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Troppo giovani per essere così fredde


La sonda Xmm-Newton dell'Esa e la sonda Chandra della Nasa hanno individuato tre giovani stelle di neutroni insolitamente fredde per la loro età. Confrontando le loro proprietà con diversi modelli di stelle di neutroni, gli scienziati hanno concluso che l

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Scavando nei dati delle missioni Xmm-Newton dell’Esa e Chandra della Nasa, gli scienziati hanno scoperto tre stelle di neutroni eccezionalmente giovani e fredde, da 10 a 100 volte più fredde delle loro coetanee. Confrontando le loro proprietà con i tassi di raffreddamento previsti da diversi modelli teorici, i ricercatori hanno dovuto escludere tre quarti di questi. Rimanendo così con un pugno di possibilità, fra le quali si celerebbe l’equazione giusta per comprendere, finalmente, quale sia la fisica che governa questi oggetti estremi ed esotici. I risultati sono pubblicati su Nature Astronomy.

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Infografica che spiega il contesto e i risultati dello studio. Le stelle di neutroni sono i nuclei compressi delle stelle di grande massa, che al termine della loro vita esplodono in supernove. Sono così dense che la quantità di materiale di una stella di neutroni in una zolletta di zucchero peserebbe quanto tutti gli abitanti della Terra. Gli scienziati non sono sicuri di cosa succeda alla materia quando viene schiacciata così tanto. Non possiamo guardare direttamente dentro una stella di neutroni. Invece, gli scienziati determinano le loro proprietà osservandole da lontano e confrontandole con diversi modelli di ciò che accade all’interno. Tutte le stelle di neutroni devono obbedire alle stesse leggi fisiche, quindi solo un modello può essere corretto. È quindi in corso la caccia all’equazione di stato della stella di neutroni che le governa tutte. Crediti: Esa

«La giovane età e la fredda temperatura superficiale di queste tre stelle di neutroni possono essere spiegate solo invocando un meccanismo di raffreddamento rapido», spiega Nanda Rea, astrofisica che ha coordinato il progetto all’Istituto di scienze spaziali (Ice-Csic) e all’Istituto di studi spaziali della Catalogna (Ieec), coautrice dell’articolo. «Poiché il raffreddamento rapido può essere attivato solo da alcune equazioni di stato, questo ci permette di escludere una parte significativa dei modelli possibili».

Le stelle di neutroni si classificano fra i cosiddetti “oggetti compatti”. Non sono stelle nel senso canonico del termine, poiché al loro interno non è attivo alcun processo di fusione nucleare e la materia al loro interno si trova spesso in condizioni estreme. Tanto che vengono chiamate, in gergo, stelle degeneri. Le stelle di neutroni sono quel che rimane di un nucleo stellare dopo l’esplosione in una supernova: dopo aver esaurito il combustibile, il nucleo della stella implode sotto la forza di gravità, mentre gli strati esterni vengono espulsi nello spazio. Il nome deriva dal fatto che, sotto questa immensa pressione, anche gli atomi collassano: gli elettroni si fondono con i nuclei atomici, trasformando i protoni in neutroni. La verità, però, è che la materia che collassa al centro di una stella di neutroni è talmente compressa che gli scienziati non sanno esattamente quale forma assuma, né riescono a prevedere esattamente come si comporti.

Per farlo, dovrebbero essere in grado di definire la cosiddetta “equazione di stato”, un modello teorico che descrive quali processi fisici possono verificarsi all’interno di una stella di neutroni, e al quale tutte – indipendentemente dalla loro massa, età, o dalle loro proprietà dinamiche – devono obbedire. Per ora ci sono ancora troppe possibilità aperte fra cui scegliere, ma aver trovato queste tre stelle così particolari potrebbe essere di grande aiuto.

Nello studio, le temperature delle stelle di neutroni sono state calcolate misurando l’emissione ai raggi X della loro superficie, mentre le dimensioni e le velocità dei resti di supernova circostanti hanno permesso di ricostruire precisamente la loro storia, e calcolarne l’età. Utilizzando diverse equazioni di stato che incorporano diversi meccanismi di raffreddamento, gli autori hanno poi calcolato le cosiddette “curve di raffreddamento”, che definiscono il modo in cui la luminosità di una stella di neutroni – e quindi la temperatura – cambia nel tempo. Confrontando poi queste previsioni con le misure, si sono resi conto che quasi nessun modello riusciva a spiegare il comportamento di queste tre stelle giovani e fredde.

Insomma, gli autori dell’articolo sono convinti di essere riusciti a fare un lungo passo in avanti verso la definizione dell’equazione che regola la fisica di questi oggetti compatti. Cosa, sottolineano, che ha anche importanti implicazioni per la comprensione delle leggi fondamentali dell’universo. O meglio, per la loro unificazione in un’unica grande legge. I fisici non sanno ancora come mettere insieme la teoria della relatività generale (che descrive gli effetti della gravità su grandi scale) con la meccanica quantistica (che descrive ciò che accade a livello di particelle), e le stelle di neutroni sono un eccellente laboratorio, poiché al loro interno raggiungono densità e gravità molto superiori a quelle che possiamo creare sulla Terra.

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Veloce come una cefeide


Il programma osservativo Veloce ha pubblicato i dati sulle velocità radiali di 258 cefeidi, che hanno rivelato come la pulsazione di queste stelle sia tutt’altro che risolta dalle attuali teorie astrofisiche. La precisione è senza precedenti, e potrà aiut

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Candele standard. Questa famiglia (eterogenea) di oggetti che consente di misurare le distanze nell’universo conta pochi membri. Tanto che lo spettro di aver fatto una considerazione sbagliata circa la natura di questi oggetti e le loro proprietà spaventa qualunque astrofisico. Per questo è nato il progetto Veloce (che sta per Velocities of Cepheids), che in circa 12 anni ha raccolto più di 18mila misure di alta precisione di velocità radiali di 258 cefeidi utilizzando spettrografi avanzati. Su Astronomy and Astrophysics, pochi giorni fa, questi risultati sono stati resi pubblici.

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RS Puppis, una delle stelle variabili Cefeidi più luminose: si illumina e si abbassa ritmicamente in un ciclo di sei settimane. Crediti: NASA, ESA, Hubble Heritage Team (STScI/AURA)-Collaborazione Hubble/Europa

Le cefeidi sono stelle giganti che pulsano radialmente, aumentando e diminuendo periodicamente il proprio raggio, e dunque la loro luminosità. La loro caratteristica particolare – quella che le rende dei buoni indicatori di distanza – è che la loro luminosità intrinseca è nota e dipende dal periodo di pulsazione. Osservando in maniera precisa la loro variabilità è quindi possibile stimarne la luminosità e, confrontandola con la luminosità apparente influenzata dalla distanza che le separa da noi, la loro distanza.

Nonostante scritto così sembri semplice, lo studio delle cefeidi è impegnativo. Le loro pulsazioni e le potenziali interazioni con le stelle compagne creano schemi complessi, difficili da misurare con precisione. Tanto che diversi strumenti e metodi utilizzati nel corso degli anni hanno portato a dati incoerenti, complicando la nostra comprensione di queste stelle.

«Tracciare le pulsazioni delle cefeidi con la velocimetria ad alta definizione ci permette di capire la struttura di queste stelle e la loro evoluzione», dice Richard Anderson, astrofisico all’École Polytechnique Fédérale de Lausanne, in Svizzera, e primo autore dell’articolo. «In particolare, la misura della velocità con cui le stelle si espandono e si contraggono lungo la linea di vista – le cosiddette velocità radiali – forniscono una controparte cruciale alle misure di luminosità. Tuttavia, c’è stato un urgente bisogno di velocità radiali di alta qualità perché sono costose da raccogliere e perché pochi strumenti sono in grado di raccoglierle».

I dati raccolti dal programma Veloce, di cui Anderson è la guida, servono dunque a collegare le osservazioni delle cefeidi effettuate da diversi telescopi nel tempo, per creare un campione omogeneo e preciso: le pulsazioni tipiche delle cefeidi portano a variazioni della velocità della linea di vista fino a 70 km/s, ovvero circa 250 mila km/h, e grazie all’utilizzo dei due spettrografi Hermes (nell’emisfero nord) e Coralie (nell’emisfero sud),il team è riuscito a misurare queste variazioni con una precisione media di circa 130 km/h (37 m/s), che in alcuni casi raggiunge anche i 7 km/h (2 m/s).

Non solo, i dati raccolti hanno permesso di scoprire che diverse cefeidi presentano una variabilità complessa e modulata nei loro movimenti. Significa che le velocità radiali di queste stelle cambiano in modi che non possono essere spiegati da modelli di pulsazione semplici e regolari, e non seguono un ritmo prevedibile come atteso – e previsto dai modelli teorici di pulsazione.

Secondo gli autori, questa discrepanza suggerisce che all’interno di queste stelle si verificano processi più complessi, come interazioni tra i diversi strati della stella, o segnali di pulsazione aggiuntivi (non radiali). All’interno del campione, infine, 77 cefeidi fanno parte di sistemi binari: una su tre, secondo una prima statistica, avrebbe dunque una compagna invisibile rilevabile attraverso l’effetto Doppler misurando le velocità radiali.

«Comprendere la natura e la fisica delle cefeidi è importante perché ci dicono come si evolvono le stelle in generale e perché ci basiamo su di esse per determinare le distanze e il tasso di espansione dell’universo», conclude Anderson. «Inoltre, Veloce fornisce i migliori controlli incrociati disponibili per le misure simili, ma meno precise, della missione Gaia dell’Esa, che alla fine condurrà la più estesa indagine sulle velocità radiali delle cefeidi».

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “VELOcities of CEpheids (VELOCE) I. High-precision radial velocities of Cepheids“, di Richard I. Anderson, Giordano Viviani, Shreeya S. Shetye, Nami Mowlavi, Laurent Eyer, Lovro Palaversa, Berry Holl, Sergi Blanco-Cuaresma, Kateryna Kravchenko, Michał Pawlak, Mauricio Cruz Reyes, Saniya Khan, Henryka E. Netzel, Lisa Löbling, Péter I. Pápics, Andreas Postel, Maroussia Roelens, Zoi T. Spetsieri, Anne Thoul, Jiří Žák, Vivien Bonvin, David V. Martin, Martin Millon, Sophie Saesen, Aurélien Wyttenbach, Pedro Figueira, Maxime Marmier, Saskia Prins, Gert Raskin e Hans van Winckel


I predatori del ferro perduto


Dove vanno a finire, tutti i metalli sintetizzati nelle stelle, alla fine del “ciclo di produzione”? Per rispondere, un team guidato da Silvano Molendi dell’Inaf Iasf di Milano ha deciso di seguirne uno in particolare: il ferro. Scoprendo che la maggior p

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Uno degli ammassi di galassie più studiato: Abell 1689. Si trova a 2.3 miliardi di anni luce. Il colore diffuso viola mostra la distribuzione del gas caldo osservata dall’osservatorio X-ray Chandra della Nasa. In giallo sono invece mostrate le singole galassie osservate dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa / Cxc / Mit e Nasa / Stsci

Metalli. Così, senza andare troppo per il sottile, gli astronomi chiamano tutti gli elementi più pesanti di idrogeno ed elio. Indistintamente. In effetti, almeno quanto a origine, gli elementi che occupano le prime righe della tavola periodica – tolti appunto idrogeno ed elio, la cui genesi risale direttamente al big bang – hanno parecchio in comune: sono tutti sintetizzati nelle stelle, durante i processi a cascata di fusione nucleare o nel corso delle fasi terminali della loro evoluzione, come le esplosioni di supernove.

E dove vanno a finire, tutti questi metalli, alla fine del “ciclo di produzione”? Per rispondere il sistema più semplice è seguirne uno in particolare, di questi elementi: il ferro. «Il motivo è presto detto: è l’elemento più facile da misurare in banda X, perlomeno in determinati contesti», spiega a Media Inaf Silvano Molendi, astrofisico all’Inaf di Milano e primo autore di uno studio, pubblicato il mese scorso su Astronomy & Astrophysics, dedicato proprio alla distribuzione dei metalli nell’universo. «La sua riga spettrale a 6.7 KeV – la cosiddetta riga K-alpha – è quella che meglio si misura nello spettro degli ammassi. Ne segue che la stragrande maggioranza delle misure di metallicità nell’intracluster medium Icm, in italiano mezzo intra-ammasso, il gas caldo che permea gli ammassi di galassie – sono in realtà misure del ferro».

Follow the iron, dunque. Ed è proprio lanciandosi sulle tracce del ferro e misurandone le quantità che una ventina di anni fa ci si è accorti che i conti non tornavano: dalla misura in banda X emerge infatti che la massa del ferro presente nel mezzo intra-ammasso è maggiore di quella prodotta dalle stelle presenti nelle galassie dell’ammasso. Un rompicapo al quale l’astrofisico Alvio Renzini, una decina d’anni fa, diede il nome di Fe conundrum: l’enigma del ferro, appunto.

Un enigma per il quale il lavoro guidato da Molendi giunge ora a proporre una soluzione, suggerendo una revisione sia della massa delle stelle sia dell’efficienza con la quale le stelle producono ferro. E arrivando a stimare – giustapponendo misure in banda X e in banda ottica in un modello semplice, matematicamente descrivibile attraverso l’algebra e, in qualche caso, attraverso
il calcolo integrale – che solo circa un quarto del ferro si trovi ancora nelle stelle.

«Fino a una ventina di anni fa la convinzione generale era che, negli ammassi, il grosso del ferro fosse nelle stelle e solo una parte minore nel gas caldo», ricorda Molendi. «Negli ultimi anni, grazie anche a un nostro lavoro del 2021, almeno una parte della comunità si sta convincendo che negli ammassi il grosso del ferro si trovi nel gas caldo e non nelle stelle».

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Rappresentazione fumettistica di un “apex accretor”. Crediti: Silvano Molendi/Inaf

Quanto al processo di trasferimento dei metalli dalle strutture piccole dove vengono sintetizzati, le galassie appunto, a quelle più grandi, come gruppi e ammassi di galassie, Molendi e colleghi lo descrivono nel loro studio facendo ricorso a un’analogia con un concetto tratto dalla biologia, quello di predatore di vertice o apex predator: così come il pesce grande mangia quello piccolo, gli ammassi di galassie – le più grandi strutture nell’universo – diventano apex accretors, o “accrescitori di vertice”.

«Se poi spostiamo lo sguardo dagli ammassi all’universo in generale, la stima che proponiamo – quella secondo la quale circa 3/5 dei metalli sarebbero situati nel gas tiepido presente all’interno delle galassie e nello spazio intergalattico – è una novità assoluta», conclude Molendi. «È vero che diverse simulazioni cosmologiche prevedono risultati simili al nostro, ma questa è la prima volta in cui si misura, anche se indirettamente, la frazione di metalli in questo gas. Un altro risultato nuovo, strettamente collegato a quello appena descritto, è che la metallicità dell’universo attuale è un fattore 6-7 più grande di quanto precedentemente stimato».

Per una verifica diretta delle stime della metallicità del gas tiepido sarà però necessario attendere misure ad alta risoluzione spettrale nella banda degli X molli, come quelle che promette di fornire lo strumento X-Ifu a bordo del futuro telescopio spaziale per raggi X Athena dell’Esa, il cui lancio è previsto nella seconda metà degli anni Trenta.

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Assistendo al risveglio d’un buco nero


Alla fine del 2019, la galassia Sdss1335+0728 ha improvvisamente iniziato a brillare più che mai ed è stata classificata come nucleo galattico attivo, alimentato da un enorme buco nero nel nucleo della galassia. È la prima volta che il risveglio di un buc

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Rappresentazione artistica di due fasi della formazione di un disco di gas e polvere attorno al buco nero massiccio al centro della galassia Sdss1335+0728. Il nucleo di questa galassia si è acceso nel 2019 e continua a brillare ancora oggi: è la prima volta che osserviamo un buco nero massiccio attivarsi in tempo reale. Crediti: Eso/M. Kornmesser

Verso la fine del 2019, la galassia Sdss1335+0728, fino a quel momento del tutto trascurabile, ha improvvisamente iniziato a brillare più luminosa che mai. Per capirne il motivo, gli astronomi hanno utilizzato i dati provenienti da diversi osservatori spaziali e da terra, tra cui il Vlt (Very Large Telescope) dell’Eso (Osservatorio Europeo Australe), per seguire le variazioni di luminosità della galassia. In uno studio pubblicato oggi, concludono che stiamo assistendo a cambiamenti mai visti prima in una galassia, probabilmente il risultato dell’improvviso risveglio del buco nero massiccio nel nucleo.

«Immaginate di aver osservato per anni una galassia lontana e che essa sia sempre apparsa calma e inattiva», dice Paula Sánchez Sáez, astronoma dell’Eso in Germania e autrice principale dello studio accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics. «All’improvviso, il suo nucleo inizia a mostrare evidenti cambiamenti di luminosità, diversi da qualsiasi altro evento tipico osservato finora». Questo è quello che è successo a Sdss1335+0728, che ora, da quando è diventata così brillane nel dicembre 2019, viene classificata come dotata di un “nucleo galattico attivo” (Agn, dall’inglese active galactic nucleus) – una regione compatta e luminosa alimentata da un buco nero molto massiccio.

