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Tête-à-tête di Lucy con Donaldjohanson



Ve lo avevamo annunciato. È accaduto. Ed è andato tutto come previsto: la sera di Pasqua, quando in Italia erano all’incirca le 19:51, la sonda Lucy della Nasa ha sorvolato con successo l’asteroide della fascia principale 52246 Donaldjohanson, il più piccolo degli undici corpi celesti che il veicolo incontrerà nel corso della sua missione. E a testimonianza dell’incontro ravvicinato – una “prova generale” per i futuri flyby con gli altri asteroidi bersaglio – Lucy ci ha già inviato le sue prime, affascinanti, immagini.


L’asteroide Donaldjohanson ripreso dallo strumento Long-Range Reconnaissance Imager (L’Lorri) a bordo della sonda Lucy della Nasa durante il suo sorvolo. Il time-lapse mostra le immagini catturate circa ogni 2 secondi a partire dalle 19:50 ora italiana del 20 aprile 2025. La rotazione apparente visibile nelle immagini è dovuta al movimento della sonda durante il flyby, effettuato a una distanza compresa tra 1.600 e 1.100 km. Il massimo avvicinamento è avvenuto a 960 km. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl

Scattate ogni due secondi a partire dalle 19:50 ora italiana, quando la sonda si trovava a circa 1.600 chilometri di distanza dall’asteroide, le istantanee – catturate con la fotocamera ad alta risoluzione L’lorri e presentate sopra come una clip – mostrano un oggetto dalla forma simile a quella di un’arachide: due lobi irregolari uniti lungo i loro assi principali a livello di un “collo”. È una caratteristica condivisa con altri asteroidi. Ce l’ha l’asteroide 486958 Arrokoth. Ce l’ha 25143 Itokawa e anche la cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko. Asteroidi binari a contatto, è così che gli addetti ai lavori chiamano gli oggetti celesti con una tale morfologia.

Dalle prime analisi delle immagini, 52246 Donaldjohanson sembra essere più grande di quanto inizialmente stimato: circa 8 chilometri di lunghezza e 3,5 chilometri di larghezza nel punto più ampio. Per avere un quadro più completo della forma e delle dimensioni, bisognerà tuttavia attendere ancora qualche settimana: il tempo necessario affinché il team scarichi e analizzi i dati raccolti dagli altri strumenti a bordo della sonda, l’imager a colori e spettrometro a infrarossi L’Ralph e lo spettrometro a emissione termica L’tes.


Una delle immagini dell’asteroide Donaldjohanson restituite dalla sonda Lucy durante il sorvolo. Lo scatto è stato effettuato il 20 aprile 2025 alle 19:51 ora italiana, poco prima del punto di massimo avvicinamento, da una distanza di circa 1.100 chilometri. L’immagine è stata rielaborata per migliorarne il contrasto. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl/NOIRLab

Nel frattempo, però, un’idea sull’asteroide il ricercatore del Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado, e principal investigator della missione, Hal Levison, se l’è fatta: «L’asteroide Donaldjohanson ha una geologia sorprendentemente complessa», dice il ricercatore. «Studiando in dettaglio la sua struttura, otterremo informazioni importanti sui mattoni fondamentali e sui processi collisionali che hanno formato i pianeti del nostro sistema solare».

Dopo il sorvolo di Dinkinesh e della sua piccola luna Selam, questo è il secondo incontro ravvicinato di Lucy con un asteroide. Ora la sonda proseguirà il suo viaggio attraverso la fascia principale degli asteroidi per tutto il 2025, in attesa di raggiungere il primo obiettivo principale della missione: l’asteroide troiano di Giove Eurybates e il suo satellite Queta. A questo tête-à-tête, previsto il 12 agosto del 2027, seguirà il flyby di 15094 Polymele, schedulato per il 15 settembre del 2027, il sorvolo di Leucus e Orus, programmati rispettivamente per il 18 aprile e l’11 novembre del 2028, e infine l’incontro con Patroclus e la sua luna Menoetius, previsto per il 3 marzo del 2033.

Come abbiamo più volte scritto qui su Media Inaf, il nome della missione è un omaggio alla nostra antichissima antenata scoperta in Etiopia nel 1974. E proprio come il fossile Lucy ha fornito informazioni preziose sull’evoluzione dell’essere umano, così la sonda della Nasa promette di ampliare la conoscenza delle nostre origini planetarie.

«Queste prime immagini dell’asteroide Donaldjohanson dimostrano ancora una volta le straordinarie capacità della sonda Lucy come strumento di scoperta», sottolinea lo scienziato della Nasa e program scientist della missione, Tom Statler. «Il potenziale di aprire una nuova finestra sulla storia del Sistema solare, una volta raggiunti gli asteroidi troiani, è immenso».



Nuove rivelazioni sull’abitabilità di Marte




Immagine del sito di perforazione di Ubajara, nel cratere Gale, scattata dal rover Curiosity il 30 aprile 2023. In primo piano, sono visibili le tracce del rover. Crediti: Nasa Jet Propulsion Laboratory-Caltech/Malin Space Science Systems

L’antico Marte era caratterizzato da un’atmosfera densa e ricca di anidride carbonica, capace di sostenere un vero e proprio ciclo del carbonio. Il pianeta, inoltre, avrebbe avuto un sistema di vulcani attivi, in grado di generare condizioni ambientali favorevoli alla vita. È quanto emerge da due studi indipendenti, pubblicati di recente su Science e Science Advances, basati sull’analisi di campioni di roccia marziana raccolti rispettivamente dai rover Curiosity e Perseverance. I risultati delle ricerche rappresentano un significativo passo avanti nella comprensione dell’abitabilità passata e dell’evoluzione geologica di Marte.

A suggerire che l’atmosfera di Marte contenesse un tempo abbondanti quantità di anidride carbonica è la scoperta di vasti depositi di siderite, un minerale composto da carbonato di ferro, all’interno del cratere Gale. A individuarli è stato Curiosity, il rover della Nasa atterrato su Marte nel 2012. Tra il 2022 e il 2023, il veicolo spaziale ha esplorato un’area ricca di solfati, già mappata in precedenza dall’orbita. All’interno di questa unità geologica, Curiosity ha effettuato perforazioni in quattro distinti punti, prelevando altrettanti campioni che i ricercatori hanno denominato Canaima, Tapo caparo, Ubajara e Sequoia.

Utilizzando i dati dello strumento Chemistry and Mineralogy (CheMin) del rover, che sfrutta la diffrazione dei raggi X per determinare la composizione mineralogica, gli scienziati hanno analizzato le carote di roccia, scoprendo che tre dei quattro campioni – Tapo caparo, Ubajara e Sequoia – contenevano cristalli di siderite in concentrazioni elevate: dal 5 a oltre il 10 per cento in peso. Il Sample Analysis at Mars (Sam), una suite di strumenti che analizza i gas prodotti dalla combustione dei campioni, ha confermato la purezza del composto e la mineralogia associata.

Ma che c’entra la siderite nel suolo di Marte con la presenza di anidride carbonica atmosferica, vi starete chiedendo? Secondo gli scienziati, la presenza del minerale testimonierebbe il verificarsi di interazioni tra atmosfera, acqua e roccia, seguite da processi di evaporazione che avrebbero alimentato un ciclo attivo del carbonio, rendendo Marte potenzialmente abitabile.

«La scoperta di grandi depositi di carbonio nel Cratere Gale rappresenta una svolta nella nostra comprensione dell’evoluzione geologica e atmosferica di Marte», spiega Benjamin Tutolo, geochimico alla Università di Calgary, in Canada, e autore principale dello studio. «L’abbondanza di sali altamente solubili in queste rocce e in depositi simili mappati su gran parte di Marte è stata utilizzata come prova della sua ‘grande essicazione’, la fase durante la quale il pianeta è passato dall’essere un corpo celeste caldo e umido al mondo freddo e secco che vediamo oggi».

L’ipotesi degli autori per spiegare la presenza dei carbonati è che l’antica atmosfera marziana contenesse abbondanti quantità di CO2, tali da permettere la presenza di acqua liquida in superficie. Con il passare del tempo, questa CO2 sarebbe stata via via sequestrata chimicamente nelle rocce, attraverso processi come la dissoluzione e altri meccanismi che hanno portato alla nucleazione e alla crescita dei minerali. Successivamente, processi di diagenesi ne avrebbero causato la scissione in idrossidi di ferro e CO2, rilasciando quest’ultima nell’atmosfera e contribuendo così alla genesi di un ciclo del carbonio capace di mantenere il pianeta caldo e in grado di sostenere la presenza di acqua liquida.


Illustrazione schematica dell’ipotetico ciclo del carbonio nell’antico Marte. Crediti: Benjamin M. Tutolo et al., Science, 2025

Tuttavia, spiegano i ricercatori, in una fase successiva della storia geologica del pianeta, è possibile che sia stato sequestrato più carbonio di quanto ne sia stato rilasciato nell’atmosfera, provocando uno squilibrio che avrebbe portato Marte a trasformarsi in un mondo secco e arido. A differenza del ciclo del carbonio terrestre, che è rimasto in equilibrio nel tempo, quello di Marte si sarebbe dunque alterato, segnando un punto di svolta irreversibile per l’evoluzione del pianeta.

La rilevazione di depositi di carbonato sul pianeta ha importanti implicazioni circa la possibilità che il pianeta sia stato in grado di ospitare la vita. La scoperta di questo minerale, osserva Tutolo, «ci dice che il pianeta era abitabile e che i modelli di abitabilità sono corretti». Questo, però, finché c’era abbastanza CO2 nell’atmosfera. «Quando l’anidride carbonica che riscaldava il pianeta ha iniziato a precipitare sotto forma di siderite, ciò ha probabilmente compromesso la capacità di Marte di rimanere caldo», aggiunge il ricercatore.


Un mosaico di due immagini mostra il braccio del rover Perseverance dopo aver scansionato e campionato una delle rocce oggetto dello studio. La roccia in questione, soprannominata informalmente “Rochette”, si trova in basso a destra, e mostra chiaramente il foro da cui è stato prelevato il campione. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Asu

Come dicevamo in apertura, Marte è protagonista anche di un altro recente studio in cui un team di ricercatori guidati dalla Texas A&M University ha ottenuto ulteriori informazioni sulla storia geologica del pianeta. Pubblicato su Science Advances, l’articolo riporta la scoperta, fatta grazie ai dati raccolti dal rover Perseverance, di due distinti tipi di rocce vulcaniche all’interno del cratere Jezero.

Il primo tipo di roccia, scura e ricca di ferro e magnesio, conterrebbe inclusioni di pirosseno e feldspato plagioclasio, con tracce di olivina alterata. Trachibasalto, è così che gli addetti ai lavori chiamano queste rocce ignee. Il secondo tipo di roccia, più chiara rispetto alla prima, è stata classificata come trachiandesite e include cristalli di plagioclasio inglobati in una matrice ricca di potassio. Secondo gli autori dello studio, queste rocce indicherebbero una complessa storia vulcanica di Marte, caratterizzata dalla presenza di fenomeni eruttivi e flussi di lava a composizione variabile.

Per capire come si siano formate queste rocce, i ricercatori hanno simulato le condizioni in cui i minerali si sono solidificati. I risultati delle modellizzazioni suggeriscono che le composizioni uniche delle rocce derivino essenzialmente da due tipi di processi: la cristallizzazione frazionata, in cui i minerali si separano dal magma mentre si raffredda, e l’assimilazione crostale, che si verifica quando la roccia fusa interagisce con materiali ricchi di ferro della crosta, sciogliendoli parzialmente o incorporandoli, modificando ulteriormente la composizione delle rocce.

«I processi che osserviamo qui – cristallizzazione frazionata e assimilazione crostale – sulla Terra sono tipici dei sistemi vulcanici attivi», sottolinea il geologo della Texas A&M University e primo autore della pubblicazione, Michael Tice. «Ciò suggerisce che questa parte di Marte potrebbe essere stata interessata da una prolungata attività vulcanica , il che a sua volta potrebbe aver fornito una fonte continua di composti utilizzabili dalla vita».

«Abbiamo selezionato con cura queste rocce perché contengono indizi sugli ambienti passati di Marte», aggiunge il ricercatore. «Quando, una volta riportate a Terra, potremo analizzare queste rocce con strumenti di laboratorio, saremo in grado di porre domande molto più dettagliate sulla loro storia e sull’eventuale presenza di firme biologiche».

Le scoperte fatte in questi studi sono cruciali per comprendere la potenziale abitabilità passata di Marte. La presenza di una densa atmosfera di CO2 in grado di alimentare un ciclo del carbonio, insieme a un sistema di vulcani attivi, potrebbero aver contribuito a mantenere condizioni favorevoli alla vita sul pianeta per un lungo periodo della sua storia geologica.

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Carbonates identified by the Curiosity rover indicate a carbon cycle operated on ancient Mars” di Benjamin M. Tutolo, Elisabeth M. Hausrath, Edwin S.Kite, Elizabeth B. Rampe,Thomas F.Bristow, Robert T. Downs, AllanTreiman, Tanya S.Peretyazhko, Michael T. Thorpe, John P. Grotzinger, Amelie L. Roberts, P. Douglas Archer, David J. Des Marais, David F. Blake, David T.Vaniman, Shaunna M. Morrison, Steve Chipera, .Hazen, Richard V. Morris, Valerie M. Tu, Sarah L. Simpson, Aditi Pandey, Albert Yen, Stephen R. Larter, Patricia Craig, Nicholas Castle, Douglas W. Ming4, Johannes M. Meusburger5, Abigail A. Fraeman, David G. Burtt, Heather B. Franz, Brad Sutter,JoannaV.Clark, William Rapin, JohnC.Bridges, Matteo Loche, PatrickGasda, Jens Frydenvang e Ashwin R.Vasavada
  • Leggi su Science Advances l’articolo “Diverse and highly differentiated lava suite in Jezero crater, Mars: Constraints on intracrustal magmatism revealed by Mars 2020 PIXL” di Mariek E. Schmidt, Tanya V. Kizovski, Yang Liu, Juan D. Hernandez-Montenegro, Michael M. Tice , Allan H. Treiman, Joel A. Hurowitz, David A. Klevang, Abigail L. Knight, Joshua Labrie, Nicholas J. Tosca, Scott J. VanBommel, Sophie Benaroya, Larry S. Crumpler, Briony H. N. Horgan, Richard V. Morris, Justin I. Simon, Arya Udry, Anastasia Yanchilina, Abigail C. Allwood, Morgan L. Cable, John R. Christian, Benton C. Clark, David T. Flannery, Christopher M. Heirwegh , Thomas L. J. Henley , Jesper Henneke , Michael W. M. Jones, Brendan J. Orenstein, Christopher D. K. Herd, Nicholas Randazzo, David Shuster e Meenakshi Wadhwa


Buon compleanno Hubble!




Un’immagine del telescopio spaziale Hubble durante il suo dispiegamento iniziale dallo Space Shuttle Discovery il 25 aprile 1990. Crediti: Nasa

Dai pianeti del Sistema solare alle galassie distanti miliardi di anni luce, le immagini iconiche del telescopio spaziale Hubble (Hst) sono un patrimonio scientifico e culturale per tutto il mondo. La posizione ottimale di Hubble al di sopra dell’atmosfera terrestre, in orbita terrestre bassa, gli consente di catturare immagini nitide al riparo dalle distorsioni atmosferiche che affliggono i telescopi terrestri.

Realizzato dalla Nasa con il contributo dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), Hubble non è solo un telescopio: è una vera e propria macchina del tempo, in grado di osservare galassie fino a 13,4 miliardi di anni luce di distanza, consentendoci di guardare indietro nel tempo, quando l’universo aveva soltanto qualche centinaio di milioni di anni.

Infatti, quando Hubble cattura la luce proveniente da così lontano, ciò che vediamo è la fotografia di un’epoca in cui le prime galassie stavano appena cominciando a formarsi, meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang.

I numeri di Hubble sono impressionanti. Il telescopio, grande quanto uno scuolabus e pesante circa 11 tonnellate, orbita intorno alla Terra a una velocità vertiginosa di circa 27mila chilometri orari, completando un’orbita ogni 95 minuti. Per alimentarsi, sfrutta l’energia solare grazie a due pannelli lunghi 7 metri e mezzo ciascuno e consuma mediamente 2.100 watt, meno di un comune asciugacapelli. Sebbene la potenza consumata sia relativamente contenuta, Hst ha prodotto dati impiegati in oltre 13mila articoli scientifici, diventando uno degli strumenti più prolifici nella storia della scienza.

Tra le scoperte più significative di Hubble c’è la conferma dell’espansione accelerata dell’universo, che ha portato al concetto di energia oscura. Il telescopio spaziale ha anche permesso di misurare con grande precisione l’età dell’universo, stimata oggi intorno ai 13,8 miliardi di anni. Tra i suoi scatti, diventati iconici, ci sono galassie in collisione, nebulose in formazione e pianeti extrasolari in transito davanti alle loro stelle madri. Immagini come i Pilastri della Creazione hanno ispirato milioni di persone e sono diventate simboli dell’esplorazione spaziale.


Per celebrare il 35esimo anniversario del lancio in orbita del telescopio spaziale Hubble, gli astronomi hanno puntato il leggendario telescopio su una selezione di obiettivi spaziali che vanno dal nostro sistema solare alle nebulose dello spazio interstellare, fino alle galassie più lontane. In foto, da sinistra a destra: Marte visto alla fine di dicembre 2024; la nebulosa planetaria Ngc 2899; la nebulosa Rosetta; la galassia a spirale Ngc 5335. Crediti: Nasa, Esa, StScI

Nonostante oggi compia ben 35 anni, per la pensione c’è ancora tempo. Grazie alle cinque missioni di assistenza e manutenzione nello spazio – l’ultima nel 2009, che ha potenziato e aggiornato i suoi strumenti scientifici – e al lavoro dei team di ingegneri a terra, Hubble continua a funzionare in buona salute, decenni dopo il lancio. Con la sua capacità unica di osservare nell’ultravioletto, nel visibile e nel vicino infrarosso, Hubble è un prezioso compagno di squadra, complementare a missioni come il telescopio spaziale James Webb (Jwst) e il prossimo telescopio spaziale Nancy Grace Roman. Proprio con il Jwst c’è una forte sinergia: se Webb osserva l’universo nell’infrarosso, Hubble eccelle nel visibile e nell’ultravioletto, offrendo una visione complementare e più completa del cosmo. Ve lo abbiamo mostrato poco tempo fa, entrando virtualmente proprio nei Pilastri della Creazione.


Grafica del 35esimo anniversario di Hubble. Crediti: Nasa

Nell’ambito delle celebrazioni per il 35esimo anniversario, l’Agenzia Spaziale Europea sta condividendo una nuova serie di immagini che rivisitano splendidi obiettivi Hubble già pubblicati in precedenza, con l’aggiunta degli ultimi dati Hubble e di nuove tecniche di elaborazione delle immagini: tra queste, le “famose” Galassia Sombrero e Nebulosa Aquila. Inoltre, sono state rese disponibili nuove vedute del pianeta Marte, di regioni di formazione stellare e di galassie vicine. E i festeggiamenti non finiscono qui: Nasa ed Esa hanno organizzato una serie di eventi e iniziative speciali per i prossimi giorni, tra cui la Hubble Night Sky Challenge, una sfida di osservazione del cielo notturno con la quale si invitano gli appassionati di astronomia a osservare da terra gli stessi oggetti celesti che Hubble ha immortalato dallo spazio.

Mentre si celebrano i suoi 35 anni in orbita, il destino di Hubble rimane incerto ma ancora promettente. La Nasa sta valutando la possibilità di prolungare la sua vita operativa, compreso un potenziale intervento per innalzare l’orbita e rallentarne il decadimento. L’interesse scientifico e pubblico rimane altissimo, e ogni nuova immagine o scoperta continua a catturare l’immaginazione globale.

Quindi buon compleanno, Hubble! Con l’augurio che il tuo “sguardo” sul cosmo continui a meravigliarci ancora a lungo.

Per saperne di più:

  • Ascolta l’episodio di Houston, il podcast di Media Inaf, sulla missione che ha corretto la miopia di Hubble
  • Scopri le iniziative dell’Agenzia Spaziale Europea e della Nasa per celebrare i 35 anni di Hubble
  • Guarda il video del lancio del telescopio in orbita il 24 aprile 1990
  • Guarda il video che celebra i 35 anni di Hst


Un pilastro della Nebulosa Aquila rivisitato



Come una macchia di Rorschach di ampiezza astronomica o curiosa nube che trascorre in un chiaro pomeriggio primaverile, ci si potrebbe sbizzarrire nel troppo umano tentativo di avvicinare a forma nota la fluttuante struttura di gas e polvere immortalata dal telescopio spaziale Hubble nella Nebulosa Aquila. Io ci vedo una sinistra figura, gibbosa e con le braccia a ciondoloni, che lenta muove i suoi passi, quasi a inoltrarsi nella nube polverosa alle sue spalle. E voi?


Particolare del pilastro nella Nebulosa Aquila immortalato da Hubble. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, K. Noll

In realtà questa figura strampalata è solo un dettaglio collocato sulla sommità di una struttura ben più estesa, un pilastro di gas e polveri alto quasi dieci anni luce e che si trova a 7mila anni luce dalla Terra, splendidamente catturato da Hubble.

Il fatto degno di notizia non è la scoperta di questa nube un po’ bislacca su un pilastro impolverato, entrambi noti agli astronomi da un paio di decenni. Ma che questa fotografia fa un po’ da trailer alle celebrazioni per il 35esimo anno di attività del telescopio Hubble, lanciato in orbita attorno al nostro pianeta il 24 aprile del 1990. Per l’occasione, l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha avviato una serie di iniziative per onorare i successi del famoso del telescopio spaziale.

Una fra questa prevede la rivisitazione di una serie di scatti iconici realizzati da Hubble, riprocessati però utilizzando nuove tecniche di elaborazione grafica. Le immagini astronomiche che tanto amiamo sono infatti il frutto di meticolose operazioni, ed esistono figure specifiche che si occupano di processare queste immagini e valorizzarle al massimo prima di presentarle al grande pubblico. Spesso, quella che ci sembra un’immagine singola è in realtà il prodotto della combinazione di più immagini, ciascuna delle quali ottenuta con un filtro specifico. Per non parlare della cascata di difetti che possono affliggere le immagini astronomiche, che andranno dunque scrupolosamente ripulite attraverso una catena di operazioni – pipeline, in gergo tecnico – non sempre agevole. All’elaborazione della immagini del James Webb Space Telescope, che prevede tecniche analoghe a quelle ora implementate per Hubble, Media Inaf ha dedicato uno speciale la scorsa estate.


La struttura di gas e polvere catturata da Hubble nella Nebulosa Aquila. L’immagine è stata ottenuta utilizzando nuove tecniche di elaborazione grafica e fa parte di una serie di immagini celebrative per i 35 anni di attività del famoso telescopio spaziale. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, K. Noll

Il pilastro della Nebulosa Aquila – o M16, per gli affezionati del catalogo Messier – è il terzo della serie di scatti di Hubble rivisitati (qui una versione precedente dell’immagine, risalente al 2005). Scatti che hanno visto come protagoniste, nelle scorse settimane, l’ammasso stellare Ngc 346 e la Galassia Sombrero.

Un poderoso pilastro di gas e polvere, si diceva, troneggia in questa fotografia. Struttura che però costituisce solo un piccolo elemento della Nebulosa Aquila, vasta regione di gas e polveri della nostra galassia, all’interno della quale un tripudio di nuove stelle sta venendo alla luce. Molte delle novelle stelle non sono visibili in questa immagine in quanto sono situate poco al di sopra del monumentale pilastro.

In rosso vediamo rilucere l’emissione dell’idrogeno ionizzato, particolarmente abbondante alla base della struttura. L’azzurro che domina lo sfondo lo si deve invece all’ossigeno, sempre ionizzato, mentre le parti scure sono opera della polvere, che blocca la radiazione degli astri situati nei paraggi. L’arancione, che scorgiamo in particolare nella parte alta della fotografia, rappresenta il tentativo della luce stellare di sfondare il muro di polvere: la luce blu viene assorbita, e rimane pertanto celata ai nostri occhi, mentre quella rossiccia riesce a farsi strada tra i grani di polvere e a manifestarsi allo sguardo acuto di Hubble.

