pianeti lontani, perché sebbene i mondi acquatici possano ospitarla, potrebbero non avere le stesse caratteristiche che favoriscono la vita su pianeti come la Terra.
Han e il suo team intendono utilizzare i nuovi dati per riesaminare pianeti precedentemente ritenuti inabitabili a causa delle loro dimensioni, perché magari – alla luce delle nuove correzioni proposte – qualche pianeta giudicato troppo piccolo è in realtà delle dimensioni giuste. Inoltre, invitano altri ricercatori a prestare attenzione nell’interpretazione dei dati provenienti da satelliti come Tess.
A tal proposito, anche il telescopio spaziale Cheops (Characterising Exoplanets Satellite) potrebbe essere in grado di misurare il vero girovita di questi pianeti. «Cheops potrebbe certamente dare un contributo importante, in quanto è un telescopio progettato proprio con lo scopo di ottenere misure ultra-precise delle dimensioni dei pianeti», commenta a Media Inaf Gaetano Scandariato, responsabile nazionale di Cheops e ricercatore all’Inaf di Catania, non direttamente coinvolto in questo studio ma esperto di esopianeti. «Infatti, già diverse volte in passato Cheops ha dimostrato di potere migliorare le misure delle dimensioni dei pianeti scoperti da Tess. Inoltre, bisogna anche considerare che Cheops ha una vista “più acuta” di Tess: in alcuni casi infatti potrebbe riuscire a distinguere stelle che, in virtù delle loro coordinate ravvicinate, si sovrappongono nelle immagini di Tess. Questo può risolvere, o almeno mitigare, il problema della contaminazione delle curve di luce fornite da Tess».
Per saperne di più:
- Leggi su Astrophysical Journal Letters l’articolo “Hundreds of TESS Exoplanets Might Be Larger than We Thought” di Te Han, Paul Robertson, Timothy D. Brandt, Shubham Kanodia, Caleb Cañas, Avi Shporer, George Ricker e Corey Beard
I volti sfaccettati delle galassie di Cristal
Come ci si arriva a una galassia bell’e fatta come la Via Lattea, con gas e stelle compostamente organizzati in una ruotante struttura a disco? Per rispondere a questa domanda, gli scienziati sono andati niente meno che a osservare una selezione di galassie bambine, che abitavano l’universo quando quest’ultimo aveva solo un miliardo d’anni, a cercare nella loro struttura i segni di quel che saranno da grandi.
Si chiama Cristal (acronimo che sta per “[CII] Resolved ISm in STar-forming galaxies with ALma”) il programma scientifico che si propone di fare luce sui meccanismi che hanno condotto le nubi di gas e polvere che brulicavano nell’universo lontano a formare stelle e a evolversi nelle galassie che abitano l’universo di oggi. Per farlo, un gruppo internazionale di ricercatori, ha deciso di puntare l’interferometro Alma verso diciannove galassie lontane. Osservandole con una sensibilità e risoluzione angolare sopraffina, quest’ultima di soli 0,2 secondi d’arco, corrispondenti a una dimensione fisica di poco più di un kiloparsec, che ha consentito di ottenere dettagli minuziosi del gas freddo e delle polveri che compongono le galassie infanti oggetti dello studio.
Illustrazione di una galassia del programma Cristal, un miliardo di anni dopo il Big Bang. Le stelle si formano all’interno di nubi distinte. Il gas freddo, che alimenta la formazione stellare e tracciato dalla riga del carbonio ionizzato ([CII]), è rappresentato in rosso mentre la polvere calda, scaldata dalle stelle appena nate, è mostrata in nero. Crediti: Nsf, Aui, Nsf Nrao, B. Saxton
«L’incredibile capacità di Alma di vedere attraverso polvere e gas ci ha permesso di osservare queste galassie distanti con un dettaglio straordinario», spiega Rodrigo Ignacio Herrera Camus dell’Università di Concepción, in Cile, primo autore del lavoro che presenta l’ambizioso programma scientifico, pubblicato da Astronomy & Astrophysics. «Non stiamo solo osservando dei grumi di luce; stiamo risolvendo le strutture interne di queste galassie e imparando qualcosa sui processi che avvengono al loro interno».
Perché proprio queste galassie e non altre? Le galassie selezionate da Herrera Camus e collaboratori risiedono nella cosiddetta “sequenza principale delle galassie”. Nelle galassie che formano stelle, la massa di stelle formate in un certo lasso temporale segue una stringente relazione che la lega alla massa totale di stelle già presenti. Si tratta di galassie che diremmo standard, ordinarie, quelle che seguono la relazione, che si tengono alla larga dall’attività pirotecnica delle galassie starburst o dalla mortale indolenza delle galassie ellittiche. E che ben si prestano, in virtù della loro configurazione equilibrata, allo studio dei processi fisici che animano gas e stelle all’interno delle galassie.
I ricercatori hanno studiato nel dettaglio le proprietà degli oggetti del programma Cristal. Scoprendo una varietà nei moti del gas freddo, che segue ordinate traiettorie circolari in alcune e si esibisce in caotiche danze in altre. I primi oggetti suggeriscono la presenza di strutture a disco già nell’infanzia dell’universo, mentre i secondi sarebbero indicativi di collisioni fra galassie, che alterano la morfologia e la cinematica del gas.
L’emissione del carbonio ionizzato nelle galassie del programma Cristal. Le mappe ad alta risoluzione ottenute da Alma consentono di studiare nel dettaglio la morfologia, l’estensione e i moti del gas freddo. Crediti: Cristal large program
Non solo. Alma ha rivelato che il gas occupa regioni molto più estese di quelle in cui si stanno formando le stelle. Questo suggerisce che le galassie possano attingere a delle riserve di gas freddo, che costituirà il materiale per produrre la future generazioni di astri. Gas che potrebbe essere stato espulso su vasta scala anche dalle galassie stesse, a causa dell’attività di un buco nero centrale.
In ultimo, gli scienziati hanno osservato le stelle nascere in nubi di gas distinte in diverse galassie del campione. Questo rivela preziose informazioni su come avvenga il processo di formazione stellare nelle galassie lontane.
I risultati sopracitati sono stati ottenuti studiando la riga a 158 micron emessa dal carbonio ionizzato, o [CII], che, in virtù della sua luminosità, si presta particolarmente bene allo studio del gas freddo negli oggetti lontani, e l’emissione della polvere nel lontano infrarosso, scaldata dagli astri appena nati.
Un oggetto che si è fatto notare dagli astronomi è la galassia Cristal-10, che risulta particolarmente povera di carbonio in confronto all’appariscente emissione della polvere. Questa caratteristica peculiare ricorda non poco Arp 220, prodotto di una colossale fusione tra galassie, che si trova a duecentocinquata milioni di anni luce dalla Terra (qua dietro, in termini astronomici), abbagliante nel lontano infrarosso, si pensa a causa di una forsennata produzione di astri.
«Cristal fornisce il tipo di dati dettagliati che semplicemente non erano possibili prima di Alma», conclude Herrera Camus. «Abbiamo un nuovo ritratto di famiglia dell’evoluzione galattica primordiale. Queste osservazioni stanno mettendo in discussione i nostri modelli esistenti di formazione delle galassie e aprono nuove strade per la ricerca.»
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The ALMA-CRISTAL survey: Gas, dust, and stars in star-forming galaxies when the Universe was ∼1 Gyr old” di R. Herrera-Camus, J. González-López, N. Förster Schreiber, M. Aravena, I. de Looze, J. Spilker, K. Tadaki, L. Barcos-Muñoz, R. J. Assef, J. E. Birkin, A. D. Bolatto, R. Bouwens, S. Bovino, R. A. A. Bowler, G. Calistro Rivera, E. da Cunha, R. I. Davies, R. L. Davies, T. Díaz-Santos, A. Ferrara, D. Fisher, R. Genzel, J. Hodge, R. Ikeda, M. Killi, L. Lee, Y. Li, J. Li, D. Liu, D. Lutz, I. Mitsuhashi, D. Narayanan, T. Naab, M. Palla, S. H. Price, A. Posses, M. Relaño, R. Smit, M. Solimano, A. Sternberg, L. Tacconi, K. Telikova, H. Übler, S. A. van der Giessen, S. Veilleux, V. Villanueva e M. Baeza-Garay
Così usiamo il vostro cinque per mille
È periodo di dichiarazione dei redditi, e come ogni anno molti di coloro che ci leggono si saranno trovati a scegliere a chi destinare il cosiddetto 5×1000: la quota d’imposta Irpef riservata a realtà che svolgono attività socialmente rilevanti. Decine di migliaia di associazioni ed enti – l’ultimo elenco è lungo oltre 2500 pagine – fra i quali figura anche l’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica.
Tutti i soggetti beneficiari del 5×1000 sono tenuti a dimostrare l’impiego delle somme percepite redigendo ogni anno un apposito rendiconto. Come vengono dunque spesi, questi contributi? E a quanto ammontano? I dati relativi all’Inaf sono disponibili sul sito istituzionale www.inaf.it, ma la lettura non è sempre agevole, trattandosi di documenti amministrativi, dunque per riassumere nel modo più semplice e chiaro possibile il loro utilizzo abbiamo intervistato Antonella Gasperini, dirigente tecnologa all’Inaf di Arcetri, responsabile del settore al quale l’Inaf ha deciso di destinare i proventi del 5×1000: la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico scientifico.
Antonella Gasperini, dirigente tecnologa all’Inaf di Arcetri, responsabile del settore per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico scientifico. Crediti: Inaf
Gasperini, di che cifre parliamo?
«L’ambito Mab – ovvero musei, archivi e biblioteche – ha ricevuto i fondi del cinque per mille destinati all’Inaf a partire dal 2012 e ha ricevuto fino a oggi, in totale, un contributo superiore a 245mila euro: per l’esattezza, 247.535,49 euro. La cifra erogata annualmente ha oscillato fra 15mila e 28mila euro, con una media di 20mila euro all’anno. Si tratta di fondi che, per ovvi motivi, arrivano più o meno due anni dopo rispetto all’anno di riferimento fiscale. Sono fondi con scadenza annuale, soggetti a rendicontazione, pubblicata sul sito web dell’ente».
Qualche esempio del loro utilizzo?
«I fondi sono stati utilizzati per attività di tutela e valorizzazione del patrimonio storico dell’Inaf. È stata svolta attività di catalogazione del materiale bibliografico, con particolare attenzione ai materiali rari, alle carte e alle pubblicazioni periodiche di ambito astronomico. È stata fatta una schedatura analitica degli incunaboli e delle cinquecentine degli osservatori dell’Inaf che ha portato alla pubblicazione del volume Gli Incunaboli e le Cinquecentine degli osservatori astronomici dell’Istituto nazionale di astrofisica, 1478-1560 (Olschki, 2024). Sono inoltre stati restaurati volumi antichi e di pregio e documentazione archivistica di numerosi osservatori. In particolare, con questi fondi sono stati restaurati, ad esempio, i Diari di Schiaparelli e la “Carta della Luna” di G.D. Cassini (1787), conservati all’Osservatorio di Brera. Come pure anche alcuni volumi miscellanei contenenti pubblicazioni rare di ambito napoletano dei secoli XIX e XX».
Il rifrattore Merz dell’Inaf di Brera, prima, durante e dopo il restauro. Crediti: Laura Barbalini/Inaf Brera
Tutte iniziative, queste, destinate anzitutto al patrimonio cartaceo. E per renderlo fruibile anche online?
«Certo, sempre con il contributo del cinque per mille si è proceduto alla digitalizzazione dei volumi più antichi posseduti dall’Inaf, realizzando una vera e propria teca digitale. Ma sono stati digitalizzati anche alcuni fondi di archivio particolari come le serie metereologiche degli Osservatori di Padova (1716-1796) e le osservazioni solari fatte da Angelo Secchi a Roma (1858-1886) e da Pietro Tacchini a Catania (1865-1876). Con tali fondi si è proceduto poi al completamento del riordino di alcuni archivi storici, alla loro inventariazione e al riversamento dei dati nel portale Polvere di stelle. In particolare, gli archivi di Roma, Padova, Trieste e Arcetri, mentre altri archivi storici sono stati riordinati e inventariati con fondi diversi.
Libri a parte?
«Di recente abbiamo portato a termine due restauri importanti: quello del tubo del telescopio Merz di Catania e, di recente, del rifrattore Merz di Schiaparelli di Brera. E non dimentichiamo il portale dei beni culturali dell’astronomia in Italia, Polvere di stelle: con le sue molteplici sezioni, è uno strumento in continua implementazione ed evoluzione e nel corso degli ultimi anni sono state riviste alcune sezioni ed è stato fatto un upgrade relativo all’output e alla grafica per renderlo uno strumento sia accessibile a un pubblico generico sia sempre più rispondente alle necessità di ricerca degli studiosi. Una parte dei fondi ricevuti dal cinque per mille sono stati investiti in questa direzione. Sono stati fondamentali anche per consentirci di organizzare alcuni workshop su temi legati alla conservazione preventiva del patrimonio storico. Infine, sono stati utilizzati per cofinanziare alcuni assegni di ricerca (a Trieste, Palermo, Padova e Napoli) per la selezione di competenze professionali specifiche, indispensabili – essendo l’ambito Mab fortemente sotto organico – per la gestione e la valorizzazione di un patrimonio di tale valore culturale».
C’è un baby pianeta che si sta rimpicciolendo
Secondo un nuovo studio che verrà pubblicato su The Astrophysical Journal – condotto grazie ai dati dell’Osservatorio a raggi X Chandra della Nasa – un pianeta appena nato si starebbe paurosamente rimpicciolendo, passando da dimensioni paragonabili a quelle di Giove (con una densa atmosfera) a un piccolo mondo sterile. Questa trasformazione sta avvenendo perché la stella madre emette forti raffiche di raggi X che stanno spazzando via la sua atmosfera a un ritmo impressionante.
Immagine X, nel riquadro in alto a sinistra. Crediti: Nasa/Cxc/Rit/A. Varga et al.; Impressione artistica di Toi 1227 b. Crediti: Nasa/Cxc/Sao/M. Weiss; Elaborazione delle immagini: Nasa/Cxc/sao/N. Wolk
L’esopianeta – chiamato Toi 1227 b – orbita attorno a una nana rossa, a circa 330 anni luce dalla Terra. Purtroppo per lui, orbita molto vicino alla sua stella, a meno di un quinto della distanza di Mercurio dal Sole. Ora si è scoperto che i raggi X emessi dalla stella, gli stanno strappando l’atmosfera a una velocità tale che il pianeta la perderà completamente entro circa un miliardo di anni. A quel punto, avrà perso una massa pari a circa due masse terrestri, rispetto alle circa 17 attuali (come Nettuno, quindi, anche se il suo diametro è più simile a quello di Giove). In particolare, stimano che il pianeta stia perdendo una massa equivalente a un’intera atmosfera terrestre circa ogni 200 anni.