Alcuni fenomeni, come le esplosioni di supernova o gli eventi di distruzione mareale – cioè quando una stella si avvicina troppo a un buco nero e viene fatta a brandelli – possono rendere improvvisamente brillanti le galassie. Ma queste variazioni di luminosità durano tipicamente solo poche decine o, al massimo, qualche centinaio di giorni. Sdss1335+0728 continua a diventare sempre più luminosa, più di quattro anni dopo essere stata osservata “accendersi” per la prima volta. Inoltre, le variazioni osservate nella galassia, che si trova a 300 milioni di anni luce di distanza da noi, nella costellazione della Vergine, sono diverse da quelle mai viste prima e indirizzano gli astronomi verso una spiegazione alternativa.

Il gruppo di lavoro ha cercato di comprendere le variazioni di luminosità utilizzando una combinazione di dati di archivio e nuove osservazioni provenienti da diverse strutture, incluso lo strumento X-shooter installato sul Vlt dell’Eso nel deserto di Atacama, in Cile. Confrontando i dati rivelati prima e dopo il dicembre 2019, hanno scoperto che Sdss1335+0728 ora irradia molta più luce alle lunghezze d’onda ultravioletta, ottica e infrarossa. La galassia ha anche iniziato a emettere raggi X nel febbraio 2024. «Questo comportamento non ha precedenti», aggiunge Sánchez Sáez, che ha anche un’affiliazione con il Millennium Institute of Astrofisica (Mas) in Cile.

«L’opzione più concreta per spiegare questo fenomeno è che stiamo vedendo il nucleo della galassia che sta iniziando a mostrare attività», dice la coautrice Lorena Hernández García, del Mas e dell’Università di Valparaíso in Cile. «Se così fosse, questa sarebbe la prima volta che vediamo l’attivazione di un buco nero massiccio in tempo reale».

Al centro della maggior parte delle galassie, compresa la Via Lattea, si trovano buchi neri molto grandi, con massa pari a oltre centomila volte quella del Sole. «Questi mostri giganti di solito dormono e non sono direttamente visibili», spiega il coautore Claudio Ricci, dell’Università Diego Portales, sempre in Cile. «Nel caso di Sdss1335+0728, abbiamo potuto osservare il risveglio del buco nero massiccio, che improvvisamente ha iniziato a nutrirsi del gas disponibile nei dintorni, diventando molto luminoso».

«Questo processo non è mai stato osservato prima», sottolinea Hernández García. Studi precedenti avevano trovato alcune galassie inattive che dopo diversi anni erano diventate attive, ma questa è la prima volta che il processo stesso – il risveglio del buco nero – è stato osservato in tempo reale. «Questo potrebbe accadere anche a Sgr A*», aggiunge Ricci, che è anche affiliato al Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics dell’Università di Pechino, in Cina, «il buco nero massiccio situato al centro della nostra galassia», ma non è chiaro quanto ciò sia probabile.

Sono necessarie ulteriori osservazioni per escludere spiegazioni alternative. Un’altra possibilità è che stiamo assistendo a un evento di distruzione mareale insolitamente lento, o addirittura a un nuovo fenomeno. Se si trattasse effettivamente di un evento di distruzione mareale, questo sarebbe l’evento più lungo e debole mai osservato. «Indipendentemente dalla natura delle variazioni, questa galassia fornisce informazioni preziose su come i buchi neri crescono ed evolvono», conclude Sánchez Sáez. «Ci aspettiamo che strumenti come Muse, installato sul Vlt, o i futuri strumenti di Elt (Extremely Large Telescope) saranno fondamentali per comprendere perché la galassia sta diventando più luminosa».

Fonte: comunicato stampa Eso



Tre giorni nello spazio cambiano corpo e mente


Una raccolta di ben 44 studi, condotti da una collaborazione di oltre cento istituzioni e pubblicata la scorsa settimana su varie riviste del gruppo Nature, riporta i cambiamenti fisiologici e psicologici dell'equipaggio di Inspiration4, la prima missione

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Per la prima volta, la missione SpaceX ha lanciato quattro civili: Chris Sembroski, Sian Proctor, Jared Isaacman e Hayley Arceneaux. Crediti: SpaceX/Inspiration4

Con l’aumento dell’interesse verso i voli spaziali commerciali e le future missioni che mirano a portare l’uomo nuovamente sulla Luna e per la prima volta su Marte, emergono nuove sfide riguardanti gli effetti delle missioni spaziali sul corpo umano. In un momento in cui lo spazio sta diventando più accessibile ai civili, una collaborazione formata da ricercatori di oltre cento istituzioni ha condotto una serie di studi approfonditi – gli articoli del pacchetto Soma (Space Omics and Medical Atlas), pubblicati la settimana scorsa su varie riviste del gruppo Nature – sui cambiamenti fisici e psicologici dell’equipaggio di Inspiration4 (I4), la prima missione interamente civile operata da SpaceX.

In particolare, è stato monitorato l’equipaggio – composto da due donne e due uomini, uno dei quali, ventinovenne, è il più giovane astronauta americano – nel corso della missione di tre giorni lanciata a bordo di una capsula Dragon dal Kennedy Space Center nel settembre 2021, ponendo le basi per un database biomedico che potrebbe rivelarsi fondamentale per studiare e affrontare i rischi per la salute durante i voli spaziali.

Durante la missione, l’equipaggio ha viaggiato a una quota di 575 chilometri sopra la Terra – dunque in orbita terrestre bassa (Leo), ma comunque oltre l’orbita della Stazione spaziale internazionale – e ha affrontato rischi simili a quelli degli astronauti professionisti, come quelli dovuti all’esposizione alle radiazioni galattiche, ai campi gravitazionali alterati, all’isolamento e al confinamento. L’equipaggio di Inspiration4, durante la permanenza in orbita, ha anche effettuato un’ampia serie di esperimenti scientifici, che sono stati ora elaborati, sequenziati e analizzati, andando così a contribuire alla raccolta di 44 articoli.

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La cupola della capsula Dragon usata per la missione Inspiration 4. Crediti: SpaceX

Inspiration4 ha rappresentato un’opportunità senza precedenti per la scienza: prima della missione, la maggior parte dei dati sull’impatto dei viaggi spaziali sulla salute erano stati raccolti da agenzie spaziali governative da astronauti accuratamente selezionati e altamente addestrati. Non era chiaro, dunque, se i dati raccolti sarebbero stati applicabili anche ai voli con civili. Inoltre, la missione I4 si distingue dalle missioni degli astronauti della Iss – che in genere restano 120, 180 o 365 giorni – anche per la durata molto più contenuta. «Il monitoraggio della salute durante il volo spaziale è stato tradizionalmente riservato a pochi professionisti altamente selezionati e formati. Ciò rappresenta dunque un importante primo passo», sottolinea a questo proposito Mathias Basner, professore di psichiatria e coautore della ricerca sui cambiamenti molecolari e fisiologici condotta alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, «per determinare la sicurezza dei voli spaziali per i civili, in un momento in cui la possibilità di viaggiare nello spazio si sta aprendo a un numero sempre maggiore di persone».

Utilizzando dispositivi come Apple Watch e iPad per monitorare attività motoria, sonno e reazioni cardiovascolari, e somministrando – prima, durante e dopo il volo – una serie di test cognitivi (dieci brevi prove ideate dalla Penn Medicine per la Nasa), i ricercatori hanno monitorato i cambiamenti nella fisiologia e nel funzionamento neurocomportamentale dell’equipaggio di Inspiration4 in risposta all’ambiente del volo spaziale includendo vari parametri, tra cui la variabilità della frequenza cardiaca, la saturazione dell’ossigeno nel sangue, le prestazioni cognitive, la valutazione dello stress e degli stati comportamentali. Inoltre, i membri dell’equipaggio I4 sono stati sottoposti a brevi e ripetuti sondaggi per valutare cambiamenti sulla vigilanza e sull’umore.

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Jared Isaacman, a sinistra, e Hayley Arceneaux, due dei quattro membri dell’equipaggio Inspiration4, durante la missione nel 2021. Crediti: SpaceX

Durante il volo, l’equipaggio ha mostrato deficit di prestazioni su tre test cognitivi principalmente riguardanti l’attenzione, la ricerca visiva, l’assunzione di rischi, la memoria di lavoro e la velocità sensomotoria. A livello fisiologico, i cambiamenti cardiovascolari sono stati modesti e simili a quelli previsti, con una diminuzione della frequenza cardiaca tipica dell’ambiente di microgravità. L’umore e la vigilanza dell’equipaggio sono rimasti stabili durante il volo e non sono stati segnalati conflitti tra i membri dell’equipaggio.

La gamma di risposte fisiologiche indotte dalla breve permanenza nello spazio – ad esempio, il disallineamento oculare e le alterazioni del funzionamento neurocognitivo, alcune delle quali analoghe a quelle dei voli spaziali più lunghi – è stata ampia, ma quasi tutti i cambiamenti osservati sono tornati ai livelli precedenti al volo dopo il ritorno sulla Terra, coerentemente con i risultati di altri progetti di ricerca di Inspiration4.

I risultati dello studio rappresentano un punto di partenza fondamentale per capire meglio come il corpo e la mente umana reagiscono ai viaggi spaziali, anche di breve durata, aprendo la strada a future missioni sempre più inclusive e sicure per tutti. «Con l’espansione della capacità degli esseri umani di raggiungere lo spazio, ci auguriamo che la nostra ricerca sia un punto di riferimento per valutare l’impatto sul loro benessere mentale, emotivo e fisico», conclude Christopher W. Jones, professore di psichiatria alla Penn University e primo autore dello studio sui cambiamenti molecolari e fisiologici pubblicato su Nature.

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Collisione tra asteroidi nel disco di Beta Pictoris


Un team di astronomi guidato da Christine Chen della Johns Hopkins University ha osservato quelli che sembrano essere gli indizi di una collisione fra grandi asteroidi in Beta Pictoris, un sistema stellare a 63 anni luce da noi, conosciuto per la sua giov

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Un team guidato da Christine Chen, astronoma della Johns Hopkins University, ha rilevato dei cambiamenti nelle firme spettrali emesse dai granelli di polvere intorno a Beta Pictoris, un giovane sistema stellare non distante da noi. Confrontando le osservazioni recenti del Jwst con quelle fatte dallo Spitzer Space Telescope tra il 2004 e il 2005, gli autori dello studio sono riusciti a tracciare le differenze nella composizione e nella misura delle particelle di polvere presenti in una determinata regione a distanza di vent’anni. I risultati sono stati presentati la settimana scorsa al 244esimo meeting dell’American Astronomical Society a Madison, Wisconsin.

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Confronto tra la radiazione rilevata dal telescopio Spitzer nel 2004-05 (in rosso) e da Jwst nel 2023 (in giallo) nella stessa regione intorno a Beta Pictoris. Crediti: immagine di Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University, con una rappresentazione artistica di Beta Pictoris di Lynette Cook/Nasa

L’osservazione fa luce in particolare sui processi volatili che modellano i sistemi stellari come il nostro, offrendo una visione unica delle fasi primordiali della formazione planetaria.

«Beta Pictoris si trova in una fase evolutiva nella quale la formazione di pianeti terrestri avviene ancora tramite collisioni di asteroidi giganti, quindi quello che probabilmente abbiamo osservato è come pianeti rocciosi e altri corpi celesti si formano in tempo reale», spiega Chen.

Analizzando il segnale prodotto dal calore emesso dai silicati cristallini – minerali comunemente presenti intorno stelle giovani, così come sulla Terra e su altri corpi celesti – gli autori dello studio non hanno trovato alcuna traccia delle particelle la cui firma era stata osservata nel 2004-05. Questo suggerisce che quelle rilevate circa vent’anni fa da Spitzer siano le tracce di una collisione cataclismica tra asteroidi e altri oggetti che ha ridotto i corpi in particelle di polvere finissima, più del polline o dello zucchero a velo.

I nuovi dati suggeriscono che la polvere sia poi stata dispersa verso l’esterno dalla radiazione della stella al centro del sistema, e non sia dunque più rilevabile. Inizialmente, la polvere vicina alla stella si è scaldata, emettendo radiazione termica – quella identificata, appunto, dagli strumenti di Spitzer. Successivamente la polvere si è raffreddata a causa dell’allontanamento dalla stella, e dunque non emette più radiazione termica. «Questa è la migliore spiegazione che abbiamo», dice Chen. «Abbiamo assistito alle conseguenze di un evento cataclismico, poco frequente tra corpi di grandi dimensioni».

«La maggior parte delle scoperte di Jwst vengono da cose che il telescopio ha identificato direttamente», aggiunge una coautrice dello studio, Cicero Lu, ex dottoranda in astrofisica alla Johns Hopkins. «In questo caso, la storia è un po’ diversa perché i risultati sono emersi da qualcosa che il telescopio non ha visto».

Beta Pictoris, a circa 63 anni luce dalla Terra, è da tempo al centro dell’attenzione degli astronomi, sia a causa dalla sua relativa vicinanza sia per i processi casuali in atto, dove collisioni, clima e altri fattori sulla formazione planetaria detteranno il futuro del sistema. Avendo appena 20 milioni di anni, ed essendo dunque giovanissimo rispetto ai 4.5 miliardi di anni del Sistema solare, Beta Pictoris ha un’età chiave, nella quale i pianeti giganti si sono già formati, mentre quelli di tipo terrestre potrebbero essere ancora in fase formazione. Il sistema ha almeno due giganti gassosi conosciuti, Beta Pic b e Beta Pic c, che a loro volta influenzano i detriti e le polveri circostanti.

Quando Spitzer acquisì i primi dati, gli scienziati ipotizzarono che i corpi più piccoli, frantumandosi, avrebbero prodotto polvere costantemente nel tempo. Ma le nuove osservazioni di Webb hanno mostrato che la polvere è scomparsa senza essere rimpiazzata. La quantità di polvere sollevata, secondo le stime di Chen, è pari a circa 100mila volte quella che formava l’asteroide responsabile dell‘estinzione dei dinosauri.

I nuovi risultati mostrano l’ineguagliabile capacità del telescopio Webb di svelare la complessità degli esopianeti e dei sistemi stellari, sottolineano gli autori dello studio, e offrono indizi fondamentali su come l’architettura degli altri sistemi planetari possa somigliare al nostro. «Il problema che stiamo cercando di contestualizzare è se questo intero processo di formazione di pianeti terrestri e giganti sia comune o raro, e la domanda ancora più fondamentale è: i sistemi planetari come il Sistema solare sono così rari?», dice a questo proposito un altro coautore dello studio, Kadin Worthen, dottorando in astrofisica alla Johns Hopkins. «In pratica stiamo cercando di capire quanto siamo strani o normali».

Per saperne di più:

  • Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical JournalMIRI MRS Observations of Beta Pictoris I. The Inner Dust, the Planet, and the Gas”, di Kadin Worthen, Christine H. Chen, David R. Law, Cicero X. Lu, Kielan Hoch, Yiwei Chai, G.C. Sloan, B. A. Sargent, Jens Kammerer, Dean C. Hines, Isabel Rebollido, William O. Balmer, Marshall D. Perrin, Dan M. Watson, Laurent Pueyo, Julien H. Girard, Carey M. Lisse e Christopher C. Stark


Raffiche di vento relativistico da un lontano quasar


Tramite osservazioni multibanda, un gruppo di astrofisici guidati da Manuela Bischetti dell'Inaf e dell'Università di Trieste ha studiato, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più l

media.inaf.it/2024/06/18/venti…
Un team di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e dall’Università di Trieste ha di nuovo imbrigliato i lontanissimi ed energici venti relativistici generati da un quasar distante ma decisamente attivo (uno tra i più luminosi finora scoperti). In uno studio pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal viene riportata la prima osservazione a diverse lunghezze d’onda dell’interazione tra buco nero e il quasar della galassia ospite durante le fasi iniziali dell’universo, circa 13 miliardi di anni fa. Oltre all’evidenza di una tempesta di gas generata dal buco nero, gli autori dello studio hanno scoperto per la prima volta un alone di gas che si estende ben oltre la galassia, suggerendo la presenza di materiale espulso dalla galassia stessa tramite i venti generati dal buco nero.

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Alone gigante di gas freddo, esteso quasi 50mila anni luce, rivelato attorno ad una galassia dell’universo di circa 13 miliardi di anni fa tramite osservazioni multibanda. Questa scoperta fornisce informazioni chiave su come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’universo giovane. Crediti: International Gemini Observatory/NoirLab/Nsf/Aura/M. Zamani, J. da Silva & M. Bischetti

La galassia protagonista dello studio è J0923+0402, un oggetto lontanissimo da noi – per la precisione, a redshift z = 6.632 (ossia la radiazione che osserviamo è stata emessa quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni) – con al centro un quasar. La luce dei quasar viene prodotta quando il materiale galattico che circonda il buco nero supermassiccio si raccoglie in un disco di accrescimento. Infatti, nell’avvicinarsi al buco nero per poi esserne inghiottita, la materia si scalda emettendo grandi quantità di radiazione brillante nella luce visibile e ultravioletta.

«L’utilizzo congiunto di osservazioni multibanda ha permesso di studiare, in un range di scale spaziali molto ampio e dalle regioni più nucleari fino al mezzo circumgalatico, il quasar più lontano con misura di vento nucleare e l’alone di gas più esteso – circa 50mila anni luce – rilevato in epoche remote», dice Manuela Bischetti, prima autrice dello studio e ricercatrice presso l’Inaf e l’Università di Trieste.