Elementi iconici della Nebulosa Aquila sono senza dubbio i Pilastri della Creazione, imponenti strutture di gas e polveri scolpite dalla radiazione ultravioletta delle stelle giovani, sempre immortalati da Hubble – e, successivamente, da Webb – in due famosi scatti rilasciati a distanza di 20 anni – nel 1995 e nel 2015.

È quello che fanno le stelle giovani, si divertono a smangiucchiare con la loro temibile luce ultravioletta – la stessa che temiamo d’estate sulla nostra pelle -, e con venti ad alta velocità, le nubi di gas e polvere, conferendo loro queste fattezze allungate e scavate. In particolare, quelle che stiamo vedendo qui sono le regioni in cui il gas e le polveri sono più densi, caratteristica questa che consente loro di sopravvivere sotto queste sorprendenti parvenze, anziché dissolversi per la feroce radiazione prodotta dai giovani astri.

Venti e radiazione, comprimendo il gas che forma il pilastro, potrebbero indurre la nascita di nuove stelle all’interno della struttura. Comunque vadano le cose, nonostante l’orgogliosa resistenza alle sferzate inflitte dagli astri sfavillanti, con il tempo il pilastro sarà destinato a soccombere, dissolvendosi sotto i colpi impetuosi della miriade di stelle in formazione nella Nebulosa Aquila.



Un’onda di elio-3 investe Solar Orbiter



Il 23 e 24 ottobre 2023, a poco meno di metà strada fra la Terra e il Sole (0.47 unità astronomiche per la precisione), la sonda Esa/Nasa Solar Orbiter è stata investita da un’onda di particelle energetiche solari particolarmente ricca di elio-3, un isotopo raro dell’elio emesso dal Sole. Un evento insolito, probabilmente associato a un buco coronale – una regione in cui le linee del campo magnetico si aprono nello spazio interplanetario – sul quale è stato pubblicato un articolo su The Astrophysical Journal.


Gli scienziati del Southwest Research Institute hanno individuato la fonte della più alta concentrazione di un raro isotopo dell’elio emesso dal Sole. In questa immagine nell’ultravioletto estremo del Solar Dynamics Observatory, la freccia blu indica un piccolo punto luminoso situato sul bordo di un buco coronale (delineato in rosso) che è stata la sorgente del fenomeno. Crediti: Nasa/Sdo/Aia

L’elio, un elemento che nella tavola periodica è il primo fra i cosiddetti gas nobili, ha due isotopi stabili: l’Elio-4 e l’Elio-3. Il primo è il più abbondante in natura, mentre il secondo – che costituisce solo lo 0,02% – è il più interessante. In astrofisica, ad esempio, è un isotopo fondamentale per i sistemi criogenici a diluizione, in grado di raggiungere temperature dell’ordine del millesimo di kelvin, oppure nella costruzione di impianti per la rivelazione di neutroni.

«Questo raro isotopo, più leggero del più comune elio-4 di un solo neutrone, è scarso nel nostro sistema solare – si trova in un rapporto di circa uno ione di elio-3 per 2.500 ioni di elio-4», spiega Radoslav Bucik, primo autore dello studio. «Tuttavia, i getti solari sembrano accelerare preferenzialmente l’elio-3 ad alte velocità o energie, probabilmente a causa del suo particolare rapporto carica/massa».

La misurazione effettuata da Solar Orbiter riguarda l’emissione di particelle energetiche solari (o Sep): particelle accelerate ad alta energia che includono protoni, elettroni e ioni pesanti, in genere associate a eventi solari come brillamenti ed espulsioni di massa coronale. Il meccanismo alla base di questa accelerazione è sconosciuto, ma si è visto che può aumentare l’abbondanza di elio-3 fino a 10mila volte la sua concentrazione abituale nell’atmosfera del Sole – un effetto che non ha analoghi noti in altri ambienti astrofisici. La cosa incredibile dell’evento misurato nell’ottobre 2023 è che l’aumento di elio-3 è di circa 200mila volte e anche la sua accelerazione risulta molto maggiore rispetto agli altri elementi più pesanti.

Complice l’aiuto di un altro osservatorio solare della Nasa, il Solar Dynamics Observatory, gli astronomi hanno trovato un piccolo getto solare sul bordo di un buco coronale da cui sembrerebbe essere partito tutto. Nonostante le dimensioni ridotte del getto (che viene indicato nell’immagine con una freccia blu, sul bordo del buco coronale delineato in rosso), gli autori sono convinti che sia direttamente collegato all’evento Sep.

«Sorprendentemente, l’intensità del campo magnetico in questa regione era debole, più tipica delle aree solari tranquille che delle regioni attive», aggiunge Bucik. «Questa scoperta supporta le teorie precedenti che suggeriscono che l’arricchimento di elio-3 è più probabile nel plasma debolmente magnetizzato, dove la turbolenza è minima».

Inoltre, questo evento si distingue come uno dei rari casi in cui l’arricchimento degli ioni non segue lo schema abituale. In genere, eventi come questi presentano una maggiore abbondanza di ioni pesanti come il ferro. In questo caso, invece, il ferro non è aumentato. Al contrario, carbonio, azoto, silicio e zolfo sono significativamente più abbondanti del previsto.

Per comprendere meglio come si formano e come vengono accelerate queste ondate di particelle energetiche ricche di elio-3, occorre raccogliere molta più statistica e l’unico modo per farlo, scrivono gli scienziati a conclusione del loro articolo, è riuscire ad avere sonde come Solar Orbiter più vicine alle sorgenti solari ricche di elio-3. Con un periodo di rivoluzione attorno al Sole di 168 giorni e un perielio ad appena 42 milioni di chilometri dal Sole (quasi un quarto della distanza che separa la Terra dalla stella), le occasioni potrebbero non mancare.

Per saperne di più:



Tutte le tensioni della cosmologia di oggi



Circa cinquecento autori, oltre quattrocento pagine, un’opera monumentale, una rassegna ponderosa su tutte le anomalie e le cosiddette tensioni della cosmologia contemporanea. S’intitola “The CosmoVerse White Paper”, dunque è un cosiddetto libro bianco, lo potete trovare da questo mese in rete su arXiv e si propone – come esplicita il sottotitolo – di “affrontare le tensioni osservative in cosmologia con gli effetti sistematici e la fisica fondamentale”, a partire dalla tensione per eccellenza: la tensione sulla costante di Hubble.


Eleonora Di Valentino, prima autrice del White Paper, ha conseguito il dottorato in fisica, con una tesi in cosmologia, all’Università di Roma “La Sapienza”. Successivamente, ha lavorato all’Institut d’Astrophysique de Paris come “Lagrange Fellow”, contribuendo al lavoro del team Planck per il rilascio finale dei dati. Si è poi trasferita nel Regno Unito con un incarico postdoc all’Università di Manchester, dove ha collaborato con la Dark Energy Survey. In seguito, è stata nominata Addison-Wheeler Fellow presso l’Institute of Advanced Studies dell’Università di Durham. Ora è una Royal Society Dorothy Hodgkin Research Fellow presso l’Università di Sheffield

In breve, uno stato dell’arte sulle di cui si sentiva da tempo il bisogno, un’opera destinata a diventare un riferimento per chiunque voglia misurarsi sui limiti della cosmologia contemporanea e su ciò che non torna nei dati – dunque eventuali effetti sistematici – o nei modelli – dunque nella fisica fondamentale, che potrebbe aver bisogno di essere in parte rivista. A firmarlo come prima autrice, insieme a Jackson Levi Said, è un’astrofisica italiana, Eleonora Di Valentino. Laurea e dottorato alla Sapienza, a Roma, poi anni di ricerca all’estero, in Francia e nel Regno Unito, Di Valentino lavora oggi come Royal Society Dorothy Hodgkin Fellow all’Università di Sheffield. L’abbiamo intervistata.

Com’è nato questo lavoro? E come li avete messi insieme, lei e Levi Said, cinquecento colleghi per fare il punto su ciò che non sappiamo?

«CosmoVerse è una Cost Action europea nata quasi tre anni fa. L’idea di CosmoVerse nasce dal lavoro intrapreso per il white paper che ho co-coordinato insieme a Luis Anchordoqui per il processo SnowMass, già in quell’occasione il documento aveva raccolto l’interesse di circa duecento autori. Il tema delle tensioni cosmologiche è in rapida crescita, con Jackson abbiamo pensato di proporlo come Cost Action e la risposta è stata eccezionale: abbiamo raccolto l’adesione di circa cinquecento ricercatori. All’interno di CosmoVerse portiamo avanti numerose iniziative: conferenze, PhD schools, seminari online, un canale Youtube, lezioni per undergraduate o ragazzi delle scuole superiori, eccetera. Il White Paper di CosmoVerse rappresenta un vero e proprio statement della comunità cosmologica: le tensioni esistono, non possono più essere ignorate e c’è ancora molto lavoro da fare – sia sul fronte sperimentale, sia in ambito di analisi dati e teoria».

Sin dal titolo, tensioni al plurale. Spesso su Media Inaf abbiamo avuto occasione di parlare della tensione sulla costante di Hubble. Ma il vostro White Paper ne elenca numerose altre, di tensioni o anomalie. Ce ne sono una o due secondo lei particolarmente significative, oltre naturalmente a quella su H0?

«Ce ne sono diverse, con una significatività statistica più o meno marcata e un grado di controversia variabile, spesso legato alla possibilità che si tratti di effetti sistematici negli esperimenti. Se dovessi sceglierne una oltre alla tensione su H0, la risposta più semplice è la recente indicazione di dark energy dinamica (Dde), emersa dai dati Desi Bao e supernove. Una diretta conseguenza è il disaccordo del valore della massa dei neutrini così ottenuta con la somma delle masse dei neutrini inferita dagli esperimenti di laboratorio. Ovviamente, la Dde non risolve la tensione su H0, il che rende il quadro ancora più intrigante e complesso».

A proposito di anomalie e domande irrisolte, negli ultimi anni mi pare che si notino alcune tendenze. Per esempio, nel campo della ricerca delle particelle candidate per spiegare la materia oscura si parla sempre meno delle Wimp e sempre più di particelle più leggere, come gli assioni. In cosmologia c’è qualche tendenza analoga? Qualche spiegazione che sta godendo di meno consensi rispetto al passato, a favore di un’altra più promettente?

«Per quanto riguarda le possibili risoluzioni della tensione di Hubble, abbiamo osservato una tendenza verso modifiche della storia dell’espansione dell’universo prima della ricombinazione. Per questo motivo, soluzioni come l’early dark energy (Ede) sono state a lungo considerate tra le più promettenti, mentre i modelli che intervengono a late-time or late dark energy sono stati in parte trascurati.
Tuttavia, con i nuovi dati Bao e supernove e l’emergente possibilità che l’universo non sia più ben descritto dal modello Lambda-Cdm ai bassi redshift, credo che assisteremo presto a un rinnovato interesse verso modelli a late time. Ad esempio, modelli di interazione tra materia oscura e energia oscura, oppure teorie di gravità modificata, potrebbero offrire spunti utili per affrontare queste tensioni».

A volte sentiamo paragonare la fisica di oggi a quella di fine dell’Ottocento, quando si pensava che ormai non ci fosse più molto da scoprire, e che ormai si trattasse solo risolvere qualche dettaglio che non tornava. Ma proprio uno di quei “dettagli” tra virgolette, l’emissione di corpo nero, si rivelò poi la tana del Bianconiglio che portò alla straordinaria rivoluzione della fisica del Novecento. Anche alcune di queste tensioni che avete individuato potrebbero rappresentare la porta di accesso a una nuova cosmologia o a una nuova fisica altrettanto rivoluzionarie?

«Sicuramente la tensione su H0, che ha ormai raggiunto una significatività statistica prossima alle 6 sigma, è la più rilevante. Dal mio punto di vista, siamo sempre più vicini a un vero e proprio cambio di paradigma, perché ci sono molti piccoli segnali che non tornano, e le numerose modifiche proposte al modello Lambda-Cdm (ne abbiamo analizzate e catalogate centinaia nella letteratura) non risultano soddisfacenti né risolutive. Purtroppo, al momento non ci sono indizi chiari che puntino in una direzione univoca, e questo rende difficile formulare previsioni di qualsiasi tipo».

E ora cosa ne sarà del vostro White Paper?

«Ora speriamo di poter sottomettere una nuova proposta per la prossima Cost Action, una possibile CosmoVerse 2.0, per proseguire il lavoro che abbiamo avviato con grande entusiasmo. Il White Paper sarà pubblicato a breve, mentre un libro dedicato alla tensione su H0 è già disponibile. Ci auguriamo che questo sforzo possa avere un impatto anche sulle decisioni relative ai futuri strumenti e missioni, perché l’interesse verso l’argomento è in continua crescita e ci sono molte persone motivate a contribuire attivamente».


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Prima evidenza di un inglobamento planetario



Se per molti anni i fenomeni di inglobamento planetario sono stati solamente teorizzati, nuove osservazioni del telescopio spaziale James Webb della Nasa pubblicate su The Astrophysical Journal aprono la strada alla prima evidenza di una stella colta nell’atto di “inghiottire” un pianeta. Tali osservazioni rientrano nel programma Guaranteed Time Observation 1240, ideato per analizzare un insieme di enigmatici e improvvisi eventi di brillamenti infrarossi, la cui comprensione potrebbe portare a una migliore comprensione sul funzionamento dell’universo.


Le osservazioni del telescopio spaziale James Webb, relative a quello che si ritiene essere il primo evento di inglobamento planetario mai registrato, hanno rivelato la presenza di un disco di accrescimento caldo attorno alla stella, circondato da una nube in espansione di polvere più fredda. Webb ha inoltre mostrato che la stella non si è gonfiata per inghiottire il pianeta, ma che l’orbita del pianeta si è in realtà ristretta lentamente nel tempo, come illustrato in questa rappresentazione artistica. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (StScI)

La stella al centro dell’attenzione si trova a circa 12mila anni luce dalla Terra, nella Via Lattea. L’evento di intensificazione della luminosità, chiamato Ztf Slrn-2020, è stato inizialmente rilevato come un lampo di luce ottica grazie allo Zwicky Transient Facility presso l’Osservatorio Palomar del Caltech a San Diego, in California. In realtà, le informazioni ottenute dal telescopio spaziale Neowise della Nasa avevano rivelato un aumento di luminosità della stella nell’infrarosso un anno prima del lampo di luce ottica, suggerendo la presenza di polvere. Tale studio del 2023 aveva convinto gli astronomi che la stella fosse abbastanza simile al Sole e stesse procedendo, con una lenta espansione, verso la fase di gigante rossa, inglobando i corpi celesti più vicini.

I dati raccolti dal Webb hanno modificato radicalmente il punto di vista degli studiosi. Le informazioni sono state ottenute tramite l’impiego dei due strumenti Mid-Infrared Instrument (Miri) e Near-Infrared Spectrograph (NirSpec). Analizzando le emissioni provenienti dalla regione di spazio in cui è localizzata la stella, i ricercatori hanno scoperto che l’astro non è così luminoso come ci si aspetterebbe da una gigante rossa e, dunque, non vi è alcun rigonfiamento in grado di inghiottire un corpo celeste circostante.

Si suppone che il pianeta di cui è stato registrato l’inglobamento avesse le dimensioni di Giove e fosse caratterizzato da un’orbita molto vicina alla stella. Col passare di milioni di anni, la traiettoria si dev’essere man mano ridotta, originando un percorso “a spirale” e portando, infine, alla completa incorporazione del pianeta da parte dell’astro. «Alla fine, l’oggetto celeste ha iniziato a sfiorare l’atmosfera della stella. Da quel momento in poi è partito un processo di caduta incontrollata e più rapida», spiega Morgan Macleod, membro del team di ricerca. «Il pianeta, durante la caduta, si è sfaldato attorno all’astro». Nelle fasi conclusive della sua esistenza, il corpo ha probabilmente espulso gas dagli strati esterni della stella, il quale, espandendosi e raffreddandosi, si è condensato in un’enorme nube di polvere fredda.


Evoluzione nel tempo dell’orbita di un pianeta, fino al suo inglobamento da parte di una stella distante 12.000 anni luce dalla Terra. Crediti: Nasa, Esa, Csa, R. Crawford (STScl)

Uno degli aspetti più intriganti delle osservazioni consiste nella presenza di un disco di gas caldo nelle immediate vicinanze della stella. La sua composizione non è certa, ma l’elevata risoluzione spettrale del telescopio Webb è risultata di grande aiuto nell’identificazione di alcune delle molecole nel disco, tra cui il monossido di carbonio. La capacità di caratterizzare il gas ha generato una lunga serie di interrogativi su cosa sia avvenuto in seguito all’inglobamento planetario. «Questo è un importante punto di arrivo nello studio di eventi simili. È l’unico inglobamento che abbiamo osservato in azione e, al tempo stesso, la migliore rilevazione delle conseguenze dopo che le cose si sono calmate», sottolinea Ryan M. Lau, autore principale dell’articolo e astronomo del NoirLab di Tucson, in Arizona.

Gli scienziati prevedono di ampliare il campione di studi, osservando altri fenomeni di inglobamento planetario, in particolare utilizzando il futuro osservatorio Vera C. Rubin e il telescopio spaziale Nancy Grace Roman, in fase di sviluppo. «Stiamo acquisendo preziose informazioni sul destino finale dei sistemi planetari, forse anche del nostro», conclude Lau.

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In Abruzzo, la finale dei campionati di astronomia




Locandina della Finale Nazionale dei Campionati di Astronomia, a Teramo

Tutto è pronto per la XXIII edizione della Finale Nazionale dei Campionati Italiani di Astronomia, che si terrà dal 6 all’8 maggio 2025 a Teramo, in Abruzzo. Dopo un lungo percorso di selezione che ha coinvolto quasi 10mila studenti e studentesse in tutta Italia, i novanta migliori talenti dell’astronomia si sfideranno nella risoluzione di problemi teorici e di casi pratici per conquistare il titolo nazionale. Promossa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, la competizione è organizzata dalla Società Astronomica Italiana (Sait) e dall’Istituto nazionale di astrofisica. Quest’anno il Liceo Scientifico Statale “Albert Einstein” di Teramo ospiterà le prove ufficiali, confermandosi centro nevralgico dell’evento.

La cerimonia di apertura si terrà martedì 6 maggio 2025 a Giulianova, alla presenza di autorità istituzionali e accademiche abruzzesi e nazionali. Moderatore d’eccezione sarà il giornalista e scrittore Angelo De Nicola. Durante l’evento, Marica Branchesi (ordinaria di Astrofisica al Gssi – Gran Sasso Science Institute), terrà una lectio magistralis dal titolo “Una nuova esplorazione dell’Universo attraverso le onde gravitazionali”, offrendo al pubblico un emozionante affaccio sull’universo più estremo.

Mercoledì 7 maggio, presso il Liceo Statale “A. Einstein” di Teramo, i finalisti e le finaliste si cimenteranno in una competizione di alto livello, confrontandosi con sfide complesse per le quali dovranno mettere in campo tutte le proprie abilità e competenze in astronomia, astrofisica e matematica applicata. Nello specifico, la finale consisterà in una prova teorica (risoluzione di problemi di astronomia, astrofisica, cosmologia e fisica moderna) e in una prova pratica (analisi di dati astronomici).

Giovedì 8 maggio si terrà la cerimonia di premiazione della XXIII edizione dei Campionati Italiani di Astronomia. Saranno premiati diciotto studenti: cinque per ciascuna delle categorie Junior 1, Junior 2 e Senior, e tre per la categoria Master. A tutti loro verrà conferita la Medaglia Margherita Hack per l’edizione 2025 e il loro nome sarà inserito nell’Albo Nazionale delle Eccellenze. Inoltre, agli otto studenti che si classificheranno immediatamente dopo i vincitori sarà assegnato un diploma di merito, in riconoscimento dei risultati di rilievo conseguiti durante la competizione.

Tra i campioni nazionali saranno selezionati i componenti della squadra italiana che parteciperà alle Olimpiadi Internazionali di Astronomia e Astrofisica (Ioaa), appuntamento prestigioso che riunisce i migliori giovani studenti del mondo: per la sezione senior è in programma a Mumbai (India) dall’11 al 21 agosto e per la sezione Junior a Piatra Neamt in Romania, il prossimo ottobre.

«Le finali dei Campionati di Astronomia rappresentano la punta dell’iceberg della grande mole di lavoro che la Sait, in collaborazione con l’Istituto nazionale di astrofisica, porta avanti per interessare all’astronomia gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado», afferma Patrizia Caraveo, presidente della Società Astronomica Italiana. «È uno sforzo corale della comunità astronomica italiana, reso possibile dal supporto del Ministero dell’Istruzione e del Merito – Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione. Il successo della competizione è cresciuto negli anni e testimonia l’interesse per una disciplina che, pur non essendo curriculare nel nostro ordinamento scolastico, per la sua valenza interdisciplinare va oltre il naturale legame con le leggi fondamentali della fisica. Le grandi rivoluzioni scientifiche hanno le radici nel cielo e i campionati di astronomia consentono di trasmettere ai ragazzi non solo il fascino delle stelle ma, anche, lo straordinario sviluppo della scienza».

La città di Teramo e la costa adriatica si preparano ad accogliere con entusiasmo i giovani protagonisti dei Campionati Italiani di Astronomia, trasformandosi per qualche giorno in un laboratorio diffuso di scienza, inclusione e divulgazione.

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Da Catania alle Marche e ritorno: il viaggio del Merz




Il telescopio rifrattore Merz in un’immagine d’archivio che mostra lo strumento, con la sua montatura, durante i test nella Sala delle Figure dell’Osservatorio astronomico di Padova. Crediti: Inaf

“Caro professore, in seguito agli intercorsi contatti, sono lieto d’informarla che i ricercatori di questo istituto hanno deciso di consegnare in prestito permanente all’Istituto Tecnico Nautico di Ancona la montatura del rifrattore con moto orario e canna in legno”. Così scriveva il 29 luglio 1971 il professor Giovanni Godoli, direttore dell’Osservatorio astrofisico di Catania. Oggi dopo oltre cinquant’anni di assenza, la storica montatura equatoriale del grande rifrattore Merz è in procinto di tornare nella sua sede originaria. Un ritorno tanto agognato che segna anche l’avvio di un progetto di restauro e valorizzazione di uno degli strumenti astronomici più significativi dell’Osservatorio catanese.

La storia di questo telescopio ha inizio nel 1878, quando la prestigiosa ditta Merz di Monaco di Baviera, all’epoca leader mondiale nel campo dell’ottica astronomica, realizzò il tubo e l’obiettivo da 34 cm per un nuovo telescopio destinato all’Osservatorio “Vincenzo Bellini”, posto sulle pendici del Monte Etna. La montatura fu invece realizzata da Giuseppe Cavignato, meccanico dell’Osservatorio astronomico di Padova, completata negli stessi anni con una precisione e una cura che testimoniano l’elevato livello dell’artigianato scientifico italiano dell’epoca. Per più di sessant’anni, questo strumento ha permesso agli astronomi catanesi di effettuare importanti osservazioni astronomiche – in particolare nel campo della fisica solare, studiando macchie, facole e protuberanze.

Il valore scientifico dello strumento fu ulteriormente accresciuto nel 1906, quando fu equipaggiato con uno spettroelioscopio, progettato da Annibale Riccò e George Ellery Hale, che rese possibile la realizzazione di fotografie sistematiche della fotosfera e della cromosfera solare per oltre trent’anni, contribuendo in modo significativo all’avanzamento della ricerca in astrofisica solare. Il telescopio restò operativo fino agli anni ’40 del Novecento, quando fu progressivamente dismesso.

Nel luglio del 1971, l’allora direttore dell’Osservatorio catanese, Giovanni Godoli, ne concesse la montatura in prestito permanente a Mario Veltri, prima docente e poi preside dell’Istituto Tecnico Nautico “A. Elia” di Ancona, nonché fondatore e figura centrale dell’Associazione marchigiana astrofili (Ama). In una lettera, Godoli scriveva: “Com’è a sua conoscenza, la montatura si trova presso le Officine Sarti di Bologna e può essere direttamente prelevata dall’Istituto Nautico di Ancona, mentre il moto orario e la canna verranno inoltrati a codesto Istituto a cura di questo Osservatorio”. Per oltre cinquant’anni, gli astrofili marchigiani si sono presi cura della montatura e l’hanno utilizzata per attività didattiche e divulgative.