Ovviamente, è quasi impossibile che su Toi 1227 b esistano forme di vita, né ora né mai. Il pianeta è troppo vicino alla sua stella per rientrare in qualsiasi definizione di zona abitabile. Toi 1227, la stella, ha una massa pari a circa un decimo di quella del Sole ed è molto più fredda e debole nella luce ottica. Nei raggi X, tuttavia, è più luminosa del Sole e sta sottoponendo questo pianeta a un assalto devastante.
«Il futuro di questo pianeta neonato non promette nulla di buono», conclude Alexander Binks dell’Università Eberhard Karls di Tubinga. «Toi 1227 b potrebbe ridursi a circa un decimo delle sue dimensioni attuali e perdere oltre il 10 per cento della sua massa».
Lo studio mostra che questo pianeta è giovanissimo: ha solo 8 milioni di anni (studi precedenti avevano stimato un’età di circa 11 milioni di anni). La Terra, per confronto, ha circa 5 miliardi di anni: è quasi mille volte più vecchia. Si tratta del secondo pianeta più giovane mai osservato transitare davanti alla sua stella. I ricercatori hanno utilizzato diverse serie di dati per stimare l’età di Toi 1227 b. Un metodo sfrutta le misurazioni di come la stella madre si muove nello spazio rispetto a popolazioni di stelle vicine di età nota. Un secondo metodo confronta la luminosità e la temperatura superficiale della stella con modelli teorici di stelle in evoluzione. Certo è che tra tutti gli esopianeti scoperti dagli astronomi con età inferiore a 50 milioni di anni, Toi 1227 b si distingue per avere l’anno più lungo e la stella madre con la massa più bassa.
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “The Age and High Energy Environment of the Very Young Transiting Exoplanet TOI 1227b” Attila Varga, Joel H. Kastner, Alexander S. Binks, Hans Moritz Guenther e Simon J. Murphy
Un universo di ordinaria inflazione
Proposto un nuovo modello di inflazione cosmica nel quale la gravità e la meccanica quantistica possono essere sufficienti a spiegare come si è formata la struttura a grande scala del cosmo. Crediti per l’illustrazione: University of Barcelona’s Institute of Cosmos Sciences (Iccub)
Descrivere com’è nato l’universo, i suoi primissimi “istanti di vita”, non è semplice. O invece sì? A suggerire che si possa fare a meno di molti dei protagonisti esotici – e mai osservati – che si sono succeduti e sedimentati negli ultimi decenni per spiegare l’origine e l’evoluzione dell’universo e la sua struttura a grande scala è un articolo, pubblicato la settimana scorsa su Physical Review Research, che presenta un nuovo modello senza campi o particelle ipotetiche quali, per esempio, l’inflatone.
“Inflazione senza inflatone”, è infatti il titolo del nuovo studio. Secondo i suoi autori – Daniele Bertacca e Sabino Matarrese dell’Università di Padova, Raul Jimenez dell’Università di Barcellona a Angelo Ricciardone dell’Università di Pisa – le fluttuazioni quantistiche nello spazio-tempo sono state sufficienti a seminare le piccole differenze di densità che hanno poi dato origine a galassie, stelle e pianeti. Il tutto descritto attraverso uno spazio-tempo ampiamente consolidato: il cosiddetto spazio di de Sitter. Uno scenario elegante, insomma, in un certo senso minimalista.
«L’eleganza è proprio legata alla semplicità del modello proposto e all’assenza di parametri liberi», dice il primo autore, Daniele Bertacca. «Inoltre, ci aspettiamo che sia in grado di spiegare in modo elegante e naturale la scala di energia e la durata temporale dell’inflazione. Entrambe determinano tutte le predizioni osservabili e sono necessarie per risolvere il problema dell’orizzonte cosmologico e della piattezza».
Daniele Bertacca, ricercatore al Dipartimento di fisica e astronomia “Galileo Galilei” dell’Università di Padova, associato Inaf e Infn, primo autore dell’articolo “Inflation without an inflaton” pubblicato su Physical Review Research
Bertacca, quali sono le complicazioni delle quali, grazie al vostro modello, potremmo sbarazzarci?
«Negli ultimi decenni, i cosmologi hanno fatto predizioni sulle proprietà attuali dell’universo, adottando il paradigma dell’inflazione, un modello che suggerisce come l’universo si sia espanso in modo incredibilmente rapido, preparando il terreno per tutto ciò che osserviamo oggi. Il paradigma inflazionario è in grado di spiegare perché il nostro universo sia così omogeneo e isotropo e, allo stesso tempo, perché contenga strutture disomogenee, come galassie e ammassi di galassie. Ma c’è un problema: questa teoria include troppi parametri “liberi”, ovvero parametri “regolabili”, che possono essere modificati a piacimento. Nella scienza troppa flessibilità può essere problematica perché rende difficile capire se un modello adottato stia veramente prevedendo qualcosa o se si stia semplicemente adattando, a posteriori, ai dati osservati. Per la precisione, il modello che proponiamo per l’universo primordiale non ha bisogno di nessuno di questi parametri arbitrari, ma di una sola scala di energia che determina tutte le predizioni osservabili».
Energia oscura e materia oscura dunque rimangono, anche nel vostro modello, giusto?
«Assolutamente. La materia oscura e l’energia oscura rimangono. Tuttavia, se si ripetesse lo stesso esercizio fatto nell’articolo in relazione all’attuale energia oscura, potrebbero emergere conseguenze e interpretazioni interessanti relative alla natura dell’energia oscura, quella che permette l’accelerazione dell’universo oggi».
Il vostro è uno scenario, scrivete, in cui a guidare l’inflazione sarebbe uno “spazio di de Sitter”. Vale a dire?
«Lo spazio-tempo di de Sitter è un modello geometrico di universo dominato dall’energia del vuoto, che si espande accelerando: uno spazio-tempo che si espande in modo accelerato in ogni punto, come un palloncino che si gonfia sempre più velocemente».
E le onde gravitazionali? Che ruolo hanno, nel vostro modello? In che modo interagirebbero con le fluttuazioni quantistiche?
«Come spieghiamo nell’articolo, il nuovo modello suggerisce che le naturali oscillazioni quantistiche dello spazio-tempo stesso sotto forma di onde gravitazionali quantistiche (gravitoni) siano state sufficienti a innescare le minuscole fluttuazioni di densità che alla fine hanno dato origine a galassie, stelle e pianeti».
Sottolineate anche che il vostro è uno scenario falsificabile: in che modo?
«Certamente, con misure e osservazioni che i ricercatori possono oggi analizzare, valutare e confrontare con i dati misurati da esperimenti terrestri e dallo spazio. Ad esempio, legate al fondo cosmico di microonde, chiamato Cmb, e allo studio della struttura su grande scala dell’universo».
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Research l’articolo “Inflation without an inflaton”, di Daniele Bertacca, Raul Jimenez, Sabino Matarrese e Angelo Ricciardone
Ammonite, un fossile ai confini del Sistema solare
Un team di astronomi guidato da Ying-Tung Chen, dell’Academia Sinica di Taiwan, ha individuato un nuovo corpo celeste ai confini del Sistema solare. La scoperta, descritta in un articolo pubblicato questa settimana su Nature Astronomy, mette in discussione l’ipotesi dell’esistenza del Pianeta Nove.
Illustrazione artistica che mostra in primo piano Ammonite, il corpo celeste scoperto ai margini del Sistema solare, oltre l’orbita di Nettuno. Crediti: Immagine creata dalla AI da Ying-Tung Chen (Asiaa)
Il nuovo oggetto celeste, ufficialmente denominato 2023 KQ14 e soprannominato Ammonite dal gruppo di ricerca, ha un diametro stimato relativamente contenuto, compreso tra 220 e 380 chilometri. Il suo perielio – il punto della sua orbita in cui si trova più vicino al Sole – è invece ragguardevole: ben 66 unità astronomiche, un valore che lo colloca tra oggetti più distanti mai osservati nel Sistema solare.
Gli astronomi lo hanno individuato nell’ambito del programma osservativo Fossil (Formation of the Outer Solar System: An Icy Legacy), una survey che sfrutta l’ampio campo visivo del telescopio giapponese Subaru per ricostruire la storia del Sistema solare studiando piccoli corpi ghiacciati lontani dal Sole. Le prime osservazioni di Ammonite risalgono a marzo, maggio e agosto del 2023. Successive osservazioni di follow-up, condotte a luglio 2024 con il Canada-France-Hawaii Telescope, insieme all’analisi dei dati d’archivio raccolti dal telescopio V. Blanco da 4 metri di Cerro Tololo, in Cile, e dal telescopio del Kitt Peak National Observatory, negli Usa, hanno permesso agli astronomi di ricostruite l’orbita dell’oggetto su un arco temporale di 19 anni, confermandone l’esistenza.
Come anticipato, le analisi indicano che al perielio pari a 66 unità astronomiche, un valore che lo colloca all’interno di una classe di oggetti conosciuti col nome di sednoidi. Si tratta di corpi celesti che orbitano ben oltre l’influenza gravitazionale di Nettuno. Sedna (il capostipite, con un perielio di 76 unità astronomiche), 2012 VP113 (con un perielio di circa 80 unità astronomiche) e Leleakuhonua (con un perielio di circa 65 unità astronomiche) erano fino a oggi gli unici oggetti transnettuniani conosciuti appartenenti a questa classe. Ammonite è il quarto esempio noto di questo raro tipo di oggetti.
«La scoperta di Ammonite aggiunge un tassello al puzzle dei corpi ai confini del Sistema solare» osserva Ying-Tung Chen. «Questo ci aiuta a comprendere meglio la distribuzione orbitale degli oggetti trans-nettuniani più distanti».
Infografica che mostra l’orbita di Ammonite (linea rossa) e degli altri sednoidi precedentemente noti(linee bianche). Ammonite è stato scoperto vicino al suo perielio, a una distanza di 71 unità astronomiche (71 volte la distanza media che separa la Terra dal Sole). Il punto giallo mostra la sua posizione a luglio 2025. Crediti: Naoj
Ma Ammonite non è solo un oggetto molto lontano: i suoi parametri orbitali indicano infatti che ha un’orbita molto peculiare, posizionata in direzione opposta rispetto agli altri sednoidi. Secondo i ricercatori, ciò suggerisce che il Sistema solare esterno sia più diversificato e complesso di quanto si pensasse in precedenza.
Non solo: il fatto che Ammonite segua un’orbita differente da quella degli altri sednoidi pone anche nuovi vincoli, dicevamo, sull’ipotetica esistenza del Pianeta Nove. Se esiste, spiegano a questo proposito i ricercatori, la sua orbita dov’essere ancora più lontana di quanto finora ipotizzato, poiché la sua presenza non sarebbe compatibile con l’attuale orbita di Ammonite.
«ll fatto che l’attuale orbita di 2023 KQ14 non sia allineata con quella degli altri tre sednoidi riduce la probabilità dell’esistenza del Pianeta Nove», dice un altro coautore dello studio, Yukun Huang, dell’Osservatorio astronomico nazionale del Giappone (Naoj). «È possibile che in passato il pianeta esistesse nel Sistema solare, ma che sia stato successivamente espulso, facendo in modo che gli oggetti presenti acquisissero le orbite insolite che vediamo oggi».
Animazione che mostra il movimento di Ammonite nel tempo. Crediti: Naoj, Asiaa
Il team di ricerca ha inoltre condotto simulazioni numeriche per studiare l’evoluzione orbitale di Ammonite, utilizzando risorse di calcolo avanzate, tra cui il cluster gestito dal Center for Computational Astrophysics dell’Naoj. I risultati indicano che l’orbita del corpo celeste è rimasta stabile per miliardi di anni. In pratica, Ammonite non avrebbe mai subito significative perturbazioni gravitazionali. Questo, spiegano gli autori, rende il corpo celeste uno dei “fossili” meglio conservati del Sistema solare, testimone delle suoi primi istanti di vita. Una delle simulazioni suggerisce inoltre che, circa 4,2 miliardi di anni fa, Ammonite e altri sednoidi potrebbero aver condiviso una configurazione orbitale comune, forse determinata dall’influenza di un pianeta oggi perduto.
La scoperta di Ammonite – il primo oggetto di tipo Sedna con un’orbita posizionata in direzione opposta rispetto agli altri oggetti appartenenti a questa classe, e il terzo con il più grande perielio tra tutti gli oggetti transnettuniani noti – offre un’opportunità preziosa per valutare i modelli attuali di formazione ed evoluzione del Sistema solare esterno, concludono i ricercatori. I risultati evidenziano la grande diversità delle proprietà orbitali e dei comportamenti dinamici degli oggetti più distanti del Sistema solare. Le future grandi survey saranno fondamentali per aumentare il numero di oggetti simili scoperti, e per perfezionare la comprensione dei processi che modellano il nostro quartiere cosmico.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Discovery and dynamics of a Sedna-like object with a perihelion of 66 au” di Ying-Tung Chen, Patryk Sofia Lykawka, Yukun Huang, JJ Kavelaars, Wesley C. Fraser, Michele T. Bannister, Shiang-Yu Wang, Chan-Kao Chang, Matthew J. Lehner, Fumi Yoshida, Brett Gladman, Mike Alexandersen, Edward Ashton, Young-Jun Choi, A. Paula Granados Contreras, Takashi Ito, Youngmin JeongAhn, Jianghui Ji, Myung-Jin Kim, Samantha M. Lawler, Jian Li, Zhong-Yi Lin, Hong-Kyu Moon, Surhud More, Marco Muñoz-Gutiérrez, Keiji Ohtsuki, Lowell Peltier, Rosemary E. Pike, Tsuyoshi Terai, Seitaro Urakawa, Hui Zhang, Haibin Zhao e Ji-Lin Zhou
Nubi fredde nelle bollenti bolle di Fermi
media.inaf.it/2025/07/17/cold-…
Come ghiaccio in un vulcano: è così che gli autori della scoperta descrivono il fenomeno. All’interno delle cosiddette bolle di Fermi, enormi strutture di gas caldo che si estendono per circa 50mila anni luce sopra e sotto il disco della Via Lattea, sono state individuate nubi di gas cento volte più freddo – “appena” diecimila gradi – dell’ambiente circostante.
«Le bolle di Fermi sono una scoperta relativamente recente, sono state identificate per la prima volta nel 2010 da telescopi che rilevano raggi gamma. Ci sono diverse teorie sulla loro origine, sappiamo però che è stato un evento estremamente improvviso e violento, come un’eruzione vulcanica ma su enorme scala», spiega Rongmon Bordoloi, professore di fisica alla North Carolina State University e primo autore dell’articolo che riporta la scoperta, pubblicato la settimana scorsa su ApJL.