I dati descritti nell’articolo sono frutto della collaborazione di gruppi di ricerca che lavorano su frequenze diverse dello spettro elettromagnetico. In primis lo spettrografo X-Shooter, installato sul Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, ha captato raffiche di materia, in gergo Bal winds (venti con righe di assorbimento larghe, in inglese broad absorption line), in grado di raggiungere velocità relativistiche fino a decine di migliaia di chilometri al secondo, misurandone e calcolandone le caratteristiche. Le potenti antenne cilene di Alma (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array dell’Eso), ricevendo frequenze dai 242 ai 257 GHz provenienti dall’alba del cosmo, sono state attivate per cercare la controparte nel gas freddo dei venti Bal e capire se si estendesse oltre la scala della galassia.

«I Bal sono venti che si osservano nello spettro ultravioletto del quasar che, data la grande distanza da noi, vediamo a lunghezze d’onda dell’ottico e vicino infrarosso», spiega Bischetti. «Per fare queste osservazioni abbiamo usato lo spettrografo X-Shooter del Very Large Telescope. Avevamo già scoperto il Bal di questo quasar due anni fa. Il problema è che non sapevamo quantificare quanto fosse energetico. Questo vento Bal è un vento di gas caldo (decine di migliaia di gradi) che si muove a decine di migliaia di km/s. Allo stesso tempo le osservazioni in banda millimetrica di Alma ci hanno permesso di capire cosa stia succedendo nella galassia e attorno a essa andando a vedere cosa succede al gas freddo (qualche centinaio di gradi). Abbiamo trovato che il vento si estende anche sulla scala della galassia (ma ha delle velocità più basse, 500 km/s. Questa è una cosa aspettata, il vento decelera man mano che si espande), il che ci ha fatto pensare che questo mega alone di gas sia stato creato dal materiale che i venti hanno espulso dalla galassia».

La posizione della sorgente energetica è stata poi “immortalata” dapprima dalla Hyper Suprime-Cam (Hsc), una gigantesca fotocamera installata sul telescopio Subaru e sviluppata dal National Astronomical Observatory of Japan (Naoj), e – con una misura molto più accurata – dalla NirCam, una fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio spaziale James Webb (Jwst, delle agenzie spaziali Nasa, Esa e Csa). «Questo quasar verrà osservato nuovamente dal Jwst in futuro per studiare meglio sia il vento che l’alone», annuncia Bischetti.

«Ci siamo chiesti se l’attività del buco nero», prosegue la ricercatrice, spiegando il perché di questa survey, «potesse avere un impatto sulle fasi iniziali di evoluzione delle galassie, e tramite quali meccanismi questo avvenga. Vincente è stata la combinazione di dati multibanda che vanno dall’ottico e vicino infrarosso – per misurare le proprietà del buco nero, e cosa avviene nel nucleo della galassia – fino alle osservazioni in banda millimetrica – per studiare cosa avviene all’interno e attorno alla galassia». Le misure effettuate, aggiunge, «sono di routine nell’universo locale, ma questi risultati non erano mai stati ottenuti prima a redshift z > 6».

«Il nostro studio ci aiuta a capire come il gas venga espulso o catturato dalle galassie dell’universo giovane e come i buchi neri crescono e possono avere un impatto sull’evoluzione delle galassie. Sappiamo che il fato delle galassie come la Via Lattea è strettamente legato a quello dei buchi neri, poiché questi possono generare tempeste galattiche in grado di spegnere la formazione di nuove stelle. Studiare le epoche primordiali ci permette di capire le condizioni iniziali dell’universo che vediamo oggi», conclude Bischetti.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Multi-phase black-hole feedback and a bright [CII] halo in a Lo-BAL quasar at z∼6.6”, di Manuela Bischetti, Hyunseop Choi, Fabrizio Fiore, Chiara Feruglio, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Eduardo Bañados, Huanqing Chen, Roberto Decarli, Simona Gallerani, Julie Hlavacek-Larrondo, Samuel Lai, Karen M. Leighly, Chiara Mazzucchelli, Laurence Perreault-Levasseur, Roberta Tripodi, Fabian Walter, Feige Wang, Jinyi Yang, Maria Vittoria Zanchettin e Yongda Zhu


Premio L’Oréal-Unesco a Giada Peron


Oggi L’Oréal Italia ha annunciato le sei vincitrici della ventiduesima edizione italiana del Premio Young Talents Italia bandito da L’Oréal Italia Unesco per le donne e la scienza. La gara è stata durissima: la giuria ha selezionato fra ben 260 candidatur

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La cerimonia di premiazione della XXII edizione italiana del premio L’Oréal-Unesco per le donne e la scienza 2024. Crediti: L’Oréal-Unesco for Women in Science

L’Oréal Italia ha annunciato oggi le sei vincitrici della ventiduesima edizione italiana del premio Young Talents Italia bandito da L’Oréal Italia Unesco per le donne e la scienza. La gara è stata durissima: la giuria ha selezionato fra ben 260 candidature le sei ricercatrici più meritevoli per i loro progetti, e tra queste c’è anche la trentenne Giada Peron dell’Istituto nazionale di astrofisica. Durante la cerimonia, avvenuta oggi pomeriggio a Milano, sono intervenute anche la ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini e la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Maria Roccella con un messaggio video.

Dal 2002, ogni anno il programma “L’Oréal Italia per le Donne e la Scienza” ha supportato sei giovani scienziate con altrettante borse di studio del valore di ventimila euro per promuovere concretamente il progresso scientifico e l’empowerment femminile.

«Questo premio è una conferma ma anche una responsabilità che mi rende felice e orgogliosa di quello che ho fatto fino a qui, ma che mi spinge anche a fare sempre meglio», dice soddisfatta Peron a Media Inaf. «Spero che la mia storia sia un esempio per le nuove generazioni a perseguire le loro passioni e i loro talenti, facendosi spingere sempre e solo dalla propria determinazione».

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Giada Peron. Crediti: Inaf

Giada Peron, assegnista di ricerca all’Inaf Osservatorio di Arcetri, è specializzata nell’astrofisica delle alte energie e in particolare la sua ricerca si concentra sull’osservazione in banda gamma di oggetti galattici come i resti di supernova, le nubi molecolari e gli ammassi stellari. Si è aggiudicata il Premio L’Oréal con un progetto sul contributo degli ammassi stellari ai raggi cosmici galattici.

«Se per molto tempo si è pensato che i resti di supernova fossero sufficienti a spiegare le quantità osservate di raggi cosmici, di recente abbiamo visto che, sia dal punto di vista energetico che dal punto di vista chimico, i resti di supernova non bastano ed è quindi necessaria una seconda componente di origine diversa», spiega Peron. «Gli ammassi stellari potrebbero essere la chiave per spiegare le anomalie che osserviamo ma servono conferme dal punto di vista sperimentale. Il mio progetto ha proprio lo scopo di quantificare usando misure da satellite (Fermi-Lat) e da terra (con i futuri Astri-MiniArray e Ctao) quant’è la frazione di raggi cosmici che si riescono ad accelerare negli ammassi di giovani stelle».

«Da anni grazie alla Fondazione L’Oréal sosteniamo le donne e ne favoriamo l’empowerment con diverse iniziative affinché possano dare forma al proprio futuro e fare la differenza all’interno della società», commenta Ninell Sobiecka, presidente e amministratrice delegata di L’Oréal Italia. «Sono molto felice oggi di premiare queste sei giovani e brillanti ricercatrici italiane che potranno, grazie a questo riconoscimento, non solo portare avanti i loro ambiziosi progetti contribuendo al progresso scientifico del nostro Paese ma essere anche di esempio per altrettante future scienziate spronandole a intraprendere carriere in ambito Stem, perché mai come adesso crediamo che il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne». Le altre cinque ricercatrici premiate sono la neurobiologa Bernadette Basilico, l’ecologa Veronica Nava, le fisiche Federica Fabbri e Chiara Trovatello e l’ingegnere biomedico Anna Corti.

Da quest’anno, in accordo con la giuria – composta da voci esperte del panorama scientifico italiano e presieduta da Lucia Votano dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – le borse di studio sono diventate veri e propri premi, per coinvolgere un numero più ampio di ricercatrici e per avere una maggiore compatibilità con altre borse di studio che le candidate potrebbero vincere. Un’apertura che vuole dare ancora una volta un segnale forte: un supporto concreto per giovani ricercatrici che potranno portare avanti la propria attività di ricerca e il proprio progetto di studio in Italia.



Notti d’estate, dieci quelle in programma ad Arcetri


Al via la rassegna di eventi per il pubblico "Notti d’estate ad Arcetri", che si svolge ogni anno al Teatro del cielo dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto nazionale di astrofisica. Per l’edizione 2024, intitolata “Ver

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La rassegna estivi di eventi “Notti d’Estate ad Arcetri”. Crediti: Inaf

Al via martedì 18 giugno la rassegna di eventi per il pubblico Notti d’estate ad Arcetri, che si svolge ogni anno al Teatro del cielo dell’Osservatorio astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto nazionale di astrofisica. Per l’edizione 2024 – Verso nuove frontiere – sono in programma dieci appuntamenti, ogni martedì e giovedì dal 18 giugno al 18 luglio prossimi.

Verso le frontiere della conoscenza è la direzione verso la quale la rassegna – curata da chi scrive – vorrebbe accompagnare gli spettatori, alla scoperta dei temi più attuali dell’astrofisica moderna e della ricerca spaziale, ispirando la curiosità di chi è appassionato ai misteri dell’universo e di chi vuole addentrarsi nella metodologia della ricerca scientifica. Dopo ogni incontro tra i protagonisti della ricerca e il pubblico, che si terrà all’aperto nel Teatro del cielo dell’Osservatorio, sarà possibile – se le condizioni atmosferiche lo permettono – osservare il cielo al telescopio guidati dai ricercatori e dalle ricercatrici dell’Inaf e visitare il telescopio storico Amici.

Fin dalla prima serata, quella di martedì 18 giugno, si entra nel vivo delle sfide del futuro con la conferenza “Alla scoperta del cosmo con l’intelligenza artificiale”, nella quale Francesco Belfiore e Germano Sacco racconteranno delle opportunità – ma anche delle trappole e dei pregiudizi – dell’intelligenza artificiale e del suo uso in astrofisica e non soltanto. Non teme la partita degli Europei di calcio l’incontro del 20 giugno sugli asteroidi, dedicato ai più piccoli: con Daniele Gardiol e Francesca Brunetti, si parlerà del fumetto Frammenti di cielo, prodotto dal gruppo Storie di EduInaf, e ha già fatto il tutto esaurito. Il 25 giugno la serata sarà invece dedicata a scoprire perché la missione europea Hera, in rampa di lancio il prossimo ottobre, si dirigerà verso l’asteroide Didymos, e a raccontarlo sarà direttamente Ian Carnelli dell’Esa, project manager di Hera.

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Il Teatro del Cielo dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, a Firenze. Crediti: Inaf

«Come da tradizione anche quest’anno il nostro Osservatorio apre le porte al pubblico con le Notti d’estate ad Arcetri, un appuntamento a cui siamo molto legati», dice Simone Esposito, direttore dell’Osservatorio. «Un evento speciale, il 27 giugno, sarà dedicato ai primi vent’anni del Large Binocular Telescope, situato in Arizona (Stati Uniti) e nato da una collaborazione tra l’Osservatorio di Arcetri e l’università dell’Arizona. Con questa serata vorremmo ricordare che Lbt è stato ed è attualmente un’occasione di crescita scientifica e tecnologica di grande importanza per l’astronomia italiana». A ripercorrere i passi di “Lbt, da Firenze all’Arizona” insieme a Simone Esposito ci saranno Adriano Fontana, presidente della Lbt Corporation di Tucson, e le immagini scattate dal fotografo Renato Cerisola che rimarranno esposte ad Arcetri fino alla fine della rassegna.

Negli successivi appuntamenti di luglio verrà ripercorsa “L’evoluzione della materia nell’universo: dagli atomi alla vita”, con Teresa Fornaro e Laura Magrini (martedì 2 luglio) e verrà osservato lo strano comportamento dei neutrini insieme a Francesco Vissani dell’Infn con “Viaggio al centro del Sole” (giovedì 4 luglio).

L’intrigante legame fra le meraviglie del cosmo e le armonie della musica verrà messo in scena martedì 9 luglio dall’astrofisico Marco Padovani e dal percussionista Nazareno Caputo (La Filharmonie – Orchestra Filarmonica di Firenze) ne “L’Universo risonante”, ricordando che molti scienziati sono stati anche grandi appassionati di musica come Galileo, Herschel ed Einstein. Si resterà ancora in campo tecnologico l’11 luglio, con Runa Briguglio e Nicolò Azzaroli del laboratorio di ottica adattiva Adoni, percorrendo la strada tortuosa che fa uno specchio quanto passa da un’idea a un telescopio vero e proprio (in particolare parleremo dello specchio M4 destinato all’Extremely Large Telescope dell’Eso, il telescopio di classe 40 metri in costruzione sulle Ande Cilene). A seguire, Emanuele Nardini insieme a Beta Lusso e Guido Risaliti dell’università di Firenze (il 16 luglio) guideranno il pubblico alla scoperta de “La vita movimentata dei buchi neri” fino ad arrivare alla serata finale – giovedì 18 luglio – con uno dei temi dell’astrofisica di cui sentiremo ancora molto parlare in futuro: “Ascoltare lo scontro dei buchi neri con le onde gravitazionali”, con Filippo Mannucci e Alberto Sesana (Università Milano Bicocca).

Vi aspettiamo.

Per consultare il programma completo e prenotare:




Eppur si muove, ai confini della materia oscura


Sviluppando una nuova tecnica che consente di misurare le curve di rotazione delle galassie tramite il fenomeno della lente gravitazionale debole, un nuovo studio dimostra che le velocità di rotazione rimangono inaspettatamente costanti anche a distanze m

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Lo studio di gruppo di ricerca di cui fa parte anche l’Istituto nazionale di astrofisica mette in discussione i modelli cosmologici generalmente condivisi sul mistero della materia oscura. Pubblicato oggi su arXiv e in stampa su The Astrophysical Journal Letters, il risultato aggiunge un tassello importante alla risoluzione dell’enigma della materia oscura – la cui natura è una delle grandi domande dell’astrofisica moderna, tuttora senza risposta – mettendo potenzialmente in discussione i modelli cosmologici generalmente condivisi. Il gruppo di ricerca che ha firmato lo studio ha dimostrato che le velocità di rotazione delle galassie rimangono inaspettatamente costanti anche a distanze molto grandi dal loro centro, confermando le previsioni della teoria della gravità modificata Modified Newtonian Dynamics (Mond), che non contempla la presenza di materia oscura nell’universo.

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Grafico che illustra le osservazioni riportate nell’articolo: i punti rossi mostrano la curva di rotazione della galassia Ugc 6614 usando osservazioni “classiche” della cinematica del gas, mentre i punti celesti mostrano il nuovo risultato statistico usando la tecnica del weak lensing. Crediti: T. Mistele et al. (2024)

In questo lavoro è stata sviluppata una nuova tecnica che consente di misurare le cosiddette curve di rotazione delle galassie – ovvero le velocità di rotazione delle galassie dal loro centro – fino a grandissime distanze, pari a circa due milioni e 500mila anni luce. La tecnica utilizzata sfrutta il fenomeno della lente gravitazionale debole (weak gravitational lensing). Le implicazioni di questa scoperta potrebbero essere potenzialmente molto ampie, portando a ridefinire la nostra comprensione della materia oscura anche tramite teorie cosmologiche alternative.

Il fenomeno della lente gravitazionale è stato previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein e si verifica quando un oggetto massiccio, come un ammasso di galassie o anche una singola stella massiccia, devia il percorso della luce proveniente da una sorgente lontana con il suo campo gravitazionale. Questa curvatura della luce avviene perché la massa dell’oggetto deforma il tessuto dello spaziotempo che lo circonda.

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Federico Lelli (Inaf), esperto di dinamica delle galassie e dei sistemi di galassie (gruppi e ammassi) come banchi di prova sia per teorie di materia oscura che per teorie gravitazionali alternative. Crediti: Inaf

«Abbiamo usato la tecnica del weak gravitational lensing per misurare in modo statistico la “curva di rotazione” media di galassie di diversa massa, raggiungendo grandissime distanze dal centro», spiega Federico Lelli, primo ricercatore all’Inaf di Arcetri e coautore dello studio. «Troviamo che le curve di rotazione continuano a rimanere piatte per centinaia di migliaia di anni luce, possibilmente fino a qualche milione di anni luce: questo è sorprendente, perché a tali distanze ci si aspetterebbe di aver raggiunto il “bordo” dell’alone di materia oscura, quindi le curve di rotazione dovrebbero iniziare a mostrare una decrescita kepleriana, ma invece rimangono piatte».

Le curve di rotazione misurano la velocità che un corpo celeste (come una stella o una nube di gas) a una certa distanza dal centro galattico deve avere per rimanere in un’orbita circolare attorno alla galassia. La presenza di materia oscura nelle galassie è stata dedotta studiando proprio le curve di rotazione, negli anni a cavallo tra il 1970 e 1980. Si ritiene le curve di rotazione delle galassie debbano diminuire con l’aumentare della distanza dal centro della galassia. Secondo la gravità newtoniana, le stelle che si trovano ai margini esterni della galassia dovrebbero essere più lente a causa di una minore attrazione gravitazionale. Poiché questa ipotesi non corrisponde alle osservazioni, gli scienziati hanno ipotizzato la presenza della cosiddetta materia oscura, che non emetterebbe radiazione elettromagnetica ma sarebbe rilevabile solo mediante gli effetti del suo campo gravitazionale. Anche supponendo l’esistenza della materia oscura, però, a un certo punto il suo effetto dovrebbe affievolirsi con la distanza, e quindi le curve di rotazione delle galassie non dovrebbero rimanere costanti in modo indefinito.