Le operazioni di recupero della montatura dell’equatoriale Merz preso l’Osservatorio dell’Associazione marchigiana astrofili, Crediti: Ama

Oggi, grazie a una nuova collaborazione tra l’Inaf di Catania e l’Associazione marchigiana astrofili, questo prezioso pezzo di storia astronomica è finalmente rientrato a Catania. Inizialmente la montatura verrà stoccata nei locali dell’Osservatorio in attesa dei doverosi e importanti lavori di restauro dell’intero strumento già avviato sul tubo. Si tratta di un lavoro delicato, che porterà al recupero degli antichi ottoni, dei legni e dei meccanismi storici. Lo scopo è quello di preservare l’integrità storica dello strumento, rispettando i materiali e le tecniche originali, affinché possa tornare non solo visibile al pubblico, ma anche riconoscibile come testimone materiale della storia dell’astronomia e dell’astrofisica italiana.

Il ritorno della montatura rappresenta un importante recupero del patrimonio storico-scientifico dell’Istituto nazionale di astrofisica, che ha tra i suoi obiettivi statutari la tutela, la conservazione e la valorizzazione dell’intero patrimonio storico conservato negli osservatori italiani. Un patrimonio che comprende strumenti scientifici, libri, opere d’arte, fotografie e archivi che rappresenta una risorsa preziosa per lo sviluppo della ricerca in quanto non può esserci vero sviluppo scientifico e tecnologico se non si preserva la memoria storica. Questo progetto di valorizzazione e diffusione del sapere è prova ammirevole di come la cultura riesca a superare ogni barriera e ogni ostacolo. Proprio in tempi come questi ci viene affidato un compito fondamentale, quello di diffondere in tutto il mondo cultura e bellezza. Bellezza che ha l’aspetto di uno Stivale adagiato su un placido mare.



Il letto in cui giace una stella che muore



Come si muore nell’universo? Un’istantanea catturata dal James Webb Space Telescope ce lo racconta con dovizia di dettagli. Si tratta del ritratto più particolareggiato di Ngc 1514, nebulosa planetaria notata dall’astronomo William Herschel nel 1790 – proprio lui, quello a cui è stato dedicato l’omonimo telescopio spaziale, attento scrutatore del lontano infrarosso fino al 2013.


La nebulosa planetaria Ngc 1514 immortalata dallo strumento Miri del James Webb Space Telescope. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, M. Ressler (Nasa-Jpl), D. Jones (Iac)

L’immagine, di singolare bellezza e rivelatrice di sorprendenti strutture attorno a una stella morente, è diventata protagonista di una recente fotonotizia dell’Esa. L’ha scattata Webb, si diceva, e in particolare il suo strumento Miri, impareggiabile occhio nel medio infrarosso.

La stella in agonia è una nana bianca che palpita al centro della fotografia, caratterizzata dai tipici raggi che costellano i dati di Webb – in verità di stelle ce ne sarebbero due qui, anche se nell’immagine ci appaiono come una stella singola. Non afflitto in siderale solitudine, bensì assistito da una stella compagna, l’astro morente sta dunque esalando i suoi ultimi respiri. Respiri che, in una manciata di millenni – quattro, secondo gli scienziati – hanno prodotto le strutture immortalate da Webb.

Strutture che attorniano la stella morente e che sono costituite da piccoli grani di polvere, scaldati dalla luce caldissima della nana bianca, e che si manifestano riemettendo quella luce nel medio infrarosso, dove Miri l’ha catturata. Si pensa che la stella compagna abbia avuto un ruolo cruciale nel modellare queste singolari strutture dalla forma ad anello.

Secondo gli scienziati, i due astri, che hanno un periodo orbitale di soli nove anni, erano molto prossimi quando la stella in agonia ha espulso grandi quantità di materiale. Materiale che ha così risentito dell’interazione gravitazionale fra di essi, assumendo la conformazione oggi visibile, e che continuerà a trasformarsi per qualche altro migliaio di anni.

C’è anche tanto gas all’interno di questa fotografia. La stella morente, come si diceva, si è infatti progressivamente liberata dei suoi strati gassosi più esterni, riversandoli nello spazio circostante. La regione in rosa, nel cuore dell’immagine, la si deve all’emissione degli atomi di ossigeno. Tutt’altro che uniforme, ma caratterizzata da buchi e cavità scavate dal gas in rapida espansione.

Come spesso accade nelle immagini di Webb, si scorgono elementi che nulla hanno a che fare con la lenta agonia che si sta consumando in Ngc 1514, visibile nella costellazione del Toro, a 1500 anni luce dal nostro pianeta. Si notano infatti manciate di “palline” colorate che si affacciano di tanto in tanto fra le lingue di gas e polvere della nebulosa planetaria, galassie situate sullo sfondo e la cui luce ci raggiunge da distanze sconfinatamente più remote. La stella situata poco sotto il centro dell’immagine pure non c’entra nulla con lo spettacolo prodotto dalla nana bianca, ma stavolta è un astro che sta davanti alla nebulosa plenetaria, e dunque a una distanza più prossima alla Terra.

In un letto di gas e polvere giace dunque una stella che muore. Il ritratto di Ngc 1514 ci parla del morire, in una delle sue possibili forme, nell’universo. Morire ma anche risorgere. Il materiale disperso nel mezzo interstellare dalle stelle morenti funge da materia prima per produrre nuove generazioni di astri. Nell’universo nulla muore mai davvero.



Pasqua tra religione e astronomia




Nell’immagine il dipinto di Giotto di Bondone, Ingresso a Gerusalemme (1303), conservato nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Immagine di pubblico dominio

La Pasqua è un’importante festività religiosa che accomuna Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Per quest’ultimo la “festa del sacrificio” (Id al-adha) celebra il famoso episodio biblico del sacrificio di un agnello al posto di Isacco, il figlio che Abramo stava per sacrificare a Dio. Tuttavia, a parte il carattere sacrificale e di ringraziamento alla divinità, questa ricorrenza islamica non ha molto altro in comune con le altre due confessioni, per le quali la Pasqua ha probabilmente una valenza superiore.

L’origine della Pasqua cristiana prende le mosse da quella ebraica che, in origine legata all’equinozio primaverile e risalente a tempi molto antichi, divenne con Mosé una Pasqua di liberazione dalla schiavitù legata all’esodo degli israeliti dall’Egitto verso la Terra Promessa. Da questo evento prende anche il nome: Pesach significa “passare oltre” e fa riferimento a Dio che sarebbe “passato oltre” le case segnate con il sangue dell’agnello (qui torna il riferimento al sacrificio) risparmiandole dal massacro degli egiziani. La storicità di tale evento è ovviamente dibattuta ma, se fosse un fatto storico, l’Esodo biblico potrebbe essere avvenuto in un arco di tempo che va dal quattordicesimo all’ottavo secolo avanti Cristo, intervallo molto ampio ma, in ogni caso, precristiano.

Il cristianesimo ha poi riadattato i riti ebraici sulla figura di Gesù ereditando il nome Pesach e legandolo, forse con qualche errore di traduzione dall’ebraico al greco (Pascha), alla passione di Cristo. Fu San Paolo, già nel 54 dopo Cristo, a esortare i primi cristiani ad affrancarsi dall’attesa, che ancora oggi caratterizza la religione ebraica, per farne invece una Pasqua di resurrezione che celebrasse l’arrivo del Messia. Gesù stesso che si sacrifica per l’umanità rappresenta, una volta ancora, l’agnello.

In tutti i casi si tratta di un momento solenne di gioia molto attesa, preceduta da momenti di buio, di difficoltà, persino di morte in cui il richiamo all’equinozio e alla rinascita primaverile pare comunque evidente. Non a caso, quando vogliamo descrivere qualcuno davvero molto contento, diciamo che è felice come una Pasqua.

Ma come si calcola la Pasqua? Le tre religioni hanno tutte metodi diversi: per l’Islam avviene il decimo giorno del dodicesimo mese del calendario lunare musulmano, per l’ebraismo cade il quattordicesimo giorno dopo l’inizio dell’anno religioso, che corrisponde al novilunio dopo l’equinozio di primavera, mentre per i cristiani sono tre le condizioni da rispettare:

  1. la prima domenica
  2. dopo la prima luna piena
  3. dopo l’equinozio di primavera

Questi criteri vennero stabiliti nel concilio di Nicea, voluto dall’imperatore Costantino nel 325 dopo Cristo: consesso che fu di enorme importanza perché definì i dogmi fondamentali del cristianesimo che ancora oggi – credenti o non credenti – condizionano il nostro calendario e, in ultima analisi, il nostro vivere quotidiano.

Facciamo una prova pratica con il 2025: l’equinozio di primavera è il punto di partenza. La prima luna piena dopo l’equinozio è avvenuta il 13 aprile (la Domenica delle Palme dei cristiani). La prima domenica dopo il plenilunio è appunto il 20 aprile, giorno di Pasqua.

Questa triade di eventi può avvenire in varie combinazioni dando origine a pasque “basse” (a partire dal giorno dopo l’equinozio, 22 marzo, fino al 2 aprile), “medie” (dal 3 al 13 aprile) e “alte” (dal 14 al 25 aprile). In pratica la Pasqua può avvenire in un intervallo di 35 giorni in cui le date alle estremità sono piuttosto rare.

Ad esempio, dal 1583 – anno di adozione del calendario Gregoriano, attualmente in vigore nella maggior parte dei paesi del mondo – a oggi, le pasque cadute il 22 marzo sono state solo quattro (1598, 1693, 1761 e 1818) analogamente a quelle cadute il 25 aprile (1666, 1734, 1886, 1943). La prossima pasqua “altissima” è comunque relativamente vicina: sarà infatti nel 2038.

Dalla Pasqua, festa mobile per eccellenza in quanto dipendente dalla Luna, deriva una nutrita serie di altre feste mobili a essa collegate che vanno dalla Domenica di Settuagesima (che inaugura il Carnevale 64 giorni prima) al Cuore Immacolato di Maria (69 giorni dopo) passando per il Mercoledì delle ceneri, inizio della Quaresima (40 giorni prima) e la Pentecoste (50 giorni dopo). Insomma la Pasqua riesce a influenzare, a livello di liturgia cristiana, oltre quattro mesi dell’anno.

Quindi, nel caso del Cristianesimo, la Pasqua è da considerarsi una ricorrenza religiosa dalla solida base astronomica? Non proprio, infatti a prevalere è stato lo spirito pragmatico della nuova religione cristiana che, proprio a Nicea, optò per la cristallizzazione dell’equinozio primaverile sul giorno del 21 marzo, nonostante l’equinozio astronomico possa ricadere in un più ampio intervallo che va dal 19 al 21.

Qual è il motivo di queste variazioni? La ragione risiede nei ritardi accumulati per via della differenza tra l’anno civile, che è un intervallo di tempo convenzionale stabilito in 365 giorni da 24 ore medie, e l’anno solare (o tropico) che è frutto di osservazioni reali del passaggio del Sole al punto vernale (ovvero all’equinozio di primavera) e che dura un pò di più: 365 giorni 5 ore 48 minuti 47 secondi.


Immagine satellitare della Terra durante un equinozio. I confini di separazione tra luce ed ombra, chiamati “terminatori”, sono verticali e paralleli. Questo significa che il globo è illuminato equamente da nord a sud e quindi sia il giorno che la notte, ovunque, durano 12 ore. Andando verso l’estate, la posizione dell’asse terrestre rispetto al sole cambierà, portando l’emisfero nord ad “inchinarsi” verso il Sole ed avere dunque una maggiore illuminazione fino alla data del 21 giugno, solstizio d’estate. I terminatori assumeranno dunque un’inclinazione a V con il polo nord illumunato e quello sud al buio. Crediti: Eumetsat

L’eccedenza di quasi sei ore che l’anno solare accumula ogni anno rispetto all’anno civile viene corretta con l’inserimento di una giornata aggiuntiva a fine febbraio ogni quattro anni, il famoso anno bisestile. Difatti, le 24 ore aggiuntive, divise per quattro anni, fanno sei ore l’anno. Tuttavia, sei ore sono troppe rispetto alla realtà: aggiungono infatti 11 minuti e 13 secondi in più rispetto al reale ritorno del Sole al punto vernale. Questo pur breve lasso di tempo andava eliminato ogni tanto per far tornare i conti. L’escamotage trovato da papa Gregorio XIII fu quello di non considerare bisestili gli anni secolari non divisibili per 400 (ad esempio, 1700, 1800 e 1900 non furono bisestili).

Insomma, le differenze di data degli equinozi sono dovute proprio a queste circa sei ore di differenza, per cui ogni anno non bisestile l’equinozio reale cade con un ritardo di sei ore rispetto all’anno precedente e nei bisestili, al naturale ritardo di sei ore, ne vengono aggiunte (o sottratte, a seconda del punto di vista) 24, per cui si anticipa di 18 ore e di conseguenza i giorni possono essere diversi. Ad esempio, dal 2000 al 2100 avremo venti equinozi il 19 marzo, 78 il 20 marzo e solo due il 21 marzo, peraltro già avvenuti nel 2003 e nel 2007. Per ovviare a queste variazioni, a Nicea si decise, appunto, di stabilire l’equinozio il 21 marzo e avere dunque una Pasqua uguale in tutto il mondo.

Per approfondire:



Una doppietta di biofirme su K2-18b



Sono due composti organici volatili. Uno ha formula chimica C₂H₆S (CH₃–S–CH₃), l’altro C₂H₆S₂ (CH₃–S–S–CH₃). I chimici li chiamano tioeteri. Sulla Terra sono prodotti da diversi organismi viventi, come alcune specie batteriche e il fitoplancton marino, contribuendo al caratteristico odore della salsedine. Stiamo parlando del dimetil solfuro (Dms) e del dimetil disolfuro (Dmds).

Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, un team di ricercatori guidati dall’università di Cambridge ha ora individuato le impronte di queste molecole nell’atmosfera di un pianeta al di fuori del Sistema solare. I risultati della ricerca sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.


Illustrazione artistica che mostra un pianeta iceano (in primo piano) in orbita attorno alla sua stella madre (sullo sfondo). Crediti: A. Smith, N. Madhusudhan (Università di Cambridge)

Il pianeta in questione si chiama K2-18b. Scoperto nel 2015, è circa 9 volte più massiccio della Terra e 2,6 volte più grande. Si trova a 124 anni luce di distanza, nella costellazione del Leone, dove orbita nella zona abitabile della sua stella, la nana rossa K2-18.

Il pianeta ha già fatto parlare di sé nel 2023 (ce ne siamo occupati anche noi qui su Media Inaf): in quell’occasione, osservazioni condotte dallo stesso team di ricerca, utilizzando sempre il Jwst, avevano rilevato la presenza di metano e anidride carbonica nella sua atmosfera — si trattava delle prime molecole organiche scoperte in un esopianeta situato nella zona abitabile della propria stella. Le indagini hanno inoltre messo in luce deboli tracce di dimetil solfuro. Le nuove analisi condotte dai ricercatori confermano la firma di questo composto, e stimano addirittura che sia presente in copiose quantità. Non solo: rivelano anche un’altra molecola correlata, anch’essa abbondante: il dimetil disolfuro, appunto.

Gli scienziati hanno individuato la presenza delle due molecole analizzando gli spettri di luce del pianeta ottenuti con il metodo dei transiti, una tecnica che consente di determinare la composizione chimica delle atmosfere planetarie esaminando la luce della stella mentre il pianeta transita davanti al suo disco. Durante i transiti, una frazione della luce stellare attraversa l’atmosfera del pianeta prima di raggiungere gli strumenti di osservazione sulla Terra. In questo passaggio, alcune lunghezze d’onda vengono assorbite da specifiche molecole. Questo assorbimento lascia delle impronte caratteristiche nello spettro della luce, che gli astronomi possono analizzare per identificare i gas presenti.

La rilevazione del dimetil solfuro e del dimetil disolfuro nello spettro di trasmissione di K2-18b è stata fatta grazie allo strumento Miri di Jwst, l’unico strumento del telescopio in grado di “vedere” la luce alle lunghezze d’onda del medio infrarosso.


Grafico che mostra lo spettro di trasmissione dell’esopianeta K2-18 b, , ottenuto utilizzando lo spettrografo Miri del telescopio spaziale James Webb. L’asse verticale indica la frazione di luce stellare che durante il transito è assorbita dalle molecole presenti nell’atmosfera del pianeta. I dati osservativi sono rappresentati dai cerchi gialli. Le curve mostrano i modelli che meglio si adattano ai dati: la curva nera rappresenta la mediana, mentre quelle color ciano delineano l’intervallo di confidenza a 1 sigma. Le bande di assorbimento attribuite al dimetil solfuro e al dimetil disolfuro sono indicate da linee orizzontali e didascalie testuali. Sullo sfondo del grafico è visibile un’illustrazione artistica di un pianeta iceano in orbita attorno a una nana rossa. Crediti: . Smith, N. Madhusudhan (University of Cambridge)

Come accennato, le molecole sono presenti sul pianeta in quantità abbondanti. Le concentrazioni calcolate dai ricercatori sono di oltre dieci parti per milione in volume, migliaia di volte superiori rispetto a quelle presenti sulla Terra, dove generalmente sono inferiori a una parte per miliardo. Le abbondanti quantità di questi tioeteri, insieme alla presenza di metano e anidride carbonica, suggeriscono che K2-18b possa essere un candidato pianeta hycean– dalla contrazione delle parole inglesi hydrogen (idrogeno) e ocean (oceano): un ipotetico mondo abitabile caratterizzato da un oceano globale e un’atmosfera ricca di idrogeno, potenzialmente in grado di ospitare la vita.

«Studi teorici precedenti hanno previsto che alti livelli di gas a base di zolfo, come Dms e Dmds, fossero possibili nei mondi hycean» ricorda il primo autore dell’articolo, Nikku Madhusudhan dell’Università di Cambridge. «In linea con quanto previsto, ora li abbiamo osservati. Considerando tutto ciò che sappiamo su questo pianeta, l’ipotesi di un mondo hycean con un oceano brulicante di vita è quella che meglio si adatta ai dati in nostro possesso».

Sebbene la scoperta sia rilevante dal punto di vista astrobiologico, gli scienziati sono comunque cauti nel considerare la possibilità che siano state trovate tracce di vita su un altro mondo. I motivi di questa prudenza sono due. Il primo riguarda il fatto che a produrre questi composti potrebbero essere processi chimici non biologici. Il secondo ha a che fare con la statistica: il livello di significatività dei risultati di questo studio è di tre sigma, il che implica una probabilità dello 0,3 per cento che i dati siano frutto del caso. Ma gli scienziati lo sanno bene: affinché un risultato sia ritenuto scientificamente rilevante, è necessario raggiungere la soglia dei cinque sigma, corrispondente a una probabilità inferiore allo 0,00006% che i risultati siano dei falsi positivi.

«È fondamentale mantenere un sano scetticismo verso i nostri stessi risultati, perché solo attraverso test rigorosi e ripetuti potremo arrivare a un livello di fiducia sufficiente» sottolinea a questo proposito Madhusudhan. «È così che funziona il metodo scientifico».

Secondo i ricercatori, un’ulteriore campagna osservativa con il Jwst della durata compresa tra 16 e 24 ore potrebbe permettere di raggiungere la significatività statistica desiderata. Saranno inoltre fondamentali ulteriori studi, sia teorici che sperimentali, per verificare se i due composti possano essere prodotti in modo non biologico alle concentrazioni osservate.

La domanda “Siamo soli nell’universo?” rimane, dunque, ancora senza una risposta certa. Tuttavia, i telescopi di nuova generazione potrebbero far progredire significativamente la nostra comprensione, portandoci sempre più vicini a una possibile risposta definitiva.

«Tra qualche decennio, potremmo guardarci indietro e riconoscere in questo momento il punto in cui l’universo vivente è diventato davvero alla nostra portata» conclude Madhusudhan. «Potrebbe essere il punto di svolta, quello in cui la domanda fondamentale “siamo soli nell’universo?” diventa, finalmente, una domanda a cui siamo in grado di rispondere».

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Drago della Luce, la lontana sosia della Via Lattea



Le grandi galassie a spirale ben definite, come la Via Lattea, sono piuttosto comuni nell’universo vicino. Tuttavia, risultano difficili da individuare nell’universo primordiale, il che è coerente con le aspettative secondo cui i grandi dischi con bracci a spirale impiegherebbero molti miliardi di anni per formarsi. Tuttavia, l’astronoma Christina Williams del Nsf Noirlab ha scoperto una galassia a spirale sorprendentemente matura appena un miliardo di anni dopo il Big Bang. Si tratta della galassia a spirale più distante, e quindi antica, a oggi conosciuta nell’universo osservabile.


L’immagine di Zhúlóng, la galassia a spirale più distante scoperta fino a oggi. Presenta bracci a spirale sorprendentemente ben definiti, un rigonfiamento centrale con stelle antiche e un ampio disco in cui si formano nuove stelle, una struttura simile a quella della Via Lattea. Crediti: Noirlab/Nsf/Aura/Nasa/Csa/Esa/M. Xiao (Università di Ginevra)/G. Brammer (Istituto Niels Bohr)/D. de Martin & M. Zamani (Nsf Noirlab)

Questa galassia, chiamata Zhúlóng – che significa Drago della Luce nella mitologia cinese, una creatura associata alla luce e al tempo cosmico – è stata scoperta nell’ambito del progetto Panoramic Survey, condotto con il telescopio spaziale James Webb (Jwst) e co-diretto da Williams e Pascal Oesch dell’Università di Ginevra (Unige).

«Le survey su larga scala sono necessarie per scoprire galassie rare e massicce», afferma Williams. «Speravamo di scoprire galassie massicce e luminose nelle epoche più antiche dell’universo, per comprendere come si formano ed evolvono. Questo aiuta a interpretare le fasi successive della loro evoluzione, che saranno osservate con Lsst».

Zhúlóng presenta una struttura sorprendentemente matura, unica tra le galassie lontane, che di solito sono disordinate e irregolari. Assomiglia alle galassie che si trovano nell’universo vicino, con una massa e dimensioni simili a quelle della Via Lattea. La sua struttura mostra un rigonfiamento compatto al centro, con stelle più vecchie, circondato da un grande disco di stelle più giovani che si concentrano nei bracci a spirale.

È una scoperta sorprendente sotto diversi aspetti. Primo, dimostra che galassie mature, simili a quelle del nostro vicinato cosmico, possono svilupparsi molto prima di quanto si ritenesse possibile. Secondo, da tempo si ipotizza che i bracci a spirale nelle galassie impieghino molti miliardi di anni per formarsi, ma questa galassia dimostra che possono invece svilupparsi anche in tempi più brevi.

In realtà, galassie a spirale simili alla Via Lattea sono già state osservate anche in epoche molto antiche dell’universo. Una di queste è stata identificata da Jwst nel febbraio 2023, risalente a quando l’universo aveva appena 1,4 miliardi di anni. Anche questa galassia mostrava un disco ben formato e una struttura sorprendentemente ordinata per quell’epoca. Pochi mesi dopo, sempre Jwst ha scoperto un’altra antica galassia, gemella della Via Lattea 11.7 miliardi di anni fa. Prima ancora, nel 2020, Alma ha osservato una galassia molto distante, con un disco ben ordinato: un’altro sorprendente “precursore” delle galassie a spirale moderne.

La rarità di galassie come Zhúlóng suggerisce che le strutture a spirale potrebbero essere di breve durata in questa epoca dell’universo. È possibile che fusioni galattiche, o altri processi evolutivi più comuni nell’universo primordiale, distruggano i bracci a spirale. Pertanto, queste strutture potrebbero essere più stabili in epoche cosmiche successive, il che spiegherebbe perché sono più comuni nel nostro vicinato.

Il progetto Panoramic Survey è innovativo poiché è uno dei primi del Jwst a utilizzare la modalità pure parallel mode – una strategia osservativa in cui una seconda fotocamera raccoglie immagini aggiuntive mentre la fotocamera principale di Jwst è puntata altrove.