Con l’ausilio del radiotelescopio Green Bank della National Science Foundation degli Stati Uniti, i tre autori dello studio hanno analizzato le bolle di Fermi per ottenere dati ad alta risoluzione sulla composizione del gas e sulla velocità con cui si muove. Tali misurazioni, il doppio più sensibili rispetto ai precedenti rilevamenti, hanno permesso l’osservazione di dettagli più fini.
La maggior parte del gas dentro le bolle di Fermi ha una temperatura di circa un milione di gradi kelvin. Tuttavia, i ricercatori hanno rilevato qualcosa di sorprendente: dense nubi gassose di idrogeno neutro, ciascuna equivalente a diverse masse solari, sparse all’interno di bolle a 12mila anni luce sopra il centro della Via Lattea.
L’immagine mostra il piano della Via Lattea e le bolle di Fermi, rappresentate da due nubi viola uscenti dal centro. Sulla sinistra, un ingrandimento di una regione della bolla superiore mostra in bianco le nubi più fredde di idrogeno neutro. Crediti: Nsf/Aui/Nsf Nrao/P. Vosteen
«Queste nubi di idrogeno neutro sono fredde rispetto al resto della bolla di Fermi», dice Andrew Fox, astronomo presso lo Space Telescope Science Institute e coautore dell’articolo. «Hanno una temperatura di circa 10mila gradi kelvin, risultando più fredde dell’ambiente circostante di almeno un fattore cento. Trovare queste nubi all’interno delle bolle di Fermi è come trovare cubetti di ghiaccio in un vulcano».
I modelli al computer che simulano l’interazione tra gas freddo e gas caldo in ambienti estremi come le bolle di Fermi mostrano che le nubi fredde dovrebbero dissolversi rapidamente, generalmente entro pochi milioni di anni. Tale intervallo di tempo corrisponde a stime indipendenti sull’età delle bolle. «La presenza di queste nubi non sarebbe possibile se le bolle di Fermi avessero dieci milioni di anni o più», spiega Bordoloi.
«A rendere questa scoperta ancora più straordinaria è la sua sinergia con le osservazioni nell’ultravioletto del telescopio spaziale Hubble», continua Bordoloi. «Le nubi si trovano lungo una linea di vista precedentemente osservata con Hubble, che ha rilevato gas multistrato altamente ionizzato, con temperature che variano da un milione a centomila gradi kelvin: ciò che ci si aspetterebbe di vedere se un gas freddo stesse evaporando».
Il team è riuscito anche a calcolare la velocità con cui si muove il gas, confermando ulteriormente l’età delle bolle. «Questi gas si muovono a una velocità di oltre un milione e mezzo di chilometri orari, un’ulteriore prova che le bolle di Fermi sono un fenomeno relativamente recente», osserva Bordoloi. «Queste nubi non erano presenti quando i dinosauri vagavano sulla Terra. E su scala cosmica un milione di anni è un battito di ciglia».
«Crediamo che queste nubi fredde siano state trascinate via dal centro della Via Lattea e sollevate dal vento caldissimo che ha formato le bolle di Fermi», dice Jay Lockman, astronomo del Green Bank Observatory e coautore dell’articolo. «Così come sulla Terra non si può vedere il vento a meno che non ci siano le nuvole a mostrarne il movimento, anche noi non possiamo osservare direttamente il vento caldo della Via Lattea, ma possiamo rilevare l’emissione radio delle nubi fredde che porta con sé.»
Questa scoperta mette in discussione l’attuale comprensione di come le nubi fredde riescano a sopravvivere in un ambiente tanto estremo ed energetico come quello del centro galattico. I dati raccolti impongono forti vincoli osservativi sui meccanismi con cui i flussi di materia interagiscono con l’ambiente circostante. I risultati rappresentano un punto di riferimento fondamentale per le simulazioni del feedback galattico e dei processi evolutivi, ridefinendo la nostra visione di come energia e materia circolano attraverso le galassie.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “A New High-latitude H I Cloud Complex Entrained in the Northern Fermi Bubble”, di Rongmon Bordoloi, Andrew J. Fox e Felix J. Lockman
Gemini guarda la chioma della cometa interstellare
Eccoci di nuovo, per la terza volta in soli 15 giorni, a parlare della cometa 3I/Atlas. La più antica mai scoperta secondo uno studio in corso di revisione su ApJ Letters, nonché il terzo oggetto interstellare osservato mentre transita nel Sistema solare, dopo i celebri 1I/’Oumuamua e 2I/Borisov.
La ragione, questa volta, è una nuova immagine. La vedete qui in basso. È stata presa con lo spettrografo multioggetto Gmos-N del telescopio Gemini Nord alle isole Hawaii, e proprio grazie all’elevata sensibilità dello strumento riesce a rivelare la chioma compatta della cometa, una nube di gas e polvere che circonda il suo nucleo ghiacciato.
La cometa 3I/Atlas sfreccia attraverso un denso campo stellare in questa immagine catturata dallo spettrografo Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos-N) del telescopio Gemini North. Il riquadro di sinistra cattura la scia colorata della cometa mentre si muove attraverso il Sistema Solare. L’immagine è stata composta da esposizioni scattate con tre filtri, mostrati qui in rosso, verde e blu. Il riquadro di destra è un ingrandimento che mostra la chioma compatta della cometa, una nube di gas e polvere che circonda il suo nucleo ghiacciato. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura/K. Meech (Ifa/U. Hawaii); elaborazione immagini: Jen Miller E Mahdi Zamani (Nsf Noirlab)
Gli oggetti interstellari come 3I/Atlas hanno origine al di fuori del Sistema solare, hanno dimensioni che vanno da decine di metri a pochi chilometri, e sono frammenti di detriti cosmici rimasti dalla formazione di altri sistemi planetari da cui provengono. Mentre orbitano attorno alla loro stella, esattamente come fanno gli asteroidi e le comete attorno al Sole, la gravità dei pianeti più grandi o delle stelle vicine può dar loro un calcio gravitazionale e spedirli fuori dai loro sistemi di origine nello spazio interstellare, dove possono incrociare altre stelle e pianeti.
Che siano asteroidi, comete o altri oggetti, sono preziosi proprio perché offrono una connessione tangibile con altri sistemi stellari. Trasportano informazioni sugli elementi chimici presenti nel luogo in cui si sono formati, fornendo informazioni ad esempio su come si formano i sistemi planetari attorno a stelle lontane. Sebbene gli astronomi ritengano che esistano molti oggetti interstellari e che probabilmente attraversino regolarmente il Sistema solare, questi sono estremamente difficili da catturare poiché sono visibili solo quando sono abbastanza vicini e quando, incidentalmente, i nostri telescopi sono puntati nel posto giusto al momento giusto. Bisogna approfittarne, dunque.
Per questo gli astronomi in tutto il mondo non stanno perdendo tempo con 3I/Atlas, e la stanno osservando con diversi telescopi e strumenti. Ecco cosa sappiamo finora: la cometa avrebbe un diametro non superiore a 20 chilometri – dimensioni ragguardevoli se confrontate con i 200 metri di diametro di ‘Oumuamua e meno di un chilometro di Borisov. 3I/Atlas avrebbe anche un’orbita eccezionalmente eccentrica. L’eccentricità descrive quanto sia “allungato” il percorso orbitale di un oggetto: 0 indica un’orbita perfettamente circolare, 0,9 un’ellisse molto allungata, mentre un oggetto con un’eccentricità superiore a 1 si trova su un percorso che non ruota attorno al Sole, e che proviene dunque dallo spazio interstellare e vi ritornerà. 3I/Atlas ha un’eccentricità di 6,2, un valore altamente iperbolico che non lascia dubbi circa la sua natura di oggetto interstellare. Per confronto, ‘Oumuamua aveva un’eccentricità di circa 1,2 e Borisov di circa 3,6.
Attualmente, la cometa di passaggio si trova all’interno dell’orbita di Giove, a una distanza di circa 465 milioni di chilometri dalla Terra e 600 milioni di chilometri dal Sole. Arriverà al massimo a circa 270 milioni di chilometri dal nostro pianeta il 19 dicembre, mentre raggiungerà il suo massimo avvicinamento al Sole intorno al 30 ottobre a una distanza di 210 milioni di chilometri, appena all’interno dell’orbita di Marte. In quel momento, viaggerà a quasi 25 mila chilometri all’ora. Restate allerta allora, perché nei prossimi mesi arriveranno altre osservazioni, immagini, e notizie su questo visitatore d’eccezione.
Stasera, giovedì 17 luglio, torna la Binocular Classroom al Parco delle Ginestre (via Salita di Oriolo, #Faenza)
È una lezione di #astronomia osservando il cielo col #binocolo
I posti sono limitati, contattaci per prenotare!
Dettagli: mobilizon.it/events/ee155a89-5…
#spazio #astrofili #scienza #cielostellato #cielonotturno #divulgazione #scienze #evento #eventi #corso #corsi #romagna #italia #unioneastrofiliitaliani #space #astronomy #telescopio #stargazing #starparty #telescopi #binocoli
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Verso la galassia Infinito e oltre
Tra le numerose galassie che si trovano in giro per l’universo, recentemente ne è stata scoperta una molto particolare. L’hanno chiamata galassia Infinito (∞ galaxy) per via della sua forma. La sua immagine, che vedete qui sotto, non è molto nitida ma rende lo stesso bene l’idea. In realtà si tratta di due galassie entrate in collisione che, interagendo, hanno formato una struttura che ricorda il simbolo dell’infinito. Al centro dell’infinito, incastonato in una nube di gas, inaspettatamente risiede un buco nero supermassiccio. La scoperta è descritta in uno studio che sarà presto pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.
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La galassia Infinito, osservata con il telescopio spaziale James Webb. È il risultato di una collisione cosmica tra due galassie. La posizione del possibile buco nero neonato è mostrata al centro, insieme agli altri due buchi neri già presenti prima della collisione. Crediti: Nasa, P. van Dokkum, G. Brammer
Secondo gli autori, questo risultato è interessante per tre motivi: suggerisce un nuovo modo in cui possono formarsi buchi neri supermassicci, fornisce una possibile spiegazione dell’esistenza di buchi neri massicci nell’universo primordiale (che a quell’epoca, in teoria, non avrebbero dovuto avere il tempo di formarsi) e potrebbe essere la prima prova diretta dell’esistenza di un buco nero supermassiccio appena nato.
Pieter van Dokkum di Yale e Gabriel Brammer dell’Università di Copenaghen hanno fatto la scoperta studiando le immagini della survey Cosmos-Web, un programma del Cycle 1 del Jwst della Nasa. Successivamente alla scoperta, hanno fatto osservazioni di follow-up dei dati di Webb. Inoltre, hanno utilizzato i dati del W.M. Keck Observatory per lo studio e i dati d’archivio del Very Large Array del National Radio Astronomy Observatory e del Chandra X-ray Observatory.
Trovare un buco nero così lontano dal nucleo di una galassia massiccia è di per sé insolito. Scoprire che il buco nero è giovanissimo, probabilmente appena formato, è senza precedenti. «Pensiamo di stare assistendo alla nascita di un buco nero supermassiccio, qualcosa di mai visto prima», dice van Dokkum.
La scoperta ha delle implicazioni anche per il dibattito che attualmente sta imperversando sulla formazione dei buchi neri nell’universo primordiale. Una teoria – la teoria dei “semi leggeri” – sostiene che i buchi neri più piccoli – quelli stellari – si formino dal collasso dei nuclei di stelle massicce. Alla fine, questi buchi neri, assimilabili a semi leggeri, si sono fusi in buchi neri supermassicci. La teoria, tuttavia, richiede un tempo straordinariamente lungo per portare alla formazione dei buchi neri supermassicci e ciò non torna con le evidenze riscontrate dal telescopio Webb, che ha già identificato buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, troppo presto per essere spiegati dalla teoria dei semi leggeri».
Rimane allora la teoria dei “semi pesanti”, sostenuta dall’astrofisica Priyamvada Natarajan, co-autrice dello studio. Questa teoria suggerisce che buchi neri molto più grandi possano formarsi dal collasso di grandi nubi di gas. La sua maggiore criticità è che le nubi di gas collassate di solito vanno a formare stelle.
La galassia Infinito, tuttavia, potrebbe mostrare il modo in cui condizioni estreme – comprese quelle dell’universo primordiale suggerite dalla teoria dei “semi pesanti” – possano portare alla creazione di un buco nero. «In questo caso, due galassie a disco si sono scontrate formando le strutture ad anello che vediamo», spiega van Dokkum. «Durante la collisione, il gas all’interno di queste due galassie ha subito l’effetto di un’onda d’urto e si è compresso. Questa compressione potrebbe essere stata sufficiente a formare un denso nodo, che poi è collassato in un buco nero. Sebbene tali collisioni siano eventi rari, si ritiene che densità di gas altrettanto estreme fossero piuttosto comuni nelle epoche cosmiche primordiali, quando le galassie iniziarono a formarsi».
Interazioni di questo tipo tra galassie potrebbero quindi portare alla formazione di buchi neri supermassicci, soprattutto nelle prime epoche dell’universo quando la densità era molto più alta. Come sottolineato dagli autori, saranno necessarie ulteriori indagini per confermare i risultati e le loro implicazioni sulla formazione dei buchi neri.
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal Letters “The Infinity Galaxy: a Candidate Direct-Collapse Supermassive Black Hole Between Two Massive, Ringed Nuclei” di Pieter van Dokkum, Gabriel Brammer, Josephine F. W. Baggen, Michael A. Keim, Priyamvada Natarajan, Imad Pasha
Protocellule su Titano? L’ipotesi non è da escludere
All’interno dei sistemi biologici esistono minuscole strutture sferiche, circondate da membrana e in grado di auto-assemblarsi, che svolgono svariate funzioni fondamentali. Trasporto di molecole all’interno delle cellule, secrezione all’esterno e comunicazione tra compartimenti intracellulari sono alcune di queste. Gli scienziati ritengono che sulla Terra primordiale queste sacche abbiano svolto un ruolo cruciale nell’emergere della vita, fungendo da precursori delle protocellule, ossia di quelle strutture prebiotiche che, nel corso di miliardi di anni, avrebbero portato alla comparsa delle prime cellule viventi. Vescicole: è così che le chiamano gli addetti ai lavori.