Lo studio mette in dubbio questa ipotesi, fornendo una rivelazione sorprendente: l’influenza di quella che chiamiamo materia oscura si estende ben oltre le stime precedenti, ovvero per almeno un milione di anni luce dal centro galattico. Una forza così estesa potrebbe indicare paradossalmente che la materia oscura, come intesa finora, potrebbe non esistere affatto.

«Questa scoperta mette in discussione i modelli esistenti», dice Tobias Mistele della Case Western Reserve University e primo autore dello studio, «suggerendo che esistono o aloni di materia oscura molto estesi o che dobbiamo rivedere radicalmente la nostra comprensione della teoria gravitazionale».

«Abbiamo usato questi dati», aggiunge Lelli, « per studiare la relazione di Tully-Fisher – una legge di scala tra la massa barionica (quella di cui sono fatte le stelle e il gas) e la velocità di rotazione delle galassie – trovando che la stessa legge persiste quando utilizziamo le velocità misurate a grandissime distanze. Tale risultato non è affatto ovvio, poiché a tali distanze la velocità di rotazione è determinata interamente dalla materia oscura, non da quella barionica. Le osservazioni ci permettono di raggiungere distanze dal centro galattico enormemente grandi, circa venti volte maggiori rispetto a quelle raggiunte con le tecniche classiche. Con grande sorpresa, abbiamo trovato che le curve di rotazione rimangono quasi perfettamente piatte – in altre parole, la velocità rimane costante – fino alle distanze più grandi che siamo in grado di raggiungere».

Questo tipo di studio intende chiarire quale sia la natura della materia oscura, ovvero se questi fenomeni gravitazionali siano dovuti a un nuovo tipo di particella elementare “invisibile” ancora da scoprire, oppure se vi sia la necessità di rivedere le leggi gravitazionali di Newton ed Einstein.

«Questo risultato non ha una spiegazione ovvia nel contesto cosmologico standard della Lambda Cold Dark Matter (Lambda-Cdm) e potrebbe avere a che fare con l’ambiente della galassia», precisa Lelli «ovvero con la distribuzione degli aloni di materia oscura più piccoli che si ritiene orbitare attorno all’alone principale. Per limitare questo effetto, infatti, abbiamo selezionato le nostre galassie per essere il più isolate possibile».

Curve di rotazione piatte fino a grandi raggi erano già state predette dalla teoria della gravità modificata Mond, proposta dal fisico Mordehai Milgrom nel 1983 come alternativa alla materia oscura. «Le nostre osservazioni sono in accordo con quanto predetto da Mond più di 40 anni fa», conclude Lelli.

Sono ora necessari ulteriori studi per chiarire l’avvincente rompicapo cosmologico e scrivere una nuova pagina di storia dell’astrofisica moderna.

Per saperne di più:

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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L’universo primordiale di Webb è esplosivo


Il programma osservativo Jades , basato sui dati del telescopio spaziale Webb, sta rilevando esplosioni di supernova quando l’universo aveva meno di due miliardi di anni. Le luci di queste esplosioni sono apparse confrontando le immagini di Webb a distanz

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Esplodevano come popcorn in pentola, le supernove nell’universo primordiale. Almeno secondo quanto sta osservando Webb, che finora ne ha contate un numero dieci volte superiore a quello precedentemente conosciuto. Questi fuochi d’artificio cosmici apparirebbero confrontando immagini scattate a distanza di un anno, visibili alle lunghezze infrarosse grazie al fenomeno del redshift cosmologico. I risultati sono stati presentati in una conferenza stampa durante il 244° meeting dell’American Astronomical Society a Madison, nel Wisconsin.

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Immagine di Webb che mostra circa 80 oggetti (cerchiati in verde) che hanno cambiato luminosità nel tempo. La maggior parte di questi oggetti, noti come transienti, sono il risultato dell’esplosione di stelle o supernove nell’universo primordiale.
Crediti: Nasa, Esa, Csa, Stsci, Collaborazione Jades

Le immagini poste a confronto sono state raccolte nell’ambito del programma Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey (Jades), che sfrutta il fatto che la luce emessa dall’esplosione di una supernova nell’universo primordiale viene “stirata” a lunghezze d’onda infrarosse – quelle viste da Webb – a causa dell’espansione dell’Universo, un fenomeno noto come redshift cosmologico.

Prima del lancio di Webb, solo una manciata di supernove era stata trovata sopra redshift 2, una distanza che corrisponde a un’età dell’universo di appena 3,3 miliardi di anni. Ora, invece, il campione Jades contiene molte supernove che sono esplose addirittura quando l’universo aveva meno di 2 miliardi di anni. La più vecchia si trova a redshift 3.6: la sua stella progenitrice è esplosa quando l’universo aveva solo 1,8 miliardi di anni. In tutto, gli oggetti identificati dal team di Jades sono 80, e li vedete cerchiati in verde nell’immagine sulla destra. Sono tutti oggetti “transienti”, che hanno cioè mutato la propria luminosità nel tempo, e molti di questi a causa dell’esplosione di una stella in supernova.

«Il fatto che il telescopio spaziale Webb stia trovando un gran numero di supernove era atteso», commenta Andrea Pastorello, ricercatore dell’Inaf di Padova esperto di supernove e non coinvolto nel programma Jades. «L’efficienza dello strumento permette di arrivare a redshift estremamente elevati e quindi campiona un volume significativo di universo. L’effetto del redshift sposta l’emissione delle supernove dal dominio ottico a quello infrarosso, rendendo questo telescopio ideale per la loro scoperta».

Di supernove ce n’è di vari tipi, e quelle più interessanti dal punto di vista cosmologico sono le supernove di tipo Ia. Si tratta di oggetti speciali, perché durante l’esplosione raggiungono una luminosità di picco sempre uguale. Si dice, in gergo, che sono candele standard: questa loro caratteristica viene infatti utilizzata per misurare la distanza delle galassie lontane in cui esplodono e per calcolare il tasso di espansione dell’universo.

Webb ha identificato almeno una supernova di Tipo Ia a un redshift di 2,9: significa che la luce di questa esplosione ha iniziato a viaggiare verso di noi 11,5 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 2,3 miliardi di anni. Il precedente record di distanza per una supernova di tipo Ia confermata spettroscopicamente era un redshift di 1,95, quando l’universo aveva 3,4 miliardi di anni.

Con queste nuove esplosioni per le mani, la domanda è: la loro luminosità era diversa così lontano nel tempo e nello spazio, quando l’universo era più giovane? Se la risposta fosse sì, e la loro luminosità variasse con il redshift, significherebbe che non sarebbero dei marcatori affidabili per misurare le distanze, e dunque il tasso di espansione dell’universo. Ebbene, l’analisi di questa supernova di tipo Ia trovata a redshift 2,9 non sembra indicare alcuna variazione di luminosità. Sono necessari ulteriori dati, ma per ora le teorie basate su queste sorgenti esplosive sono salve.

«Scoprire supernove primordiali e poterle osservare anche in spettroscopia ci permette di capire come variano le proprietà dei diversi tipi di supernove con il redshift», spiuga Pastorello. «Questo ha ovvie conseguenze nel loro uso come indicatori di distanza. Inoltre, determinare come varia la composizione del materiale eiettato dalle supernove distanti rispetto a quelle “locali” è utile per comprendere come la composizione chimica dei progenitori (ovvero delle stelle da cui provengono) ne determini il cammino evolutivo. Questo aiuta la nostra comprensione dei meccanismi che regolano i vari tipi di esplosioni stellari».



Osservato il più piccolo di una coppia di buchi neri


Diversi gruppi di ricerca avevano già confermato la presenza di due buchi neri al centro della galassia Oj 287, a circa quattro miliardi di anni luce dalla Terra, suggerita per la prima volta dagli astronomi dell’Università di Turku, in Finlandia. Un nuov

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Due buchi neri in orbita l’uno intorno all’altro. Entrambi hanno dei getti associati: il più grande di colore rossastro e il più piccolo di colore giallastro. Normalmente si vede solo il getto rossastro, ma durante le 12 ore del 12 novembre 2021, il getto del più piccolo ha dominato, dandoci una prova della sua esistenza. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/R. Hurt (Ipac) & M. Mugrauer (Aiu Jena)

Nel 2021, Tess (acronimo di Transiting Exoplanet Survey Satellite, il cacciatore di esopianeti della Nasa), ha rivolto il suo sguardo verso una galassia lontana lontana, denominata Oj 287. L’ha fatto perché, secondo una teoria proposta da ricercatori finlandesi, al centro di questa galassia dovrebbero esserci due buchi neri in orbita l’uno attorno all’altro. Così Tess, per confermarlo, ha trascorso diverse settimane a osservare in quella direzione, trovando effettivamente prove indirette dell’esistenza di un buco nero in orbita attorno a un altro con una massa 100 volte più grande.

Per verificare l’esistenza del buco nero più piccolo, Tess ha monitorato la luminosità di quello più grande e del getto a esso associato. Effettivamente, l’osservazione diretta del buco nero più piccolo che orbita attorno a quello più grande è molto difficile, ma la sua presenza è stata rivelata indirettamente da un improvviso aumento di luminosità del sistema.

Sebbene questo tipo di evento non fosse mai stato osservato in Oj 287, Pauli Pihajoki dell’Università di Turku in Finlandia lo aveva previsto nella sua tesi di dottorato già nel 2014. Pihajoki in realtà aveva fatto molto di più, prevedendo addirittura il periodo in cui si sarebbe verificato il “brillamento”, alla fine del 2021. È per questo motivo che, alla fine di quell’anno, diversi satelliti e telescopi erano puntati in quella direzione.

Tess ha rilevato il brillamento previsto il 12 novembre 2021 alle 2 del mattino Gmt e le osservazioni sono state pubblicate su The Astrophysical Journal nel dicembre 2023. L’evento è durato solo 12 ore. La breve durata dimostra che è molto difficile trovare un burst di grande luminosità se non se ne conosce in anticipo la tempistica. In questo caso, la teoria dei ricercatori di Turku si è rivelata corretta e Tess ha puntato su Oj 287 proprio al momento giusto. La scoperta è stata confermata anche dal telescopio Swift della Nasa, puntato sullo stesso obiettivo. Un’ampia collaborazione internazionale guidata da Staszek Zola della Università Jagellonica di Cracovia, in Polonia, ha rilevato lo stesso evento utilizzando telescopi in diverse parti della Terra. Inoltre, un gruppo della Università di Boston (Usa), guidato da Svetlana Jorstad e altri osservatori, ha confermato la scoperta studiando la polarizzazione della luce prima e dopo il brillamento.

Ora, in un nuovo studio che combina tutte le osservazioni precedenti, Mauri Valtonen e il suo gruppo di ricerca dell’Università di Turku hanno dimostrato che l’aumento di luminosità di 12 ore proveniva dai dintorni del buco nero più piccolo del sistema.

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Il burst osservato appare come una brusca impennata nella curva di luce, mostrando come un oggetto normalmente poco luminoso si sia illuminato improvvisamente. Nell’angolo superiore, il flaring osservato è mostrato in maggior dettaglio. La quantità di luce emessa nel burst è equivalente alla luminosità di circa 100 galassie. Crediti: Kishore et al. 2024

Secondo i ricercatori, la rapida esplosione di luminosità si è verificata quando il buco nero più piccolo ha “inghiottito” una grossa fetta del disco di accrescimento che circonda quello più grande, trasformandolo in un getto di gas verso l’esterno. Per circa 12 ore, il getto del buco nero più piccolo è quindi stato più luminoso di quello del buco nero più grande.

Il colore di Oj 287 è risultato, in questo periodo di tempo, meno rosso del solito. Era più tendente al giallo, il che significa che per quelle 12 ore è stata vista la luce del buco nero più piccolo. Gli stessi risultati possono essere dedotti da altre caratteristiche della luce emessa da Oj 287 nello stesso periodo di tempo.

«Ora possiamo dire di aver “visto” per la prima volta un buco nero orbitante, allo stesso modo in cui possiamo dire che Tess ha visto pianeti in orbita attorno ad altre stelle. E proprio come nel caso dei pianeti, è estremamente difficile ottenere un’immagine diretta del buco nero più piccolo. Infatti, a causa della grande distanza di Oj 287, che sfiora i quattro miliardi di anni luce, probabilmente ci vorrà molto tempo prima che i nostri metodi di osservazione siano sufficientemente sviluppati per catturare un’immagine, anche del buco nero più grande», afferma Valtonen.

«Il buco nero più piccolo potrebbe presto rivelare la sua esistenza in altri modi, poiché si prevede che emetta onde gravitazionali al nano-Hertz. Le onde gravitazionali di Oj 287 dovrebbero essere rilevabili nei prossimi anni con i pulsar timing array», conclude il co-autore Achamveedu Gopakumar del Tata Institute of Fundamental Research, in India.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Evidence of Jet Activity from the Secondary Black Hole in the OJ 287 Binary System” di Mauri J. Valtonen, Staszek Zola, Alok C. Gupta, Shubham Kishore, Achamveedu Gopakumar, Svetlana G. Jorstad, Paul J. Wiita, Minfeng Gu, Kari Nilsson, Alan P. Marscher, Zhongli Zhang, Rene Hudec, Katsura Matsumoto, Marek Drozdz, Waldemar Ogloza, Andrei V. Berdyugin, Daniel E. Reichart, Markus Mugrauer, Lankeswar Dey, Tapio Pursimo, Harry J. Lehto, Stefano Ciprini, T. Nakaoka, M. Uemura, Ryo Imazawa, Michal Zejmo, Vladimir V. Kouprianov, James W. Davidson Jr., Alberto Sadun, Jan Štrobl, Z. R. Weaver e Martin Jelínek


Hubble si dovrà accontentare d’un solo giroscopio


Accertata l’impossibilità di continuare a utilizzarlo in modalità standard, vale a dire con tre giroscopi, la Nasa ha annunciato che Hubble – in “safe mode” dallo scorso 24 maggio – riprenderà le operazioni scientifiche in “one-gyro mode”, cioè con un gir

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L’astronauta Mike Massimino intento a rimuovere e sostituire le Rate Sensor Units di Hubble, che contengono i giroscopi del telescopio, durante la Servicing Mission del 2009, nel corso della quale tutti e sei i giroscopi sono stati sostituiti. Crediti: Nasa

Necessari ai telescopi spaziali per effettuare correttamente le manovre di puntamento, quanto a fragilità e sensibilità all’usura i giroscopi sono le anche e i menischi dei satelliti: man mano che gli anni passano, sono i primi a subire acciacchi. Per questo si tende a metterne in quantità ridondante e, quando è possibile, si prova anche a sostituirli: nel caso di Hubble è avvenuto durante l’ultima servicing mission, quella del 2009, alla veneranda età di 19 anni, quando i suoi sei giroscopi originali vennero rimpiazzati con altri sei nuovi fiammanti.

Ora però, trascorsi parecchi altri anni, anche le “protesi” hanno iniziato a mostrare segni di cedimento. Già da tempo i tre giroscopi di riserva avevano dato forfait, lasciando il telescopio sin dal 2018 senza più ridondanza. Dallo scorso novembre, però, anche uno dei tre giroscopi superstiti ha iniziato a non funzionare correttamente, indicando erroneamente valori di saturazione e costringendo più volte Hubble a entrare in safe mode – l’ultima volta il 24 maggio – e dunque a sospendere le operazioni scientifiche.

Accertato che i tentativi di ripristinarne il corretto funzionamento tramite una serie di reset dell’elettronica hanno un effetto solo temporaneo, la Nasa ha alla fine preso una decisione drastica: rinunciare alla modalità di funzionamento standard ­– quella con tre giroscopi – e riprendere le osservazioni scientifiche nel cosiddetto one-gyro mode. Vale a dire, avvalendosi di un giroscopio soltanto, così da poter tenere l’unico altro ancora funzionante come riserva.

NASA’s Hubble Space Telescope entered safe mode May 24 due to an ongoing gyroscope issue, temporarily suspending science operations.

Hubble’s instruments are stable, and the telescope is in good health: t.co/LXyup3VqKh pic.twitter.com/2Xyi2A2WjD

— Hubble (@NASAHubble) May 31, 2024

È una modalità già ampiamente pianificata e sperimentata su numerosi satelliti, nel 2008 anche sullo stesso Hubble, senza particolare impatto sulle osservazioni, questa a singolo giroscopio. Certo qualche conseguenza ci sarà: proprio come accade anche a noi umani raggiunta un’età importante, Hubble dovrà rassegnarsi a muoversi un po’ più lentamente. Non potrà permettersi gli scatti d’un tempo, né d’inseguire con lo sguardo oggetti molto veloci, in particolare quelli più vicini dell’orbita di Marte – eventualità peraltro che si presenta raramente. Ma tutto il resto potrà tranquillamente continuare a farlo, garantisce la Nasa. Insomma, sarà un “anziano attivo”, e le osservazioni scientifiche dovrebbero riprendere a breve.