Le future osservazioni di Jwst e dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (Alma) aiuteranno a confermare le proprietà di Zhúlóng e a capire qualcosa di più sulla sua storia di formazione. Con il proseguire delle nuove survey extragalattiche su vasta scala, gli astronomi si aspettano di scoprire altre galassie simili, offrendo nuove intuizioni sui complessi processi che hanno modellato l’universo primordiale.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “PANORAMIC: Discovery of an ultra-massive grand-design spiral galaxy at z ∼2” di Mengyuan Xiao, Christina C. Williams, Pascal A. Oesch, David Elbaz, Miroslava Dessauges-Zavadsky, Rui Marques-Chaves, Longji Bing, Zhiyuan Ji, Andrea Weibel, Rachel Bezanson, Gabriel Brammer, Caitlin Casey, Aidan P. Cloonan, Emanuele Daddi, Pratika Dayal, Andreas L. Faisst, Marijn Franx, Karl Glazebrook, Anne Hutter, Jeyhan S. Kartaltepe, Ivo Labbe, Guilaine Lagache, Seunghwan Lim, Benjamin Magnelli, Felix Martinez, Michael V. Maseda, Themiya Nanayakkara, Daniel Schaerer and Katherine E. Whitaker


Lucy in the Sky with… 52246 Donaldjohanson



I modelli di formazione ed evoluzione planetaria suggeriscono che gli asteroidi troiani siano resti del materiale primordiale che, oltre quattro miliardi di anni fa, ha forgiato il Sistema solare. Studiare alcuni di questi corpi primitivi, situati tra le orbite di Marte e Giove, è l’obiettivo della missione Lucy della Nasa.


Una rappresentazione del Sistema solare che mostra la traiettoria della sonda Lucy durante l’incontro con l’asteroide troiano Donaldjohanson il 20 aprile 2025. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Asu

Così chiamata in onore della nostra antichissima antenata australopiteca, Lucy, appunto – nome ispirato dalla celebre canzone “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles – la sonda è partita per il suo viaggio il 16 ottobre del 2021.

Dopo un primo assist gravitazionale con la Terra nell’ottobre del 2022, il primo novembre 2023 il veicolo spaziale ha incontrato il suo primo “diamante”, risultato poi essere un contrarié, come direbbe un orefice: un sistema binario composto dall’asteroide Dinkinesh e dalla sua piccola luna Selam.

Effettuato un altro assist gravitazionale con la Terra nel 2024, la sonda si prepara ora all’incontro con il suo secondo obiettivo: il piccolo asteroide della fascia principale 52246 Donaldjohanson. Se il primo incontro ha rappresentato una preziosa opportunità per testare i sistemi della sonda, questo nuovo flyby sarà una vera e propria “prova generale” per i futuri incontri con gli altri asteroidi troiani che rappresentano l’obiettivo principale della missione.

L’asteroide 52246 Donaldjohanson prende il nome dal paleoantropologo che ha scoperto il fossile Lucy. Con un diametro di circa 4 chilometri, è il più piccolo tra gli obiettivi della missione. È un oggetto celeste particolarmente interessante: secondo gli scienziati, si sarebbe originato da una violenta collisione tra 163 Erigone, l’asteroide progenitore, e un altro corpo celeste; un evento avvenuto circa 150 milioni di anni fa, da cui sarebbe nata l’omonima famiglia di asteroidi Erigone.

L’appuntamento di Lucy con questo masso spaziale è fissato per il giorno di Pasqua, domenica 20 aprile, alle 19:51 ora italiana. Mentre molti di noi saranno stramazzati sul divano a digerire il pranzo, la sonda sorvolerà il corpo celeste a una velocità di crociera di 13,4 chilometri al secondo, arrivando a una distanza di circa 960 chilometri dalla sua superficie.

Il flyby sarà piuttosto complesso. Vediamone i punti salienti. Per seguire l’asteroide, circa trenta minuti prima del massimo avvicinamento la sonda dovrà riorientarsi, allontanando temporaneamente la sua antenna ad alto guadagno dalla Terra e interrompendo così le comunicazioni. In questa fase, grazie al suo sistema di tracciamento terminale, Lucy ruoterà autonomamente per mantenere l’asteroide nel proprio campo visivo, effettuando osservazioni con tutti e tre gli strumenti scientifici di cui dispone: l’imager ad alta risoluzione L’Lorri, l’imager a colori e spettrometro a infrarossi L’Ralph, e lo spettrometro a emissione termica L’Tes. L’inseguimento terminerà circa 40 secondi prima del raggiungimento della minima distanza dall’asteroide, una misura precauzionale per salvaguardare gli strumenti dall’eccessiva intensità della luce solare


Animazione che mostra l’asteroide Donaldjohanson (nel riquadro bianco) muoversi tra le stelle sullo sfondo. Le immagini con cui è stato realizzato questo contenuto sono state scattate il 20 e il 22 febbraio 2025, quando il veicolo si trovava una distanza di 70 milioni di chilometri dal corpo celeste, e pubblicate il 25 febbraio. Crediti: Nasa/Goddard/SwRI/Johns Hopkins Apl/Noir

«Se foste seduti sull’asteroide a osservare il veicolo spaziale che si avvicina, fissando il Sole in attesa che esso emerga dal suo bagliore, dovreste proteggere gli occhi», dice a questo proposito Michael Vincent, ricercatore al Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado (Usa), e responsabile delle operazioni di sorvolo. «Una volta che Lucy avrà superato l’asteroide, le posizioni si invertiranno, e dovremo quindi schermare i suoi strumenti. La sonda è progettata per osservare oggetti illuminati da una luce 25 volte più debole rispetto a quella che riceve la Terra: puntare le fotocamere direttamente verso il Sole potrebbe danneggiarle».

Una volta concluso il sorvolo, la sonda effettuerà una manovra di beccheggio, riorientando nuovamente i pannelli solari verso il Sole. Circa un’ora più tardi, Lucy avrà ristabilito le comunicazioni con la Terra e sarà dunque pronta per trasmettere i preziosi dati scientifici raccolti, un processo che richiederà diversi giorni.

«Ogni asteroide ha una storia diversa da raccontare», conclude Tom Statler, scienziato della Nasa e program scientist della missione. «Queste storie si intrecciano, delineando il racconto dell’origine del Sistema solare. Il fatto che ogni nuovo asteroide che visitiamo riesca a sorprenderci dimostra che stiamo solo agli inizi della comprensione di questa storia. Le osservazioni con i telescopi lasciano intendere che l’asteroide Donaldjohanson abbia molto da raccontare. Per questo, mi aspetto di restare ancora una volta sorpreso».

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube della Nasa:

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Come Tatooine, ma ortogonale



Negli ultimi anni sono stati scoperti diversi pianeti in orbita contemporaneamente intorno a due stelle, come il mondo immaginario di Star Wars, Tatooine. Questi pianeti occupano tipicamente orbite che si allineano approssimativamente con il piano in cui le loro stelle ospiti orbitano l’una attorno all’altra. Si erano già trovati indizi dell’esistenza di pianeti su orbite perpendicolari, o polari, intorno a coppie di stelle: in teoria, queste orbite sono stabili. Inoltre sono stati rivelati dischi di formazione planetaria su orbite polari intorno a coppie di stelle. Tuttavia, fino ad ora, mancavano prove chiare dell’esistenza di questi pianeti polari. Prove infine giunte grazie alla sorprendente scoperta di un pianeta su un’orbita a un angolo di novanta gradi intorno a una rara coppia di stelle peculiari, riportata oggi su Science Advances, realizzata con il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, l’Osservatorio europeo australe.


Rappresentazione artistica dell’insolita orbita dell’esopianeta 2M1510 (AB) b attorno alle sue stelle ospiti, una coppia di nane brune. Il pianeta appena scoperto segue un’orbita polare, perpendicolare al piano sul quale si muovonoo le due stelle. Crediti: Eso/L. Calçada

«Sono particolarmente entusiasta di essere coinvolto nella scoperta di prove credibili dell’esistenza di questa configurazione», dice Thomas Baycroft, dottorando all’Università di Birmingham, Regno Unito, che ha guidato lo studio pubblicato su Science Advances.

L’inedito esopianeta, chiamato 2M1510 (AB) b, orbita intorno a una coppia di giovani nane brune, oggetti più grandi dei pianeti giganti gassosi ma troppo piccoli per essere stelle vere e proprie. Le due nane brune producono eclissi reciproche se viste dalla Terra, cosa che le rende parte di quella che gli astronomi chiamano una binaria a eclisse. Un sistema di questo tipo è incredibilmente raro: è solo la seconda coppia di nane brune a eclisse conosciuta finora e contiene il primo esopianeta mai trovato su una traiettoria perpendicolare all’orbita delle due stelle ospiti.

«Un pianeta in orbita non solo intorno a una binaria, ma a una binaria di nane brune, e che per di più segue un’orbita polare è decisamente incredibile ed entusiasmante», dice il coautore Amaury Triaud, professore all’Università di Birmingham.


Questa immagine, ripresa in luce visibile, mostra 2M1510 AB, una coppia di nane brune che orbitano l’una intorno all’altra. Le due nane brune, A e B, sono viste come un’unica sorgente in questa immagine, ma sappiamo che sono due perché si eclissano periodicamente. Monitorando le loro orbite, gli astronomi hanno riscontrato perturbazioni che possono essere spiegate solo dalla forza gravitazionale di un esopianeta che circonda entrambe le nane brune in un’orbita perpendicolare. Il sistema contiene anche una terza nana bruna, 2M1510 C, che si trova però troppo lontana per essere responsabile di queste perturbazioni. Crediti: Desi Legacy Survey/D. Lang (Perimeter Institute)

L’equipe ha scoperto questo pianeta mentre perfezionava i parametri orbitali e fisici delle due nane brune, raccogliendo osservazioni con lo strumento Uves (Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph) installato sul Vlt dell’Eso all’Osservatorio del Paranal, in Cile. La coppia di nane brune, nota come 2M1510, è stata osservata per la prima volta nel 2018 da Triaud e altri all’interno del programma “Search for habitable Planets EClipsing ULtra-cOOl Stars” (Speculoos), un’altro strumento al Paranal.

Gli astronomi hanno osservato che il percorso orbitale delle due stelle in 2M1510 veniva modificato in modi insoliti e ciò li ha portati a dedurre l’esistenza di un esopianeta con un insolito angolo orbitale. «Abbiamo esaminato tutti i possibili scenari e l’unico coerente con i dati è che un pianeta si trovi su un’orbita polare intorno a questa binaria», spiega Baycroft.

«La scoperta è stata fortuita, nel senso che le nostre osservazioni non erano programmate per cercare un tale pianeta o configurazione orbitale. In quanto tale, è una grande sorpresa», conclude Triaud. «Nel complesso, penso che questo dimostri a noi astronomi, ma anche al grande pubblico, cosa è possibile trovare nell’affascinante universo in cui viviamo».

Fonte: comunicato stampa Eso

Per saperne di più:

Guarda il video (in inglese) sul canale YouTube dell’Eso:

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La cometa del 1° maggio



Una nuova cometa si appresta a solcare i cieli terrestri e, se tutto andrà come previsto, dovrebbe arrivare alla magnitudine +5 ossia diventare visibile a occhio nudo. Le comete però sono, per definizione, imprevedibili, quindi le previsioni vanno prese con le pinze. La cometa di cui stiamo parlando è la C/2025 F2 (Swan). Swan è l’acronimo del Solar Wind Anisotropies, un telescopio a bordo della sonda Solar and Heliospheric Observatory (Soho) della Nasa che riprende il cielo nell’ultravioletto, alla lunghezza d’onda della Lyman-α. Tuttavia la cometa è stata scoperta sulle immagini di Swan da un trio di amatori, Vladimir Bezugly, Michael Mattiazzo e Rob Matson che, in modo indipendente l’uno dall’altro, ne hanno segnalato la presenza fra il 29 e il 31 marzo 2025. Dopo le necessarie conferme da altri osservatori, la cometa ha ricevuto ufficialmente il nome ‘Swan’ dal Minor Planet Center. La Swan è una cometa che si muove su un’orbita eliocentrica estremamente eccentrica, con il perielio a 0,33 au (poco all’interno dell’orbita di Mercurio) e l’afelio a 33106 au, all’altezza della nube di Oort.


La cometa C/2025 F2 (swan), ripresa il 6 aprile 2025 dagli astrofotografi Michael Jäger e Gerald Rhemann. Ben visibile la chioma di colore verde e la coda di ioni di colore bluastro.

Il periodo orbitale stimato è di poco superiore ai due milioni di anni, come è normale che sia con un’orbita così eccentrica. L’orbita ha anche un’altra particolarità: è inclinata di 90° sul piano dell’eclittica e la Swan sta arrivando al perielio, che sarà raggiunto il 1° maggio, da sopra il piano dell’eclittica: con questa geometria sono favoriti gli osservatori dell’emisfero boreale prima del perielio, e quelli dell’emisfero australe dopo il perielio. Durante l’avvicinamento al Sole l’attività di sublimazione dalla superficie di una cometa aumenta e la Swan non fa eccezione, anzi il 5 aprile è stato osservato un outburst, ossia aumento temporaneo di luminosità della chioma, che l’ha portata alla magnitudine +8,3 indice di un aumento dell’emissione di gas e polveri nello spazio. La chioma della cometa si presenta con il caratteristico colore verde dovuto all’emissione delle bande di Swan della molecola biatomica del carbonio, segno che la chioma è più ricca di gas che di polveri. Al momento la cometa, che brilla di magnitudine +7,5, è visibile al mattino nella costellazione di Andromeda, bassa sull’orizzonte est a partire dalle 4 ora locale: un piccolo telescopio o un ottimo binocolo (fisso su treppiede), saranno necessari per vederla, a patto di avere l’orizzonte est sgombro da ostacoli e un cielo privo di inquinamento luminoso.


Il percorso in cielo della cometa Swan al tramonto alle 21 ora locale, fra il 27 aprile e il 16 maggio 2025. Notare come, nella mappa, la tenue coda della cometa sia sempre in direzione opposta al Sole (che è sotto la linea dell’orizzonte e non si vede). Crediti: A. Carbognani/Inaf

Nei prossimi giorni l’elongazione dal Sole diminuirà per l’avvicinarsi del perielio e la cometa, a partire dal 27 aprile, inizierà a essere visibile alla sera attorno alle 21 locali quando sarà a circa 10° sull’orizzonte ovest fra le costellazioni del Perseo e del Triangolo. La mappa che abbiamo incluso in questa news dovrebbe aiutarvi a scovare la cometa nel cielo serale: come riferimento si può prende la stella Aldebaran, la brillante alfa della costellazione del Toro. La cometa sarà entro più o meno 20-25 gradi di distanza angolare dalla stella e circa alla stessa altezza sull’orizzonte.

Il picco di luminosità (magnitudine +5), dovrebbe essere raggiunto il 1° maggio, in corrispondenza del perielio: la cometa sarà visibile di sera, sempre alle 21 locali, a 11° gradi di altezza sull’orizzonte ovest nella costellazione del Toro. Come si è capito, la Swan non sarà una cometa facile da osservare ma, se si verificassero degli outburst in concomitanza con il passaggio al perielio, la situazione potrebbe cambiare in meglio. Non perdetela di vista!



2024 Yr4 nel mirino del telescopio Gemini South



L’asteroide Near-Earth 2024 Yr4 è stato individuato per la prima volta il 27 dicembre 2024 dal progetto Atlas (Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System). In quel momento, stava effettuando un passaggio ravvicinato alla Terra, transitando a una distanza di appena 2,5 milioni di chilometri. L’incertezza iniziale riguardo alla sua traiettoria ha reso necessarie ulteriori indagini, spingendo gli astronomi a ottenere tempo di osservazione anche al Gemini South – una delle due sedi dell’Osservatorio internazionale Gemini, finanziato in parte dalla National Science Foundation (Nsf) degli Stati Uniti e gestito dal NoirLab – per effettuare osservazioni di follow-up usando il Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos) il 7 febbraio 2025.


Questa animazione mostra l’asteroide 2024 Yr4 mentre passa vicino alla Terra e si dirige verso un potenziale impatto con la Luna. La forma tridimensionale dell’asteroide è stata determinata grazie ai dati ottenuti il 7 febbraio 2025 con il telescopio Gemini South in Cile. Utilizzando il Gemini Multi-Object Spectrograph (Gmos), un team di astronomi ha acquisito immagini dell’asteroide attraverso quattro diversi filtri. Le osservazioni hanno permesso al team di determinarne la composizione, le caratteristiche orbitali e la forma tridimensionale. Crediti: NoirLab / Nsf / Aura / R. Proctor

Alla fine di gennaio 2025, un mese dopo la sua scoperta, la probabilità che 2024 Yr4 possa impattare con la Terra superava l’uno per cento, soglia prevista per le notifiche dalla Rete internazionale di allerta sugli asteroidi (Iawn), con una possibile collisione stimata per il 22 dicembre 2032. Questa potenziale minaccia ha attirato l’attenzione del pubblico e dei media a livello internazionale, e anche sulle pagine di Media Inaf ne abbiamo trattato estesamente, grazie soprattutto agli approfondimenti di Albino Carbognani. Alla fine di febbraio, grazie a ulteriori analisi, la probabilità di impatto con la Terra è scesa sotto l’uno per cento. Sebbene l’asteroide non colpirà la Terra durante questo avvicinamento, rimane una probabilità di alcuni punti percentuali che possa colpire la Luna.

Interessato a caratterizzare l’ormai celebre asteroide, il team di astronomi guidato da Bryce Bolin di Eureka Scientific ha utilizzato Gemini South per catturare immagini in più lunghezze d’onda. L’analisi dettagliata della curva di luce dell’asteroide (la curva che mostra come varia la luminosità nel tempo) ha permesso al team di determinarne la composizione, le caratteristiche orbitali e la forma tridimensionale.

Le informazioni raccolte attraverso le curve di luce indicano che il 2024 Yr4 è probabilmente un asteroide di tipo S, il che significa che ha una composizione ricca di silicati. Il modello di riflessione osservato suggerisce un diametro compreso tra i 30 e i 65 metri – in linea con la stima del James Webb Space Telescope pari a 60 ± 7 metri – rendendolo uno dei più grandi oggetti scoperti di recente che potrebbe colpire la Luna. Sebbene l’impatto resti improbabile, nel caso dovesse verificarsi offrirebbe un’opportunità senza precedenti per studiare la relazione tra la dimensione di un asteroide e quella del cratere d’impatto risultante.


Questa immagine composita dell’asteroide 2024 Yr4 è stata catturata con il telescopio Gemini South in Cile. Il 7 febbraio 2025, utilizzando lo spettrografo multi-oggetto Gemini (Gmos), un team di astronomi ha acquisito immagini dell’asteroide (il punto sfocato al centro dell’immagine) attraverso quattro diversi filtri. Attorno all’asteroide si vedono scie colorate di stelle, che illustrano il passare del tempo e il movimento del cielo notturno in un’immagine statica. Crediti: Osservatorio Internazionale Gemini / NoirLab / Nsf / Aura / M. Zamani

L’analisi ha anche rivelato che l’asteroide ha un periodo di rotazione rapido, pari a circa una rotazione ogni venti minuti, oltre a una forma insolita, simile a un disco da hockey. Sulla base delle caratteristiche orbitali, il team ha determinato che 2024 Yr4 molto probabilmente ha avuto origine nella fascia principale degli asteroidi, con un’alta probabilità di essere stato deviato verso l’attuale orbita vicino alla Terra a causa di interazioni gravitazionali con Giove. La sua rotazione in direzione retrograda suggerisce che potrebbe essere migrato verso l’interno a partire dalla regione centrale della fascia principale, contribuendo alla nostra comprensione di come si evolvono i piccoli asteroidi e come arrivino a incrociare l’orbita terrestre.

I risultati di questo studio dimostrano l’importanza del rapido follow-up con strutture terrestri come il Gemini South nell’ambito della difesa planetaria, permettendo agli astronomi di valutare e classificare velocemente i nuovi oggetti scoperti vicino alla Terra.

«Comprendere le proprietà e le origini degli asteroidi near-Earth si sta rivelando cruciale per valutare il rischio di collisioni tra il nostro pianeta e corpi celesti in orbite incrociate», conclude Martin Still, direttore del programma della Nsf per l’Osservatorio internazionale Gemini. «I telescopi Gemini e altri osservatori astronomici sono strumenti fondamentali per la difesa planetaria».

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L’impronta dei neutrini sui filamenti di Cas A



Le supernove sono tra gli eventi esplosivi più energetici dell’universo. Eppure, nonostante la loro immensa luminosità, convertono solo l’un per cento della loro energia in radiazione elettromagnetica. Il restante 99 per cento viene trasportato da un intenso flusso di neutrini, che può contenere fino a 1058 particelle. Sebbene i neutrini interagiscano molto debolmente con la materia, numerosi processi fondamentali che si verificano nei minuti successivi al collasso del nucleo, e prima che il fronte d’urto emerga dalla superficie stellare, sono proprio guidati da queste elusive particelle.


I pannelli a sinistra mostrano immagini Jwst di Cas A, con evidenziata la rete di filamenti all’interno del resto di supernova (Milisavljevic et al. 2024). Il pannello di destra mostra invece la distribuzione del materiale espulso ricco di ferro e ossigeno non ancora attraversato dall’onda d’urto, ottenuto dalle simulazioni. Nei pannelli di sinistra, il ferro (Fe) è rappresentato da una superficie tridimensionale rossa, che evidenzia le regioni in cui la densità al di sopra di una certa soglia. Gli ejecta ricchi di ossigeno (O) sono invece mostrati nei pannelli di destra attraverso una rappresentazione volumetrica in tonalità di blu, con un’intensità che varia in base alla densità del plasma (indicata dalla scala di colori in basso a destra). Le aree più dense appaiono più opache, facilitando l’individuazione delle strutture principali. Le immagini presentano due diverse prospettive: i pannelli superiori mostrano il resto di supernova come lo vedremmo dalla Terra, mentre quelli inferiori offrono una vista laterale, osservata da un punto di vista posto a ovest (lungo l’asse x positivo). Fonte S. Orlando et al. A&A, 2025

Dato che le supernove nell’universo locale sono eventi rari, il modo più efficace per indagare tali processi è studiare i resti di supernova e cercare di collegarne le proprietà osservate ai meccanismi fisici dell’esplosione. Il resto di supernova Cas A, situato a circa undicimila anni luce dalla Terra e prodotto da una supernova esplosa circa 350 anni fa, rappresenta un laboratorio naturale ideale per questo tipo di studi. Recentemente, Cas A è stato osservato dal James Webb Space Telescope (Jwst), che ha permesso di esplorare la struttura interna del resto di supernova con un dettaglio senza precedenti. I primi risultati di queste osservazioni sono già stati pubblicati su riviste scientifiche e diffusi tramite comunicati stampa.

Tra le strutture più sorprendenti rivelate da Jwst vi è una fitta rete di filamenti ricchi di ossigeno, risolti fino a una scala di 0.03 anni luce. Uno studio teorico, basato su simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali che seguono l’evoluzione dal collasso del nucleo stellare sino al resto di supernova con età di mille anni, guidato dall’astrofisico Salvatore Orlando dell’Inaf di Palermo, dimostra come questa struttura sia direttamente collegata ai processi avvenuti nella stella progenitrice subito dopo il collasso del nucleo. In particolare, l’energia trasferita dai neutrini prodotti durante il collasso del nucleo provoca la formazione di enormi bolle calde all’interno della stella. L’espansione di queste bolle deforma gli strati di materiale circostante, comprimendoli e assottigliandoli, soprattutto quelli ricchi di ossigeno, neon e magnesio.

Con il progredire dell’esplosione, la rete di filamenti prende forma come conseguenza di instabilità idrodinamiche che si sviluppano durante la propagazione dell’onda d’urto e dell’interazione tra questi strati compressi. Nelle fasi successive, quando l’onda d’urto inizia a propagarsi attraverso il mezzo circumstellare, l’energia rilasciata dal decadimento di elementi come nichel e cobalto in ferro contribuisce ad aumentare ulteriormente la pressione interna al resto di supernova, comprimendo il materiale sovrastante e rendendo i filamenti ancora più sottili e ben definiti.


Salvatore Orlando (Inaf Oa Palermo), primo autore dello studio in uscita su A&A. Crediti: Inaf Oa Palermo

«La nostra analisi rivela che la complessa rete di filamenti osservata in Cas A rappresenta un vero e proprio “reperto archeologico astronomico” (se così si può dire), capace di raccontarci i primissimi istanti dell’esplosione della stella progenitrice», spiega Orlando a Media Inaf. «Unendo le osservazioni ad altissima risoluzione angolare di Jwst a sofisticate simulazioni magnetoidrodinamiche tridimensionali con altissima risoluzione spaziale, siamo riusciti a stabilire un legame diretto tra le strutture filamentose osservate e i processi fondamentali che regolano l’evoluzione delle supernove».