Illustrazione artistica che mostra l’ipotetico ambiente di Titano, con laghi di idrocarburi e piogge di metano. Crediti: Jenny McElligott/emits
Partendo da questa premessa, due astrobiologi, Christian Mayer dell’University of Duisburg-Essen e Conor Nixon del Nasa Goddard, si sono interrogati sulla possibilità che i mari e i laghi di idrocarburi presenti sulla superficie di Titano – la più grande delle lune di Saturno – possano offrire un ambiente favorevole alla formazione di queste strutture. La risposta al quesito, riportata dai ricercatori in un articolo pubblicato la settimana scorsa sulla rivista The International Journal of Astrobiology, è affermativa: un meccanismo analogo a quello che consente la formazione delle vescicole sulla Terra potrebbe verificarsi anche su Titano, si legge nella pubblicazione. Tali vescicole potrebbero anche evolvere, dando origine a protocellule primitive.
Titano, la più grande luna di Saturno, è l’unico mondo oltre la Terra a possedere stabilmente mari e laghi in superficie. Non si tratta tuttavia di bacini pieni d’acqua, ma di idrocarburi liquidi, principalmente metano ed etano. Grazie anche alla presenza di una spessa atmosfera, queste vaste distese di liquido sono coinvolte in un ciclo di evaporazione, formazione di nubi e precipitazioni analogo al ciclo idrogeologico terrestre. Ciò rende la luna un laboratorio ideale per studiare i processi biologici che potrebbero aver portato all’origine della vita sulla Terra primordiale. Tra questi processi, un ruolo centrale si ritiene l’abbia giocato proprio la vescicolazione.
Rappresentazione del ciclo meteorologico di Titano. Crediti: Nasa/Esa
Le vescicole sono minuscole strutture formate da una membrana fatta di molecole simili a quelle che compongono le cellule. La loro formazione, ritenuta un passaggio chiave nella produzione dei precursori delle cellule viventi, le cosiddette protocellule, richiede sia la presenza di acqua liquida che di particolari molecole lineari chiamate molecole anfipatiche. Si tratta di composti chimici che presentano due parti: un’estremità idrofoba (chiamata anche coda), che “teme” l’acqua, e un’estremità idrofila (chiamata testa), che invece “ama” l’acqua. Quando immerse in un liquido polare, queste molecole si organizzano spontaneamente in strutture sferiche monostrato simili a bolle di sapone, in cui la testa idrofila delle molecole è rivolta verso l’esterno della vescicola, dunque a contatto con il solvente, mentre la coda idrofoba è rivolta verso l’interno, schermata dal liquido circostante.
In determinate condizioni, tuttavia, le molecole anfipatiche possono formare anche vescicole a doppio strato. In questo caso, le code idrofobe si orientano una contro l’altra, formando una barriera che impedisce il passaggio di molecole polari, mentre le teste idrofile sono rivolte verso l’esterno e l’interno della vescicola, a contatto con l’ambiente acquoso.
Considerando che su Titano sono presenti laghi e mari di idrocarburi coinvolti in un ciclo meteorologico simile a quello terrestre, e che – come rilevato dalla missione Cassini – vi si trovano anche molecole anfipatiche capaci di auto-aggregarsi, gli autori si sono domandati se sulla luna la formazione di queste strutture sia possibile. E, soprattutto, se possano portare allo sviluppo di cellule primitive.
Nello studio, i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione su una particolare classe di molecole scoperte su Titano dalla missione Cassini: i nitrili organici. Si tratta di molecole che si formano inizialmente nell’atmosfera della luna, per poi finire nei laghi trasportate dalla pioggia di idrocarburi. Secondo quanto riportato dagli autori nella pubblicazione, il loro accumulo potrebbe comportare la formazione di vescicole stabili e auto-rigeneranti.
Il meccanismo ipotizzato, che vedete illustrato nell’infografica qui in basso, è il seguente. Durante le piogge di metano su Titano, l’impatto delle gocce sui laghi provoca spruzzi locali, generando grandi quantità di piccole gocce di aerosol attorno alle quali le molecole anfipatiche producono delle vescicole monostrato. Una volta ricadute sulla superficie, queste vescicole interagiscono con le molecole anfipatiche presenti nel lago, dando origine a vescicole a doppio strato capaci di racchiudere il contenuto iniziale. In ambienti con gradienti chimici, condizioni topografiche e dinamiche di mescolamento diverse, queste vescicole potrebbero competere tra loro, spiegano i ricercatori, innescando un processo evolutivo a lungo termine che potrebbe originare protocellule primitive.
Rappresentazione artistica del meccanismo proposto per la formazione delle vescicole su Titano. I laghi e i mari di metano presenti sulla superficie di Titano sono ricoperti di un sottile film di molecole anfipatiche (1). Le gocce di pioggia di metano che colpiscono la superficie del lago (2) generano gocce di aerosol rivestite dal monostrato di molecole (3). Una volta che le gocce ricadono nel lago si forma una vescicola con un doppio strato (4). Crediti: Christian Mayer (Universität Duisburg-Essen) and Conor Nixon (Nasa Goddard)
Lo studio descrive anche gli esperimenti di laboratorio per replicare il processo di formazione, nonché gli strumenti da impiegare nelle future missioni spaziali su Titano per rilevare le strutture. In quest’ultimo caso, la proposta dei ricercatori è l’utilizzo di un dispositivo laser combinato a uno strumento in grado di fare spettroscopia Raman. Il primo strumento, analizzando la distribuzione granulometrica e le proprietà di sedimentazione, permetterebbe di distinguere le vescicole da eventuali granelli di altro materiale. Il secondo, invece, permetterebbe un rilevamento estremamente sensibile delle molecole anfipatiche che formano le membrane delle vescicole, anche a basse concentrazioni.
La scoperta dell’esistenza di vescicole su Titano rappresenterebbe una svolta, concludono i ricercatori. Dimostrerebbe che sulla luna sono stati fatti primi passi verso l’ordine e la complessità chimica necessari per l’emergere della vita. Un rivelatore che utilizzi un dispositivo laser combinato con la spettroscopia Raman non solo permetterebbe l’identificazione di queste strutture e del loro meccanismo di formazione, ma consentirebbe anche di affrontare una moltitudine di altri quesiti, come quelli riguardanti, ad esempio, altre possibili molecole organiche presenti in fase liquida.
Per saperne di più:
- Leggi su The International Journal of Astrobiology l’articolo “A proposed mechanism for the formation of protocell-like structures on Titan” di Christian Mayer e Conor A. Nixon
All’alba di un sistema planetario come il nostro
Utilizzando il telescopio Alma, di cui l’Eso (Osservatorio europeo australe) è partner, e il telescopio spaziale James Webb, un team internazionale di astronomi ha osservato la formazione dei primi granelli di materiale planetario: minerali caldi che stanno iniziando a solidificarsi. La scoperta rappresenta la prima volta in cui un sistema planetario viene identificato in una fase così precoce di formazione e apre una finestra sul passato del Sistema solare.
«Per la prima volta, abbiamo identificato il momento più precoce in cui la formazione planetaria ha inizio intorno a una stella diversa dal Sole», dice Melissa McClure dell’Università di Leiden (Paesi Bassi), prima autrice dello studio che riporta il risultato, pubblicato oggi su Nature.
Questa è Hops-315, una stella neonata attorno alla quale sono state osservate prove delle prime fasi di formazione di un pianeta. L’immagine è stata scattata con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma), di cui l’Eso è partner. Insieme ai dati del James Webb Space Telescope (Jwst), queste osservazioni mostrano che i minerali caldi stanno iniziando a solidificarsi. In arancione vediamo la distribuzione del monossido di carbonio, che si allontana dalla stella in un vento a forma di farfalla. In blu vediamo uno stretto getto di monossido di silicio, anch’esso in allontanamento dalla stella. Questi venti e getti gassosi sono comuni intorno a stelle neonate come Hops-315. Le osservazioni di Aalma e Jwst indicano che, oltre a queste caratteristiche, intorno alla stella c’è anche un disco di monossido di silicio gassoso che si sta condensando in silicati solidi, le prime fasi della formazione planetaria. Crediti: Alma(Eso/Naoj/Nrao)/M. Mcclure et al.
La coautrice Merel van’t Hoff, della Purdue University (Usa), paragona i risultati ottenuti a «un’immagine del Sistema solare appena nato», affermando che «stiamo osservando un sistema che assomiglia a come appariva il nostro Sistema solare quando stava appena iniziando a formarsi».
Il neonato sistema planetario sta emergendo intorno a Hops-315, una proto-stella, o stella neonata, che si trova a circa 1300 anni luce da noi ed è un analogo del Sole nascente. Intorno a queste stelle neonate, gli astronomi osservano spesso dischi di gas e polvere noti come dischi protoplanetari: il luogo di nascita di nuovi pianeti. Anche se gli astronomi hanno già osservato giovani dischi contenenti pianeti neonati massicci e simili a Giove, «abbiamo sempre saputo», commenta McClure, «che le prime componenti solide dei pianeti, o planetesimi, devono formarsi più indietro nel tempo, in fasi precedenti».
Nel Sistema solare, la prima materia solidificata nei dintorni dell’attuale posizione della Terra intorno al Sole si trova intrappolata in antichi meteoriti. Gli astronomi datano queste rocce primordiali per determinare l’inizio del ciclo di formazione del Sistema solare. Questi meteoriti sono ricchi di minerali cristallini contenenti monossido di silicio (SiO) e possono condensare alle altissime temperature dei giovani dischi planetari. Nel tempo, questi frammenti appena solidificati si legano tra loro, gettando le basi per la formazione dei pianeti aumentando di dimensioni e massa. Nel Sistema solare, i primi planetesimi delle dimensioni del chilometro, che poi sono cresciuti fino a diventare pianeti come la Terra o il nucleo di Giove, si sono formati subito dopo la condensazione di questi minerali cristallini.
Con questa nuova scoperta, gli astronomi hanno trovato prove che questi minerali caldi stanno iniziando a condensarsi nel disco intorno a Hops-315. I risultati mostrano che il monossido di silicio è presente allo stato gassoso intorno alla stella neonata, così come all’interno di questi minerali cristallini, suggerendo che sta appena iniziando a solidificarsi. «Questo processo non è mai stato osservato prima in un disco protoplanetario, né in alcun luogo al di fuori del Sistema solare», dice il coautore Edwin Bergin dell’Università del Michigan (Usa).
Questi minerali sono stati identificati per la prima volta grazie al telescopio spaziale James Webb, un progetto congiunto delle agenzie spaziali statunitense, europea e canadese. Per scoprire esattamente da dove provenissero i segnali, il gruppo di lavoro ha osservato il sistema con Alma, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, gestito dall’Eso insieme con i partner internazionali nel deserto di Atacama in Cile.
Utilizzando questi dati, il gruppo ha determinato che i segnali chimici provenivano da una piccola regione del disco intorno alla stella, equivalente all’orbita della fascia degli asteroidi intorno al Sole. «Stiamo osservando i minerali in questo sistema extrasolare proprio nella stessa posizione in cui li vediamo negli asteroidi del Sistema solare», dice il coautore Logan Francis, ricercatore postdoc all’Università di Leiden.
Per questo motivo, il disco di Hops-315 rappresenta un meraviglioso analogo per studiare la nostra storia cosmica. Con le parole di van’t Hoff, «questo sistema è uno dei migliori che conosciamo per indagare proprio alcuni dei processi avvenuti nel Sistema solare». Offre inoltre agli astronomi una nuova opportunità per studiare le prime fasi di formazione dei pianeti, rappresentando l’equivalente dei sistemi solari appena nati in un qualunque punto della galassia.
«Sono rimasta davvero colpita da questo studio, che rivela una fase molto precoce della formazione planetaria», conclude Elizabeth Humphreys, astronoma dell’Eso e responsabile del programma Alma europeo, che non ha partecipato allo studio. «Suggerisce che Hops-315 possa essere utilizzato per comprendere come si è formato il Sistema solare. Questo risultato evidenzia la forza combinata di Jwst e Alma nell’esplorazione dei dischi protoplanetari».
Fonte: comunicato stampa Eso
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Refractory solid condensation detected in an embedded protoplanetary disk”, di M. K. McClure, Merel van’t Hoff, Logan Francis, Edwin Bergin, Will R. M. Rocha, J. A. Sturm, Daniel Harsono, Ewine F. van Dishoeck, John H. Black, J. A. Noble, D. Qasim ed E. Dartois
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Premiati in Cina gli studi sulla “doppia pulsar”
Per il secondo anno consecutivo, le ricerche sulle stelle pulsar si sono rivelate meritevoli del premio “Frontiers of Physics Award”, uno dei riconoscimenti assegnati ogni anno dall’International Congress of Basic Science (Icbs), un congresso internazionale dedicato a matematica, fisica e scienze dell’informazione che si tiene dal 2023 a Pechino, in Cina. L’evento è giovane ma piuttosto ambizioso: in sole tre edizioni, è riuscito a portare nella capitale cinese varie centinaia di scienziati tra cui molti premi Nobel.
Dopo i risultati ottenuti dalla collaborazione Pulsar Timing Array nel 2024, questa volta il riconoscimento è andato a un complesso studio a guida tedesca avente come oggetto la celebre “doppia pulsar”, scoperta dall’astrofisica dell’Inaf di Cagliari Marta Burgay in seno al gruppo di ricerca di Nichi d’Amico e Andrea Possenti. Il lavoro di ricerca premiato, condotto da Michael Kramer del Max Planck Institute for Radio Astronomy di Bonn, in Germania, porta alla luce effetti di natura gravitazionale mai osservati in precedenza, almeno non con altrettanta evidenza. L’articolo che lo descrive, intitolato “Strong-Field Gravity Tests with the Double Pulsar” (“Test gravitazionali in campo forte con la doppia pulsar”), è stato pubblicato sulla rivista Physical Review X alla fine del 2021.
Al centro dell’immagine Marta Burgay (Istituto nazionale di astrofisica) e Michael Kramer (Max Planck Institute for Radioastronomy) ricevono il premio “Frontier of Science Award” durante la cerimonia di inaugurazione dell’International Congress of Basic Science (Icbs) a Pechino il 13 luglio 2025. Crediti: Icbs
«A 22 anni dalla sua scoperta», dice Marta Burgay, «questo eccezionale sistema, ancora unico nel suo genere, continua a dare i suoi frutti. Continuando a studiarlo con telescopi sempre più all’avanguardia, come il Sudafricano MeetKat e il suo prossimo successore, lo Ska Observatory, speriamo di testare ancora più a fondo le teorie della gravità relativistica e di sondarne i limiti».