E a proposito di anziani in perfetta forma, è di ieri la notizia che la sonda Voyager 1, superati i contrattempi degli ultimi mesi, ha ripreso a funzionare pienamente: tutt’e quattro gli strumenti di bordo stanno inviando verso la Terra – distante dalla sonda Nasa 24 miliardi di km – pacchetti di dati corretti e comprensibili. Non accadeva dallo scorso novembre.



Vera Rubin e Nancy Roman, il cielo a confronto


Ecco come vedranno la stessa porzione di cielo il telescopio spaziale Nancy Grace Roman, il cui lancio è previsto per il 2027, e il telescopio Vera Rubin, in costruzione in Cile e operativo nel 2025. Una simulazione che dovrebbe servire a comprendere megl

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Due telescopi intitolati a due grandi scienziate. E due immagini, simulate, di quel che potranno vedere. A sinistra il telescopio Vera Rubin, con il suo specchio da 8.4 metri di diametro e un grande campo di vista; a destra il telescopio spaziale Nancy Roman, con il suo specchio di 2.4 metri di diametro, come Hubble, ma un campo di vista cento volte maggiore. Inquadrano virtualmente la stessa regione di cielo, in questa simulazione creata grazie al supercomputer del Department of Energy’s Argonne National Laboratory in Illinois.

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Questa coppia di immagini simulate mostra la stessa regione di cielo vista dall’Osservatorio Vera C. Rubin (a sinistra, elaborata dalla Legacy Survey of Space and Time Dark Energy Science Collaboration) e dal telescopio spaziale Nancy Grace Roman della Nasa. Crediti: J. Chiang (Slac), C. Hirata (Osu), and Nasa’s Goddard Space Flight Center

L’immagine è solo una piccola parte della campagna di simulazioni messa in piedi da Michael Troxel, professore associato di fisica alla Duke University di Durham, North Carolina, nell’ambito di un progetto più ampio chiamato OpenUniverse. Circa 400 terabyte di dati, in tutto, i primi 10 dei quali saranno rilasciati ora, mentre i restanti 390 terabyte seguiranno in autunno, una volta elaborati.

«I risultati daranno forma ai futuri tentativi di Roman e Rubin di scoprire di più sulla materia oscura e sull’energia oscura», dice Troxel, «e offrono ad altri scienziati un’anteprima del tipo di cose che saranno in grado di esplorare utilizzando i dati dei telescopi».

Le simulazioni complete copriranno un’area di cielo grande 70 gradi quadrati, circa l’area occupata da 350 lune piene. Le due immagini che vedete qui, invece, coprono la stessa porzione di cielo di 0.08 gradi quadrati (circa un terzo delle dimensioni di una luna piena). Roman catturerà immagini più profonde e nitide dallo spazio, mentre Rubin osserverà una regione più ampia del cielo da terra. Dovendo attraversare l’atmosfera terrestre, le immagini di Rubin non saranno sempre abbastanza nitide da distinguere più sorgenti vicine come oggetti separati. Appariranno, come già si può intuire da questa simulazione, un po’ più sfocate rispetto a quelle del telescopio Roman, cosa che porrà un limite un po’ più stringente alla scienza che i ricercatori potranno fare utilizzando le sole immagini. Potranno però confrontarle con quelle del telescopio Roman, e intuire da queste in quali punti due oggetti sono fusi insieme, in modo da studiare delle strategie di correzione e miglioramento specifiche. Anche le lunghezze d’onda d’osservazione saranno diverse, ma avranno un intervallo ampio di sovrapposizione largo circa 600 nm: Vera Rubin sarà in grado di coprire lunghezze d’onda più blu, mentre Roman si spingerà molto più in là nell’infrarosso.

Due telescopi intitolati a due grandi scienziate. E due immagini, simulate, di quel che potranno vedere. Chissà quale avrebbero scelto, Vera Rubin e Nancy Grace Roman, se gliele avessimo fatte vedere entrambe.



Phoenix si tiene ben stretta la sua atmosfera


Soprannominato Phoenix, l’esopianeta Tic 365102760 b, in orbita intorno a una gigante rossa, ha stupito gli scienziati con la sua atmosfera “puffy”. A causa dell’intensa radiazione della sua stella, infatti, si pensava che il pianeta fosse ormai ridotto a

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Rappresentazione artistica di “Phoenix”. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

La mitologia e i racconti degli antichi offrono molti spunti all’astronomia, basti pensare a quanti nomi di personaggi mitologici sono stati dati alle costellazioni: Orione, Cassiopea e Andromeda, per citarne solo alcuni. Questa volta a offrire uno spunto è stata la Fenice, l’uccello sacro agli Egizi in grado di rinascere dalle ceneri e quindi sopportare le fiamme in cui bruciava. È a quest’ultima abilità dell’animale che gli scienziati hanno pensato quando hanno visto Tic 365102760 b, un raro pianeta extrasolare che sarebbe dovuto già essere stato ridotto a nuda roccia a causa dell’intensa radiazione della sua vicina stella ospite. Eppure, in barba al triste destino che gli era riservato, ha sviluppato un’atmosfera puffy – gonfia e a bassa densità. Ecco dunque che per la sua capacità di sopravvivere all’energia emanata della sua stella, una gigante rossa, è stato soprannominato dagli scienziati “Phoenix” – la Fenice, appunto.

Questa è solo l’ultima di una serie di scoperte che costringono gli scienziati a ripensare le teorie su come i pianeti invecchiano e muoiono in ambienti estremi. Tic 365102760 b testimonia la grande diversità dei sistemi planetari e la complessità della loro evoluzione, soprattutto alla fine della vita delle stelle. I risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su The Astronomical Journal.

«Questo pianeta non si sta evolvendo come pensavamo, sembra avere un’atmosfera molto più grande e meno densa di quanto ci aspettassimo per questi sistemi», osservaSam Grunblatt, astrofisico della Johns Hopkins University che ha guidato la ricerca. «La grande domanda è come sia riuscito a mantenere quell’atmosfera nonostante fosse così vicino a una stella ospite tanto grande».

Il nuovo pianeta appartiene alla categoria di mondi piuttosto rari chiamati nettuniani caldi (hot Neptunes), poiché condividono molte somiglianze con il gigante ghiacciato più esterno del Sistema solare, nonostante siano molto più vicini alla loro stella ospite e molto più caldi. Tic 365102760 b è sorprendentemente più piccolo, più vecchio e più caldo di quanto gli scienziati ritenessero possibile. È appena 6,2 volte più grande della Terra, completa un’orbita intorno alla sua stella – una gigante rossa – in 4,2 giorni ed è circa 6 volte più vicino alla sua stella di quanto Mercurio lo sia al Sole.

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Un’altra rappresentazione artistica di Tic 365102760 b, soprannominato “Phoenix” per la sua capacità di sopravvivere vicino all’intensa radiazione di una gigante rossa. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University

Tenendo conto dell’età di Phoenix e delle sue temperature torride, nonché della sua densità inaspettatamente bassa, gli scienziati hanno concluso che il processo di rimozione della sua atmosfera deve essere avvenuto a un ritmo più lento di quanto ritenessero possibile. Hanno anche stimato che il pianeta ha una densità 60 più bassa del più denso fra i nettuniani caldi scoperti finora, e che non sopravviverà più di 100 milioni di anni prima di iniziare a morire spiraleggiando verso la sua gigante.

«È il pianeta più piccolo che abbiamo mai trovato attorno a una di queste giganti rosse, e probabilmente il pianeta di massa più piccola in orbita attorno a una gigante [rossa] che abbiamo mai visto», spiega Grunblatt. «Ecco perché sembra davvero strano. Non sappiamo perché abbia ancora un’atmosfera mentre altri nettuniani caldi molto più piccoli e molto più densi sembrano perdere la loro atmosfera in ambienti assai meno estremi».

Grunblatt e il suo team sono stati in grado di ottenere tali informazioni ideando un nuovo metodo per mettere a punto i dati di Tess, il Transiting Exoplanet Survey Satellite della Nasa. Il telescopio del satellite può individuare pianeti a bassa densità osservando come attenuano la luminosità delle loro stelle ospiti quando vi transitano davanti. Il team di Grunblatt ha poi filtrato la luce indesiderata nelle immagini e le ha combinate con ulteriori misurazioni del W.M. Keck Observatory, una struttura sul vulcano Maunakea, alle Hawaii, che permette di tracciare le piccole oscillazioni delle stelle causate dai pianeti che orbitano loro attorno. Grunblatt ha spiegato che questi risultati possono aiutare gli scienziati a comprendere meglio come potrebbero evolversi atmosfere simili a quella terrestre. Gli scienziati prevedono che tra qualche miliardo di anni il Sole si espanderà in una gigante rossa, gonfiandosi e inghiottendo la Terra e gli altri pianeti interni. «Non comprendiamo molto bene lo stadio avanzato dell’evoluzione dei sistemi planetari», sottolinea a questo proposito Grunblatt. «Questo ci dice che forse l’atmosfera terrestre non si evolverà esattamente come pensavamo».

I pianeti puffy sono spesso composti da gas, ghiaccio o altri materiali più leggeri che li rendono complessivamente meno densi di qualsiasi pianeta del Sistema solare. Sono così rari che gli scienziati ritengono che solo circa l’un per cento delle stelle ne possieda. Grunblatt ha precisato che è difficile scoprire esopianeti come Phoenix perché le loro piccole dimensioni li rendono più difficili da individuare rispetto a quelli più grandi e più densi. Ecco perché la sua squadra sta cercando altri di questi mondi più piccoli, e grazie alla loro nuova tecnica hanno già trovato una dozzina di potenziali candidati. «Abbiamo ancora molta strada da fare per capire come le atmosfere planetarie si evolvono nel tempo», conclude Grunblatt.

Per saperne di più:

  • Leggi sul The Astronomical Journal l’articolo “TESS Giants Transiting Giants. IV. A Low-density Hot Neptune Orbiting a Red Giant Star” di Samuel K. Grunblatt, Nicholas Saunders, Daniel Huber, Daniel Thorngren, Shreyas Vissapragada, Stephanie Yoshida, Kevin C. Schlaufman, Steven Giacalone, Mason Macdougall, Ashley Chontos, Emma Turtelboom, Corey Beard, Joseph M. Akana Murphy, Malena Rice, Howard Isaacson, Ruth Angus e Andrew W. Howard


Una nube glaciale, non proprio passeggera


Secondo uno studio guidato dalla Boston University, tra i 2 e i 3 milioni di anni fa il Sistema solare avrebbe incontrato turbolenze su scala galattica, scontrandosi con una densa nube interstellare e lasciando il nostro pianeta temporaneamente privo dell

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Mammuth, tigri dai denti a sciabola, enormi roditori, infinite distese di ghiaccio. Circa due milioni di anni fa, la Terra era un luogo molto diverso da quello che conosciamo oggi. Durante questo periodo si sono verificate una serie di glaciazioni – lunghe milioni di anni e susseguitesi fino a circa 12 mila anni fa – che modificarono totalmente l’ambiente, rendendolo ostile per qualsiasi forma di vita. Gli esperti di paleoclimatologia hanno, negli anni, proposto diverse ipotesi su ciò che avrebbe causato l’alternarsi delle ere glaciali sul nostro pianeta: effetto serra, inclinazione e rotazione terrestre, movimento delle placche tettoniche, eruzioni vulcaniche. E se cambiamenti drastici come questi non fossero dovuti solo alla Terra, ma anche alla posizione del Sole nella galassia?

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Per un breve periodo di tempo, milioni di anni fa, la Terra potrebbe essere stata esclusa dallo scudo protettivo di plasma del Sole, l’eliosfera, qui rappresentata come una bolla grigio scuro sullo sfondo dello spazio interstellare. Secondo una nuova ricerca, questo potrebbe aver esposto la Terra ad alti livelli di radiazioni e influenzato il clima. Crediti: Opher, et al., Nature Astronomy

Stando a uno studio pubblicato questa settimana su Nature Astronomy e guidato da ricercatori della Boston University, il nostro Sistema solare potrebbe aver attraversato una densa e gelida nube interstellare circa due milioni di anni fa. Ciò potrebbe aver interferito con il vento solare, riducendo temporaneamente l’eliosfera, lo scudo protettivo di plasma che emana dal Sole e che avvolge il nostro sistema solare.

Un incontro fatale che potrebbe aver alterato il clima della Terra, dunque. Costituita da un flusso costante di particelle cariche, il cosiddetto vento solare, che si estende ben oltre Plutone, l’eliosfera è in effetti una sorta di bolla gigante che ci protegge dalle radiazioni cosmiche e dai raggi galattici – raggi che possono alterare il Dna. Questa sorta di protezione è considerata una delle ragioni principali per cui la vita si sarebbe evoluta sulla Terra.

Dall’altra parte ci sono enormi nubi di gas interstellare, con masse fino a un milione di volte quella del Sole, e temperature molto basse, da circa una decina a poche centinaia di gradi sopra lo zero assoluto.

Secondo il team di ricerca, proprio una densa nube interstellare fredda potrebbe aver “compresso” l’eliosfera, esponendo temporaneamente la Terra e gli altri pianeti del Sistema solare a livelli elevati di radiazioni cosmiche. «Il nostro studio è il primo a dimostrare quantitativamente che c’è stato un incontro tra il Sole e qualcosa al di fuori del Sistema solare che potrebbe aver influenzato il clima della Terra», dice Merav Opher, fisica spaziale alla Boston University e autrice principale della ricerca. «Le stelle si muovono e questo lavoro dimostra non solo che si muovono, ma che vanno incontro a cambiamenti drastici».

Il team di ricerca sta studiando come l’eliosfera e la regione in cui il Sole si muove nello spazio potrebbero influenzare la chimica atmosferica della Terra. Utilizzando sofisticati modelli al computer, ha guardato indietro nel tempo e ricostruito la posizione del Sole – insieme all’eliosfera e al resto del Sistema solare – due milioni di anni fa. I ricercatori hanno mappato il percorso del Local Ribbon of Cold Clouds, un sistema di nubi stellari dense e fredde composte principalmente da atomi di idrogeno: le simulazioni hanno suggerito che una di queste nubi – chiamata Local Lynx of Cold Cloud, nella costellazione della Lince – potrebbe aver interagito con l’eliosfera 2-3 milioni di anni fa.

Se ciò fosse accaduto, la Terra sarebbe stata esposta al mezzo interstellare, un mix di gas, polvere, elementi atomici residui delle stelle esplose – tra cui ferro e plutonio – e particelle radioattive che, normalmente, l’eliosfera filtra. Senza la sua protezione, tali particelle potrebbero aver raggiunto la Terra. E non mancano indizi del fatto che ciò possa essere realmente accaduto: le prove geologiche, infatti, mostrano un aumento, nello stesso periodo, degli isotopi del ferro-60 del plutonio-244 negli oceani, nella neve antartica e nelle carote di ghiaccio, nonché sulla Luna. Inoltre, gli isotopi coinciderebbero anche con le registrazioni delle temperature indicanti un periodo di notevole raffreddamento. Un’ipotesi è dunque che possa esserci una relazione fra l’interazione del nostro pianeta con la Local Lynx of Cold Cloud e le massicce glaciazioni del Quaternario.

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Una nube molecolare interstellare fredda, vista dal telescopio spaziale Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa e M. Zamani (Esa)

La ricerca non solo ha messo sotto una nuova luce il passato geologico e climatico della Terra, ma sottolinea anche l’importanza delle dinamiche cosmiche nel modellare le condizioni climatiche del nostro pianeta. «Solo raramente i nostri “vicini cosmici” al di là del Sistema solare influenzano la vita sulla Terra», dice Avi Loeb, direttore dell’Institute for Theory and Computation dell’Università di Harvard e coautore del lavoro. «È emozionante scoprire che il nostro passaggio attraverso dense nubi qualche milione di anni fa potrebbe aver esposto la Terra a un flusso molto più ampio di raggi cosmici e atomi di idrogeno. I nostri risultati aprono una nuova finestra sul rapporto tra l’evoluzione della vita sulla Terra e il nostro vicinato cosmico».

La pressione esterna esercitata dalla nube fredda interstellare nella Lince potrebbe aver ridotto l’eliosfera per centinaia di anni o anche per un milione di anni, secondo Opher. Successivamente, una volta che la Terra si è allontanata dalla nube, l’eliosfera ha ripreso il suo ruolo “protettivo”.

Anche se non possiamo conoscere l’effetto esatto che questa nube fredda ha avuto sul clima terrestre, è probabile che il Sistema solare abbia incontrato altre nubi fredde nel mezzo interstellare nel corso dei miliardi di anni dalla sua formazione. E probabilmente ne incontreremo altre nel futuro, tra circa un milione di anni.

Per saperne di più:



A sign in space: è questione di chimica (organica)


È stato finalmente decodificato il misterioso messaggio del progetto “A sign in space”, trasmesso da una sonda in orbita marziana ai radiotelescopi terrestri poco più di un anno fa: a un'analisi acuta, la lunga sequenza di zeri e uni ideata dall'artista D

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La soluzione condivisa su Discord l’11 giugno 2024. Ma cosa vorrà dire? Crediti: A sign in space

Ricordate quella specie di “mappa stellare” che era emersa dai primi tentativi di decodifica del messaggio simil-alieno di “A sign in space”, inviato da Marte verso la Terra il 24 maggio dello scorso anno? Ebbene, le cinque nuvolette di punti, se opportunamente analizzate, si trasformano in altrettante molecole a base di idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno: gli amminoacidi.