«In particolare, i nostri modelli», continua Orlando, «dimostrano che le esplosioni guidate dai neutrini danno origine, in modo naturale, a reti complesse di filamenti di materiale, generate da processi stocastici subito dopo il collasso del nucleo stellare. Sorprendentemente, le strutture prodotte nelle simulazioni mostrano una forte somiglianza con quelle osservate in Cas A. Questa corrispondenza ci suggerisce che i filamenti sono veri e propri “fossili” dell’esplosione: conservano la memoria dei fenomeni fisici che hanno dominato le fasi iniziali seguenti al collasso del nucleo della stella, offrendo così una finestra unica e preziosa sui meccanismi che governano le supernove da collasso del nucleo».

Il modello teorico prevede anche l’evoluzione futura di queste strutture: i filamenti verranno progressivamente distrutti dall’interazione con le onde d’urto inverse che si propagano verso l’interno del resto di supernova, in un arco di circa 350 anni.

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Sarà una supernova di tipo Ia, tra 23 miliardi di anni



Gli astronomi dell’Università di Warwick hanno individuato un rarissimo sistema binario compatto e di grande massa, situato a soli 150 anni luce dalla Terra… nel nostro giardino cosmico, insomma. Le due stelle che lo compongono sono in rotta di collisione e, secondo le previsioni, daranno origine a una supernova di tipo Ia: un’esplosione stellare che potrebbe diventare fino a dieci volte più luminosa della Luna nel cielo notturno.


Rappresentazione artistica di una coppia di stelle destinate a scontrarsi. Crediti: University of Warwick/ Mark Garlick

Le supernove di tipo Ia rappresentano una particolare categoria di esplosioni cosmiche, fondamentali per l’astrofisica moderna. Sono infatti utilizzate come “candele standard” per calcolare con precisione le distanze cosmiche, tra la Terra e le galassie. Questo tipo di supernova si verifica quando una nana bianca accumula massa oltre il limite critico, cedendo infine alla propria gravità e innescando un’esplosione termonucleare.

Da tempo la teoria prevede che la maggior parte delle supernove di tipo Ia abbia origine da sistemi binari formati da due nane bianche. In questi scenari, la nana bianca più massiccia sottrae gradualmente materia alla compagna, accumulando massa fino a superare un limite critico. Questo processo può innescare un’esplosione termonucleare che coinvolge una o entrambe le stelle, generando la spettacolare supernova.

La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, non solo ha permesso di individuare per la prima volta un sistema di questo tipo, ma ha anche rivelato l’esistenza di una coppia compatta di nane bianche sorprendentemente vicina, proprio nei dintorni del Sistema solare, all’interno della Via Lattea.

«Da anni si ipotizzava l’esistenza di un sistema binario di nane bianche, locale e massiccio, quindi quando ho individuato per la prima volta questo sistema con una massa totale così elevata, praticamente sulla soglia della nostra galassia, sono stato subito entusiasta», afferma James Munday della Warwick, primo autore dello studio.

«Con un team internazionale di astronomi, quattro dei quali all’Università di Warwick, abbiamo immediatamente osservato questo sistema con alcuni dei più grandi telescopi ottici del mondo per determinare esattamente la sua compattezza», continua Munday. «Quando ho scoperto che le due stelle erano separate da appena 1/60 della distanza tra la Terra e il Sole, ho capito subito che avevamo trovato il primo sistema binario di nane bianche destinato, senza alcun dubbio, a generare una supernova di tipo Ia entro una scala temporale paragonabile all’età dell’universo. Finalmente, come comunità scientifica, possiamo rendere conto con certezza di una piccola ma significativa frazione — qualche centesimo — del tasso di supernove di tipo Ia nella Via Lattea».


Animazione di un sistema binario di nane bianche che genera una supernova Ia. Crediti: University of Warwick

Il nuovo sistema appena scoperto è il più massiccio del suo tipo mai confermato, con una massa combinata di 1,56 volte quella del Sole. Con una massa così elevata, comunque vada, le stelle sono destinate a esplodere. Tuttavia, l’esplosione non avverrà prima di 23 miliardi di anni e, nonostante la vicinanza al Sistema solare, questa supernova non metterà in pericolo il nostro pianeta.

Al momento, le due nane bianche orbitano tranquillamente l’una attorno all’altra, con un periodo orbitale superiore a 14 ore. Nel corso di miliardi di anni, l’emissione di onde gravitazionali le farà avvicinare progressivamente, fino a quando, poco prima dell’esplosione come supernova, si muoveranno così velocemente da completare un’intera orbita in appena 30-40 secondi.

«Si tratta di una scoperta molto significativa. Trovare un sistema di questo tipo alle porte della nostra galassia è un’indicazione del fatto che devono essere relativamente comuni, altrimenti avremmo dovuto guardare molto più lontano, cercando in un volume più ampio della nostra galassia, per incontrarli», commenta Ingrid Pelisoli, dell’Università di Warwick. «La scoperta di questo sistema non è però la fine della storia: la nostra indagine alla ricerca di progenitori di supernove di tipo Ia è ancora in corso e ci aspettiamo altre entusiasmanti scoperte in futuro. A poco a poco, ci stiamo avvicinando alla soluzione del mistero dell’origine delle esplosioni di tipo Ia».

Durante l’evento di supernova, la massa verrà trasferita da una nana bianca all’altra, dando origine a un’esplosione rara e complessa, nota come detonazione quadrupla. La superficie della nana bianca che sta guadagnando massa sarà la prima a esplodere nel punto in cui il materiale si accumula, innescando poi l’esplosione del suo nucleo. Il materiale espulso si propagherà in tutte le direzioni, andando a colpire la seconda nana bianca e provocando a sua volta una terza e una quarta detonazione.

Le esplosioni distruggeranno completamente l’intero sistema, sprigionando un’energia miliardi di miliardi di miliardi di volte quella della più potente bomba nucleare mai costruita.

Tra miliardi di anni, questa supernova apparirà nel cielo notturno come un punto di luce estremamente brillante. Offuscherà persino alcuni degli oggetti celesti più luminosi, risultando fino a dieci volte più luminosa della Luna e 200mila volte più brillante di Giove.

Ma, come canta Guccini, noi non ci saremo.

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L’universo alla lettera, da oggi su MediaInaf Tv



L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) lancia oggi una nuova serie di video divulgativi intitolata L’universo alla lettera. Ventisei brevi episodi, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ad altrettanti concetti astronomici tra i più gettonati nelle notizie di astronomia e scienza dello spazio diffuse giornalmente dalla stampa. Pubblicati con cadenza settimanale e della durata di circa due minuti ciascuno, questi contenuti andranno a formare un piccolo glossario cosmico, semplice da consultare e tutto da esplorare, di facile reperibilità su YouTube.


Simone Iovenitti in uno degli episodi dell’alfabeto cosmico. Crediti: Inaf

Si parte dalla A di anno luce, passando per la F di fast radio burst, la M di materia oscura e la S di supernova, fino alla Z di zona abitabile. Ogni video di questo “alfabeto cosmico” è pensato per essere semplice, accurato e coinvolgente, presentando l’oggetto celeste o il concetto astronomico per poi approfondire gradualmente con informazioni sui più recenti studi in materia, che spesso coinvolgono anche ricercatrici e ricercatori Inaf.

«Le notizie di astronomia sono molto popolari sul web, ma non sempre il formato breve della news permette a chi non ha già familiarità con questi temi di approfondire l’argomento e cogliere la rilevanza della notizia», dice Claudia Mignone, astrofisica e divulgatrice scientifica Inaf, ideatrice e autrice del progetto. «Questo “alfabeto cosmico” è una piccola cassetta degli attrezzi per potersi destreggiare con più agio tra i buchi neri, le pulsar, i quasar e gli astri di ogni sorta che tanto spesso popolano le pagine di riviste e quotidiani, sfruttando uno degli strumenti oggi più diffusi per cercare informazioni e approfondimenti online: il video».


Federica Duras in uno degli episodi dell’alfabeto cosmico. Crediti: Inaf

A presentare la serie, con la regia di Davide Coero Borga, sono due giovani astrofisici e divulgatori dell’Inaf, Federica Duras e Simone Iovenitti, in un set visivamente accattivante, sospeso tra lo spazio e il tempo, tra luci al neon e colori vivaci. L’appuntamento è ogni domenica mattina, da aprile a ottobre, sul canale YouTube di Media Inaf, il notiziario web dell’ente.

Guarda la playlist su MediaInaf Tv:

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Per saperne di più:

  • Sfoglia il glossario astronomico (in formato testuale) dell’Unione Astronomica Internazionale (Iau) sul sito web dell’Office of Astronomy for Education (disponibile anche in italiano)


Marte: un pianeta, due facce



Da oltre vent’anni, la sonda Mars Express dell’Esa esplora e fotografa i paesaggi di Marte, fornendo una mappatura della superficie del pianeta con una risoluzione senza precedenti. I dati raccolti hanno cambiato radicalmente la comprensione del nostro vicino planetario, rivelando una complessità geologica molto più articolata di quanto si pensasse in passato.


La regione di Acheron Fossae su Marte, vista dall’orbiter Mars Express dell’Esa. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

Ne è una conferma l’ultima immagine trasmessa dall’orbiter: un suggestivo scorcio che svela due volti distinti del pianeta: uno antico, disseminato di crateri e caratterizzato da un terreno inciso da solchi e scarpate; l’altro più giovane e dall’aspetto liscio, rimodellato nel tempo dall’intensa attività vulcanica e dominato da pianure e vallate levigate.


Mappa di Marte che mostra la regione di Acheron Fossae in un contesto più esteso. Sono indicati i vulcani Olympus Mons e Alba Mons, qui indicato come Alba Patera in riferimento alla “caldera” che si trova sulla sommità del vulcano. Crediti: Nasa/Mgs/Mola Science Team

Ottenuta dalla High Resolution Stereo Camera (Hrsc) di Mars Express il 28 ottobre del 2024, durante la sua 26287esima orbita, l’istantanea ritrae Acheron Fossae, un’enorme formazione geologica assimilabile alle zone di rift presenti sulla Terra.

Situata a nord-ovest del pianeta, questa regione si trova relativamente vicina a due imponenti vulcani, entrambi fuori dall’inquadratura dell’immagine: Olympus Mons e Alba Mons. Il primo si trova a circa 1200 chilometri a sud, il secondo a una distanza simile, ma in direzione nord-est. Sarebbero stati proprio questi vulcani a scolpire l’area quando Marte era vulcanicamente molto più attivo di quanto non sia oggi, creando la caratteristica dicotomia della superficie del Pianeta.

La porzione più frastagliata del paesaggio, piena di solchi simili a trincee, è un classico esempio di struttura a horst e graben. Si tratta di formazioni vecchie di quasi quattro miliardi di anni, prodotte da faglie tettoniche parallele. Quando queste faglie si sono aperte, la crosta tra le faglie è sprofondata, causando il cedimento di lunghi blocchi di terra, i graben, e lasciando in rilievo i costoni laterali, gli horst o pilastri tettonici.

In alto a destra nell’immagine, si distinguono tre picchi conici alti diversi chilometri, probabilmente di origine vulcanica. L’intersezione tra questi rilievi e i graben suggerisce che la crosta della regione abbia continuato a fratturarsi anche dopo la formazione dei coni, aumentando l’interesse geologico dell’area.


Topografia di Acheron Fossae in falsi colori per evidenziare l’altezza del terreno. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

La parte liscia dell’immagine, visibile in basso al centro, segna l’inizio di pianure più giovani che si estendono ben oltre Acheron Fossae. Un tempo ricoperte da mari o laghi, gli scienziati ritengono che queste aree siano state formate in seguito alla deposizione di enormi quantità di lava e sedimenti provenienti da Alba Mons.

In seguito, l’erosione provocata dall’acqua ha rimodellato il paesaggio, scavando valli e lasciando dietro di sé detriti, cumuli irregolari e mesa – superficie rocciose sopraelevate – di varie forme e dimensioni. I sedimenti hanno anche parzialmente ricoperto un antico cratere da impatto, visibile oggi come un semiarco al centro dell’immagine.


Vista prospettica della regione di Acheron Fossae ottnuta dalla High Resolution Stereo Camera a bordo della sonda Mars Express. Crediti: Esa/Dlr/Fu Berlin

Qui sopra, una visuale prospettica della regione di Acheron Fossae, ottenuta anch’essa dalla High resolution stereo camera di Mars Express, mette ulteriormente in risalto i dettagli della morfologia locale, evidenziando con maggiore dettaglio i graben e la zona di transizione tra queste strutture e le pianure levigate.



Quando un buco nero si risveglia



Un buco nero supermassiccio al centro della galassia Sdss1335+0728, situata a 300 milioni di anni luce dalla Terra, ha recentemente iniziato a rilasciare intensi e regolari lampi di raggi X, attirando l’attenzione degli astrofisici. Dopo decenni di inattività, questo colosso dalla smisurata forza di attrazione gravitazionale si è improvvisamente “risvegliato”, dando vita a un fenomeno raro che offre una straordinaria opportunità per studiare il comportamento di un buco nero in tempo reale. L’osservazione di questi lampi, resa possibili grazie al telescopio spaziale Xmm-Newton dell’Agenzia spaziale europea (Esa), ha portato a scoperte senza precedenti sugli eventi energetici generati dai buchi neri supermassicci. I risultati del lavoro condotto da un team di ricercatrici e ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature Astronomy.


Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste. Crediti: Esa

Sebbene i buchi neri supermassicci (con masse di milioni o addirittura miliardi pari a quella del nostro Sole) siano noti per nascondersi al centro della maggior parte delle galassie, la loro stessa natura li rende difficili da individuare e quindi studiare. In contrasto con l’idea popolare che i buchi neri “divorino” continuamente materia, questi mostri gravitazionali possono passare lunghi periodi in una fase dormiente. Questo è stato il caso del buco nero al centro di Sdss1335+0728, soprannominato Ansky, che per decenni è rimasto inattivo. Nel 2019 qualcosa cambia, quando gli astronomi osservano un’improvvisa “accensione” della galassia, seguita da straordinari lampi di raggi X. Questi segnali hanno portato alla conclusione che il buco nero fosse entrato in una nuova fase attiva, trasformando la galassia che lo ospita in un nucleo galattico attivo.

Nel febbraio 2024, il team di ricerca guidato da Lorena Hernández-García, ricercatrice presso l’Università di Valparaiso in Cile, ha iniziato a osservare i lampi regolari di raggi X provenienti da Ansky. «Questo raro evento ci permette di osservare il comportamento di un buco nero in tempo reale, utilizzando i telescopi spaziali Xmm-Newton e quelli della Nasa Nicer, Chandra e Swift», spiega. «Questo fenomeno è conosciuto come eruzione quasi periodica (in inglese quasiperiodic eruption) di breve durata ed è la prima volta che osserviamo un tale evento in un buco nero che sembra essersi risvegliato».

Tali fenomeni sono stati finora associati a piccole stelle od oggetti che interagiscono con la materia in orbita attorno al buco nero stesso, il cosiddetto disco di accrescimento, ma nel caso di Ansky, non ci sono prove che una stella sia stata distrutta. Gli astronomi ipotizzano che i lampi possano derivare da oggetti più piccoli che disturbano ripetutamente il materiale del disco di accrescimento, generando potenti shock che liberano enormi quantità di energia. Ognuna di queste eruzioni sta rilasciando cento volte più energia rispetto alle eruzioni quasi periodiche tipiche: sono infatti dieci volte più lunghe e luminose, e con una cadenza mai osservata prima di circa 4,5 giorni, che mette alla prova i modelli teorici esistenti sui buchi neri.

Osservare l’evoluzione di Ansky in tempo reale offre agli astronomi un’opportunità unica per approfondire la comprensione dei buchi neri e degli eventi energetici che li alimentano. Attualmente, esistono ancora più modelli che dati sulle eruzioni quasi periodiche, e saranno quindi necessarie ulteriori osservazioni per comprendere a pieno il fenomeno.

«Nonostante la notevole attività nella banda dei raggi X, Ansky risulta ancora sopito nella banda radio», commenta Gabriele Bruni, ricercatore dell’Inaf e co-autore del lavoro pubblicato. «Infatti, né le nostre osservazioni con il radiotelescopio australiano Atca, né le campagna osservativa radio che hanno osservato la sua regione di cielo negli ultimi anni hanno rilevato emissione dalla sua direzione, escludendo così la presenza di un getto relativistico prodotto durante la riattivazione del buco nero. Nei prossimi mesi continueremo a tenere d’occhio Ansky per scovare la possibile nascita di un getto come già verificato in altri casi di nuclei galattici attivi riattivati».

Le eruzioni ripetitive di Ansky potrebbero anche essere associate alle onde gravitazionali, obiettivo dalla futura missione Lisa dell’Esa. L’analisi di questi dati nei raggi X, insieme agli studi sulle onde gravitazionali, aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri massicci evolvono e interagiscono con l’ambiente circostante.

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Discovery of extreme Quasi-Periodic Eruptions in a newly accreting massive black hole”, di Lorena Hernández-García, Joheen Chakraborty, Paula Sánchez-Sáez, Claudio Ricci, Jorge Cuadra, Barry McKernan, K.E. Saavik Ford, Arne Rau, Riccardo Arcodia, Patricia Arevalo, Erin Kara, Zhu Liu, Andrea Merloni, Gabriele Bruni, Adelle Goodwin, Zaven Arzoumanian, Roberto Assef, Pietro Baldini, Amelia Bayo, Franz Bauer, Santiago Bernal, Murray Brightman, Gabriela Calistro Rivera, Keith Gendreau, David Homan, Mirko Krumpe, Paulina Lira, Mary Loli Martínez-Aldama, Mara Salvato e Belén Sotomayor


T Corona Borealis, esplosione imminente



Spettacolo pirotecnico stellare in arrivo: si prevede che la prossima esplosione (outburst in inglese) di T Coronae Borealis (T CrB) – una delle nove ricorrenti più luminose conosciute – avverrà entro la fine del 2025, circa 80 anni dopo l’ultima volta che ha acceso i nostri cieli. Un nuovo studio – frutto del lavoro di un gruppo internazionale di esperti coordinato dall’Arizona State University e a cui ha partecipato anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) – è stato presentato in un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal, che fornisce nuove e precise stime dei parametri stellari e orbitali.


Una stella gigante rossa e una nana bianca orbitano l’una attorno all’altra in questa rappresentazione artistica di una nova simile a T Coronae Borealis. Crediti: Nasa/Goddard Space Flight Center

Ricordiamo che una nova ricorrente è una nova (dal latino stella nova o un nuovo astro apparso all’improvviso nel cielo) che si ripete a intervalli più o meno regolari. T Coronae Borealis è in realtà un antico sistema binario interagente, situato a circa 3mila anni luce dalla Terra in direzione della costellazione della Corona Boreale. Le due stelle orbitano l’una attorno all’altra in un’orbita quasi circolare e con un periodo di circa 227,5 giorni. L’anziana coppia è costituita da una gigante rossa di tipo spettrale M4 III (una stella giunta quasi al termine del suo ciclo vitale) che trasferisce materia ricca di idrogeno su una massiccia nana bianca (ossia il residuo di una stella ormai estinta).

Ogni 80 anni – giorno più, giorno meno – il sistema T CrB si accende, come una luminosissima lampadina nel cielo. Cosa si osserva? Un’esplosione termonucleare degli strati superficiali della nana bianca, caratterizzata da un repentino aumento di luminosità del sistema (fino a 8 magnitudini) visibile per alcuni giorni anche a occhio nudo. «La prossima esplosione è imminente, attesa nel 2025», si legge nell’articolo scientifico che fa riferimento a uno studio pubblicato nel settembre 2023 da Bradley Schaefer, il quale aveva previsto inizialmente che la stella T CrB avrebbe potuto esplodere entro giugno 2025, con un margine di incertezza di 15 mesi.

«Non si può prevedere con precisione quando esploderà», afferma cauto Oscar Straniero, dirigente di ricerca presso l’Inaf d’Abruzzo e co-autore dello studio. «Secondo i dati storici, l’ultima esplosione è avvenuta nel 1946. Sulla base di queste informazioni si è stimato poi che l’evento di nova sarebbe accaduto nella finestra 2024-2026. Siamo quindi nel mezzo. Perché non possiamo essere più precisi? Il periodo orbitale e il periodo di ricorrenza della nova sono due cose diverse, e quest’ultimo dipende dal tasso di accrescimento e dalla massa della nana bianca. Entrambi questi parametri variano nel tempo e solo recentemente sono state misurate con sufficiente precisione».


La posizione della stella T CrB nella mappa dell’American Association of Variable Star Observers. Credit: Aavso

Il gruppo di ricerca guidato da Kenneth H. Hinkle ha analizzato una serie di spettri della gigante rossa raccolti tra il 2022 e il 2024 presso il Fairborn Observatory, nel sud-est dell’Arizona (Stati Uniti), utilizzando il telescopio automatico da 2 metri della Tennessee State University e uno spettrografo di tipo Echelle a fibre ottiche. Gli spettri sono stati poi combinati con dati già presenti in letteratura.

«Le peculiarità sono due», sottolinea Straniero. «Il periodo di ricorrenza durante il quale la massa della nana bianca aumenta, sta per scadere, per cui a breve ci aspettiamo una nuova esplosione. E in secondo luogo, la nana bianca ha una massa molto vicina al limite massimo (il cosiddetto limite di Chandrasekhar che equivale a circa 1,44 masse solari, ndr) superato il quale la stella collassa. Il risultato di questo collasso sarebbe ancora più violento, una supernova termonucleare che incenerirebbe l’intera nana bianca».

Queste drammatiche esplosioni sono conosciute come supernovae di tipo Ia. I progenitori di tali supernove non sono mai stati identificati, nonostante gli innumerevoli studi teorici e le campagne osservative dedicate a tale scopo. «Sarebbe la prima volta che si osserva un progenitore di queste supernove, che rivestono un ruolo fondamentale nella moderna cosmologia, visto che esse sono utilizzate come indicatori di distanza di galassie lontane», continua Straniero. «Queste supernovae di tipo Ia sono tra i maggiori produttori di ferro nell’universo. Circa due terzi del ferro nel Sistema solare, e quindi anche di quello che è finito per esempio nel nostro sangue, proviene da tali esplosioni. Sono inoltre candele standard molto brillanti, utilizzate in cosmologia per misurare le distanze di galassie lontane. Proprio studiando le supernove lontane si è visto che l’espansione dell’universo era più lenta nel passato (fino a 6 o 7 miliardi di anni fa). Questa accelerazione dell’espansione cosmica viene comunemente attribuita all’esistenza di un campo primordiale che si oppone alla forza attrattiva dovuta alla gravità. L’energia di questo campo è nota come energia oscura».

Utilizzando i dati di Gaia nel catalogo Early Data Release 3, il gruppo di ricerca ha infatti stimato con grande precisione la massa della gigante rossa (0,69 masse solari) ma soprattutto la massa della nana bianca, che risulta essere molto alta: 1,37 volte quella del Sole (quindi molto vicina al limite di Chandrasekhar). «Proprio grazie a queste misure così precise», continua Straniero, «è stato possibile ricostruire la storia passata di questo sistema binario e ipotizzarne la sua futura evoluzione e destino finale. In particolare, io mi sono occupato di calcolare una serie di modelli evolutivi di possibili sistemi binari progenitori cercando quello o quelli che meglio riproducono lo stato attuale».


Situata a 3mila anni luce di distanza, T Coronae Borealis contiene due stelle che orbitano l’una intorno all’altra: una gigante rossa prossima alla fine della sua vita e una nana bianca. L’intensa gravità della nana bianca attira parte del gas che fuoriesce dalla gigante rossa, formando una nube appiattita di gas attorno alla nana — un disco di accrescimento. Il gas nel disco si muove gradualmente verso l’interno, fino a fluire sulla nana bianca situata al centro. Crediti: NASA’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab

T Coronae Borealis ha dato spettacolo in cielo già due volte negli ultimi due secoli. La prima esplosione documentata risale al 12 maggio 1866, quando la stella è passata rapidamente da una magnitudine di 9,5 a 2,3, diventando visibile a occhio nudo per nove giorni. In quell’occasione, raggiunse una luminosità circa 230mila volte superiore a quella del Sole. La seconda esplosione risale invece al 9 febbraio 1946: l’astronomo Armin Joseph Deutsch (Osservatorio Yerkes) segnalò un picco leggermente meno brillante rispetto a quello del 1866, con una magnitudine apparente corrispondente a circa 180mila volte la luminosità solare. Precedenti esplosioni risalgono al 1787 e addirittura al 1217, anche se la documentazione è meno precisa.