A più di cent’anni dalla presentazione della teoria della gravità relativistica da parte di Albert Einstein, scienziati di tutto il mondo continuano a impegnarsi per trovare difetti nella relatività generale. L’osservazione di qualsiasi deviazione da questo impianto teorico costituirebbe infatti una pietra miliare che aprirebbe nuove possibilità che vanno oltre la nostra attuale comprensione teorica dell’universo. «Abbiamo studiato un sistema di stelle molto compatte per testare le teorie della gravità in presenza di campi gravitazionali molto intensi», spiega Kramer. «Con nostra grande gioia siamo riusciti a testare un pilastro della teoria di Einstein, l’energia trasportata dalle onde gravitazionali, con una precisione 25 volte superiore a quella della pulsar di Hulse-Taylor, vincitrice del premio Nobel».
Rappresentazione artistica del sistema “doppia pulsar”, in cui due stelle pulsar orbitano l’una intorno all’altra in soli 147 minuti. Il movimento orbitale di queste stelle di neutroni estremamente dense provoca una serie di effetti relativistici, inclusa la creazione di increspature nello spaziotempo note come onde gravitazionali. Le onde gravitazionali portano via energia dai sistemi che di conseguenza si restringono di circa 7 mm al giorno. La misura corrispondente concorda con la previsione della relatività generale entro lo 0,013 per cento. Crediti: Michael Kramer/Mpifr
Oltre alla perdita di energia orbitale dovuta alle onde gravitazionali, sono stati osservati vari altri effetti relativistici in questo straordinario sistema composto da due oggetti chiamati pulsar – fari cosmici che orbitano l’uno attorno all’altro in soli 147 minuti ruotando contemporaneamente su se stessi a velocità molto diverse tra loro. La pulsar A ruota su sé stessa circa 2643 volte al minuto, mentre la pulsar B lo fa solo 22 volte. La precisione e predicibilità della loro rotazione è valsa alle pulsar il titolo di “orologi cosmici”.
Tutti gli effetti osservati sono in perfetto accordo con la relatività generale. Le orbite eccentriche delle due pulsar ruotano di circa 17 gradi all’anno, il che equivale ormai a più di un giro completo di 360 gradi dalla scoperta del sistema nel 2003. Questo avanzamento relativistico del periastro (nel Sistema solare lo chiameremmo perielio, ovvero il punto più vicino tra stella e pianeta) è ben noto dall’orbita di Mercurio, ma in questo “sistema a doppia pulsar” è 140mila volte più forte.
La dilatazione temporale relativistica, derivante dal moto della pulsar e dal campo gravitazionale della sua compagna, fa sì che gli “orologi delle pulsar” ruotino più lentamente. Questo effetto è particolarmente significativo per la pulsar A, in rapida rotazione, la cui orbita eccentrica attorno alla pulsar B, in lenta rotazione, si traduce in una variazione periodica del tempo misurata con precisione di 384 microsecondi, dovuta alla dilatazione temporale.
Intorno alla congiunzione superiore, gli impulsi della pulsar A che viaggiano verso la Terra passano entro circa diecimila km dalla pulsar B. Questo avvicinamento ravvicinato nello spaziotempo curvo della pulsar B causa sia un ritardo di propagazione misurabile sia una curvatura del loro percorso. Grazie all’eccezionale precisione temporale della pulsar A, questi effetti sono stati misurati, sondando una curvatura dello spaziotempo un milione di volte più intensa di quella testata nel Sistema solare.
Per questi risultati, frutto di 16 anni di lavoro, il premio è stato conferito a Pechino domenica scorsa, il 13 luglio, durante la cerimonia di inaugurazione del congresso ed è stato ritirato personalmente dagli stessi Michael Kramer e Marta Burgay.
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review X l’articolo “Strong-Field Gravity Tests with the Double Pulsar”, di Kramer, I. H. Stairs, R. N. Manchester, N. Wex, A. T. Deller, W. A. Coles, M. Ali, M. Burgay, F. Camilo, I. Cognard, T. Damour, G. Desvignes, R. D. Ferdman, P. C. C. Freire 1, S. Grondin, L. Guillemot, G. B. Hobbs, G. Janssen, R. Karuppusamy, D. R. Lorimer , A. G. Lyne, J.W. McKee, M. McLaughlin, L. E. Münch, B. B. P. Perera, N. Pol, A. Possenti, J. Sarkissian, B.W. Stappers and G. Theureau
Quando su Marte pioveva
Un tempo su Marte scorrevano lunghi e persistenti fiumi di acqua, alimentati da precipitazioni piovose. A suggerirlo è un nuovo studio presentato da Adam Losekoot, dottorando alla Open University, al National Astronomy Meeting 2025 della Royal Astronomical Society a Durham, nel Regno Unito. I ricercatori hanno identificato oltre 15mila chilometri di antichi letti fluviali nella regione Noachis Terra, situata nella zona meridionale del Pianeta rosso. Queste strutture, chiamate creste fluviali sinuose o canali invertiti, si sono formate miliardi di anni fa, quando i sedimenti depositati dai fiumi si sono induriti e, con il tempo, sono rimasti in rilievo rispetto al terreno circostante a causa dell’erosione dei materiali circostanti.
Una cresta fluviale sinuosa con numerosi piccoli crateri al suo interno, che spicca chiaramente rispetto al materiale circostante. A nord-est emerge da una piccola valle e diventa progressivamente più evidente verso ovest, fino a scomparire. A nord della cresta si trova una formazione rotonda e piatta, che probabilmente era un cratere da impatto, successivamente riempito d’acqua o di sedimenti. Crediti: Nasa/Jpl/Msss/The Murray Lab
Per realizzare lo studio, il team ha utilizzato dati raccolti da ben tre diversi strumenti orbitali: la Context Camera (Ctx), il Mars Orbiter Laser Altimeter (Mola) e l’High Resolution Imaging Science Experiment (HiRise). L’analisi congiunta di questi dataset ha permesso di mappare la posizione, la lunghezza e la morfologia dei sistemi di creste su un’area molto vasta. In alcuni casi si tratta di creste isolate, mentre in altri di veri e propri sistemi estesi per centinaia di chilometri, con rilievi alti anche decine di metri rispetto al terreno circostante.
La distribuzione e la morfologia delle creste suggeriscono che si siano formate in un arco di tempo geologicamente significativo, in condizioni climatiche stabili e favorevoli alla presenza di acqua liquida in superficie. L’acqua che ha generato questi sistemi fluviali non deriverebbe dallo scioglimento dei ghiacci, ma piuttosto sarebbe il risultato di precipitazioni piovose: un’ulteriore prova che, in passato, l’atmosfera marziana era ben diversa da quella attuale.
Due rami est-ovest di una cresta fluviale sinuosa. Questi conservano un’area in cui un fiume si divideva e poi si riuniva (fuori dall’immagine). Il ramo inferiore è fortemente eroso e piuttosto diffuso, mentre il ramo superiore è più stretto ma meglio conservato. Potrebbero essere stati esposti per tempi diversi, aver subito differenti processi geologici, oppure rappresentare periodi distinti di attività fluviale. Crediti: Immagine Hirise Esp_085519_1585 – Nasa/Jpl/University of Arizona
La Noachis Terra è una regione geologicamente antichissima e rimasta in gran parte intatta per miliardi di anni. Risale all’epoca del Noachiano, un’era marziana che si estende da circa 4,1 a 3,7 miliardi di anni fa. Tuttavia, fino a oggi, è stata studiata meno rispetto ad altre zone del pianeta a causa della scarsità di reti di valli ramificate. Questo nuovo studio, invece, propone un diverso tipo di indizio geologico per ricostruire la storia e il passato climatico di Marte: non le valli ramificate, ma le creste invertite.
Le implicazioni sono significative: i dati suggeriscono che durante la transizione tra il Noachiano e l’Espersiano, circa 3,7 miliardi di anni fa, Marte potrebbe aver ospitato un clima più caldo e umido, abbastanza stabili da mantenere una rete fluviale alimentata dalla pioggia. Un quadro che si discosta nettamente dalle teorie accreditate finora, secondo le quali il Pianeta rosso sarebbe stato prevalentemente freddo e arido, con brevi periodi di riscaldamento causati dallo scioglimento dei ghiacci superficiali.
Tra gli alti e i bassi di una pulsar con Ixpe
Un team internazionale guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha individuato nuove prove su come le pulsar al millisecondo transizionali, una particolare classe di resti stellari, interagiscono con la materia circostante. Il risultato, pubblicato il primo luglio su The Astrophysical Journal Letters, è stato ottenuto grazie a osservazioni effettuate con l’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (Ixpe) della Nasa, il Very Large Telescope (Vlt) dell’European Southern Observatory (Eso) in Cile e il Karl G. Jansky Very Large Array (Vla) nel New Mexico: si tratta di una delle prime campagne osservative di polarimetria multi-banda mai realizzate su una sorgente binaria a raggi X, coprendo simultaneamente le bande X, ottica e radio.
Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema Psr J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e Inaf) e Maria Cristina Baglio (Inaf)
La sorgente analizzata è Psr J1023+0038, una cosiddetta pulsar al millisecondo transizionale. Questi oggetti sono particolarmente interessanti perché alternano fasi in cui si comportano come pulsar “canoniche” – ovvero stelle di neutroni isolate che ruotano su sé stesse centinaia di volte in un secondo, emettendo fasci di luce pulsata – a fasi in cui attraggono e accumulano materia da una stella compagna vicina, formando un disco di accrescimento visibile nei raggi X.
«Le pulsar al millisecondo transizionali sono laboratori cosmici che ci aiutano a capire come le stelle di neutroni evolvono nei sistemi binari», spiega Maria Cristina Baglio, ricercatrice Inaf e prima autrice dello studio. «J1023 è una sorgente particolarmente preziosa di dati perché transita chiaramente tra il suo stato attivo, in cui si nutre della stella compagna, e uno stato più dormiente, in cui si comporta come una pulsar standard emettendo onde radio rilevabili. Durante le osservazioni, la pulsar era in una fase attiva a bassa luminosità, caratterizzata da rapidi cambiamenti tra diversi livelli di luminosità in raggi X».
Maria Cristina Baglio, prima autrice dello studio su Psr J1023+0038 pubblicato su The Astrophysical Journal Letters
In questo studio, per la prima volta, si è misurata simultaneamente la polarizzazione della luce emessa da questa sorgente in tre bande dello spettro elettromagnetico: raggi X (con Ixpe), luce visibile (con il Vlt) e onde radio (con il Vla). In particolare, Ixpe ha rilevato un livello di polarizzazione nei raggi X di circa il 12 per cento, il più elevato mai osservato finora in un sistema binario come quello di J1023. Nella banda ottica, la sorgente mostra una polarizzazione più bassa (circa 1 per cento), ma con un angolo perfettamente allineato a quello della radiazione X, suggerendo una comune origine fisica. Nelle onde radio, invece, è stato fissato un limite massimo di polarizzazione di circa il 2 per cento.
«Questa osservazione, data la bassa intensità del flusso X, è stata estremamente impegnativa, ma la sensibilità di Ixpe ci ha permesso di rilevare e misurare con sicurezza questo notevole allineamento tra la polarizzazione ottica e quella nei raggi X», dice Alessandro Di Marco, ricercatore Inaf e co-autore del lavoro. «Questo studio rappresenta un modo ingegnoso per testare scenari teorici grazie a osservazioni polarimetriche su più lunghezze d’onda».
I risultati confermano una previsione teorica pubblicata nel 2023 da Maria Cristina Baglio e Francesco Coti Zelati, ricercatore presso l’Istituto di scienze spaziali di Barcellona, Spagna e co-autore dello studio, secondo cui l’emissione polarizzata osservata sarebbe generata dall’interazione tra il vento della pulsar e la materia del disco di accrescimento. La forte polarizzazione nei raggi X prevista, tra il 10 e il 15 per cento, è stata effettivamente rilevata, confermando il modello teorico. Si tratta di un’indicazione chiara che le pulsar al millisecondo transizionali sono alimentate principalmente dalla rotazione e dal vento relativistico della pulsar, piuttosto che dal solo accrescimento di materia dalla stella compagna.
Capire cosa alimenta davvero queste stelle ultra-compatte, che alternano due nature profondamente diverse, rappresenta un passo fondamentale per decifrare il comportamento della materia e dell’energia in condizioni estreme. Questo studio porta la comunità scientifica un passo più vicino a comprendere meccanismi universali che regolano fenomeni come i getti dei buchi neri e le nebulose da vento di pulsar.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Polarized multiwavelength emission from pulsar wind – accretion disk interaction in a transitional millisecond pulsar”, di M. C. Baglio, F. C. Zelati, A. Di Marco, F. La Monaca, A. Papitto, A. K. Hughes, S. Campana, D. M. Russell, D. F. Torres, F. Carotenuto, S. Covino, D. De Martino, S. Giarratana, S. E. Motta, K. Alabarta, P. D’Avanzo, G. Illiano, M. M. Messa, A. M. Zanon e N. Rea
L’Osservatorio Ska sarà guidato da Jessica Dempsey
Sarà la radioastronoma australiana Jessica Dempsey a guidare lo Ska Observatory (Skao) nei prossimi cinque anni, più precisamente da giugno 2026. La nomina, approvata all’unanimità dal Council dell’Osservatorio, è stata annunciata ufficialmente ieri: Dempsey assumerà il ruolo di direttrice generale a giugno 2026, succedendo a Philip Diamond, in carica da 14 anni.
Jessica Dempsey presso il quartier generale dello Ska Observatory nel Regno Unito. Crediti: Skao
Dal 2022 alla guida di Astron, l’istituto olandese per la radioastronomia, Dempsey vanta una solida esperienza internazionale e un impegno riconosciuto per la promozione della diversità e dell’equità nel mondo della scienza. La sua carriera l’ha vista protagonista dall’Antartide alle Hawaii, fino ai vertici della radioastronomia europea.
Il Council di Skao – organo di governo che riunisce i rappresentanti dei 12 Paesi membri – è presieduto dall’astrofisico italiano Filippo Zerbi, già direttore scientifico dell’Inaf fino dal 2016 al 2024 e dirigente di ricerca presso l’Osservatorio astronomico di Brera. Zerbi ha sottolineato l’importanza strategica di questa nomina in una fase cruciale per il progetto. «Il livello dei candidati era straordinariamente alto. Jessica ha dimostrato non solo competenze scientifiche e gestionali, ma anche una visione chiara del ruolo globale di Skao. Siamo certi che guiderà l’Osservatorio con determinazione e ispirazione in una fase che vedrà l’avvio della verifica scientifica e la transizione verso le operazioni».
Con la costruzione ormai avviata sia in Australia (Ska-Low) che in Sudafrica (Ska-Mid), quello che sarà il radiotelescopio più grande del mondo quando verrà completato (ossia il progetto Ska) si prepara a entrare, entro il 2027, nella fase di science verification, con i primi dati disponibili alla comunità scientifica.