La chimica organica è dunque un ingrediente per interpretare il misterioso dispaccio cosmico architettato dall’artista Daniela de Paulis. Trasmesso dal Trace Gas Orbiter dell’Agenzia spaziale europea, il messaggio era stato ricevuto puntualmente dal radiotelescopio di Medicina dell’Istituto nazionale di astrofisica, vicino Bologna, dall’Allen Telescope Array del Seti Institute, in California, e dal Robert C. Byrd Green Bank Telescope in West Virginia.

La soluzione è stata identificata da John e Sarah (nomi di fantasia), una squadra formata da un padre e una figlia che hanno chiesto di rimanere anonimi per proteggere la loro privacy. Ad annunciarlo, la stessa de Paulis alle 17.44 ora italiana dell’11 giugno sulla piattaforma Discord, che negli ultimi dodici mesi ha visto migliaia di entusiasti da tutto il mondo cimentarsi con la complessa sfida e condividere i loro tentativi di interpretazione, scambiandosi oltre 54mila messaggi (recentemente catalogati in un database).

Per risolvere l’arcano, i due decoder hanno analizzato il messaggio – una sequenza di 65.696 zeri e uni – utilizzando il modello matematico dell’automa cellulare, già invocato nelle discussioni su Discord pochi giorni dopo il lancio del progetto. Si tratta di un modello basato su una griglia di celle, usato per descrivere l’evoluzione di sistemi complessi in diverse discipline, tra cui la biologia. Come illustrato dallo stesso John nella nota che accompagnava il diagramma con i cinque amminoacidi, la decodifica del messaggio cifrato ha richiesto 6625 trasformazioni (rotazioni) su un motore grafico per videogiochi, utilizzando il cosiddetto automa cellulare reversibile a blocchi sviluppato dal matematico canadese Norman Margolus. L’immagine finale mostra una serie di blocchi formati rispettivamente da uno, sei, sette e otto pixel: rispettivamente il numero atomico dei quattro elementi alla base della vita così come la conosciamo sulla Terra – idrogeno, carbonio, azoto e ossigeno. «È assolutamente ovvio per me di cosa si tratta, così come per il mio amico chimico a cui l’ho spiegato», ha comunicato John nella sua nota. «È meraviglioso osservare tutti i deltaplani e le astronavi dell’automa cellulare che trasportano i bit binari del messaggio in giro per la “galassia” e poi all’improvviso si riuniscono in coerenza e significato».

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L’annuncio della soluzione su Discord (cliccare per ingrandire). Crediti: A sign in space

L’annuncio è stato accolto con decine di reazioni entusiaste da parte dei membri più attivi della piccola comunità che si è venuta a creare su Discord intorno alla sfida lanciata da “A sign in space” cercando di dare un senso all’enigmatico “segno” proprio come se a trasmetterlo fosse stata una lontana civiltà aliena. La discussione si è intensificata e diversi decoder si sono già attivati nel tentare di riconoscere le molecole in questione, interrogandosi sul perché della loro scelta. Del resto la sfida non finisce qui: cosa vorrà poi dire questo messaggio, lanciato come la proverbiale bottiglia nelle profondità dello spazio? Il team del progetto ha invitato la comunità a contribuire al dibattito, usando la descrizione e la soluzione fornite da John per replicare il risultato ottenuto e condividere la propria interpretazione.

«La decodifica del messaggio che abbiamo concepito per “A sign in space” ha richiesto finora competenze di informatica, tecnologie radio, chimica, semiotica e linguaggio visivo» dichiara de Paulis a Media Inaf. «Ora che tutti gli elementi sono stati portati alla luce, il pubblico e i citizen scientists potranno esplorare le molteplici interpretazioni culturali e concettuali del messaggio. Il processo quindi continua e come in un lavoro teatrale, si apre una nuova fase narrativa».



Fuga spericolata di una stella


Si chiama J1249+36, è una stella subnana e appartiene alla Via Lattea. Segni particolari: si muove a una velocità di due milioni di chilometri all’ora, due volte e mezzo la velocità del Sole. Si tratta di un raro esempio di stella iperveloce. Secondo gli

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Quali siano le ragioni che hanno portato CWise J124909+362116.0, stella subnana dal criptico nome, a intraprendere una forsennata fuga attraverso la Via Lattea rimane attualmente un mistero. Quello che sappiamo è che questo piccolo astro (abbreviato come J1249+36) viaggia nella nostra galassia a una velocità di due milioni di chilometri orari. Che in cifre astronomiche può non voler dire molto, ma che quando la paragoniamo alla velocità del Sole può far trasalire anche il lettore più spericolato. La nostra stella, e noi assieme a lei, sfiora a malapena gli ottocentomila chilometri all’ora. Più che doppiando questa velocità, J1249+36 è dunque a buon diritto una pirata degli spazi interstellari.

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Simulazione di un sistema binario costituito da J1249+36 e da una nana bianca esplosa come supernova. Crediti: Adam Makarenko / W.M. Keck Observatory

La scoperta di quest’astro bizzarro è avvenuta nell’ambito di Backyard Worlds: Planet 9, un progetto che coinvolge oltre ottantamila cittadini volontari che hanno scrupolosamente esaminato caterve di immagini della missione Wise della Nasa, con l’obiettivo di segnalare eventuali anomalie. I repentini spostamenti nelle immagini di questo piccolo astro non sono passati inosservati, e così J1249+36 è stata sottoposta all’attenzione degli astronomi. Che sono rimasti sbalorditi, e hanno pertanto deciso di indagare la natura di quest’oggetto utilizzando uno spettro infrarosso ottenuto con il telescopio Keck, alle Hawaii. I risultati di questa analisi sono stati presentati ieri da Adam Burgasser, professore di astronomia all’Università della California – San Diego, durante il 244esimo meeting dell’American Astronomical Society, in corso in questi giorni a Madison, Wisconsin. Grazie allo spettro, è stato possibile identificare la composizione chimica di J1249+36 e classificarla come una stella subnana di classe L, categoria di astri dotati di massa molto piccola e basse temperature superficiali, e che costituiscono probabilmente le stelle più antiche della Via Lattea. L’utilizzo combinato di immagini e dello spettro ha consentito agli astronomi di mappare posizione e velocità di J1249+36 e di predire la sua orbita con una certa accuratezza. E anche il suo destino. Fuori dalla Via Lattea sembra infatti che si consumeranno le sorti della stella in fuga, che costituisce un raro esempio di stella iperveloce, famiglia di astri raminghi che si muovono così forsennatamente da vincere l’attrazione gravitazionale della galassia che li ospita e vagabondare per gli spazi intergalattici.

Ma cos’è accaduto affinché una piccola stella si ritrovasse a fuggire a velocità dissennata per gli spazi siderali? Come si diceva all’inizio, di preciso non lo si sa. E però gli astronomi hanno ipotizzato due scenari per spiegare il folle moto di J1249+36. Secondo il primo, J1249+36 si trovava in passato in un sistema binario, in compagnia di una nana bianca che a un certo punto è esplosa come supernova a causa dell’accrescimento di materiale da parte di J1249+36. L’esplosione avrebbe dato un poderoso calcio al piccolo astro, conferendogli l’elevata velocità osservata. Purtroppo però dell’esplosione e della nana bianca non resterebbe traccia alcuna e pertanto, benché i calcoli lo prevedano, non esistono evidenze stringenti a favore di questo scenario. La seconda ipotesi vede invece J1249+36 come un antico membro di un ammasso globulare, ovvero un sistema di stelle dalla forma sferica e che, secondo le teorie, potrebbe contenere diversi buchi neri al proprio interno. In particolare, un sistema binario di buchi neri costituirebbe una vera e propria catapulta, capace di scagliare lontano ogni astro che malauguratamente si ritrovi a transitare nei paraggi. Anche in questo caso i conti tornano ma gli scienziati non sanno quale potrebbe essere l’ammasso globulare di partenza. Un’analisi chimica più approfondita potrebbe risolvere il rompicapo della misteriosa origine di quest’oggetto. Gli elementi pesanti della nana bianca potrebbero infatti aver inquinato l’atmosfera di J1249+36, così come gli ammassi globulari hanno dei pattern chimici caratteristici che, se identificati nella stella, potrebbero chiarire il sistema stellare di provenienza. Burgasser e collaboratori sperano di ottenere presto nuove e più profonde osservazioni di J1249+36 per svelarne le origini. Nel frattempo, godiamoci la sua folle fuga.

Guarda il servizio video su MediaInaf Tv:

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Su Marte un lago d’interferenze costruttive


La saga del bacino d'acqua liquida nel sottosuolo del Pianeta rosso – esiste o non esiste? – si arricchisce di un nuovo capitolo, firmato questa volta dal “fronte del no”: i tre ricercatori della Cornell University che già avevano contestato la scoperta i

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Rappresentazione artistica di bacini d’acqua liquida nel sottosuolo marziano. Crediti: Medialab, Esa 2001

Non sarà ancora arrivato ai 46 colpi dello scambio fra Sinner e Paul al Master di Toronto del 2023, ma è sulla buona strada. Stiamo parlando dell’appassionante serie di palleggi scientifici, a colpi di pubblicazioni su riviste prestigiose, per il match dell’acqua nel sottosuolo marziano. È o non è un lago sotterraneo d’acqua allo stato liquido, quello individuato nelle profondità del Pianeta rosso dal radar Marsis del satellite Mars Express? A sfidarsi – sin dalla prima memorabile “battuta”, vale a dire l’annuncio della scoperta, pubblicato su Science nel 2018 – sono (quasi) sempre loro: da un lato della rete il team italiano che fa capo a Roberto Orosei dell’Inaf e a Elena Pettinelli dell’Università Roma Tre, convinto che di acqua liquida si tratti; di parere opposto, sulla metà campo avversaria, il trio della Cornell University formato da Daniel Lalich, Alexander Hayes e Valerio Poggiali.

Gli ultimi (per ora) a toccare palla sono stati quest’ultimi, con un articolo piazzato giusto la scorsa settimana su Science Advances nel quale riportano i risultati di simulazioni che mostrerebbero come variazioni negli strati di ghiaccio d’acqua – dunque non acqua allo stato liquido – sottili al punto da non poter essere risolti dagli strumenti radar possano causare interferenze costruttive. Vale a dire, interferenze tali da far sì che i segnali si rinforzino a vicenda, così che l’onda risultante abbia un’ampiezza maggiore delle varie componenti. In pratica, il contrario di quel che fanno i sistemi audio di cancellazione attiva del rumore (basati su interferenze distruttive) presenti in alcune cuffie. Sarebbero proprio queste interferenze costruttive, e non la presenza di acqua nel sottosuolo, a rendere così bright – così luminosi – i riflessi catturati dal radar di Marsis.

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Inferferenze costruttive (sopra) e distruttive (sotto). Crediti: Haade/Wikimedia Commons

«Non posso dire che sia impossibile che ci sia acqua liquida laggiù», mette le mani avanti Daniel Lalich, ricercatore al Cornell Center for Astrophysics and Planetary Science, «ma stiamo dimostrando che ci sono modi molto più semplici per ottenere la stessa osservazione senza dover far ricorso a ipotesi remote, utilizzando meccanismi e materiali che già sappiamo essere presenti».

Quali materiali? Strati di ghiaccio e polvere di spessori casuali, sottolinea Lalich, purché – appunto – sufficientemente sottili. Un “colpo” più insidioso, dunque, rispetto a quello di un precedente articolo dello stesso team, pubblicato nel 2022 su Nature Astronomy (e prontamente respinto dal team italiano), nel quale si ipotizzava la presenza di strati alternati di ghiaccio d’acqua e ghiaccio secco, ovvero di CO2. Sostanza quest’ultima, però, difficilmente presente sotto al ghiaccio d’acqua delle calotte marziane, come ammettono gli stessi ricercatori della Cornell.

«Per la prima volta abbiamo un’ipotesi che spiega l’intero insieme di osservazioni relative a quel che c’è sotto la calotta glaciale, senza dover introdurre nulla di unico o strano», continua Lalich. «Questo risultato, con riflessi luminosi diffusi più o meno ovunque, è esattamente quello che ci si aspetterebbe dall’interferenza, nel radar, dovuta a uno strato sottile».

Ora la palla è di nuovo nella metà campo italiana, quella dell’acqua liquida, e possiamo star certi che una risposta non tarderà ad arrivare. Anzi, in parte già è giunta. «Il modello numerico presentato nell’articolo riproduce con successo le proprietà degli echi radar che sono stati interpretati come prodotti dall’acqua liquida alla base della calotta polare meridionale di Marte. In attesa di un’analisi più approfondita, tuttavia, sono rimasto perplesso dalla scelta di valori per i parametri del modello che descrivono le proprietà dielettriche del ghiaccio marziano, alcuni dei quali sono più simili a quelli delle rocce vulcaniche», obietta infatti a Media Inaf Roberto Orosei dell’Istituto nazionale di astrofisica, raggiunto per un commento. «Inoltre, l’articolo non discute altre linee di prova a sostegno della presenza di acqua, come la morfologia della superficie sopra il riflettore luminoso del radar. Un altro fattore sconcertante è che questi echi basali luminosi, che secondo gli autori dell’articolo possono derivare da combinazioni casuali comuni di strati nella regione polare, non sembrano essere affatto presenti nella calotta polare settentrionale».

Insomma, siamo ancora ben lontani dal match point – se mai ci arriveremo – di questo avvincente incontro scientifico.

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La Via Lattea come Benjamin Button


Dall’analisi dei dati della terza release della missione Gaia arriva una nuova ipotesi sull’evoluzione della nostra galassia: secondo i ricercatori del Rensselaer Polytechnic Institute, negli Stati Uniti, l'ultima grande collisione della Via Lattea sarebb

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Via Lattea. A sinistra, l’alone appare disordinato e “rugoso”, segno che la fusione è avvenuta in tempi relativamente recenti. A destra, appare liscio e uniforme, segno che la fusione è avvenuta in un passato antico. Crediti: Halo stars: Esa/Gaia/Dpac, T Donlon et al. 2024; Background Milky Way and Magellanic Clouds: Stefan Payne-Wardenaar.

Il curioso caso della nostra galassia che, invecchiando, perde le sue “rughe”. No, non stiamo parlando di un nuovo film con Brad Pitt, ma di nuovi indizi sulla comprensione dell’universo. I ricercatori di Rensselaer Polytechnic Institute, negli Stati Uniti, potrebbero aver stravolto le teorie sulla formazione della Via Lattea suggerendo che l’ultima grande collisione della nostra galassia sarebbe avvenuta miliardi di anni dopo rispetto a quanto si pensasse. La scoperta è stata resa possibile grazie all’analisi dei dati presenti nel terzo catalogo (Data Release 3) di Gaia, il satellite dell’Agenzia spaziale europea che sta mappando più di un miliardo di stelle in tutta la Via Lattea, seguendone il movimento, la luminosità, la temperatura e la composizione chimica.

In questo caso, Heidi Jo Newberg, astrofisica al Rensselaer Polytechnic Institute, nota per il suo lavoro nella comprensione della struttura della nostra galassia, e Tom Donlon, ricercatore all’Università dell’Alabama, si sono concentrati sulle cosiddette “rughe” che si formano quando la Via Lattea si scontra con altre galassie. «Man mano che invecchiamo le rughe aumentano, ma il nostro lavoro rivela che per la Via Lattea è vero il contrario. È una sorta di Benjamin Button cosmico, che diventa meno rugoso con il passare del tempo», dice Donlon, primo autore del nuovo studio, pubblicato il mese scorso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. «Osservando il modo in cui queste rughe si dissipano nel tempo, possiamo risalire al momento in cui la Via Lattea ha subito l’ultimo grande scontro, scoprendo che questo è avvenuto miliardi di anni più tardi di quanto pensassimo».

Come quelle sui nostri corpi, dunque, anche le “rughe galattiche” sarebbero il segno del tempo che passa – seppur al contrario, “spianandosi” con gli anni – e mostrerebbero le tracce lasciate dai vari scontri galattici. L’alone interno della Via Lattea, contiene, infatti, tra le sue “pieghe”, stelle con una componente ricca di ferro (dunque ad alta metallicità) e con orbite molto eccentriche, e viene spesso indicato come segno dell’ultima grande fusione galattica. Sebbene le ipotesi sull’origine dell’alone stellare siano diverse, la morfologia dei detriti stellari e la metallicità delle stelle al suo interno – due aspetti che dipendono dal tempo che hanno avuto per mescolarsi in fase – possono fornire indicazioni preziose sull’età della galassia.

Confrontando le osservazioni delle rughe con le simulazioni cosmologiche, il team ha potuto, dunque, affermare che l’ultima collisione significativa della Via Lattea con un’altra galassia non è avvenuta circa dieci miliardi di anni fa, come si riteneva in precedenza, ma almeno cinque miliardi di anni più tardi. Finora, si pensava che la nostra galassia avesse inglobato una sua simile – Gaia-Encelado, con dimensioni di poco superiori a quelle della Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea attuale – le cui stelle superstiti avrebbero formato una parte consistente dell’alone interno della nostra galassia e andando a “gonfiare” il disco galattico interno. Gli scienziati avevano datato questa collisione – che avrebbe generato un gran numero di stelle con orbite insolite – tra gli 8 e gli 11 miliardi di anni fa, chiamandola fusione Gaia-Sausage-Enceladus (Gse).