Di recente, diversi gruppi di astronomi hanno cercato di stimare il periodo più probabile in cui potrebbe verificarsi la prossima esplosione termonucleare di T CrB. Inizialmente, le ipotesi si concentravano su una finestra compresa tra aprile e settembre 2024; successivamente, l’astronomo Jean Schneider dell’Osservatorio di Parigi ha proposto due possibili date nel 2025: il 27 marzo (andata a vuoto) o il 10 novembre. «Temo però che la finestra febbraio/novembre si riferisca al periodo di osservabilità della corona boreale durante l’anno. Dall’emisfero Nord è visibile a Est a partire da febbraio e per tutta la primavera, bella alta nel cielo in estate, mentre cala a occidente in autunno», conclude Straniero.

A ogni modo, visto che al momento dell’ultimo outburst le tecniche di osservazione erano limitate all’ottico e piuttosto “rudimentali”, come si legge nell’articolo, la prossima esplosione offrirà la prima opportunità di misurarne le caratteristiche fisiche. Quindi, occhi all’insù e ben puntati sulla piccola costellazione della Corona Boreale. Riconoscerla è facile: la sua forma a semicerchio somiglia effettivamente a quella di un diadema.

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Titano, una luna in fermento?




Immagine composita che mostra una vista a infrarossi di Titano acquisita dalla sonda spaziale Cassini della Nasa durante il sorvolo della luna il 13 novembre 2015. Crediti: Nasa

Titano – la più grande delle 274 lune di Saturno – ha da sempre affascinato gli scienziati. La scoperta al suo interno di un oceano d’acqua salata come il Mar Morto ha spinto gli scienziati a ipotizzare che il corpo possa sostenere la presenza di forme di vita. Un team internazionale di ricercatori guidati dall’Università dell’Arizona, negli Usa, ha ora tentato di verificare questa ipotesi.

Attraverso l’analisi dei fattori fisico-chimici che influenzano l’abitabilità del suo oceano, l’esame delle vie metaboliche potenzialmente in grado di sostenere la crescita e la riproduzione di sistemi biologici, e l’uso della modellazione bioenergetica, i ricercatori hanno elaborato uno scenario realistico che ipotizza come potrebbe essere la vita sulla luna e in quali quantità, in termini di biomassa, potrebbe essere presente.

I risultati della ricerca, pubblicati questa settimana su The Planetary Science Journal, indicano che l’oceano di Titano presenta condizioni favorevoli al mantenimento di popolazioni microbiche. In particolare, le simulazioni suggeriscono che la fermentazione — uno dei più semplici processi metabolici conosciuti — potrebbe fornire sia l’energia che il carbonio necessari alla crescita di microorganismi. I modelli, inoltre, indicano che a sostenere questa crescita potrebbe essere la fermentazione della glicina, il più semplice tra tutti gli amminoacidi conosciuti.

La glicina in questione è presente sulla superficie della luna, dove è giunta in seguito a eventi di impatto. Studi precedenti hanno dimostrato che gli oggetti celesti che colpiscono la superficie di Titano possono generare “pozze di fusione” di acqua liquida. Tramite interazioni acqua-ghiaccio, le molecola potrebbe essere trasportata nel sottosuolo fino a raggiungere l’oceano sotterraneo, dove potrebbe essere quindi utilizzata come fonte di energia.

«Sappiamo che la glicina era relativamente abbondante nei materiali primordiali del Sistema solare», spiega Antonin Affholder, ricercatore all’Università dell’Arizona e primo autore dello studio. «Quando osserviamo gli asteroidi, le comete e le nubi di polveri e gas da cui si formano stelle e pianeti, troviamo glicina o i suoi precursori praticamente ovunque».

L’immagine in basso illustra uno schema riassuntivo delle ipotesi avanzate dai ricercatori. Secondo il modello proposto, le condizioni iniziali di abitabilità per l’attecchimento della vita potrebbero essere state determinate dalla dissoluzione di materia organica proveniente dal nucleo. L’eventuale sopravvivenza e crescita della biomassa microbica potrebbe dipendere dall’apporto, in seguito a eventi di impatto, di materiale organico dalla superficie di Titano, reso possibile dalle interazioni tra acqua e ghiaccio.


Schema della struttura interna di Titano che riassume le ipotesi formulate in questo studio dai ricercatori (cliccare per ingrandire). Crediti: Antonin Affholder et al., Psj, 2025

Tuttavia, il rilascio di glicina nell’oceano da parte di queste pozze – stimato in un intervallo che va da 7.5 chilogrammi a 7.5 tonnellate all’anno – appare piuttosto limitato, influenzando la dimensione della potenziale biosfera.

Sulla base delle stime effettuate, la popolazione microbica che potrebbe essere sostenuta in queste condizioni varierebbe da centomila miliardi a cento milioni di miliardi di cellule, equivalenti a meno di una cellula per chilogrammo d’acqua in tutto l’oceano.

«Il nostro studio dimostra che questa riserva di glicina potrebbe essere sufficiente a sostenere soltanto una piccolissima popolazione microbica, con una biomassa complessiva pari a pochi chilogrammi», dice a questo proposito Affholder. «Nel vastissimo oceano di Titano, una biosfera tanto ridotta implicherebbe una densità media inferiore a una cellula per litro d’acqua».

La fermentazione della glicina rappresenta un approccio promettente per indagare la potenziale abitabilità dell’oceano di Titano, concludono i ricercatori. Per valutare con maggiore precisione tale potenziale, sarà essenziale approfondire la conoscenza delle condizioni geochimiche interne della luna e studiare più a fondo la biologia e il metabolismo dei microbi psicrofili e barofili, capaci di vivere in ambienti estremi come quelli presenti su Titano.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Planetary Science Journal l’articolo “The Viability of Glycine Fermentation in Titan’s Subsurface Ocean” di Antonin Affholder, Peter M. Higgins, Charles S. Cockell, Catherine Neish, Krista M. Soderlund, Michael J. Malaska, Kendra K. Farnsworth, Rosaly M. C. Lopes, Conor A. Nixon, Mohit Melwani Daswani, Kelly E. Miller e Christophe Sotin



Vent’anni di Urano con gli occhi di Hubble




Immagine di Urano presa dalla sonda Voyager 2 nel 1986. Crediti: Nasa

Venti anni di osservazioni messe in atto da un team di ricercatori tramite il telescopio spaziale Hubble hanno permesso di ricavare preziose informazioni sulla composizione atmosferica e le dinamiche di Urano, un pianeta unico nel suo genere. La “lunga vita” di Hubble e la sua nitida risoluzione si sono rivelate essenziali per gli studi effettuati.

Storicamente, la prima istantanea ravvicinata di Urano – la potete vedere qui a fianco – si deve alla sonda Voyager 2 e risale al 1986. Il corpo celeste appariva come una sfera da biliardo di colore blu-verde. Un lavoro più accurato e prolungato nel tempo è stato realizzato dal telescopio Hubble, che ha osservato i cambiamenti stagionali del pianeta quattro volte in un periodo di venti anni: nel 2002, 2012, 2015 e 2022. Il team di scienziati responsabile dello studio, guidato da Erich Karkoschka della University of Arizona e da Larry Sromovsky e Pat Fry della University of Wisconsin, si è servito soprattutto di uno strumento di Hubble: Stis, lo Space Telescope Imaging Spectrograph. Gli astronomi puntano a comprendere in dettaglio il funzionamento dell’atmosfera del pianeta e come risponde alle variazioni della luce solare.

L’atmosfera di Urano è composta in larga parte da idrogeno ed elio, con minori quantità di metano, acqua e ammoniaca. Il colore ciano caratteristico del corpo celeste è dovuto al metano (CH4), in grado di assorbire le lunghezze d’onda rosse della radiazione solare. Gli studiosi hanno scoperto che la distribuzione di CH4 non è uniforme, dato che è presente in scarse quantità nei pressi dei poli, ed è rimasta costante nell’arco dei due decenni. Diverso è il discorso della foschia, aumentata in maniera massiccia nella regione polare settentrionale. Considerando che Urano compie un’orbita completa attorno al Sole in poco più di 84 anni terrestri, i ricercatori hanno avuto a disposizione solo i dati relativi a una lunga primavera. Nonostante tale vincolo, sono stati elaborati modelli di circolazione atmosferica molto complessi, i quali mostrano, per la distribuzione di metano, un downwelling nelle zone polari e un upwelling nelle restanti regioni.


Cambiamenti nell’atmosfera di Urano, come osservati dal telescopio spaziale Hubble nel 2002, 2012, 2015 e 2022. Crediti: Nasa, Esa, Erich Karkoschka (Lpl)

Nelle immagini soprastanti si distinguono quattro colonne, che riportano le variazioni atmosferiche del pianeta col passare degli anni. Attualmente Urano si dirige verso il solstizio estivo settentrionale, che si verificherà nel 2030. Dalle illustrazioni è chiaro come la regione del polo sud (qui nella porzione più a sinistra dei cerchi) vada pian pano ad oscurarsi, mentre le aree nei pressi del polo nord (a destra) si illuminano sempre più con l’avvicinarsi del solstizio.

Per quanto riguarda le righe, la prima in alto mostra il colore di Urano come visto dall’occhio umano, cioè nel visibile. Nella seconda riga è presente un’immagine in falsi colori, ottenuta tramite osservazioni nella banda ottica e nel vicino infrarosso. I colori sono relativi alle quantità di metano e aerosol (particelle sospese nell’atmosfera). Le zone blu sono ricche di metano, il quale va a diminuire nelle aree verdi, per poi scomparire del tutto in quelle rosse. Queste ultime si trovano sul bordo, in corrispondenza della stratosfera del pianeta.

Le ultime due righe forniscono informazioni sulla latitudine di metano e aerosol, ricavata da un insieme di lunghezze d’onda che vanno dal visibile al vicino infrarosso. In particolare, le aree chiare nella terza riga sono correlate a condizioni nuvolose, mentre le regioni scure si riferiscono a un ambiente più limpido. Nella quarta riga, invece, viene evidenziata la localizzazione della maggior parte del metano, presente nelle aree scure. La struttura atmosferica di Urano non è andata incontro a rilevanti trasformazioni in corrispondenza delle medie e basse latitudini. L’ interesse degli studiosi si è concentrato principalmente sulle regioni polari, caratterizzate da evidenti mutamenti nel tempo. Gli aerosol hanno subito un ingente incremento negli ultimi due decenni nei pressi del polo nord, prova del fatto che la radiazione solare è in grado di alterare la foschia presente nell’atmosfera del pianeta.

Lo studio fondato su osservazioni a lungo termine potrebbe fornire importanti indicazioni non solo sul “gigante di ghiaccio”, ma anche su esopianeti aventi composizione e caratteristiche chimico-fisiche simili.



Così nascono gli ammassi nucleari stellari



Pubblicato oggi su Nature, un nuovo studio scientifico riporta la prima osservazione diretta di ammassi stellari in fase di fusione nella regione nucleare di cinque galassie nane. Questa scoperta conferma la plausibilità – a lungo dibattuta tra gli esperti – di tale modalità di formazione per i nuclei delle galassie di piccole dimensioni (ossia composte da un numero di stelle variabile da poche migliaia ad alcuni miliardi). Il gruppo di ricercatrici e ricercatori è stato guidato dall’Università di Oulu (Finlandia) e ha visto la partecipazione anche dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf).


Esempio di due galassie nane dai campioni della survey Matlas che mostrano le prove della fusione tra ammassi stellari. Crediti: Nasa, Esa, Mélina Poulain e Stsci

Rispetto alla nostra galassia sono piccoli puntini nel cielo notturno, ma le galassie nane sono il tipo di galassia più abbondante nell’universo. Con un numero di stelle circa cento volte inferiore rispetto alla Via Lattea (o anche meno), le galassie nane rappresentano i mattoni fondamentali delle galassie più massicce. Comprendere la loro formazione è quindi essenziale per studiare l’evoluzione delle galassie.

«Riportiamo la scoperta fortuita di cinque galassie nane», spiega Rebecca Habas, assegnista di ricerca Inaf e tra le autrici dell’articolo su Nature, «che sembrano essere nel processo di formazione di un ammasso stellare nucleare (nuclear star cluster in inglese). Cosa sono? Si tratta di gruppi di stelle gravitazionalmente legate, situati al centro (o molto vicino al centro) di molte galassie, inclusa la nostra Via Lattea. Questi ammassi contengono milioni, fino a centinaia di milioni di stelle, e rappresentano i sistemi stellari più densi conosciuti nell’universo».

Il mistero irrisolto è però la comprensione di come si formino, quando e perché a volte non si formino affatto. «In che modo la loro presenza (o assenza) influenza l’evoluzione delle galassie ospiti? Per questo motivo, gli ammassi stellari nucleari sono oggetti di grande interesse scientifico», aggiunge Habas, esperta di galassie diffuse, fluttuazioni della brillantezza superficiale e misure di distanza stellari.

Una scoperta casuale, quindi, perché il team – parte della collaborazione internazionale Matlas (Mass Assembly of early-Type GaLAxies with their fine Structures) – era impegnato in osservazioni di galassie nane con il telescopio spaziale Hubble quando ha notato alcune galassie con un ammasso stellare nucleare dall’aspetto insolito. In alcune di esse si osservavano un paio di ammassi stellari vicini tra loro, mentre in altre era presente una struttura simile a un debole flusso di luce collegato all’ammasso stellare nucleare.

«Siamo rimasti sorpresi dai flussi di luce visibili vicino al centro delle galassie, poiché non era mai stato osservato nulla di simile in passato», commenta Mélina Poulain, prima autrice dell’articolo e ricercatrice presso l’università finlandese.


Simulazione della fusione di ammassi stellari. Crediti: Rory Smith

«Abbiamo identificato diverse galassie con strutture insolite al loro centro. Per esempio», aggiunge Habas, «alcuni sistemi sembrano avere più ammassi stellari nucleari o ammassi globulari multipli vicino al centro (le loro proprietà sono parzialmente sovrapposte, rendendo difficile distinguerli con certezza), e altre invece mostrano deboli scie di luce che sembrano provenire da questi oggetti. Abbiamo combinato le nostre osservazioni con simulazioni di fusioni di ammassi globulari, che suggeriscono che queste strutture corrispondono esattamente a ciò che ci si aspetterebbe di vedere durante, o poco dopo, la fusione di due ammassi globulari. Pertanto, riteniamo di aver identificato le prime immagini della formazione di un ammasso stellare nucleare tramite la fusione di ammassi globulari».

Le simulazioni indicano che fusioni di ammassi globulari come questa avvengono su scale temporali relativamente brevi (qualche milione di anni, che è effettivamente poco per i processi astronomici), rendendo molto improbabile catturare immagini di questo evento in corso. Tuttavia, è possibile compensare questa rarità con un campione statistico più ampio. «Abbiamo osservato qualche decina di galassie con Hubble, un campione piccolo, ma queste galassie sono state selezionate da un catalogo iniziale di 2210 galassie nane, permettendoci di individuare gli oggetti più interessanti», dice la giovane ricercatrice. Il campione originale di galassie era stato identificato utilizzando immagini ottiche profonde del telescopio Canada-France-Hawaii (Cfht).

«Ci aspettiamo», conclude Habas, «che le future indagini del cielo, come quelle pianificate dal telescopio spaziale Euclid e dall’Osservatorio Vera C. Rubin, identificheranno ancora più esempi di ammassi stellari nucleari in via di formazione».

Guarda la simulazione sul canale YouTube della Universidad Técnica Federico Santa María:

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Aloni di materia oscura completamente oscuri



Le galassie, perlopiù, sono fatte in gran parte di materia oscura e in parte più ridotta di materia ordinaria. A volte capita d’imbattersi in rari casi di galassie senza materia oscura, almeno apparentemente: circostanza eccezionale, benché riprodotta anche attraverso simulazioni. Gli astrofisici ritengono infatti che ogni galassia si formi al centro di un alone di materia oscura – una regione di materia gravitazionalmente legata che si estende ben oltre i confini visibili della galassia stessa. In particolare, le stelle si formano quando la gravità all’interno degli aloni di materia oscura attrae il gas necessario.


Da sinistra a destra, galassie di massa solare crescente. All’estrema sinistra si trova una galassia nana ultra-debole con una massa dell’alone compresa tra 10 e 100 milioni di masse solari, dunque nel range “quasi oscura”. All’estrema destra si trova una galassia ellittica (M87), con una massa dell’alone di circa 10mila miliardi di masse solari. Crediti: Nasa/Esa; Eso; Eso/Vmc; Kpno/NoirLab/Nsf/Aura; Stsci/Aura;Nasa/Esa

Quanto al caso opposto all’eccezione di cui parlavamo prima, ovvero aloni di materia oscura senza galassie? Quali condizioni dovrebbero presentarsi affinché all’interno di un alone di materia oscura le stelle non riescano a formarsi? Al di sotto di quale massa? Lo ha ora calcolato un astrofisico computazionale dell’Università della California a San Diego, Ethan Nadler, primo e unico autore di uno studio – pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters – condotto avvalendosi di previsioni analitiche derivanti dalla teoria della formazione galattica e da simulazioni cosmologiche.

«Storicamente, la nostra comprensione della materia oscura è stata legata al suo comportamento nelle galassie. Scoprire l’esistenza di aloni completamente oscuri», dice Nadler, «aprirebbe una nuova finestra per lo studio dell’universo».

Assumendo un processo innescato dal raffreddamento del gas di idrogeno atomico, in precedenza era stato stimato che la soglia minima per dare il via alla formazione stellare fosse compresa tra cento milioni e un miliardo di masse solari. Assumendo invece che il raffreddamento coinvolga anche idrogeno molecolare, calcola Nadler, ecco che la soglia critica si abbassa a dieci milioni di masse solari. Considerando l’abbondanza di galassie satelliti della Via Lattea, questi risultati implicano che almeno alcune delle galassie nane ultra-deboli conosciute si siano formate, appunto, tramite raffreddamento molecolare, sottolinea l’astronomo.

Quanto agli aloni formati completamente di materia oscura, le osservazioni in corso, dallo spazio, con il James Webb Space Telescope e quelle in arrivo, da terra, con l’entrata in funzione dell’Osservatorio Rubin dovrebbero poter confermare, a breve, se effettivamente esistono.

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Hubble svela una “fabbrica di stelle”



Un angolo affascinante e remoto dell’universo, quello che siamo in grado di osservare grazie alla nuova immagine dell’ammasso stellare Ngc 346 prodotta dal telescopio spaziale Hubble. Una vera e propria nursery stellare composta da oltre 2500 stelle neonate, molte delle quali sono decine di volte più massicce del Sole. L’ammasso si trova nella Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea, situata a circa 210mila anni luce da noi, nella costellazione del Tucano. A differenza della nostra galassia, la Piccola Nube di Magellano è meno ricca di elementi più pesanti dell’elio, quelli gli astronomi definiscono “metalli”. Questa carenza di metalli rende le condizioni all’interno della Piccola Nube di Magellano simili a quelle che esistevano nell’universo primordiale, quando le prime galassie stavano appena iniziando a formarsi.


L’ammasso stellare si staglia in una nebulosa dai toni blu e rosa, con le stelle blu che brillano intensamente. Le nubi di polvere e gas si intrecciano attorno a loro, modellate dalla potente radiazione stellare. Sullo sfondo, stelle arancioni emergono tra le nubi, completando un quadro straordinario di creazione stellare. Crediti: Esa/Hubble & Nasa, A. Nota, P. Massey, E. Sabbi, C. Murray, M. Zamani (Esa/Hubble)

Sebbene siano già state pubblicate in precedenza diverse immagini di Ngc 346, questa nuova osservazione combina, per la prima volta, i dati provenienti dalle lunghezze d’onda infrarosse, ottiche e ultraviolette, offrendo una visione incredibilmente dettagliata di questa vivace “fabbrica” di stelle.

Le stelle più massicce che vediamo nell’immagine,brillano di un intenso blu, mentre la nebulosa rosa che le avvolge, insieme alle nubi scure e serpentiformi, segna i resti del loro luogo di nascita. Come veri e propri “scultori cosmici”, le stelle calde e massicce di Ngc 346 emettono radiazioni intense e producono violenti venti stellari che interagiscono con il gas circostante, causando la dispersione della nebulosa e dando vita a una vasta bolla di gas in espansione.

La nebulosa, conosciuta come N66, è una delle regioni H II più brillanti della Piccola Nube di Magellano. Le regioni H II sono aree di gas ionizzato, illuminate dalla luce ultravioletta emessa da stelle giovani e calde, come quelle presenti in Ncg 346, che hanno solo pochi milioni di anni. La brillantezza della nebulosa è un chiaro segno della giovane età dell’ammasso stellare. Una regione H II, infatti, emette luce solo grazie alle stelle giovani e calde dell’ammasso, che la inondano di radiazione ultravioletta.




Astronauti su Marte? Impresa azzardata




Paolo Ferri, “Volare oltre il cielo. I segreti dell’esplorazione spaziale”, Raffaello Cortina Editore, 2025, 280 pagine, 23 euro

Dopo che, nel suo discorso inaugurale, il presidente Trump ha detto di voler piantare la bandiera americana su Marte, sono in molti a chiedersi quanto realistica sia questa affermazione. Mentre è certamente vero che Elon Musk abbia intenzione di inviare a Marte in tempi relativamente brevi uno dei suoi Starship per una missione esplorativa senza equipaggio al fine di mettere alla prova la capacità di atterraggio e di decollo della navetta. Per un viaggio con equipaggio, necessario per piantare la bandiera, le difficoltà da affrontare e da risolvere sono ancora molte.

Per avere un’idea della complessità dei problemi posti da un viaggio a Marte con astronauti, consiglio la lettura del libro di Paolo Ferri intitolato Volare oltre il cielo, dall’eloquente sottotitolo I segreti dell’esplorazione spaziale. Segreti che sono state le sfide che Paolo Ferri ha affrontato nella sua lunga carriera all’Agenzia spaziale europea. Il libro descrive e spiega passo passo i vari stadi di una missione spaziale, dalla costruzione del veicolo che dovrà operare nello spazio, al lancio, al controllo e alla gestione in orbita circumterrestre, per poi passare alle traiettorie interplanetarie e alle problematiche legate alla sopravvivenza degli essere umani nello spazio. Proprio a questo capitolo bisogna fare riferimento per capire quanto sia azzardata (e probabilmente irrealistica) la promessa del presidente Trump. Intendiamoci, sappiamo benissimo come si manda una sonda su Marte. La Nasa ha realizzato ammartaggi di grande successo facendo atterrare rover grandi come Suv che esplorano la superficie di Marte, analizzano l’atmosfera, perforano le rocce e raccolgono campioni, ma tutti i viaggi sono stati di sola andata, nessuna missione ha effettuato il decollo dalla superficie di Marte e il rientro a Terra. Proprio perché siamo già andati su Marte, sappiamo perfettamente quale deve essere la tempistica di una missione di questo tipo. Occorre partire in una finestra di lancio calcolata per sfruttare l’avvicinamento periodico di Terra e Marte per minimizzare la strada da fare. Anche nelle migliori condizioni astronomiche, però, con la propulsione che è oggi disponibile il trasferimento da un pianeta all’altro non dura mai meno di sette mesi. Ed è proprio la lunghezza del viaggio a porre i problemi più grandi perché, oltre a dover disporre di astronavi spaziose che permettano agli astronauti di vivere in modo confortevole, magari coltivando almeno una parte del loro cibo in serre, e facendo continua attività fisica per evitare che la lunga permanenza in assenza di gravità faccia diminuire troppa la loro massa muscolare, occorre sviluppare un modo per proteggere gli essere umani da una presenza subdola ma pericolosissima: le particelle della radiazione cosmica. Si tratta di particelle di alta energia che pervadono lo spazio provenendo da distanti acceleratori cosmici ma anche dal Sole nei momenti di maggiore attività della nostra stella. Noi ci siamo evoluti sul pianeta Terra al riparo da questa radiazione che viene deviata dal campo magnetico e assorbita dall’atmosfera, ma gli astronauti nei viaggi interplanetari non hanno altra protezione che la loro capsula, le cui parete non possono essere troppo spesse perché renderebbero proibitivi i costi dei lanci. Durante il viaggio a Marte gli astronauti accumulerebbero una dose troppo alta di radiazione, che è nota per essere estremamente cancerogena.