«Sono emozionata», ha commentato Dempsey, «dall’idea di essere stata scelta per questo ruolo, soprattutto in un momento così cruciale per questo straordinario osservatorio. Mi sento onorata — Phil è un punto di riferimento difficile da eguagliare — ed entusiasta di entrare a far parte di un team globale di grande talento e dedizione. Stiamo costruendo un motore di scoperta senza precedenti, che trasformerà la nostra comprensione dell’universo, e sono profondamente felice di poter contribuire a fare in modo che Skao abbia un impatto davvero globale».
Diamond, il direttore generale uscente, ha accolto così la nomina: «È un ruolo impegnativo, che richiede di bilanciare aspetti scientifici, politici, diplomatici, finanziari e molto altro. Ma ho piena fiducia nella capacità di Jessica di guidare questa straordinaria organizzazione nel suo prossimo capitolo. L’Osservatorio sarà in ottime mani».
Nata nel 1978, Dempsey è stata una delle prime donne scienziate australiane a lavorare al Polo Sud, ha contribuito al progetto Event Horizon Telescope (la prima immagine di un buco nero) e ha diretto importanti osservatori, tra cui il James Clerk Maxwell Telescope. Il suo profilo unisce leadership scientifica, esperienza operativa e sensibilità sociale, doti essenziali per guidare una delle più ambiziose infrastrutture astronomiche del nostro tempo.
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Cometa 3I/Atlas: forse è la più antica mai vista
La cometa interstellare 3I/Atlas è stata avvistata per la prima volta dal telescopio cileno del programma osservativo Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System (Atlas) all’alba del primo luglio 2025, quando si trovava a circa 670 milioni di chilometri di distanza dal Sole. Dopo 1I/’Oumuamua e 2I/Borisov, è il terzo oggetto celeste noto a venire a farci visita da remote regioni oltre i confini del Sistema solare. Ma 3I/Atlas non è soltanto un raro visitatore interstellare: secondo un nuovo studio guidato da un team di astronomi dell’Università di Oxford, la cometa potrebbe essere infatti la più antica mai scoperta finora. Inoltre, sarebbe il primo oggetto osservato proveniente da una regione peculiare della Via Lattea. I risultati della ricerca, attualmente in fase di revisione per la pubblicazione su The Astrophysical Journal Letters, sono stati presentati lo scorso venerdì al National Astronomy Meeting 2025 della Royal Astronomical Society, tenutosi a Durham, nel Regno Unito.
Nel cerchietto verde è mostrata la cometa interstellare 3I/Atlas ripresa dalla struttura Inaf dell’Osservatorio astronomico di Palermo G.S. Vaiana. Crediti: F. Bocchino
Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori si sono avvalsi di simulazioni effettuate con un modello sviluppato appositamente per studiare le proprietà degli oggetti interstellari. Questo strumento, denominato modello Ōtautahi–Oxford, integra i dati della terza release (Dr3) della missione Gaia con modelli di chimica dei dischi protoplanetari e di dinamica galattica, permettendo di collegare la velocità di questi oggetti alle loro proprietà fisiche, come età e composizione chimica.
Come anticipato, uno dei primi risultati emersi dalle simulazioni riguarda l’origine di 3I/Atlas. La cometa interstellare avrebbe una velocità verticale (W) – una componente della velocità dell’oggetto rispetto al sistema di riferimento galattico – abbastanza elevata, pari a 18.5 chilometri al secondo. Questa velocità, combinata con un’orbita fortemente inclinata rispetto al piano galattico, secondo i ricercatori suggerisce che l’oggetto provenga dal cosiddetto disco spesso della Via Lattea, una struttura contenente popolazioni di stelle antiche che orbitano al di sopra e al di sotto del piano in cui si trovano il Sole e la maggior parte delle stelle. Se questa ipotesi dovesse essere confermata, sottolineano i ricercatori, 3I/Atlas sarebbe il primo oggetto interstellare osservato proveniente da questa specifica regione.
Il modello prevede inoltre che oggetti interstellari con velocità simili a quella di 3I/Atlas siano generalmente più ricchi di acqua rispetto ad altri oggetti interstellari. Se ciò fosse vero, questo implicherebbe che nei prossimi mesi, man mano la cometa si avvicinerà al Sole, il riscaldamento da parte della radiazione solare dovrebbe causare l’emissione di vapore acqueo e polveri dalla sua superficie, generando così una luminosa coda cometaria.
Vista dall’alto della Via Lattea che mostra le orbite stimate del Sole (linee puntate gialle) e della cometa 3I/Atlas (linee tratteggiate rosse). Crediti: M. Hopkins/Ōtautahi-Oxford team, Esa/Gaia/Dpac, Stefan Payne-Wardenaar
Un secondo risultato di particolare rilievo dello studio riguarda l’età dell’oggetto celeste. Le stime basate sulla sua velocità suggeriscono che 3I/Atlas potrebbe avere oltre sette miliardi di anni, ovvero oltre tre miliardi di anni in più del Sistema solare. Un’età che la renderebbe la più antica cometa osservata finora.
«Tutte le comete non interstellari, come la cometa di Halley, si sono formate insieme al nostro Sistema solare e quindi non hanno più di 4.5 miliardi di anni, ma i visitatori interstellari possono essere molto più antichi», spiega il ricercatore all’Università di Oxford e primo autore dello studio Matthew Hopkins. «Secondo il nostro modello statistico, 3I/Atlas è con tutta probabilità la cometa più antica mai osservata»
«Si tratta di oggetto proveniente da una regione della galassia che non abbiamo mai avuto occasione di osservare da vicino», aggiunge Chris Lintott, anch’egli ricercatore all’Università di Oxford e co-autore dello studio. «Riteniamo che ci siano due terzi di possibilità che questa cometa sia più vecchia del Sistema solare e che dall’epoca della sua formazione stia vagando nello spazio interstellare».
Lo studio ha affrontato anche la questione di una possibile origine comune di 3I/Atlas con gli altri due oggetti interstellari scoperti finora: 1I/’Oumuamua (1I) e 2I/Borisov (2I). Si ritiene che gli oggetti interstellari siano frammenti espulsi da sistemi planetari in formazione attorno a giovani stelle. Dunque, non si può escludere che alcuni di essi si siano originati dalla stessa stella madre o dallo stesso ammasso stellare. Le analisi cinematiche condotte dai ricercatori hanno tuttavia rivelato che la probabilità che 3I/Atlas condivida un’origine comune con 1I/ʻOumuamua o con 2I/Borisov è inferiore all’1,4 per cento. In altre parole, non vi sarebbe alcuna evidenza che la cometa provenga dalla stessa stella o dallo stesso ambiente di formazione degli altri due oggetti interstellari.
I ricercatori concludono sottolineando che gli oggetti interstellari rappresentano una rara e preziosa opportunità per raccogliere prove sui processi di formazione ed evoluzione dei planetesimi in una varietà di ambienti galattici. Le future osservazioni di 3I/Atlas saranno fondamentali per verificare e raffinare le ipotesi elaborate attraverso il modello Ōtautahi–Oxford, aprendo una nuova finestra sull’astrochimica di questi oggetti e sulla dinamica della nostra galassia.
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il preprint dell’articolo “From a Different Star: 3I/ATLAS in the context of the Ōtautahi-Oxford interstellar object population model” di Matthew J. Hopkins, Rosemary C. Dorsey, John C. Forbes, Michele T. Bannister, Chris J. Lintott e Brayden Leicester
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Onde gravitazionali: fusione da record
media.inaf.it/2025/07/14/buchi…
La collaborazione Ligo-Virgo-Kagra (Lvk) ha annunciato la rivelazione della fusione dei buchi neri più massicci mai osservati con le onde gravitazionali, utilizzando gli osservatori Ligo Hanford e Livingston, finanziati dalla National Science Foundation statunitense. La fusione ha prodotto un buco nero finale di massa oltre 225 volte superiore a quella del nostro Sole. Il segnale, denominato Gw 231123, è stato osservato durante il quarto periodo di osservazione (O4) della rete Lvk il 23 novembre 2023.
I due buchi neri che si sono fusi avevano una massa pari a circa 103 e 137 volte quella del Sole. Oltre alle loro masse elevate, sono anche in rapida rotazione, il che rende questo segnale unico e difficile da interpretare e suggerisce la possibilità di una storia di formazione complessa.
Infografica sull’evento di fusione fra buchi neri Gw 231123. Crediti: Simona J. Miller/Caltech (trad. it. di Ego-Virgo)
«La scoperta di un sistema così massiccio e altamente rotante rappresenta una sfida non solo per le nostre tecniche di analisi dei dati», dice Ed Porter, ricercatore presso il Laboratorio di astroparticelle e cosmologia (Apc) del Cnrs di Parigi, «ma avrà un effetto importante sugli studi teorici dei canali di formazione dei buchi neri per molti anni a venire. In realtà gli attuali modelli di evoluzione stellare non consentono l’esistenza di buchi neri così massicci, che potrebbero essersi formati attraverso precedenti fusioni di buchi neri più piccoli».
Circa cento fusioni di buchi neri sono state fino a oggi osservate attraverso le onde gravitazionali e analizzate e condivise con la più ampia comunità scientifica. Finora la binaria più massiccia era la sorgente di Gw 190521, con una massa totale molto più piccola, “solo” 140 volte quella del sole.
Esplorare i limiti dell’astronomia delle onde gravitazionali
L’elevata massa e la rotazione estremamente rapida dei buchi neri in Gw 231123 spingono al limite le capacità di rivelazione della tecnologia delle onde gravitazionali. Inoltre l’estrazione di informazioni accurate dal segnale ha richiesto l’uso di modelli teorici che tengano conto della complessa dinamica dei buchi neri in forte rotazione.
«Questo evento spinge la nostra strumentazione e le nostre capacità di analisi dei dati al limite di ciò che è attualmente possibile», spiega Sophie Bini, ricercatrice postdoc al Caltech. «È un potente esempio di quanto possiamo imparare dall’astronomia delle onde gravitazionali e di quanto ancora ci sia da scoprire».
I rivelatori di onde gravitazionali come Ligo negli Stati Uniti, Virgo in Italia e Kagra in Giappone sono progettati per misurare le minime deformazioni dello spazio-tempo causate da eventi cosmici violenti come le fusioni di buchi neri. Il quarto ciclo di osservazioni è iniziato nel maggio 2023 e i risultati della prima metà del ciclo (fino a gennaio 2024) saranno pubblicati nel corso dell’estate.
«Grazie al periodo di osservazione continuativa più lungo mai effettuato e alla maggiore sensibilità dei rivelatori, la quarta campagna di osservazione Ligo-Virgo-Kagra sta fornendo nuove preziose intuizioni per la nostra comprensione dell’universo», dice Viola Sordini, ricercatrice presso l’Istituto di fisica dei due infiniti (Ip2i) del Cnrs a Lione e vice-spokesperson della Collaborazione Virgo. «Questa entusiasmante scoperta apre una nuova stagione di risultati, con molti altri attesi nel corso dell’estate e un flusso continuo di scoperte previsto per i prossimi due anni. Le pubblicazioni dei risultati sono seguite naturalmente dalla condivisione dei dati con tutta la comunità scientifica in favore dell’open science».
Gw 231123 sarà presentato alla 24esima Conferenza internazionale sulla relatività generale e la gravitazione (Gr24) e alla 16esima Conferenza Edoardo Amaldi sulle onde gravitazionali, che si terranno congiuntamente come Gr-Amaldi a Glasgow, nel Regno Unito, dal 14 al 18 luglio 2025.
Fonte: comunicato stampa Ego-Virgo
Polvere di carbonio in una galassia primordiale
La polvere cosmica, ricca di silicati e carbonio, è ovunque: invisibile a occhio nudo, ma fondamentale per la nascita di stelle, pianeti e persino della vita come la conosciamo. Comprendere dove, come e quando si forma ci aiuta a ricostruire la storia dell’universo e forse anche la nostra qui sulla Terra. Un recente studio guidato dal Centro nazionale di ricerca nucleare polacco ha gettato nuova luce su questo tema grazie a uno degli strumenti più potenti mai costruiti e attualmente in orbita: il telescopio spaziale James Webb, che di polvere cosmica se ne intende.
Questa immagine evidenzia la posizione della galassia Jades-Gs-z6 in una porzione della regione celeste nota come Goods-South, osservata nell’ambito del programma Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey, o Jades. Crediti: Esa/Webb, Nasa, Csa, B. Robertson (Uc Santa Cruz), B. Johnson (Center for Astrophysics, Harvard & Smithsonian), S. Tacchella (University of Cambridge), M. Rieke (Univ. of Arizona), D. Eisenstein (Center for Astrophysics, Harvard & Smithsonian), A. Pagan (STScI), J. Witstok (University of Cambridge)
La galassia al centro dell’articolo scientifico, pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters, è Jades-Gs-z6-0, a oltre 13 miliardi di anni luce da noi: risale cioè a quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni (tecnicamente a redshiftz ∼6,7). Eppure, il suo spettro mostra una caratteristica sorprendente: una “gobba” nell’ultravioletto che rivela la presenza di grani di carbonio complessi, noti come idrocarburi policiclici aromatici (in inglese polycyclic aromatic hydrocarbons o Pahs) e simili a quelli che troviamo nella Via Lattea. Una scoperta sorprendente, che potrebbe riscrivere ciò che sappiamo sulla rapidità con cui l’universo si è arricchito di elementi complessi.
Cosa vuol dire? I dati raccolti dal gruppo di ricerca suggeriscono che la galassia abbia già attraversato un processo rapido e intenso di arricchimento chimico, nonostante si trovi in un’epoca molto giovane dell’universo. Lo studio propone due possibili scenari per spiegare la presenza di questi grani: o una produzione efficiente da parte delle supernovae, oppure un processo di accrescimento nel mezzo interstellare. Ne abbiamo parlato con la responsabile dello studio, Ambra Nanni, ricercatrice al Centro nazionale di ricerca nucleare di Varsavia e associata all’Inaf d’Abruzzo che dal 2021 guida il progetto “Dingle”, finanziato dal National Science Centre, in Polonia, e incentrato sullo studio dell’evoluzione delle polveri ed emissione infrarossa attorno alle giganti rosse e nel mezzo interstellare di galassie vicine e lontane.
Nanni, da cosa deriva il suo interesse nello studio delle polveri cosmiche e delle galassie primordiali? E come vi aiuta a capire anche le nostre origini e la formazione dei pianeti?