Ora, i risultati di Newberg e Donlon proverebbero che il momento dell’ultima collisione significativa della Via Lattea con un’altra galassia risalga ad almeno cinque miliardi di anni dopo, e che le stelle con orbite insolite potrebbero derivare dal cosiddetto Virgo Radial Merger, un “urto laterale” con una galassia dell’ammasso della Vergine avvenuto meno di tre miliardi di anni fa.

«Ogni volta che le stelle oscillano avanti e indietro attraverso il centro della Via Lattea si formano nuove “rughe”. Perché le rughe di stelle siano così evidenti come appaiono nei dati di Gaia, devono essersi unite a noi non meno di tre miliardi di anni fa – almeno cinque miliardi di anni dopo rispetto a quanto si pensava in precedenza», spiega Newberg. «Se si fossero unite a noi otto miliardi di anni fa, ci sarebbero così tante rughe una accanto all’altra che non le vedremmo più come elementi separati».

In pratica, se gli urti della Via Lattea fossero più vecchi, le rughe sarebbero meno distinte tra loro e il suo “volto galattico” ci apparirebbe più liscio e uniforme. Proprio come accade al protagonista del racconto scritto da Francis Scott Fitzgerald nel 1922.

Per saperne di più:

Guarda l’animazione di una collisione galattica:

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Brina d’acqua sulle cime dei vulcani marziani


Un sottile strato di brina d’acqua riveste le cime dei vulcani marziani la mattina presto, secondo un nuovo studio basato sulle osservazioni delle due sonde europee in orbita attorno a Marte, Trace gas orbiter e Mars Express. Passerebbe quotidianamente da

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Brina sul pavimento della caldera del vulcano Ceraunius Tholus (cliccare per ingrandire) nelle immagini dello strumento Cassis (a-c) della sonda ExoMars Tgo. La brina non si osserva nel pomeriggio (d). Crediti: Adomas Valantinas

Avete presente le mattine d’inverno, quando il Sole, ancora basso, non riesce a scaldare il terreno e sull’erba si forma quel sottile strato di ghiaccio che chiamiamo brina? Ecco, secondo uno studio appena pubblicato su Nature Geoscience, anche su Marte succede lo stesso: nelle mattine fredde, la cima dei vulcani della regione equatoriale Tharsis si copre di brina d’acqua. Pensando al clima e ai rilievi terrestri, e già sapendo che il ghiaccio d’acqua, su Marte, è stato rilevato più e più volte, questa informazione sembrerebbe poco degna di nota, eppure è qualcosa di davvero inaspettato. Perché all’equatore di Marte, dove si trovano questi vulcani – i più alti di tutto il Sistema solare – l’atmosfera è molto sottile e l’irraggiamento solare mantiene le temperature molto alte durante il giorno, sia in pianura sia sulle cime.

La regione di Tharsis è un altopiano situato a latitudini tropicali e ospita alcuni dei vulcani più grandi e alti del Sistema solare, tra cui l’Olympus Mons, alto 21 chilometri. Le sonde in orbita attorno al pianeta hanno osservato nubi di ghiaccio d’acqua e misurato elevati livelli locali di vapore acqueo nell’atmosfera sopra i vulcani dell’altopiano, a indicazione del fatto che potrebbe esserci un ciclo dell’acqua attivo in questa regione. Tuttavia, come dicevamo, le condizioni atmosferiche ai tropici non sarebbero favorevoli alla formazione di brina d’acqua e, finora, non erano mai stati osservati simili fenomeni di condensazione.

«Non ci aspettavamo la presenza di ghiaccio d’acqua sulla caldera dei vulcani marziani, poiché la brina si osserva solitamente sulla superficie ad altitudini molto basse», dice a Media Inaf Giovanni Munaretto, ricercatore postdoc all’Inaf di Padova e coautore dello studio. «Invece con lo strumento Cassis abbiamo notato che al mattino apparivano dei depositi blu, riconducibili a ghiaccio d’acqua, assenti nelle immagini precedenti di dette caldere (ottenute solitamente durante il pomeriggio locale). Ciò è del tutto inaspettato, poiché a tali altitudini l’atmosfera è talmente rarefatta che difficilmente potrebbe depositare brina».

Secondo quanto osservato dalle due sonde europee in orbita attorno al Pianeta rosso, Trace gas orbiter (Tgo) e Mars Express, la brina sarebbe presente solo per poche ore dopo l’alba prima di evaporare alla luce del Sole. E sarebbe anche incredibilmente sottile: appena un centesimo di millimetro – la larghezza di un capello. Tuttavia, è piuttosto vasta: i ricercatori hanno calcolato che equivalga ad almeno 150mila tonnellate di acqua che passano dalla superficie all’atmosfera ogni giorno durante le stagioni fredde. È l’equivalente di circa 60 piscine olimpioniche.

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Giovanni Munaretto, 29 anni, ricercatore postdoc all’Inaf di Padova e coautore dell’articolo pubblicato su Nature Geoscience. Crediti: Inaf

La brina copre, di fatto, l’intera superficie delle caldere dei vulcani, ed è dovuta alla particolare circolazione dell’aria sopra le cime, che crea un microclima unico che permette la formazione di sottili chiazze di brina. Modellare il processo attraverso il quale si formano le gelate potrebbe consentire agli scienziati di svelare altri segreti di Marte, tra cui capire dove si trova l’acqua e come si muove, nonché comprendere le dinamiche atmosferiche del pianeta, essenziali per le future esplorazioni e la ricerca di possibili segni di vita.

«La scoperta di questi depositi di ghiaccio transienti (ovvero che si formano al mattino ed evaporano nel pomeriggio locale) nelle caldere e il modelling associato ci dice che in tali zone esista un microclima apposito, un ciclo dell’acqua locale che permette alla stessa di condensare sulla superficie al mattino ed evaporare il pomeriggio», continua Munaretto. «Tali volumi di acqua, essendo l’atmosfera molto rarefatta, sarebbero trasportati dagli slope winds, dei venti che dalla base del vulcano risalirebbero fino alla caldera. Tutto ciò implica la presenza di un meccanismo di circolazione atmosferica ancora del tutto da scoprire e da studiare in dettaglio».

Le immagini ad alta risoluzione che vedete provengono da Cassis, il Colour and Stereo Surface Imaging System a bordo di Tgo. I risultati sono stati poi convalidati utilizzando le osservazioni indipendenti della High Resolution Stereo Camera a bordo di Mars Express e dello spettrometro Nadir and Occultation for Mars Discovery a bordo di Tgo. Per trovare la brina, e in seguito confermarla, gli autori hanno analizzato oltre 30mila immagini della regione.

«La cosa molto interessante di questo studio è senz’altro la sua interdisciplinarità, poiché combina l’analisi di dati di diversi strumenti a modelli della circolazione atmosferica di Marte per capire meglio come funziona il suo ciclo dell’acqua e la sua atmosfera», conclude Munaretto. «In particolare, questo studio mostra come i dati forniti dalla missione ExoMars Tgo e dai suoi strumenti siano fondamentali per avanzare la nostra conoscenza del Pianeta rosso».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Evidence for transient morning water frost deposits on the Tharsis volcanoes of Mars“, di A. Valantinas, N. Thomas, A. Pommerol, O. Karatekin, L. Ruiz Lozano, C. B. Senel, O. Temel, E. Hauber, D. Tirsch, V. T. Bickel, G. Munaretto, M. Pajola, F. Oliva, F. Schmidt, I. Thomas, A. S. McEwen, M. Almeida, M. Read, V. G. Rangarajan, M. R. El-Maarry, C. Re, F. G. Carrozzo, E. D’Aversa, F. Daerden, B. Ristic, M. R. Patel, G. Bellucci, J. J. Lopez-Moreno, A. C. Vandaele e G. Cremonese


Nuovo look per l’ammasso Westerlund 1


Rilasciata una nuova immagine di Westerlund 1 – un ammasso stellare “super”, il più massiccio e più vicino alla Terra – realizzata con i dati di Chandra e Hubble. I risultati, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, sono frutto del lavoro del progetto Ewo

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Dista da noi circa 13 mila anni luce e ha un’età compresa tra i 3 e i 5 milioni di anni l’ammasso stellare Westerlund 1, uno tra gli affascinanti oggetti stellari studiati dal progetto Extended Westerlund 1 and 2 Open Clusters Survey (Ewocs), guidato da Mario Giuseppe Guarcello dell’Inaf di Palermo.

Chandra ha osservato l’ammasso per circa dodici giorni e, combinando le sue osservazioni in banda X con quelle in ottico di Hubble, è stato possibile rivelare nuovi dettagli utili a comprendere l’ambiente che circonda le sue stelle in formazione e la loro evoluzione. Osservando l’immagine composita di Westerlund 1, infatti, è possibile notare ai raggi X (in bianco e rosa) alcune giovani stelle, nonché gas riscaldato diffuso in tutto l’ammasso – che mostra in ordine di temperatura crescente il gas colorato in rosa, verde e blu. Molte delle stelle riprese da Hubble appaiono come punti gialli e blu.

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Immagine dell’ammasso stellare Westerlund 1 e della regione circostante, come rilevato nei raggi X (Chandra) e nella luce ottica (Hubble). La tela nera dello spazio è costellata di punti colorati di luce di varie dimensioni, per lo più nei toni del rosso, verde, blu e bianco. Al centro dell’immagine c’è una nuvola di gas semitrasparente, rossa e gialla che circonda un gruppo fitto di stelle dorate. Crediti: Nasa/Cxc/Inaf/M. Guarcello et al. (raggi X); Nasa/Esa/Stsci (ottico); Nasa/Cxc/Sao/L. Frattare (elaborazione delle immagini)

L’immagine viene analizzata in uno studio guidato dallo stesso Guarcello pubblicato lo scorso febbraio su Astronomy & Astrophysics.

Attualmente nella nostra galassia si formano solo una manciata di stelle ogni anno, ma in passato – circa 10 miliardi di anni fa, secondo i ricercatori – la Via Lattea produceva dozzine o centinaia di stelle all’anno. Gli astronomi ritengono che la maggior parte di questa formazione stellare abbia avuto luogo in massicci ammassi di stelle – o “super ammassi stellari”: proprio come Westerlund 1.

Ma gli ambienti di formazione stellare non sono tutti uguali, spiega Guarcello a Media Inaf. «Queste regioni stellari possono avere ambienti completamente diversi, ambienti che possono influenzare sia il processo di formazione di stelle e pianeti, sia le primissime fasi evolutive delle stelle. Molta della nostra conoscenza sul processo di formazione stellare viene dalle regioni vicine al Sole, che però sono di massa piccola. In queste regioni non è possibile testare gli effetti degli ambienti massicci, in particolare quelli legati alla presenza di stelle di grande massa o ad alte densità stellari».

Secondo i ricercatori, sono pochi i super ammassi di stelle che esistono ancora nella nostra galassia, e offrono indizi importanti sull’antica era in cui si è formata la maggior parte delle stelle della Via Lattea. Westerlund 1 è il più grande di questi super ammassi stellari rimasti: contiene una massa compresa tra 50mila e 100mila soli. Queste qualità rendono Westerlund 1 un obiettivo eccellente per studiare l’impatto dell’ambiente di un super ammasso stellare sul processo di formazione di stelle e pianeti, nonché sull’evoluzione delle stelle su un’ampia gamma di masse.

Prima del progetto Ewocs, Chandra aveva rilevato in Westerlund 1 1721 sorgenti luminose. Questo nuovo set di dati ha registrato quasi seimila sorgenti in raggi X, comprese le stelle più deboli con masse inferiori a quella del Sole. Di queste, 1075 stelle sono state rilevate da Chandra molto vicine al centro dell’ammasso, entro i quattro anni luce. Ciò offre agli astronomi la possibilità di studiare una nuova popolazione stellare. Per dare un’idea di quanto sia affollato, quattro anni luce rappresentano circa la distanza tra il Sole e Proxima Centauri, la seconda stella più vicina alla Terra.

«Sono vari i motivi per cui questo è interessante», conclude Guarcello. «Mi piace pensare che queste regioni di formazione stellare siano oggi rare nella Via Lattea a differenza di quando la nostra galassia attraversava epoche di intensa formazione stellare dopo eventi di merging».

L’emissione diffusa osservata nei dati Ewocs rappresenta la prima rilevazione di un alone di gas caldo che circonda il centro di Westerlund 1, che gli astronomi ritengono sarà cruciale per valutare la formazione e l’evoluzione dell’ammasso e per fornire una stima più precisa della sua massa.

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A Leo I s’è ristretto il cuore


Uno studio del 2021 aveva stimato, per la massa del buco nero al centro della galassia nana Leo I, un valore enorme: oltre tre milioni di masse solari. Ora un team di astronomi dell’Istituto nazionale di astrofisica e dell’Università di Bologna, pur usand

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Raffaele Pascale, ricercatore all’Inaf di Bologna e primo autore dello studio sulla massa del buco nero al centro di Leo I pubblicato su A&A Letters. Crediti: Inaf

Ne avevamo parlato tre anni fa, della galassia nana Leo I, e l’avevamo chiamata “un leoncino dal cuore grande”. Stando allo studio pubblicato all’epoca da un team guidato da Maria Jose Bustamante-Rosell, della University of Texas ad Austin (Usa), non era certo un’esagerazione: la stima della massa del buco nero che Leo I ospita al centro era risultata essere ben 3.3 milioni di masse solari. Un valore enorme, al di là di ogni ragionevole attesa: paragonabile a quello di Sagittarius A* (4.4 milioni di masse solari), il buco nero supermassiccio della nostra galassia, la Via Lattea, che però ha una massa circa diecimila volte maggiore.

Un valore da far sobbalzare sulla sedia più di un astronomo, insomma. Com’è accaduto ai quattro autori di un nuovo studio, pubblicato online lo scorso aprile su A&A Letters, stando al quale quella stima di 3.3 milioni di masse solari va drasticamente ridimensionata: il buco nero di Leo I, nel migliore dei casi, non supererebbe le centinaia di migliaia di masse solari. Non supermassiccio, dunque, ma intermedio. Come ci sono arrivati? Lo abbiamo chiesto al primo autore del nuovo studio, Raffaele Pascale, 32 anni, originario di Satriano di Lucania, in Basilicata, oggi ricercatore all’Inaf di Bologna. «Eravamo più o meno all’inizio dell’anno scorso», ricorda, «stavo lavorando con Alessandro Della Croce a un’altra ricerca sui buchi neri di massa intermedia, quando Carlo Nipoti, che era stato mio tutor di dottorato, mi ha inoltrato lo studio di Maria Jose Bustamante».

Quello dove si dice che al centro di Leo I c’è un buco nero supermassiccio?

«Sì, esatto. Era un risultato davvero anomalo, mi ricordo che Carlo, scherzando, lo chiamava “il buco nero con la galassia intorno”, tanto sembrava incredibilmente grosso rispetto alla galassia che lo ospita, una piccola galassia satellite della Via Lattea. Il tema ci interessava, stavamo lavorando ai buchi neri di massa intermedia negli ammassi globulari. Così abbiamo deciso di provare a capirci qualcosa di più».

Eravate un po’ diffidenti, insomma. Come avete fatto, per capirci di più? Avete raccolto nuovi dati?

«No, i dati li abbiamo presi per buoni. Dunque ci siamo messi in contatto con la prima autrice dell’articolo, Maria Jose Bustamante, e abbiamo chiesto direttamente a lei di fornirceli. La nostra idea era infatti quella provare ad analizzarli con un metodo diverso».

Lei ve li ha procurati?

«Sì, le ho scritto un’email spiegandole che avevamo letto il suo articolo, che eravamo molto interessati a svolgere un lavoro simile e chiedendole, appunto, se poteva metterci a disposizione i suoi dati. E lei me li ha inviati nell’arco di pochi giorni: erano file di testo, file con i dati spettroscopici relativi alla distribuzione di probabilità della velocità delle stelle in quella regione. Così la scorsa estate ci siamo messi al lavoro».

E cosa avete trovato?

«Abbiamo ottenuto risultati apparentemente molto differenti dai loro».

Molto differenti? In che senso?

«Anzitutto sulla probabilità che effettivamente esista, quel buco nero: secondo loro, la possibilità che non sia presente è molto improbabile. Quello che abbiamo trovato noi, invece, è che la probabilità che questo buco nero non ci sia è circa uguale a quella che ci sia. Poi c’è la stima della massa: loro dicono che è oltre un milione di masse solari, mentre secondo noi – se quel buco nero c’è – la sua massa non è superiore a qualche centinaio di migliaia di masse solari. Molto meno massiccio, dunque, e molto più in linea sia con i modelli di formazione dei buchi neri sia, soprattutto, con quello che ci si aspetta che sistemi di questo tipo possano ospitare. Detto altrimenti: secondo noi, la particolarità di questa galassia è che in realtà non è particolare, è una galassia normale, come tante altre».

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Leo I (nel riquadro), una minuscola galassia satellite della Via Lattea (nell’immagine principale), ha nel suo nucleo un buco nero massiccio quasi quanto quello della Via Lattea, che però è circa 30 volte più grande. Crediti: Esq/Gaia/Dpac; Sdss (riquadro)

Capisco che il metodo usato è diverso, ma com’è possibile, partendo dagli stessi dati, arrivare a risultati così distanti?