Inoltre, una volta arrivati a Marte e piantata la bandiera, gli astronauti non possono ripartire subito. Da un lato, la meccanica celeste non perdona e occorre aspettare una nuova finestra di allineamento, dall’altra bisogna darsi da fare per trovare il modo di riempire i serbati della navicella che li dovrà fare decollare da Marte, perché le stesse limitazioni di peso che impediscono di avere pareti troppo spesse fanno sì che sia impossibile caricare a terra il carburante per il ritorno che, in ogni caso, dovrà durare non meno di sette mesi.

Un’avventura lunga, dalla logistica difficile, ma soprattutto veramente pericolosa per la salute degli astronauti. Per limitare i rischi occorrerebbe accorciare i tempi di transito, sviluppando propulsori nucleari che sono sempre nell’agenda della Nasa, anche se non sono ancora stati realizzati. L’idea ha almeno mezzo secolo ed evoca il genio di Wernher von Braun che, una volta terminata con successo la missione Apollo 11, si presentò al Congresso per chiedere finanziamenti per il prossimo passo: l’esplorazione umana di Marte. Era l’agosto 1969, e von Braun, dopo avere ricevuto la (meritatissima) standing ovation del Congresso, descrisse il suo piano per portare gli astronauti americani su Marte. Era perfettamente conscio che c’erano ancora molti problemi da risolvere, specialmente per migliorare la propulsione, ma era sicuro che fosse possibile arrivare entro una decina di anni. Nelle sue previsioni l’ammartaggio sarebbe avvenuto nel 1981. Dopo tutto, in appena otto anni la Nasa era passata dal primo volo di un essere umano alla passeggiata sulla Luna. Von Braun aveva fatto una stima realistica dei costi e disse che, con l’equivalente di una guerra “minore”, una delle tante che vedevano coinvolti i militari americani, lui avrebbe portato a termine la missione a Marte. Forse non aveva ben chiari i problemi della radiazione cosmica o forse pensava che gli astronauti avevano liberamente deciso di intraprendere una carriera molto pericolosa. Il Congresso non approvò la missione a Marte. Chissà cosa succederà adesso.



Rossa e morta, questa galassia s’è subito spenta



Per lungo tempo, gli scienziati hanno ritenuto che nell’universo primordiale esistessero solo galassie con un’intensa formazione stellare. Tuttavia, il telescopio spaziale James Webb (Jwst) ha smentito questa convinzione. Un team internazionale di astronomi, guidato dall’Università di Ginevra (Unige), ha recentemente scoperto una galassia eccezionale che sfida i modelli teorici sull’evoluzione cosmica. Analizzando centinaia di spettri raccolti da Webb, i ricercatori hanno individuato una galassia che aveva già smesso di formare stelle in un’epoca in cui la maggior parte delle galassie era ancora in rapida crescita. Lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal.


Tre spettri ripresi da NirSpec sovrapposti a un’immagine ripresa dal NirCam, due strumenti a bordo del James Webb Space Telescope. La galassia record è mostrata al centro. Nell’immagine appare in rosso e il suo spettro diminuisce verso sinistra, a lunghezze d’onda corte. Per confronto, gli spettri in alto e in basso, in blu e viola, mostrano galassie tipiche in formazione stellare in un momento simile della storia cosmica. Crediti: Nasa/Csa/Esa, A. Weibel, P. A. Oesch (Università di Ginevra), team Rubies: A. de Graaff (Mpia Heidelberg), G. Brammer (Istituto Niels Bohr), Archivio Dawn Jwst

Nell’universo primordiale, una galassia tipica accresce gas dal mezzo intergalattico circostante e lo trasforma in stelle. Questo processo ne aumenta la massa, portando a un’accrezione di gas ancora più efficiente e accelerando la formazione stellare. Tuttavia, le galassie non crescono all’infinito: a un certo punto, subiscono un fenomeno noto come quenching, che ne arresta la crescita. Le cause del quenching possono essere molteplici: l’esaurimento del gas disponibile per la formazione stellare, il feedback di buchi neri supermassicci, venti stellari e supernove, interazioni con altre galassie e stripping del gas a causa dell’interazione con il mezzo intergalattico denso.

Nell’universo locale, circa la metà delle galassie osservate ha ormai smesso di formare stelle, spegnendosi e cessando di crescere. Gli astronomi le definiscono galassie quiescenti, spente o “rosse e morte”. Queste galassie appaiono rosse perché non ospitano più stelle blu giovani e luminose, ma solo stelle più vecchie, piccole e tendenti al rosso, appunto.

Una percentuale particolarmente elevata di galassie quiescenti si trova tra le più massicce, che spesso presentano una morfologia ellittica. La loro formazione richiede solitamente tempi lunghi, poiché devono accumulare un numero significativo di stelle prima che la formazione stellare si arresti del tutto. Tuttavia, il meccanismo esatto che provoca il quenching nelle galassie resta ancora un mistero irrisolto. «Trovare i primi esempi di galassie massicce quiescenti (Mqg, dall’inglese massive quiescent galaxies) nell’universo primordiale è fondamentale perché getta luce sui loro possibili meccanismi di formazione», dice Pascal Oesch, professore associato presso il Dipartimento di astronomia della Facoltà di scienze di Unige e coautore dell’articolo. La caccia a questi sistemi è da anni uno dei principali obiettivi degli astronomi.

Grazie ai progressi tecnologici, in particolare alla spettroscopia nel vicino infrarosso, è stata confermata la presenza di galassie massicce quiescenti in epoche cosmiche sempre più remote. La loro abbondanza è stata difficile da conciliare con i modelli teorici di formazione delle galassie, che prevedono che tali sistemi richiedano più tempo per formarsi. Con Jwst, questa tensione è stata spinta fino a un redshift di 5 (1,2 miliardi di anni dopo il Big Bang), dove negli ultimi anni sono stati confermati diversi Mqg. Il nuovo studio rivela che queste galassie si sono formate ancora prima e più rapidamente di quanto si pensasse.

Il programma Rubies – acronimo di Red Unknowns: Bright Infrared Extragalactic Survey, uno dei più grandi programmi di ricerca extragalattica a guida europea che utilizza lo strumento NirSpec di Jwst – ha ottenuto osservazioni spettroscopiche di diverse migliaia di galassie, tra cui centinaia di sorgenti appena scoperte dai primi dati di imaging di Jwst. Tra questi nuovi spettri, gli scienziati hanno identificato la più distante galassia massiccia quiescente trovata finora, con un redshift spettroscopico di 7,29 – appena circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang. Lo spettro rivela una popolazione stellare sorprendentemente vecchia in un universo così giovane. Una modellizzazione dettagliata dello spettro e dei dati di imaging mostra che la galassia ha formato una massa stellare di oltre dieci miliardi di masse solari nei primi 600 milioni di anni dopo il Big Bang, prima di cessare rapidamente la formazione stellare, confermando così la sua natura quiescente.


Andrea Weibel, student PhD al Dipartimento di Astronomia, Facoltà di Scienze, Unige. Crediti: Weibel, Andrea

«La scoperta di questa galassia, denominata Rubies-Uds-Qg-z7, implica che le galassie massicce quiescenti nei primi miliardi di anni dell’universo sono oltre cento volte più abbondanti di quanto previsto da qualsiasi modello fino a oggi», dice Andrea Weibel, dottorando presso il Dipartimento di astronomia della Facoltà di scienze di Unige e primo autore dell’articolo.

Questo, a sua volta, suggerisce che alcuni fattori chiave nei modelli teorici – come gli effetti dei venti stellari e la potenza dei flussi in uscita alimentati dalla formazione stellare e dai buchi neri massicci – potrebbero necessitare di una revisione: le galassie si sono spente molto prima di quanto questi modelli sono in grado di prevedere.

Infine, le dimensioni straordinariamente ridotte di questa galassia – appena 650 anni luce – indicano un’alta densità di massa stellare, paragonabile alle più elevate densità centrali osservate nelle galassie quiescenti a redshift leggermente inferiori (z ~2-5). È probabile che queste galassie si evolvano nei nuclei delle ellittiche più antiche e massicce dell’universo locale.

«La scoperta di Rubies-Uds-Qg-z7 fornisce la prima forte evidenza che i centri di alcune galassie ellittiche massicce vicine potrebbero essere già presenti fin dalle prime centinaia di milioni di anni dell’universo», conclude Anna de Graaff, principal investigator del programma Rubies, del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg e seconda autrice dello studio.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astrophysical Journal l’articolo RUBIES Reveals a Massive Quiescent Galaxy at z = 7.3” di Andrea Weibel, Anna de Graaff, David J. Setton, Tim B. Miller, Pascal A. Oesch, Gabriel Brammer, Claudia D. P. Lagos, Katherine E. Whitaker, Christina C. Williams, Josephine F.W. Baggen, Rachel Bezanson, Leindert A. Boogaard, Nikko J. Cleri, Jenny E. Greene, Michaela Hirschmann, Raphael E. Hviding, Adarsh Kuruvanthodi, Ivo Labbé, Joel Leja, Michael V. Maseda, Jorryt Matthee, Ian McConachie, Rohan P. Naidu, Guido Roberts-Borsani, Daniel Schaerer, Katherine A. Suess, Francesco Valentino, Pieter van Dokkum e Bingjie Wang


I connotati di Aguas Zarcas



,La sera del 23 aprile del 2019, il cielo a nord della Repubblica di Costa Rica è stato illuminato per qualche istante dal un lampo improvviso. Il fenomeno luminoso, immortalato da diverse telecamere, si è presto rivelato essere una meteora, la scia luminosa causata da un meteoroide entrato in contatto con l’atmosfera terrestre. Pochi istanti dopo, infatti, al bagliore è seguita la caduta al suolo di numerosi frammenti di roccia, il più grosso dei quali, rinvenuto all’interno di una casa, pesava oltre un chilogrammo.


Il frammento di 146 grammi del meteorite di Agus Zarcas utilizzato in questo studio. Crediti: Arizona State University / Seti Institute

I frammenti in questione, il cui peso complessivo si aggira intorno ai 30 chilogrammi, sono quelli della meteorite di Aguas Zarcas: dopo la meteorite di Murchison, la più massiccia condrite carbonacea ad aver raggiunto la Terra. Così chiamata dal nome della città costaricana in cui è caduta, Aguas Zarcas, appunto, la meteorite è stata ampiamente caratterizzata dal punto di vista chimico. Grazie alla grande quantità di frammenti disponibili, è stata utilizzata in diversi esperimenti di impatto e studi petrologici. Poco si sa, tuttavia, circa la traiettoria, la curva di luce e l’orbita del meteoroide che l’ha originata. Un team di ricercatori guidati dal Seti Institute di Mountain View, in California, ha ora colmato questa lacuna.

Per riuscire ad ottenere le informazioni necessarie, i ricercatori hanno passato al setaccio i numerosi filmati che hanno immortalato il bolide, da quelli ripresi dalle telecamere di sicurezza di diverse istituzioni locali a quelli girati dalle dashcam installate sulle automobili dei cittadini che hanno assistito al raro fenomeno. I video originali sono stati esaminati minuziosamente, fotogramma per fotogramma, contrassegnando in ciascuno la posizione del frammento principale. Una volta identificato, i ricercatori hanno determinato la posizione dell’orizzonte e delle direzioni cardinali (nord, sud, est, ovest) per avere un adeguato riferimento geografico. Successivamente, utilizzando il software Stellarium, hanno determinato l’azimut (l’angolo orizzontale rispetto al nord) e l’elevazione (l’altezza angolare sopra l’orizzonte) di queste posizioni nel campo visivo di ciascuna ripresa. Due stelle riconoscibili in un video – Sirio e Betelgeuse – hanno consentito una calibrazione assoluta della posizione e dell’orientamento dell’orizzonte. Infine, utilizzando metodi di triangolazione e di allineamento astrometrico, hanno derivato la posizione del meteorite in ogni istante e ricostruito la traiettoria. Inoltre, analizzando la variazione della posizione nel tempo nei vari fotogrammi, hanno ricavato la velocità iniziale, quindi hanno stimato la massa e la densità del frammento.

Lo studio della roccia non si è fermato qui. Misurando l’intensità della luce nei vari fotogrammi video e sottraendola con il segnale di fondo, i ricercatori ne hanno determinato anche la curva di luce, che è stata poi allineata con i dati di luminosità ottenuti dal Geostationary Lightning Mapper (Glm), un satellite che ha osservato il flare luminoso prodotto dal bolide.


Immagine che mostra la posizione delle telecamere che hanno catturato il bolide rispetto alla sua traiettoria. Crediti: Peter Jenniskens et al., Meteoritics & Planetary Science, 2025

L’ultima analisi condotta ha riguardato la stima della concentrazione di alcuni radionuclidi in un frammento conservato all’Arizona State University. L’indagine, eseguita per determinare le dimensioni originali e l’età del meteoroide, è stata effettuata mediante tecniche di spettrometria non distruttiva nella facility SubTerranean Low-Level Assay (Stella) dei Laboratori nazionali del Gran Sasso.

I risultati della ricerca, pubblicati di recente sulla rivista Meteoritics & Planetary Science, indicano che il meteoroide di Aguas Zarcas si è avvicinato alla Terra su una traiettoria quasi verticale, seguendo un’orbita con una bassa inclinazione. Aveva un diametro di 60 cm e una massa di circa 250 chilogrammi, metà della quale sarebbe sopravvissuta fino a 32 chilometri di altitudine. Il bolide, proveniente da ovest-nordovest, viaggiava ad una velocità di circa 14 chilometri al secondo, frammentarsi a qualche decina di chilometri di altitudine.

«Il meteoroide ha attraversato l’atmosfera terrestre fino a un’altitudine di 25 chilometri, dove la massa residua si è infine disgregata», dice a questo proposito Peter Jenniskens, ricercatore al Seti Institute di Mountain View e primo autore dello studio. «A quel punto, ha prodotto un bagliore luminoso rilevato dai satelliti in orbita».

Le analisi suggeriscono inoltre che il meteoroide provenga dalla fascia principale degli asteroidi, e che si sia staccato dal suo progenitore, probabilmente un asteroide della famiglia Themis, circa due milioni di anni fa. Il corpo celeste avrebbe quindi attraversato lo spazio interplanetario senza mai collidere con altri corpi, il che avrebbe permesso alla roccia di rimanere strutturalmente integra, priva delle fratture che solitamente indeboliscono molti meteoriti.


Alcuni fotogrammi dei video utilizzati nello studio per ricostruire l’identikit del meteoroide di Aguas Zarcas. Crediti: Peter Jenniskens et al., Meteoritics & Planetary Science, 2025

«Riteniamo che questo oggetto celeste provenga da un asteroide più grande situato nella fascia degli asteroidi, probabilmente nelle sue regioni esterne», aggiunge Jenniskens. «Una volta staccatosi dal progenitore, il corpo celeste ha viaggiato per due milioni di anni prima di raggiungere la Terra, evitando di frantumarsi lungo il tragitto».

Questa circostanza, insieme alla bassa inclinazione dell’orbita con cui avrebbe approcciato la Terra e alla sua elevata resistenza, ha fatto in modo che una frazione relativamente grande del corpo celeste sopravvivesse all’ingresso e al passaggio nell’atmosfera terrestre, e che diversi frammenti raggiungessero il suolo.

«Del meteorite di Aguas Zarcas sono stati recuperati ben 27 chili di frammenti» conclude Jenniskens. «Si tratta della più grande massa di rocce di questo tipo raccolta dopo quella del meteorite di Murchison, caduto in Australia nel 1969».

Per saperne di più:

  • Leggi su Meteoritics & Planetary Science l’articolo “Orbit, meteoroid size, and cosmic ray exposure history of the Aguas Zarcas CM2 breccia”, di Peter Jenniskens, Gerardo J. Soto, Gabriel Goncalves Silva, Oscar Lücke, Pilar Madrigal, Tatiana Ballestero, Carolina Salas Matamoros, Paulo Ruiz Cubillo, Daniela Cardozo Mourao, Othon Cabo Winter, Rafael Sfair, Clemens E. Tillier, Jim Albers, Laurence A. J. Garvie, Karen Ziegler, Qing-zhu Yin, Matthew E. Sanborn, Henner Busemann, My E. I. Riebe, Kees C. Welten, Marc W. Caffee, Matthias Laubenstein, Darrel K. Robertson e David Nesvorny

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Questa sera, giovedì 3 aprile 2025, dalle 21, ci troveremo in Via Zauli Naldi 2, Faenza per osservare #Luna, #Giove, #Marte, #Pleiadi e altri oggetti interessanti con i nostri #telescopi e #binocoli

Ingresso libero e #gratis, non mancare!
mobilizon.it/events/86892096-f…

@astronomia

#astronomia #spazio #astrofili #faenza #scienza #cielostellato #cielonotturno #divulgazione #scienze #evento #cultura #eventi #romagna #italia #telescopio #binocolo #stargazing #starparty #space #astronomy


Osservazione della Luna Quasi al Primo Quarto a Faenza


Questa sera, giovedì 3 aprile 2025, dalle ore 21:00, presso la sede del Gruppo Astrofili in Via Zauli Naldi 2 a Faenza (terrazzo della palestra delle scuole elementari/medie Carchidio-Strocchi) e dal cortile della scuola, osservazione guidata del cielo, ad occhio nudo e con i binocoli e i telescopi dell'associazione.

Serata dedicata alla Luna, in una fase particolarmente favorevole per osservare crateri e catene montuose. Osserveremo anche Giove, Marte, le Pleiadi, le costellazioni di Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, l'Orsa Maggiore e altri oggetti interessanti.

Ingresso libero e gratuito. Per motivi organizzativi, è gradita la prenotazione usando i contatti disponibili sul sito www.astrofaenza.it

L'incontro fa parte della XXV Settimana Scientifica Faentina. Il programma completo è consultabile su www.astrofaenza.it/2025/XXV_Set.Sci.Tec.Faentina.pdf

Si ricorda che nonostante le temperature diurne in aumento, di notte la temperatura può abbassarsi notevolmente rispetto al giorno. Per passare una serata piacevole, senza soffrire il freddo, si consiglia di vestirsi adeguatamente in base alla temperatura prevista per la sera e/o la minima per la mattina successiva, indossare calze o calzini caldi, e portare qualcosa per coprirsi in caso di freddo, come guanti, berretta, sciarpa o scaldacollo.

Abbiamo preparato un video con alcuni consigli su come vestirsi per il freddo, puoi trovarlo tra i nostri reel in evidenza




L’asteroide 2024 YR4 è di classe Tunguska



Ricorderete senz’altro l’asteroide near-Earth 2024 YR4, salito agli onori della cronaca perché il 18 febbraio 2025 aveva raggiunto una probabilità d’impatto con la Terra del 3 per cento per il 22 dicembre 2032. Questa probabilità, relativamente elevata per un near-Earth, era crollata a zero nei giorni successivi, grazie a nuove osservazioni astrometriche fatte con il Vlt dell’Eso che hanno permesso di ridurre l’incertezza sui parametri orbitali. Naturalmente, Nasa, Esa e tutta la comunità mondiale di ricercatori che si dedica alla difesa planetaria hanno continuato a osservare l’asteroide. Una delle domande cruciali che attendevano ancora risposta era quali fossero le sue esatte dimensioni, perché il valore del diametro è un parametro importante per stabilire l’effettivo danno nel caso di collisione. Si sapeva che il diametro di 2024 YR4 era compreso fra 40 e 90 metri, ma un valore più preciso richiedeva la conoscenza della riflettività superficiale dell’asteroide che era del tutto ignota. Ora finalmente sappiamo quanto è grande 2024 YR4 con un piccolo margine di incertezza.


Grafico che mostra tutte le possibili posizioni (punti gialli), dell’asteroide 2024 YR4 il 22 dicembre 2032. Come si vede la Luna si trova molto vicino alla nube di asteroidi virtuali. Le posizioni sono calcolate con i dati orbitali del 2 aprile 2025. Crediti: Nasa Jpl/Cneos

Nuove osservazioni nell’infrarosso medio e vicino fatte con il James Webb Space Telescope della Nasa l’8 e il 26 marzo 2025, hanno permesso di stabilire la quantità di radiazione solare che 2024 Yr4 assorbe e riemette nello spazio nell’infrarosso. Questo valore, confrontato con la quantità di luce solare che l’asteroide riflette direttamente nello spazio (senza assorbirla), permette di stimare la riflettività superficiale e quindi il diametro.

Dai dati del Jwst si stima che 2024 YR4 abbia una dimensione compresa fra 53 e 67 metri, circa le dimensioni dell’asteroide responsabile della catastrofe di Tunguska. Questo intervallo di dimensioni corrisponde a una riflettività che va dall’8 al 18 per cento, coerente con le osservazioni telescopiche dal suolo che avevano stabilito che 2024 YR4 era un asteroide di tipo S.

I ricercatori del Center for Near Earth Object Studies della Nasa hanno anche aggiornato la probabilità che 2024 YR4 colpisca la Luna il 22 dicembre 2032. Dall’1,7 per cento di fine febbraio siamo passati al 3,8 per cento attuale. Questo non significa che la nostra Luna sia “spacciata”, prima di tutto perché c’è una probabilità del 96,2 per cento che l’asteroide la manchi. Anche nel caso di collisione, che avverrebbe alla velocità di circa 14 km/s, si creerebbe solo un piccolo cratere da impatto del diametro di circa 1,5-2 km e niente di più: il nostro satellite ha sostenuto collisioni ben più importanti nel suo passato, come testimoniano gli enormi crateri da impatto che si trovano sulla sua superficie e l’orbita lunare non ne risentirebbe. Dopo metà aprile, l’asteroide 2024 YR4 sarà troppo lontano e debole per essere osservato dai telescopi al suolo, ma il Jwst osserverà di nuovo l’asteroide a maggio. Con le nuove osservazioni sarà possibile aggiornare la probabilità d’impatto con la Luna che potrebbe salire oppure scendere a zero, come è successo con la Terra. Tutto dipenderà dalla nuova posizione della nube di asteroidi virtuali.

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Sulla Luna, il fotovoltaico è fatto di regolite



La polvere di Luna, o regolite, è davvero insidiosa. Lo sanno bene gli astronauti delle missioni Apollo: la regolite si attacca ovunque, sbuffa e si solleva dal suolo coprendo la visuale e rendendo complicate anche le manovre di allunaggio e decollo. È un pericolo per elettronica, per gli strumenti, e per qualunque oggetto sul quale riesca ad aderire – cosa che le riesce benissimo, a causa della sua connaturata carica elettrostatica. Insomma, un problema da non sottovalutare quando si progetta una permanenza a lungo termine dell’uomo sulla Luna. E se il nemico non puoi sconfiggerlo, meglio allora cercare di portarlo dalla tua parte: uno studio pubblicato nella rivista Device di Cell Press presenta l’ideazione di celle solari fatte di polvere lunare “simulata”. Queste celle convertono la luce solare in energia in modo efficiente, resistono ai danni delle radiazioni e riducono la necessità di trasportare materiali pesanti nello spazio, e non da ultimo costituiscono una soluzione a una delle maggiori sfide dell’esplorazione spaziale: trovare fonti di energia affidabili.


Rappresentazione di un parco fotovoltaico sulla Luna, in cui le celle sono fatte di regolite grezza. Sono mostrati robot che prelevano la regolite grezza e la portano in un impianto di produzione, che fabbrica celle solari lunari a base di perovskite. In seguito, rover o astronauti automatizzati installeranno le celle solari prodotte per alimentare future abitazioni sulla Luna o addirittura città. Crediti: Sercan Özen

«Le celle solari oggi utilizzate nello spazio sono straordinarie e raggiungono efficienze del 30 per cento o addirittura del 40 per cento, ma questa efficienza ha un prezzo», spiega Felix Lang dell’Università di Potsdam, in Germania, che ha guidato il progetto. «Sono molto costose e relativamente pesanti, perché utilizzano vetro o una spessa pellicola come copertura. È difficile giustificare il trasporto di tutte queste celle nello spazio».

Invece di trasportare le celle solari dalla Terra, dunque, in vista della costruzione di una base lunare permanente la soluzione più sensata sarebbe utilizzare i materiali disponibili sulla Luna stessa. E qui entra in gioco la regolite: l’obiettivo è sostituire il vetro terrestre con quello ricavato dalla regolite lunare, riducendo così la massa di lancio di un veicolo spaziale del 99,4 per cento, e abbattendo il 99 per cento dei costi di trasporto.