«La polvere è ovunque nell’universo e sebbene rappresenti solo una piccola frazione in massa dei barioni (circa l’1 per cento) ha un ruolo fondamentale per molti processi fisici e chimici come la formazione di stelle, pianeti, e persino molecole, l’evoluzione stellare, e l’evoluzione spettrale delle galassie siccome I grani di polvere assorbono la luce delle stelle giovani nell’ultravioletto e nell’ottico e la riemettono nell’infrarosso. Dunque, lo studio delle polveri e della loro evoluzione è di fondamentale importanza per comprendere vari processi fisici nel nostro Universo dalle piccole alle grandi scale. La polvere nelle nubi interstellari costituisce poi quelli che sono i mattoni da cui formare planetisimi e i pianeti come la Terra. Quindi studiare come evolvono le polveri, ad esempio nei grani presolari nei meteoriti, è essenziale per capire anche le origini del nostro Sistema solare. I grani presolari sono stati inglobati, infatti, nei meteoriti all’epoca della formazione del nostro Sistema solare portando informazioni sulle sue origini».
Perché avete scelto proprio la galassia Jades-Gs-z6-0 come obiettivo del vostro studio? E questa “gobba” nell’ultravioletto cosa indica?
«La galassia Jades-Gs-z6-0 si trova a redshift di circa 6,7 che corrisponde a circa 800 milioni di anni di età dell’universo. Il telescopio James Webb ha rivelato per la prima volta prove della presenza di polvere di carbonio in galassie fino a redshift 7. La galassia Jades-Gs-z6-0 presenta una protuberanza particolarmente pronunciata che indica la presenza di piccoli grani di carbonio, compatibili con idrocarburi policiclici aromatici osservati anche nella nostra Via Lattea. Ciò implica anche che questa galassia abbia formato carbonio molto più velocemente di quanto ci si aspetterebbe. In questo studio, abbiano analizzato quali possono essere i canali di produzione di questi grani. In particolare, esplosioni da stelle massicce (supernovae), evoluzione di stelle di massa intermedia (giganti rosse) e accrescimento di grani nel mezzo interstellare. Per il nostro studio abbiamo utilizzato modelli di evoluzione chimica delle galassie e codici di trasporto radiativo per modellizzare come la radiazione delle stelle nella galassia viene riprocessata dalle polveri. Questo ha permesso di produrre spettri teorici calcolati in base a diverse assunzioni nei modelli di evoluzione chimica che sono stati confrontati con lo spettro osservato».
Ambra Nanni, National Centre for Nuclear Research e Inaf
Perché è così interessante studiare la presenza di polvere di carbonio in un periodo così “giovane”?
«Il motivo principale è che non ci si aspetterebbe una quantità cospicua di carbonio già a quest’epoca. In particolare, le stelle giganti rosse, che evolvono più lentamente rispetto ai progenitori delle supernovae e alle quali viene attribuita la maggior parte della produzione di grani di carbonio nell’Universo locale, potrebbero non avere tempo a sufficienza per produrre questo materiale a quest’epoca della storia dell’universo, come ha anche evidenziato il nostro studio».
Avete ipotizzato due percorsi principali per spiegare la formazione di queste polveri: ce li può spiegare? Quale sembra il più plausibile oggi?
«In molti lavori in letteratura si è ipotizzato che gli idrocarburi policiclici aromatici possano formarsi da frammentazione di grani più grossi nel mezzo interstellare, ma la nostra analisi ha evidenziato che questo difficilmente è il canale principale nella galassia Jades-Gs-z6-0. Di conseguenza, abbiamo analizzato la possibilità che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essere prodotti, oltre che dalle giganti rosse, dall’evoluzione di stelle massicce (venti stellari o supernovae) e/o dalla formazione diretta nel mezzo interstellare. Al momento, non è possibile distinguere fra i due scenari in basi alla nostra analisi, e sono necessari ulteriori studi».
Quanto siamo vicini a comprendere davvero come si formano polveri e metalli nelle prime galassie?
«Ci sono ancora molte domande aperte sul tema, come ad esempio se le supernovae siano produttrici o distruttrici di polvere. Infatti l’esplosione delle supernovae non è solo all’origine della produzione di polveri, ma induce delle onde d’urto in grado di distruggere gli stessi grani già presenti nel mezzo interstellare. Un’altra questione aperta riguarda l’efficienza di accrescimento dei grani nel mezzo interstellare, un processo non ancora compreso dal punto di vista microscopico. Tramite il confronto fra osservazioni come quelle del James Webb e previsioni teoriche potremmo comprendere meglio questi processi fisici».
Lei svolge attualmente attività di ricerca in Polonia. Ci sono differenze significative rispetto ad altri contesti europei?
«Lavoro presso il Centro Nazionale per la Ricerca Nucleare, nel gruppo di astrofisica. Negli ultimi anni, tre membri del gruppo hanno ottenuto finanziamenti nazionali per progetti sulla polvere cosmica, e questo ci ha permesso di costruire una collaborazione ampia che ha coinvolto i tre responsabili scientifici, due postdoc e cinque dottorandi. Una particolarità del sistema polacco è che, diversamente da molti altri paesi europei, è possibile ottenere finanziamenti nazionali anche senza avere una posizione permanente. Questo dà ai giovani ricercatori l’opportunità concreta di iniziare a costruirsi un gruppo, fare esperienza come principal investigator e rafforzare il proprio profilo scientifico. Dal punto di vista umano, l’ambiente è internazionale, il che significa confrontarsi con una varietà di approcci e mentalità: un aspetto di sicuro stimolante».
Cosa l’ha spinta a intraprendere il suo percorso professionale lontana dall’Italia? E che opportunità o sfide ha incontrato lungo il cammino?
«Ho iniziato il mio percorso professionale in Polonia come postdoc Assistant Professor, successivamente, ho ottenuto un finanziamento a lungo termine (di cinque anni), che mi ha permesso di assumere un postdoc e un dottorando. È stata per me un’importante opportunità di crescita, sia scientifica che personale, e l’occasione concreta per iniziare a costruire in modo indipendente un piccolo gruppo di ricerca. Le sfide, naturalmente, non sono mancate. Le principali riguardano la lingua, la burocrazia — che bisogna imparare a conoscere e gestire per far funzionare un progetto — e, più in generale, l’adattamento a un sistema accademico diverso, che, come in molti altri paesi, richiede tempo per essere compreso fino in fondo».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Origins of Carbon Dust in a JWST-Observed Primeval Galaxy at z∼6.7”, di Ambra Nanni, Michael Romano, Darko Donevski, Joris Witstok, Irene Shivaei, Michel Fioc e Prasad Sawant
Buon anniversario, James Webb!
Era il 12 luglio del 2022, in Italia era da poco scoccata la mezzanotte quando l’allora presidente degli Stati Uniti Joe Biden presentò in diretta mondiale la prima immagine del James Webb Space Telescope, il più potente (e costoso) telescopio spaziale che sia mai stato costruito.
Sono passati tre anni, e da allora questo prodigioso strumento, sensibile come nessuno alla luce infrarossa, sta rivoluzionando le nostre conoscenze, dallo studio delle atmosfere planetarie alla scoperta delle galassie che per prime si sono accese nel buio cosmico, a immani lontananze dal nostro pianeta.
La presentazione al mondo della prima immagine di Jwst, il 12 luglio 2022. Crediti: Nasa/Bill Ingalls
Da quell’estate, Webb ha completato più di 860 programmi scientifici, con un quarto del suo tempo dedicato alla raccolta di immagini e i restanti tre quarti destinati alla spettroscopia. La mole di dati raccolti ammonta a quasi 550 terabyte, dati confluiti in oltre 1600 pubblicazioni scientifiche.
Per l’occasione, la Nasa ha stilato una compilation di dieci sorprese cosmiche che Webb ci ha regalato in questi primi tre anni di attività. Ve le raccontiamo.
1. L’universo si è evoluto molto più velocemente di quel che si pensava
Ne ha trovate svariate, a solo qualche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Appaiono decisamente brillanti e ricche di elementi chimici. Sono le prime galassie che si sono formate nell’universo, la cui luce ci raggiunge dalla cosiddetta alba cosmica, l’epoca in cui i primi astri si sono accesi.
Se tre anni fa a qualche astronomo fosse stato mostrato questo identikit, probabilmente in pochi avrebbero scommesso che le prime galassie avessero questa faccia. E che Webb ne trovasse così tante e con così tanta facilità. Flebili e rare, ce le saremmo immaginate così, piuttosto. E invece l’universo ci ha sorpresi, rivelandosi decisamente più precoce di quel che si pensava.
Da menzionare in questo senso sono certamente Jades-Gs-z14-0, per un annetto detentrice del record di galassia più lontana mai osservata, a 13 miliardi e mezzo di anni luce dalla Terra e la cui scoperta è stata a guida italiana; e Gn-z11, scoperta con Hubble ma osservata da Webb con dettagli mai visti, col suo profluvio di elementi chimici generati dalle prime generazioni di stelle che l’universo ha prodotto.
Ma le sorprese non finiscono qui, tra buchi neri che sembrano decisamente grossi per la loro età, e galassie che paiono gemelle della Via Lattea solo seicento milioni di anni dopo il Big Bang. E poi ci sono quelle che anziché lanciarsi in pirotecniche accensioni di nuovi astri hanno inopinatamente cessato ogni attività, o che somigliano in tutto e per tutto a maestose galassie a spirale, che nulla hanno da invidiare a quelle che popolano l’universo vicino, benché abbiano avuto solo un miliardo e mezzo d’anni per assumere tali grandiose fattezze. Per non parlare di quelle che hanno perforato muri di idrogeno che pensavamo invalicabili, raggiungendoci coi loro fotoni ultravioletti, spediti nell’infrarosso a causa dell’espansione dell’universo.
Tutto ciò appare straordinario se si pensa che è accaduto in poche centinaia di milioni di anni, un “soffio”, se lo si paragona con l’età dell’universo, che è di quasi 14 miliardi di anni.
Lo spettro della galassia Gn-z11, distante 13,4 miliardi di anni luce dalla Terra, osservato con lo spettrografo NirSpec di Webb. Molti degli elementi chimici indicati sono stati prodotti dalle prime generazioni di stelle che si sono accese nell’universo. Crediti: Bunker et al., A&A, Jades collaboration
2. Lo spazio è costellato da enigmatici puntini rossi
Piccoli punti rossi, li hanno chiamati (little red dots), e stanno dando notevole filo da torcere agli scienziati almeno dall’estate del 2023, quando un gruppo di ricercatori ne ha annunciato la scoperta. Da allora si può dire che abbiano scatenato una sorta di isteria tra gli astronomi, che ha generato numerosissimi studi per decifrare questi enigmatici oggetti, che appaiono compatti e di colore rosso nelle immagini di Webb. Una parte di loro sembrerebbe essere animata da buchi neri supermassicci alimentati dall’accrescimento di gas. I misteriosi puntini rossi hanno fatto la loro apparizione nell’universo seicento milioni di anni dopo il Big Bang, quando erano piuttosto abbondanti. Da allora il loro numero sembrerebbe essersi ridotto, ma secondo studi recenti potrebbero essercene ancora un bel po’, anche qualche miliardo d’anni dopo il Big Bang. E allora dove sono? E di che pasta sono fatti e come si evolvono nel corso del tempo? Prima di Webb ne ignoravamo l’esistenza e oggi domande come queste tormentano le notti degli astronomi.
Alcuni degli elusivi piccoli punti rossi (little red dots) scoperti da Webb. Crediti: Matthee et al., ApJ
3. Webb conferma la “tensione di Hubble”
L’universo è in espansione. Ma quanto velocemente si sta espandendo? Attualmente metodi diversi forniscono risposte diverse a questa domanda cruciale della cosmologia. Le possibilità sono due: che ci sia qualcosa di sbagliato nelle misure o che l’universo stia dando particolare sfoggio della sua bizzarria. Webb è riuscito a distinguere le stelle pulsanti in un campo molto affollato di stelle vicine, confermando l’accuratezza delle misure precedenti del telescopio Hubble dell’omonima costante. Ha inoltre stimato il tasso di espansione dell’universo sfruttando un’esplosione di supernova a oltre dieci miliardi di anni luce dalla Terra, che ci è giunta triplicata in tre momenti diversi nelle immagini grazie al lensing gravitazionale. I due metodi sono indipendenti e forniscono, ancora una volta, stime inconsistenti della costante di Hubble, confermando l’allarmante tensione.
4. Le atmosfere degli esopianeti giganti sono sfaccettate
Era il 2001 quando il telescopio Hubble rivelò per la prima volta i gas nell’atmosfera di un pianeta orbitante attorno a una stella diversa dal Sole. Oltre vent’anni dopo, Webb ci consegna dettagli raffinatissimi delle atmosfere degli esopianeti gassosi, che si rivelano un cocktail sorprendente di velenosissimo idrogeno solforato, ammoniaca, anidride carbonica, metano e anidride solforosa. Nessuno di questi gas era stato rivelato al di fuori del Sistema solare. Il prodigioso telescopio spaziale si è spinto a scrutare i fiocchi di silice che “nevicano” sul pianeta Wasp-17b e ha studiato le differenze di temperatura e di copertura nelle nubi tra gli eterni mattini e le eterne notti di Wasp-39b, pianeta che rivolge alla sua stella sempre la stessa faccia. Proprio come la Luna alla Terra.
Gli spettri Hubble (in verde) e Webb (in giallo e magenta) dell’esopianeta Wasp-107b. L’atmosfera dell’esopianeta presenta chiare tracce d’acqua, monossido e diossido di carbonio, metano, anidride solforosa e ammoniaca. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)
5. Vedute inedite delle atmosfere degli esopianeti rocciosi
Impresa ardua è scorgere quel velo sottilissimo che è l’atmosfera di un piccolo pianeta roccioso. Ma evidentemente non lo è abbastanza da mettere in crisi le capacità di Webb, in virtù della sua superba sensibilità, che gli consente di cogliere variazioni minime della radiazione infrarossa che ci raggiunge dagli esopianeti. Finora, Webb ha escluso la presenza di atmosfera in numerosi pianeti rocciosi e ha rilevato possibili tracce o di monossido o di diossido di carbonio in 55 Cancri, un pianeta la cui superficie potrebbe presentarsi sotto forma di magma, e che orbita attorno a una stella simile al Sole. I risultati di Webb sono preparatori in vista dell’Habitable Worlds Observatory, prima missione della Nasa che verrà dedicata interamente alla ricerca di vita su esopianeti simili alla Terra, orbitanti attorno a stelle come il Sole.
6. Primi piani mozzafiato delle galassie a spirale vicine
Semplicemente magnifiche, coi loro imponenti bracci scolpiti dalla polvere che riluce alle lunghezze d’onda infrarosse. Pullulanti di bolle scavate da stelle giovani e caldissime, talvolta avvilupate in bozzoli di polvere e gas. Mentre le stelle vecchie si addensano nelle regioni centrali. Sono le galassie a spirale che ci consegna lo sguardo di Webb. Mai abbiamo potuto ammirare la struttura di queste galassie con tanti, strabilianti, dettagli. Immagini di questo tipo stanno aiutando gli astronomi a capire qualcosa in più su come i venti stellari e le esplosioni di supernova modellano gli ambienti galattici. Ogni telescopio ha un suo sguardo e ci costringe a modificare il nostro, mentre proviamo a decifrare questo irrefrenabile generatore di enigmi e di meraviglie che è l’universo.
La galassia a spirale Ngc 4254 vista da Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI, J. Lee, T. Williams e il team di Phangs
7. Nane brune e pianeti erranti possono risultare indistinguibili
Stelle mancate o pianeti vagabondi? Questo è il dilemma. Le prime non sono altro che nane brune, oggetti freddi e fiochi che potrebbero formarsi come le stelle ma che non raggiungono le condizioni per innescare la fusione dell’idrogeno all’interno del nucleo. I secondi sono invece pianeti espulsi dai loro sistemi planetari, e che vagano per gli spazi interstellari, orfani della loro stella. Webb ha stanato centinaia di nane brune nella Via Lattea, e qualcuna l’ha vista anche in una galassia vicina. Ma, in alcuni casi, si tratta di oggetti così piccoli, grossi qualche volta la massa di Giove, che non è facile dire se siano nane brune o pianeti erranti. Non ne siamo ancora certi, ma i dati di Webb suggeriscono che ci sia una sequenza continua che include pianeti, nane brune e stelle. Insomma, la demarcazione fra questi oggetti può essere meno netta del previsto certe volte.
8. Certe volte si sopravvive alla morte di una stella
Esiste una distanza di sicurezza per sopravvivere alla fine di una stella? Sembrerebbe di sì. Webb potrebbe aver trovato alcuni pianeti che orbitano attorno a delle nane bianche. Quando una stella come il nostro Sole si avvia alla conclusione della propria sfolgorante esistenza, diventa una gigante rossa e i suoi strati esterni si espandono, travolgendo gli sventurati pianeti che si trovano nei paraggi. Una volta espulsi i livelli più esterni, quel che rimane è una caldissima nana bianca. Se i risultati di Webb verranno confermati, vorrebbe dire che certi pianeti escono indenni dalla morte della loro stella, continuando ad orbitare attorno ad essa, tramutata in altra forma.
9. Il gigantesco geyser di Encelado
Si è fatta conoscere per i suoi geyser, Encelado, luna di Saturno tra le più intriganti del nostro sistema planetario. Era stata la missione Cassini la prima a notarli, presso il polo sud di questa vivacissima luna. Ma solo grazie a Webb è stato possibile stimare le dimensioni di questa imponente colonna di vapore acqueo, che si innalza per circa diecimila chilometri, più o meno venti volte il diametro di Encelado. L’acqua si diffonde in una struttura toroidale che circonda Saturno e il suo sistema di anelli, e alimenta l’intero sistema saturniano, mentre parte di essa addirittura “piove” sul gigante gassoso. Con le sue impressionanti osservazioni di aurore, anelli, ghiacci, nubi, venti e gas, Webb sta rivoluzionando lo studio dei pianeti del Sistema solare, rivelandone sfaccettature mai viste e aiutandoci a comprendere come si sono evoluti nel corso del tempo.
La colonna di vapore acqueo espulsa dal polo sud di Encelado. L’imponente geyser è venti volte più grande della vivace luna di Saturno, che occupa il pixel riquadrato in rosso, e che possiamo vedere ingrandita nel riquadro in alto a sinistra. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI, G. Villanueva, A. Pagan
10. A caccia di asteroidi potenzialmente pericolosi
Lo scorso anno un asteroide ha fatto parlare di sé in quanto potenzialmente rischioso per il nostro pianeta. Immediatamente puntato sull’oggetto, Webb ha consentito di stimarne le dimensioni, pari a quelle di un palazzo di quindici piani. Fortunatamente, l’asteroide in questione si è poi rivelato innocuo per il nostro pianeta. Ciononostante, questo esperimento ha evidenziato le capacità di Webb di studiare oggetti di questo tipo. Inoltre, Webb è stato puntato assieme ad Hubble verso Didymos e Dimorphos, sistema binario di asteroidi su cui si è schiantata (intenzionalmente) la sonda Dart (Double Asteroid Redirection Test) della Nasa, per testare le nostre capacità di deviare un asteroide in rotta di collisione col nostro pianeta. Le osservazioni spettroscopiche di Webb hanno mappato la composizione chimica del materiale espulso durante l’impatto con Dimorphos, dimostrando che il sistema bersagliato da Dart è rappresentativo degli asteroidi di tipo condrite che transitano nelle vicinanze del nostro pianeta. E che potrebbero rappresentare una pericolo.
Per il futuro? Secondo gli scienziati, Webb ha ancora davanti a sé almeno vent’anni di attività. In tre anni di osservazioni questo eccezionale strumento più che fornirci risposte non ha fatto altro che sollevare nuove, mirabili domande sui fatti inusitati che accadono nell’universo, interrogativi che neppure c’immaginavamo, prima che le immagini e gli spettri ottenuti dal suo impareggiabile occhio ci raggiungessero. Non ci resta che restare in attesa delle nuove, meravigliose storie che Webb ci narrerà. Attraverso il suo sguardo.
Come i sassolini costruiscono i pianeti
E se bastassero dei sassolini per formare i pianeti? La risposta potrebbe arrivare da un nuovo studio che svela le fasi iniziali della nascita dei sistemi planetari. Una serie di osservazioni radio ha infatti rivelato la presenza di minuscoli “sassolini” cosmici, vere e proprio briciole di materia primordiale, nei dischi di gas e polvere attorno a due stelle giovani: DG Tau e HL Tau, a circa 450 anni luce dalla Terra.
Si pensa che questi semi per la formazione di nuovi mondi si aggreghino gradualmente nel tempo, nello stesso modo in cui, circa 4,5 miliardi di anni fa, si è formato il Sistema solare, a partire da Giove fino a Marte. Le osservazioni, presentate al National Astronomy Meeting 2025 (Nam) della Royal Astronomical Society, mostrano che i dischi attorno a DG Tau e HL Tau contengono ampi serbatoi di sassolini formatori di pianeti, osservati fino a distanze paragonabili all’orbita di Nettuno. Questi dati rappresentano un tassello cruciale nella comprensione delle fasi più ambigue della formazione planetaria, quando la polvere si trasforma lentamente in nuovi mondi.
Rappresentazione artistica di polvere e minuscoli granelli in un disco protoplanetario attorno a una stella giovane. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Lo studio fa parte del progetto Pebbles (Planet Earth Building-Blocks – a Legacy eMerlin Survey) guidato dall’Università di Cardiff, che ha come obiettivo quello di osservare dove e quanto frequentemente si formano questi semi planetari attorno a stelle giovani, destinate a evolversi in futuri soli come il nostro. Grazie al radiotelescopio e-Merlin, un interferometro composto da sette antenne distribuite nel Regno Unito e collegate tramite una rete di fibra ottica ultraveloce, è stato possibile catturare l’emissione radio tipica dei sassolini di un centimetro, a lunghezze d’onda difficili da rilevare con altri strumenti.
Dagli anni ‘90 sappiamo che le stelle nascono avvolte da dischi di gas e minuscoli granelli simili a polvere o sabbia. Le fasi intermedie però, quando questi granelli cominciano ad aggregarsi e crescere, risultano molto più complesse da rilevare. Infatti, man mano che i sassolini si uniscono per formare oggetti più grandi, diventano sempre meno visibili. Per questo motivo, poiché i sassolini di dimensioni centimetrica emettono al meglio a lunghezze d’onda simili alla loro dimensione, cercare le emissioni a circa 4 centimetri di lunghezza d’onda con e-Merlin è la strategia migliore per intercettare questi granelli in crescita.
Il disco Tau di HL catturato da e-Merlin, mostrato sovrapposto a un’immagine Alma. È evidente sia l’emissione compatta dalla regione centrale del disco, sia gli anelli di polvere su scala più ampia. Crediti: Greaves, Hesterly, Richards et al./Alma partnership et al.
La nuova immagine del disco di DG Tau, realizzata con e-Merlin, mostra che sassolini delle dimensioni di un centimetro si sono già formati fino a distanze paragonabili all’orbita di Nettuno, mentre un insieme simile di “semi planetari” è stato rilevato anche attorno a HL Tau.
Queste scoperte anticipano il potenziale dell’Osservatorio Ska (Skao) in costruzione, il radiotelescopio in costruzione in Sudafrica e Australia, che nel prossimo decennio rivoluzionerà lo studio dei dischi protoplanetari grazie alla sua sensibilità senza precedenti. e-Merlin ha già mostrato cosa è possibile fare, ma quando nel 2031 inizieranno le osservazioni scientifiche con Ska-Mid, sarà possibile studiare centinaia di dischi come quelli di DG Tau e HL Tau e capire finalmente come nascono i pianeti.
Per saperne di più:
- Leggi al sito del Congresso NAM 2025 la presentazione “PEBBLeS in Protoplanetary Discs” di Jane Greaves
Dart: dopo l’impatto, grande espulsione di massi
Se qualcuno ancora avesse perplessità su quanto sia stato importante aver inviato un “fotoreporter” a immortalare sul posto il primo test di difesa planetaria mai tentato nella storia – quello avvenuto nel settembre 2022 con l’impatto guidato della sonda della Nasa Dart con l’asteroide Dimorphos – l’articolo pubblicato la settimana scorsa su The Planetary Science Journal fuga ogni dubbio. Lo straordinario reportage firmato da LiciaCube – microsatellite tutto made in Italy realizzato negli stabilimenti di Argotec a Torino per conto di e in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana – si è infatti rivelato fondamentale per svelare e quantificare un effetto che le sole osservazioni da Terra non avrebbero mai consentito di cogliere: l’impatto ha prodotto un’imponente espulsione nello spazio di 104 massi – di raggio compreso tra 0,2 e 3,6 metri – che si sono allontanati da Dimorphos a velocità fino a 52 metri al secondo, con una quantità di moto complessiva più che tripla rispetto a quella della sonda stessa.
«Sono stati visti molti massi espulsi ad alta velocità e con angoli radenti rispetto alla superficie di Dimorphos e si ritiene che siano i frammenti di grandi massi frantumati nelle prime fasi dell’impatto», dice a Media Inaf una delle coautrici dello studio, l’astrofisica Elisabetta Dotto dell’Inaf di Roma, coordinatrice scientifica di LiciaCube. «Questa ulteriore analisi conferma che l’energia cinetica trasferita a Dimorphos dai materiali espulsi è stata sostanzialmente maggiore di quella trasferita da Dart stesso durante l’impatto, e che pertanto l’impatto cinetico è stato altamente efficace nel deviare Dimorphos, grazie anche alla struttura estremamente porosa dell’asteroide».
Queste immagini, che mostrano gli ejecta intorno agli asteroidi near-Earth impattati, sono state scattate durante l’avvicinamento (con Didymos in alto a sinistra) e l’allontanamento (Didymos in alto a destra) della sonda compagna di Dart, LiciaCube, che è passata pochi minuti dopo l’impatto e ne ha fotografato le conseguenze. Il campo di ejecta è costituito da un cono asimmetrico di polvere che presenta filamenti e un centinaio di massi di dimensioni attorno a un metro che sono stati espulsi in direzioni diverse. Crediti: Nasa Dart Team and LiciaCube
«Le immagini ottenute in situ da LiciaCube», continua Dotto, «sono state fondamentali per studiare in dettaglio gli effetti del primo esperimento di missione di difesa planetaria: l’analisi delle primissime fasi di evoluzione del materiale espulso ci ha permesso di investigare come la geometria dell’impatto e le proprietà fisiche del target possano alterare, riducendo o, in questo caso, amplificando, gli effetti di un impatto cinetico e ci ha fornito informazioni fondamentali per mettere a punto e realizzare con successo una futura missione di difesa planetaria, dovesse verificarsi uno scenario realmente pericoloso».
Effetti dunque in questo primo test amplificati. Ciò suggerisce, si legge nel comunicato stampa della University of Maryland (Usa), alla guida dello studio, che la deviazione di un asteroide ai fini della difesa planetaria sia un’operazione probabilmente ancor più complessa di quanto gli stessi ricercatori avessero pensato all’inizio.
«Abbiamo visto che i massi espulsi non erano sparsi a caso nello spazio», osserva il primo autore dello studio, Tony Farnham, della University of Maryland. «Al contrario, erano raggruppati in due gruppi piuttosto distinti, con assenza di materiale in altre direzioni, il che significa che c’è qualche processo che ancora ci sfugge».
Ed è proprio per cercare di rendere ancora più completa la comprensione di tutti i complessi meccanismi in gioco in operazione di difesa planetaria che la missione Hera dell’Agenzia spaziale europea è in viaggio verso il sistema Didymos-Dimorphos, dove giungerà nel 2026 per studiare a fondo e da vicino tutte le conseguenze dell’impatto del 2022.
Per saperne di più:
- Leggi su The Planetary Science Journal l’articolo “High-speed Boulders and the Debris Field in DART Ejecta”, di Tony L. Farnham, Jessica M. Sunshine, Masatoshi Hirabayashi, Carolyn M. Ernst, R. Terik Daly, Harrison F. Agrusa, Olivier S. Barnouin, Jian-Yang Li, Kathryn M. Kumamoto, Megan Bruck Syal, Sean E. Wiggins, Evan Bjonnes, Angela M. Stickle, Sabina D. Raducan, Andrew F. Cheng, David A. Glenar, Ramin Lolachi, Timothy J. Stubbs, Eugene G. Fahnstock, Marilena Amoroso, Ivano Bertini, John R. Brucato, Andrea Capannolo, Gabriele Cremonese, Massimo Dall’Ora, Vincenzo Della Corte, J. D. P. Deshapriya, Elisabetta Dotto, Igor Gai, Pedro H. Hasselmann, Simone Ieva, Gabriele Impresario, Stavro L. Ivanovski, Michèle Lavagna, Alice Lucchetti, Francesco Marzari, Elena Mazzotta Epifani, Dario Modenini, Maurizio Pajola, Pasquale Palumbo, Simone Pirrotta, Giovanni Poggiali, Alessandro Rossi, Paolo Tortora, Marco Zannoni, Giovanni Zanotti e Angelo Zinzi
Questa sera, giovedì 10 luglio, dalle 21, ci troviamo in Via Zauli Naldi 2 a #Faenza per osservare #Marte, la #Luna piena, le #costellazioni ed altri oggetti interessanti, con i nostri #telescopi e #binocoli
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