Come dicevamo, per mettere alla prova l’idea i ricercatori non hanno usato la vera regolite lunare, bensì un materiale progettato per simulare la polvere che copre il nostro satellite. Materiale che hanno poi fuso per creare il vetro con cui hanno costruito le celle solari. L’altro materiale impiegato, assieme al vetro lunare, per il coating delle celle è la perovskite, un cristallo abbastanza economico e facile da produrre, ma soprattutto in grado di assorbire uno spettro più ampio di frequenze rispetto al silicio e molto efficiente nel trasformare la luce solare in elettricità. Secondo i calcoli, in uno scenario simile alla base lunare immaginata dall’Esa, portando sulla Luna un kg di precursori di perovskite, insieme a circa 1,12 tonnellate di regolite raccolte sul posto, è quanto occorre per fabbricare circa 400 metri quadrati di celle solari.

«Se si riduce il peso del 99 per cento, non c’è bisogno di avere celle solari ultra-efficienti al 30 per cento, basta produrne di più sulla Luna», sottolinea Lang. «Inoltre, le nostre celle sono più stabili contro le radiazioni, mentre le altre si degradano nel tempo».

Il vetro standard, infatti, si scurisce lentamente nello spazio, bloccando la luce solare e riducendo l’efficienza. Ma il vetro lunare ha una tonalità marrone naturale dovuta alle impurità della polvere lunare che lo costituisce, non si scurisce ulteriormente e rende le celle più resistenti alle radiazioni. E stando a quanto riportato dagli autori è anche più facile da fabbricare, poiché non richiede un processo di purificazione complesso e per fondere la regolite basterebbero le temperature raggiunte concentrando la luce solare. L’efficienza ottenuta, per ora, è del 10 per cento, ma con un vetro lunare più chiaro che lascia passare più luce si pensa di poter raggiungere il 23 per cento.


Immagine del materiale usato per simulare la regolite lunare, vetro lunare e celle solari lunari. L’inserto mostra una micrografia in sezione trasversale e la struttura cristallina della perovskite. Crediti: Felix Lang

Finita la lista dei pro, è ora di leggere anche quella dei contro. Il primo, la gravità lunare: minore rispetto a quella terrestre, potrebbe cambiare il modo in cui si forma il vetro lunare. Inoltre, i solventi attualmente utilizzati per lavorare la perovskite non funzionano nel vuoto della Luna. Infine, gli sbalzi di temperatura causati dall’assenza dell’atmosfera potrebbero minacciare la stabilità dei materiali.

Insidiosa la regolite, dicevamo all’inizio. Eppure, trasformarla in vetro per pannelli fotovoltaici non è la prima applicazione utile che gli scienziati hanno pensato per questa polvere extraterrestre: già si è pensato a un metodo per estrarne acqua da usare come combustibile, e anche di costruirci dei mattoni per fabbricare strutture in loco. Per scoprire se le celle solari prodotte con la polvere lunare sono veramente valide, però, bisognerà lanciare un esperimento su piccola scala direttamente sulla Luna e vedere cosa succede davvero.

Per saperne di più:

  • Leggi su Device di Cell Press l’articolo “Moon photovoltaics utilizing lunar regolith and halide perovskites“, di Julian Mauricio Cuervo Ortiz, Juan Carlos Gines Palomares, Sercan Ozen, Marlene Härtel, Sema Sarisozen, Alina Dittwald, Georgios Kourkafas, Andrés Felipe Castro-Méndez,1 Francisco Peña-Camargo, Biruk Alebachew Seid, Jürgen Bundesman, Andrea Denker, Heinz-Christoph Neitzert, Dieter Neher, Enrico Stoll, Stefan Linke e Felix Lang


Sotto la crosta, il segreto che scotta




Immagine tridimensionale a colori del vulcano Sapas Mons, su Venere. Questo vulcano, ripreso dalla sonda Magellano della Nasa è alto 1,5 chilometri e potrebbe essere ancora attivo. Crediti: Nasa

Un mondo rovente e costellato da decine di migliaia di vulcani: questo è Venere, il secondo pianeta del Sistema solare, che nasconde sotto la sua crosta superficiale i segreti delle eruzioni di lava incandescente. Da tempo, infatti, gli scienziati si interrogano su come il calore proveniente dall’interno del pianeta possa arrivare in superficie. Nonostante i numerosi studi, la storia geologica venusiana potrebbe essere ancora più dinamica di quanto si pensasse.

«Nessuno finora aveva mai considerato la possibilità di una convezione nella crosta di Venere», dichiara Slava Solomatov, professore di scienze terrestri, ambientali e planetarie alla Washington University di St. Louis e primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Physics of Earth and Planetary Interiors. «I nostri calcoli suggeriscono che la convezione è possibile, anzi addirittura probabile. Se ciò fosse vero, ci darebbe nuove informazioni sull’evoluzione del pianeta».

Ma cosa si intende per convezione? Si tratta di un processo ben noto in geologia, che si verifica quando il materiale riscaldato sale verso la superficie di un pianeta e quello più freddo scende, creando una sorta di “nastro trasportatore” costantemente in funzione. Sulla Terra, la convezione avviene nelle profondità del mantello e fornisce l’energia che guida la tettonica a placche. La crosta terrestre, spessa circa quaranta chilometri nei continenti e sei chilometri nei bacini oceanici, è troppo sottile e fredda per sostenere la convezione, spiega Solomatov. Al contrario, la crosta di Venere potrebbe avere lo spessore – dai 30 ai 90 chilometri circa, a seconda della posizione – la temperatura e la composizione rocciosa ideali per far funzionare il nastro trasportatore.

Solomatov e il coautore Chhavi Jain, hanno verificato questa possibilità applicando alcune nuove teorie fluidodinamiche sviluppate in laboratorio. I calcoli suggerirebbero, in effetti, che la crosta venusiana possa supportare la convezione e che questa riesca ad avere un ruolo centrale nel trasporto di calore e nella formazione delle strutture superficiali del pianeta. «La convezione nella crosta potrebbe essere proprio il meccanismo chiave mancante», afferma Solomatov.

Nel 2024, i due ricercatori hanno utilizzato un approccio simile per indagare la convezione crostale su Mercurio. Ma su questo pianeta del Sistema solare, troppo piccolo e raffreddatosi in modo significativo ormai oltre 4,5 miliardi di anni fa, la convezione probabilmente non avviene nel mantello.


Mappa topografica della superficie di Venere. Il mosaico è stato creato utilizzando i dati radar ad alta risoluzione della missione Magellano della Nasa (circa 75 metri per pixel). Crediti: Nasa / Jpl / Caltech (McAuley)

Venere, invece, è un pianeta caldo sia all’interno che all’esterno. Le temperature superficiali superano i 460 gradi centigradi e i suoi vulcani e altre caratteristiche superficiali mostrano chiari segni di fusione. Tracce talmente evidenti che, nel 2023, Paul Byrne, collega di Solomatov e professore associato di scienze terrestri, ambientali e planetarie, ha pubblicato un atlante di 85 mila vulcani venusiani basandosi sulle immagini radar della missione Magellano della Nasa.

Ora, i nuovi risultati potrebbero costruire un nuovo quadro teorico per spiegare questa immensa attività vulcanica? «La possibilità che meccanismi convettivi su Venere possano aver luogo all’interno della crosta, e non nel mantello come avviene sulla Terra, oltre a rappresentare una novità, apre a sviluppi interessanti nella comprensione della geologia e del vulcanismo venusiano», afferma Piero D’Incecco, non coinvolto nello studio ma esperto di geologia planetaria dell’Osservatorio Astronomico d’Abruzzo dell’Inaf e coordinatore del progetto Avengers, che analizza il vulcanismo recente di Venere utilizzando analoghi terrestri. «Sarà, ad esempio, interessante capire se esiste una relazione tra il meccanismo di convezione crostale e la posizione delle numerose strutture vulcaniche presenti sulla superficie di Venere, in particolare quelle geologicamente più recenti».


Il picco vulcanico Idunn Mons. La sovrapposizione colorata mostra i modelli di calore derivati dai dati di luminosità della superficie raccolti dallo spettrometro di immagini termiche nel visibile e nell’infrarosso. Questo vulcano e tutta la regione circostante sono al centro degli studi di Piero D’Incecco (OA Abruzzo) che proposto l’area come landing site per il lander della missione russa Venera-D. Crediti: Esa/Nasa/Jpl

Le implicazioni dello studio sembrano essere notevoli, dunque. Se confermata, la convezione crostale potrebbe rivoluzionare la comprensione di Venere, aprire a un modo completamente nuovo di pensare alla geologia superficiale del pianeta e fornire nuovi dati per l’interpretazione delle sue anomalie gravitazionali e topografiche. Inoltre, potrebbe suggerire nuovi scenari per la formazione e l’evoluzione di altri corpi planetari.

La conferma delle ipotesi di Solomatov potrebbe arrivare dalle prossime missioni su Venere e, se la convezione nella crosta di Venere verrà confermata, il nostro modo di vedere il pianeta cambierà radicalmente, rivelando un mondo ancora più dinamico di quanto immaginato. «Le future missioni attualmente selezionate per il lancio – come ad esempio Veritas della Nasa, EnVision dell’Esa e Roscosmos Venera-D – forniranno dati ancor più accurati di temperatura e densità della crosta, e consentiranno di analizzare meglio l’eventualità di una convezione crostale su Venere», conclude D’Incecco.

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Foto dell’antimateria con sensori da smartphone



L’esperimento Aeḡis (Antimatter Experiment: Gravity Interferometry and Spectroscopy), in corso al Cern con la collaborazione dell’Infn, ha ottenuto un importante risultato pubblicato ieri, 2 aprile 2025, sulla rivista Science Advances.

I ricercatori e le ricercatrici di Aeḡis hanno sviluppato un’idea innovativa per studiare l’antimateria: hanno “hackerato” un sensore di immagine comunemente utilizzato nelle fotocamere dei telefoni cellulari, normalmente usato per trasformare la luce in ingresso in un’immagine digitale, modificandolo per rivelare le antiparticelle in arrivo. L’uso di questi sensori (chiamati Cmos, Complementary Metal Oxide Semiconductor), che hanno pixel di silicio di dimensioni inferiori a un micrometro, ha portato a risultati senza precedenti.


Optical Photon and Antimatter Imager con 60 sensori Sony Imx686 integrati. Crediti: Andreas Heddergott/Tum

L’esperimento, infatti, ha stabilito un nuovo record mondiale di risoluzione nella rivelazione delle annichilazioni di antimateria, riuscendo a determinare la posizione dell’impatto degli antiprotoni sulla superficie del sensore con una precisione di 600 nanometri. Oltre al punto di impatto, il sensore ha dimostrato di essere in grado di rivelare la traiettoria dei frammenti risultanti dall’annichilazione con la più alta risoluzione mai raggiunta finora in un rivelatore a pixel.

Aeḡis è uno degli esperimenti attivi nella Antimatter Factory del Cern e vede l’Infn tra i principali finanziatori: ha come obiettivo scientifico la misura dell’accelerazione gravitazionale dell’antidrogeno. Questa misura ha lo scopo di verificare la validità del principio di equivalenza debole di Einstein, uno dei capisaldi della teoria della Relatività generale, anche per l’antimateria.

«Questo sensore rappresenta un vero e proprio punto di svolta per l’osservazione della piccola deviazione causata dalla gravità in un fascio di antidrogeno che si muove orizzontalmente, e potrebbe avere un impatto significativo anche più in generale per la fisica delle particelle, specialmente in esperimenti dove l’alta risoluzione di posizione è cruciale», spiega Ruggero Caravita, ricercatore Infn del Centro nazionale Tifpa di Trento e responsabile della collaborazione Aeḡis. «Grazie a questa straordinaria risoluzione, siamo anche in grado di distinguere le diverse tipologie di frammenti delle annichilazioni, frammenti nucleari, particelle alpha, protoni e pioni, e potremo fare un salto in avanti nella comprensione delle interazioni tra antiprotoni a bassa energia e materiali».

«Tuttavia, un singolo sensore non è sufficiente per la maggior parte degli scopi, date le sue ridotte dimensioni», aggiunge Francesco Guatieri della Research Neutron Source Frm II della Technical University di Monaco, coordinatore della ricerca. «Per questo abbiamo integrato 60 di questi sensori in un singolo dispositivo, l’Optical Photon and Antimatter Imager (Ophanim), ottenendo il rivelatore fotografico con il maggior numero di pixel attualmente operativo: 3840 megapixel. Questo ci permette di avere sia altissima risoluzione, sia una buona superficie di raccolta delle particelle».

Il rivelatore realizzato è l’equivalente elettronico di una lastra fotografica. Confrontando la risoluzione di ciascun sensore con il record di tracciamento delle particelle in un rivelatore a emulsione, che si attesta intorno a 300 nanometri (ottenuto dall’esperimento Opera ai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn nel 2008), si osserva che il nuovo dispositivo raggiunge una risoluzione praticamente equivalente, ma in modalità elettronica, rendendo quindi i dati immediatamente leggibili.

L’Infn è tra i protagonisti scientifici e tra i principali finanziatori dell’esperimento Aeḡis, da sempre a trazione italiana, e ora inserito nel contesto della collaborazione Lea (Low Energy Antimatter) dell’Infn, che raggruppa in un unico progetto le diverse attività scientifiche dell’Istituto in questo settore. Della collaborazione scientifica Aeḡis fanno parte gruppi di ricerca del Centro nazionale dell’Infn Tifpa e dell’Università di Trento, della Sezione dell’Infn dell’Università Statale di Milano, del Politecnico di Milano, e della Sezione Infn di Pavia e dell’Università di Brescia.

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Il canto delle stelle di M67




Immagine dell’ammasso stellare M67. Crediti: Sloan Digital Sky Survey/ Wikipedia

Le stelle non sono solo oggetti celesti lontani, ma veri e propri testimoni del passato e del futuro dell’universo. Le loro “melodie cosmiche” rivelano segreti nascosti, offrendo uno sguardo unico sull’evoluzione della nostra galassia e sul destino che ci attende. È quanto afferma il team di ricerca guidato da Claudia Reyes, ricercatrice alla University of New South Wales (Unsw) di Sydney (Australia) e prima autrice di uno studio pubblicato oggi su Nature. Il lavoro ha analizzato 27 stelle che si trovano nell’ammasso stellare M67, situato a 2700 anni luce dalla Terra. Stelle nate tutte dalla stessa nube di gas, circa quattro miliardi di anni fa. Pur avendo una composizione chimica simile, presentano masse diverse, e questo le rende perfette per studiare l’evoluzione stellare come se la osservassimo in “tempo reale”, perché la velocità con cui le stelle evolvono dipende essenzialmente dalla loro massa.

«Quando studiamo le stelle in un ammasso, possiamo osservare l’intero processo evolutivo di ciascuna di esse», spiega Reyes, sottolienando come M67 sia in quetso senso un ammasso speciale, perché include una vasta gamma di stelle “giganti”, che vanno dalle subgiganti più piccole e meno evolute, fino alle giganti rosse, stelle più mature.

«Studiare una sequenza evolutiva così lunga come quella che abbiamo osservato in questo ammasso è una novità assoluta», aggiunge Dennis Stello della Unsw, co-autore dello studio. «La principale difficoltà in astronomia è infatti determinare l’età di una stella, poiché non è la superficie a rivelarla, ma ciò che accade al suo interno».

Ciò che ha permesso, in questo studio, di determinare con precisione l’età e la massa delle stelle è stata la loro frequenza di oscillazione. Ogni stella “suona” a una frequenza unica, che dipende dalle proprietà fisiche del suo interno, come densità, temperatura e – per l’appunto – età. Gli scienziati hanno utilizzato i dati raccolti dalla missione Kepler K2 per “ascoltare” e misurare queste oscillazioni. «La frequenza con cui uno strumento vibra o “suona” risente delle proprietà fisiche del materiale attraverso cui il suono viaggia», prosegue Stello, «Per le stelle è lo stesso: è possibile “ascoltare” una stella in base al modo in cui vibra. Possiamo osservare la vibrazione, o l’effetto della vibrazione, del suono proprio come si può vedere la vibrazione di una corda di violino».

In particolare, le stelle più grandi emettono “suoni” più profondi, mentre quelle più piccole producono “suoni” acuti. Inoltre, nessuna di esse emette una sola nota: ogni stella genera una vera e propria sinfonia di suoni provenienti dal suo interno. Studiarle è dunque un po’ come ascoltare un’orchestra mentre suona una sinfonia e provare a identificare tutti gli strumenti che la compongono in base al suono.

Ma se nello spazio non esiste il suono, poiché privo di particelle che permettano la trasmissione delle vibrazioni acustiche, come hanno fatto gli scienziati ad “ascoltare” le stelle? Grazie alle fluttuazioni nella loro luminosità. «Ogni stella è come una palla di gas che respira, raffreddandosi e riscaldandosi, con lievi cambiamenti in luminosità», spiega Stello. «Sono queste fluttuazioni di luminosità ciò che abbiamo osservato e misurato per determinare le frequenze del suono».

Man mano che le stelle evolvono verso la fase di giganti rosse, le loro frequenze cambiano e assumono comportamenti differenti. Questi cambiamenti possono fornire informazioni sulla loro evoluzione e rivelare dettagli sulle loro proprietà interne. Studiando le 27 stelle dell’ammasso M67, i ricercatori sono riusciti per la prima volta a osservare la relazione tra le piccole e grandi differenze di frequenza nelle stelle giganti – relazione che ora può essere applicata anche a singole stelle.

Ad esempio, secondo gli autori, poiché le stelle di M67 hanno un’età e una composizione chimica simile a quelle del Sole, sono in grado di offrire informazioni cruciali sulla formazione e sull’evoluzione del nostro sistema solare, nonché sul destino della nostra stella. «Questo studio ci permette di penetrare nei meccanismi fisici più profondi che avvengono all’interno delle stelle», conclude Stello. «È importante per noi poter costruire modelli evolutivi di cui possiamo fidarci per predire cosa accadrà al Sole e ad altre stelle man mano che invecchiano».

Il prossimo passo per gli scienziati sarà analizzare queste “sinfonie” del cielo con un nuovo approccio, aprendo così nuove possibilità per comprendere meglio l’universo e le stelle che lo popolano. «Torneremo ad analizzare i dati raccolti negli anni passati per cercare queste frequenze particolari che nessuno aveva mai notato prima», conclude Reyes.

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Cento nuovi modi d’esplorare l’universo a Play 2025



Da venerdì 4 a domenica 6 aprile è tempo di Play – Festival del Gioco, la più importante manifestazione italiana dedicata ai giochi analogici, che quest’anno si sposta da Modena e approda a Bologna, nei padiglioni 15, 18, 19 e 20 del quartiere fieristico. La sedicesima edizione del festival, incentrata sul tema dell’Evoluzione, vedrà come tutti gli anni dal 2019 la partecipazione, nell’Area scientifica, dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), con una serie di attività che coniugano il gioco con l’astronomia.

Play è la più importante manifestazione italiana dedicata ai giochi analogici, segmento stimato in Italia a circa 1,7 miliardi di euro nel 2024, con una crescita annuale che si attesta tra il 10 e il 15 per cento e circa 800 nuovi titoli lanciati ogni anno. Con il suo arrivo a Bologna, il quartiere fieristico si trasformerà per la prima volta in una gigantesca ludoteca: 43mila metri quadrati coperti, quattro padiglioni, oltre duecento espositori, tremila tavoli da gioco disponibili gratuitamente e più di 700 eventi in calendario.


Attività Inaf a Play 2025 (cliccare per i dettagli)

Sfide a Pixel – Padiglione 15 E17

Tra gli ospiti del Festival più attesi spicca Phil Eklund, ingegnere aerospaziale oltre che game designer fra i più originali e celebrati al mondo. Sabato 5 aprile alle 15:00 l’Inaf spera di averlo nel proprio stand (padiglione 15 – E17) in occasione della presentazione di Pixel – Picture (of) the Universe. Pixel è un gioco strategico competitivo in cui i giocatori assumono il ruolo di direttori di centri di ricerca astrofisica, ciascuno impegnato a costruire prestigio scientifico. Il gioco, ideato insieme al direttore artistico di Play Andrea Ligabue dal gruppo di lavoro dell’Inaf dedicato al gioco, unisce una meccanica centrale e originale ispirata alla risoluzione delle immagini in astrofisica e inoltre rende le dinamiche sociali e istituzionali della ricerca scientifica reale attraverso la gestione delle risorse. Pur essendo principalmente competitivo, il gioco include anche alcuni elementi cooperativi, come l’utilizzo condiviso di un telescopio spaziale.

L’Area scientifica di Play occupa quasi metà del padiglione 15, e nei giorni del festival verrà animata dalle istituzioni partecipanti al Game Science Research Center (Gsrc) di Lucca e da altre che si stanno avvicinando al Centro. In questa area i visitatori potranno cimentarsi in giochi originali prodotti dalle varie istituzioni e provare giochi commerciali a tema scientifico.

Dialoghi tra gioco e scienza – Padiglione 15 E27

Se vi interessano anche aspetti di design e di ricerca sul gioco, vi consigliamo di sfogliare il programma dell’Area talk del Gsrc (padiglione 15 – E27). L’Inaf sarà presente venerdì 4 alle 12:00 in dialogo con Christian Lavarian, astronomy area manager del Muse di Trento, per un confronto di esperienze sul gioco come strumento di comunicazione, divulgazione ed educazione all’Inaf e al Muse.

Sabato alle 11 Stefania Varano dell’Inaf discuterà con Proximadi Larp (Giochi di ruolo dal vivo) in contesti scientifici ed educativi, presentando The Null Hypothesis, un progetto congiunto per un Larp alla Stazione radioastronomica di Medicina. Sempre con Stefania Varano, questa volta però nel padiglione 20 ammezzato, alle ore 18 di sabato, dialogo con i due designer Five Little Crows e Fumble Gdr sugli elementi base del gioco: Ritmo, Tensione e Flow.

Sempre sabato, alle ore 12:00, si parlerà dell’uso del gioco per comunicare la scienza, coinvolgere i cittadini nei dibattiti su temi scientifici e favorire la formazione di competenze scientifiche nelle scuole. Con Nico Pitrelli, direttore del Master in comunicazione della scienza “Franco Prattico” della Sissa di Trieste, Ennio Bilancini, professore di economia alla Scuola Imt Alti Studi Lucca e io che scrivo (Sara Ricciardi), con la moderazione di Michele Bellone.

Infine vi ricordiamo che nell’area Giochi di ruolo (Gdr) di Play, in tutti i tavoli con lo speciale dado “D20” con l’anguria puoi donare per Unarwa grazie all’iniziativa ​​Tiri Salvezza per la Palestina.

Per informazioni:



L'account @astronomia@poliverso.org è un gruppo/forum, una sorta di lista di distribuzione basata sul software Friendica.

I gruppi forum di Poliverso, nascono come supporto per gli utenti dell'instanza mastodon poliversity.it, dedicata all'università, alla ricerca e al giornalismo, ma SONO APERTI A TUTTI GLI ACCOUNT DEL FEDIVERSO ITALIANO: #MASTODON #PLEROMA #MISSKEY E NATURALMENTE #FRIENDICA.

Per utilizzare questo gruppo forum:

1 - devi seguire questo account (se non vuoi perderti nessun messaggio puoi attivare la campanellina delle notifiche). Ora già puoi seguire tutte le conversazioni future!
2 - per creare un thread, devi inviare un messaggio (non un messaggio di risposta ma un messaggio nuovo!) menzionando questo account e lui lo ricondividerà in modo che tutti coloro che lo seguono potranno leggere il tuo thread
3 - ricorda che potrai vedere i messaggi inviati al forum solo dal momento in cui l'avrai "seguito"
4 - se vuoi conoscere i gruppi esistenti, puoi trovare la lista dei gruppi già creati proprio qui: poliverso.org/display/0477a01e…
5 - se ti servono altre informazioni sui gruppi o se vuoi che ne venga creato uno su un argomento in particolare, puoi chiedere a @Poliverso Forum di supporto o a @informapirata :privacypride:
6 - ricorda che esistono anche i gruppi lemmy: se hai un account mastodon, anche se non puoi creare un nuovo thread su lemmy, puoi seguire e interagire con tutte le comunità lemmy di feddit.it/communities

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