«Penso che tutto dipenda da quanto precisa può essere una misura dato un certo strumento. E riteniamo che lo strumento che abbiamo utilizzato noi sia molto più accurato, molto più preciso, di quello che hanno utilizzato loro. Dico “strumento” fra virgolette: stiamo parlando di metodi di confronto tra una particolare tipologia di modelli e di osservazioni. E dei cosiddetti modelli dinamici basati su funzioni di distribuzione che dipendono dalle azioni. Vale a dire, un metodo che viene accoppiato a una tipologia di confronto fra dati e modelli basata su statistica bayesiana. Ebbene, la metodologia e i modelli da noi impiegati per descrivere la dinamica di questi sistemi con buchi neri sono, secondo noi, molto più accurati – e anche molto più generali – rispetto ai modelli e al metodo statistico che invece è stato utilizzato dal team di Bustamante».

In cosa consiste la differenza fra il vostro metodo e il loro?

«Be’, diciamo che noi abbiamo la possibilità di “marginalizzare su molti parametri degeneri”, come si dice in gergo: possiamo, per esempio, studiare eventuali dipendenze della massa di questo buco nero da quella che si chiama anisotropia stellare – vale a dire, la distribuzione di velocità delle stelle presenti nel centro di Leo I. Questo perché identici effetti gravitazionali possono avere cause differenti».

Ma cos’altro può essere, se non si tratta di un buco nero, a portare a dati come quelli raccolti?

«Noi non diciamo che il buco nero non c’è, non siamo al punto di escluderne la presenza: poniamo un limite più basso alla sua massa massima».

Il prossimo passo quale sarà? Raccogliere nuovi dati?

«Be’, sicuramente ci aspettiamo che il team di Bustamante esca con nuovi dati».

Pensa che ve li daranno nuovamente? Dopo che avete usato quelli precedenti per demolirne il risultato?

«Direi proprio di sì, d’altronde noi siamo stati sempre molto onesti e molto corretti, nei loro confronti. Ci siamo anche confrontati con l’autrice dell’articolo prima di sottomettere il nostro per la pubblicazione, per esempio. Non ci siamo presi la libertà di fare le cose di nascosto: abbiamo chiesto un parere prima, e c’è stata una continua corrispondenza anche durante la stesura del nostro articolo. Immagino dunque che vedremo presto dei nuovi dati, probabilmente pubblicheranno qualcosa sulla base di questi dati, e a quel punto valuteremo. Insomma, la questione è ancora aperta. Diciamo che esiste una seconda voce, che è la nostra, mentre prima non esisteva neanche quella».

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I quattro autori del nuovo studio sulla massa del buco nero al centro di Leo I. Da sinistra: Raffaele Pascale, Carlo Nipoti, Alessandro Della Croce e Francesco Calura. Crediti: Inaf

Questo non è strano? Intendo dire, il loro è un risultato talmente anomalo che immaginavo si scatenasse la gara a smontarlo…

«Mah, non saprei. Teniamo presente che il loro articolo è uscito a fine 2021, non così tanto tempo fa. Non so se ci sia qualche altro gruppo che sta lavorando alla stessa cosa. D’altronde la difficoltà maggiore è avere i dati, a meno che non si abbia a disposizione uno strumento proprietario, o comunque con un certo numero di ore di osservazione garantite. Il vantaggio del team di Bustamante è che avevano accesso a uno spettrografo, anche se non del tutto proprietario, comunque a uso interno – credo – dell’Università del Texas»

È per questo che non raccogliete altri dati per conto vostro?

«Sì, e anche perché noi tutti, autori di questo articolo, lavoriamo sul lato teorico. Semplicemente, anche se ovviamente sappiamo come si fa una richiesta per ottenere tempo di osservazione, e in parte lo abbiamo fatto, nessuno di noi è esperto nel settore osservativo».

Non vi sporcate le mani…

«Ma no, non si tratta di sporcarsi le mani… Diciamo che non ci abbiamo mai pensato. Magari in futuro lo faremo, visto che senz’altro c’è possibilità di miglioramento sulla base di dati più precisi, questo è poco ma sicuro».

E in ogni caso Bustamamte i dati ve li procurerà.

«Sì, ci ha detto che li stanno aspettando, questi nuovi dati, e ha anche accennato a promising results – risultati promettenti. Non sappiamo però se e quando verranno pubblicati».


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Giovani promesse spaziali crescono


Sono undici le borse di studio assegnate dall'Agenzia spaziale europea per finanziare i progetti scientifici di altrettanti borsisti, che potranno sviluppare le loro attività di ricerca in campo spaziale in modo indipendente in una delle sedi Esa per tre

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Gli undici vincitori della borsa di studio Esa 2024: Alice Borghese, Louise Breuval, Sam Fayolle, Jack M. Jenkins, Eva Laplace, David O’Ryan, Erwan Quintin, Matilde Signorini, Lorenzo Speri, Domenico Trotta, and Bert Vander Meulen. Crediti: Esa.

Undici giovani promesse della ricerca spaziale sono state selezionate dall’Agenzia spaziale europea (Esa), che finanzierà altrettanti progetti scientifici grazie a un bando annuale che permette a giovani ricercatori e ricercatrici agli esordi della loro carriera di sviluppare le proprie attività di ricerca in campo spaziale in modo indipendente.

Con queste borse di studio l’Esa offre l’opportunità unica di trascorrere un periodo di tre anni presso una delle sue tre sedi – lo European Space Astronomy Centre (Esac) a Madrid, in Spagna, lo European Space Research and Technology Centre (Estec) a Noordwijk, nei Paesi Bassi, o lo Space Telescope Science Institute (Stsci) a Baltimore, nel Maryland (Usa) – per sviluppare ricerche scientifiche avanzate nel contesto di una delle missioni spaziali europee.

L’attività di ricerca degli undici vincitori dell’edizione 2024 spazierà su un’ampia gamma di argomenti nei campi della fisica solare, delle scienze planetarie, dell’astrofisica e della fisica fondamentale. Tra le sfide scientifiche previste: modellare buchi neri in collisione, studiare l’orbita e l’interno di Io, la luna galileiana più interna di Giove, misurare il tasso di espansione dell’universo e cercare di capire meglio i processi alla base delle protuberanze solari.

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Alice Borghese (in alto) e Matilde Signorini (in basso). Fonte: Esa

Tra gli undici borsisti 2024, ben quattro rappresentano l’Italia: Alice Borghese, Matilde Signorini, Lorenzo Speri e Domenico Trotta.

«Non pensavo proprio di vincere questa prestigiosa fellowship. Una mia cara amica mi ha consigliato di partecipare, lei ci credeva più di me…», dice Alice Borghese dell’Inaf di Roma, già vincitrice del Premio L’Oréal e Unesco 2023. Con il suo progetto “Unifying the neutron star zoo” vorrebbe contribuire a sviluppare una teoria che possa unificare tutte le numerose classi di stelle di neutroni isolate, affrontando la loro diversità da un punto di vista osservativo. «Le diverse caratteristiche delle stelle di neutroni isolate hanno spinto noi astrofisici a classificarle in diversi gruppi. È proprio come quando facciamo una passeggiata allo zoo e ammiriamo le diverse specie di animali», conclude Borghese.

L’idea di studiare nel dettaglio la connessione tra il disco di accrescimento e la corona X nei nuclei galattici attivi è di Matilde Signorini dell’Università Roma Tre, con il progetto “X-rays to uncover the mysteries of Agn”.

«Cosa ho pensato quando ho vinto? Ero contentissima!», racconta Signorini, che ha appena ricevuto anche un riconoscimento dalla Sait. «Sono felice perché con questa fellowship avrò modo di sviluppare il mio progetto di ricerca in autonomia, ma allo stesso tempo facendo parte di un contesto super stimolante e in contatto con persone che lavorano alle missioni spaziali più importanti del presente e del futuro, per l’astronomia X e non solo».

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Lorenzo Speri (in alto) e Domenico Trotta (in basso). Fonte: Esa

Le onde gravitazionali sono al centro degli interessi scientifici di Lorenzo Speri, del Max Planck Institute for Gravitational Physics di Potsdam (Germania). Il suo progetto – “Preparation to deliver the scientific potential of Lisa” – si concentrerà sullo sviluppo di modelli e algoritmi per analizzare le onde gravitazionali della futura missione Lisa (Laser Interferometer Space Antenna).

«Ora mi aspetta un periodo molto emozionante e impegnativo all’Esa, dove avrò l’opportunità di contribuire in modo significativo alla preparazione della missione», Lorenzo Speri. «Questo riconoscimento rappresenta per me un’importante conferma del valore del mio lavoro e un’opportunità unica per crescere professionalmente e contribuire significativamente a questo campo della ricerca».

Domenico Trotta dell’Imperial College London, già noto ai lettori di Media Inaf, studierà invece gli shock che si propagano nel Sistema solare come conseguenza di fenomeni dell’attività del Sole con il progetto Pesto (Particle energization and transport using modern spacecraft missions).

«Metterò in evidenza i meccanismi di produzione delle particelle energetiche che tanto mi appassionano. Conto di sfruttare al massimo le potenzialità della sonda Solar Orbiter, che misura tali particelle con livelli di risoluzione senza precedenti e in regioni poco esplorate», dice Trotta. «Quando ho saputo il risultato, dopo un transiente di soddisfazione per il duro lavoro fatto, sono stato colpito dalla grande eccitazione di vedere il mio primo progetto finanziato».

Le borse di ricerca in scienze spaziali vengono aperti dall’Esa ogni anno. Per chi volesse candidarsi, il prossimo bando è previsto ad agosto 2024.



A caccia di nane bianche e pianeti distrutti con Jwst


Il telescopio spaziale James Webb ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Inaf ha sfruttato le enormi potenzialità di Jwst per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di

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Ingrandimento della regione oggetto dello studio, dove si alternano le osservazioni HST & JWST prese a distanza di 20 anni. Crediti: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF – L. R. Bedin et al. 2024

Il telescopio spaziale James Webb (Jwst) delle agenzie spaziali Nasa, Esa e Csa ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha sfruttato le enormi potenzialità di Jwst per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).

La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.

I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’Inaf di Padova e primo autore dello studio, spiega: «Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».

Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa: «Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».

Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il Jwst prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.

Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.

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Domenica a Medicina asteroidi e labirinto nel mais


Il 9 giugno al Centro visite M. Ceccarelli dell’Inaf di Bologna torna l’evento “Asteroidi fastidiosi e come affrontarli” di Sorvegliati spaziali: un pomeriggio dedicato alla consapevolezza dei rischi da impatto degli asteroidi. Nella stessa occasione apri

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Sarà ospite dell’evento anche Pimpa, la cagnolina che ha trovato la meteorite Cavezzo, qui davanti alle antenne della Croce del Nord di Medicina. Crediti: Sorvegliati spaziali/Inaf

Anche quando non sono “grandi quanto il Texas” e in rotta di collisione con il nostro pianeta, il monitoraggio degli asteroidi più vicini alla Terra è importante. Nonostante le attese esagerate create dal cinema e gli allarmi lanciati periodicamente da numerosi articoli nei media generalisti e da post e video sui social network, gli asteroidi offrono qualche preoccupazione e al tempo stesso tante opportunità. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza delle ricerche scientifiche su questi corpi celesti e per promuovere la consapevolezza del rischio d’impatto da parte degli asteroidi che effettuano passaggi ravvicinati con la Terra, nel 2016 le Nazioni Unite hanno istituito l’Asteroid Day, fissato nella data del 30 giugno.

Perché il 30 giugno? Per ricordare il maggior impatto registrato da quando se ne tiene traccia: l’evento di Tunguska, in Siberia, del 30 giugno 1908. In attesa di questa ricorrenza, il gruppo di Inaf Sorvegliati spaziali organizza l’evento “Asteroidi fastidiosi e come affrontarli”, che in questa terza edizione si terrà nel pomeriggio di domenica 9 giugno, dalle ore 15:00, presso il Centro visite M. Ceccarelli dell’Istituto di radioastronomia dell’Inaf, nella località di Medicina, a circa 30 chilometri da Bologna, e a poca distanza dai radiotelescopi, che saranno visitabili per l’occasione.

«Sorvegliati spaziali organizza questo evento per il terzo anno consecutivo», dice Daria Guidetti, astrofisica dell’Inaf di Bologna e responsabile del progetto. «Ne siamo orgogliosi, anche perché rappresenta un’importante opportunità per entrare in contatto diretto con il pubblico e condividere informazioni cruciali sull’importanza della ricerca sugli asteroidi e sulla gestione del rischio d’impatto, in modo divertente e coinvolgente. Speriamo che questa giornata sia stimolante per tutti coloro che parteciperanno. Inoltre chiuderemo il mese proprio con il passaggio ravvicinato di un asteroide potenzialmente pericoloso di ben 2,5 km, che sarà ben osservabile dall’Italia con telescopi amatoriali, proprio la notte del 30 giugno, il modo migliore per celebrare (ancora) l’Asteroid Day di quest’anno».

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L’esposizione di meteoriti curata da Romano Serra. Crediti: Sorvegliati spaziali/Inaf

Nel corso del pomeriggio sarà possibile assistere a video tematici proiettati a ciclo continuo, vivere le esperienze in realtà aumentata di Sorvegliati spaziali e assistere allo spettacolo nel planetario gonfiabile dal titolo “Asteroidi: tra rischi di impatto e opportunità scientifiche” (durata 40 minuti, consigliato dagli 8 anni). Per i più piccoli e curiosi, saranno attivi anche alcuni laboratori didattici.

Si potrà inoltre visitare una mostra di meteoriti e reperti provenienti da Tunguska, guidati da esperti come Romano Serra del Museo del cielo e della Terra di San Giovanni in Persiceto, nonché chiedere informazioni e approfondimenti sull’argomento ai ricercatori Inaf, presenti per soddisfare tutte le curiosità sui veri pericoli che corriamo a causa di questi corpi celesti. Ai partecipanti verranno offerti un aperitivo (plastic-free) e gadget spaziali. L’evento è completamente gratuito, ma è richiesta la prenotazione.

Infine, presso la stessa struttura il 9 giugno aprirà al pubblico il Labirinto nel mais, quest’anno dedicato al Mago di Oz, curato da Lacme, una cooperativa agricola impegnata non solo nell’agricoltura ma anche nella protezione e nella valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente e che propone tante iniziative per il pubblico, anche con la collaborazione del personale Inaf. «Da anni collaboriamo per dare vita a progetti bellissimi e questo ci rende particolarmente orgogliosi», dice Serena Strazzari, responsabile degli eventi della cooperativa Lacme presso Aia Cavicchio, «La nostra fruttuosa collaborazione con l’Istituto di radioastronomia ha permesso infatti di realizzare eventi unici e di promuovere le rispettive attività, pensate per persone di tutte le età».

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La strana chimica attorno alle stelle piccole


Un’indagine sulla chimica del disco protoplanetario attorno a una stella di piccola massa in formazione ha mostrato una prevalenza di molecole ricche di carbonio, e una carenza di molecole contenenti ossigeno. Caratteristiche molto diverse da quelle del S

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Rappresentazione artistica di un disco protoplanetario attorno a una stella di massa molto bassa. Raffigura una selezione di molecole di idrocarburi (metano, CH3; etano, C2H6; etilene, C2H2; diacetilene, C4H2; propiene, C3H4; benzene, C6H6) rilevate nel disco intorno a ISO-ChaI 147. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao) / Mpia

Trovare un sistema planetario in grado di formare pianeti rocciosi come la Terra e con atmosfere ricche degli ingredienti utili alla vita (come la conosciamo) sembrerebbe essere una richiesta un po’ pretenziosa. Almeno stando agli ultimi risultati del telescopio spaziale James Webb pubblicati oggi su Science.

Lo studio tratta dell’osservazione del disco protoplanetario in formazione attorno a una stella giovane e di piccola massa, che ha mostrato un’abbondanza di molecole ricche di carbonio – fra le quali l’etano, finora mai rilevato in un sistema esoplanetario – ma una scarsità di molecole contenenti ossigeno. Scoperta, questa, che confermerebbe la tendenza dei dischi attorno a stelle di massa molto bassa a essere chimicamente diversi da quelli che si formano attorno a stelle simili al Sole, influenzando le atmosfere dei pianeti in formazione.

Cominciamo però dall’inizio. I pianeti si formano in dischi di gas e polvere che orbitano attorno a giovani stelle. Le osservazioni indicano che i pianeti terrestri dovrebbero formarsi in modo più efficiente dei giganti gassosi nei dischi attorno a stelle di massa molto bassa. Un noto esempio di questo è il sistema Trappist-1, composto da sette pianeti rocciosi entro 0,1 unità astronomiche e con una composizione ritenuta simile a quella della Terra. I risultati basati sulle ultime osservazioni di Webb, però, suggeriscono che i dischi attorno a stelle di massa molto bassa possono evolvere in modo diverso da quelli attorno a stelle più massicce.

La stella in questione si chiama Iso-ChaI-147, ha una massa pari a poco più del 10 per cento di quella del Sole ed è circondata da un disco di pianeti in formazione. I dati raccolti dal Mid-InfraRed Instrument (Miri) mostrano che il gas nella regione di formazione dei pianeti della stella è ricco di carbonio. A dirla tutta, si tratta del disco protoplanetario più ricco di idrocarburi mai osservato. Fra questi anche l’etano (C2H6), il più grande idrocarburo completamente saturo rilevato al di fuori dal Sistema solare; ci sono poi anche l’etilene (C2H4), il propileo (C3H4) e il radicale metile CH3, trovati per la prima volta in un disco protoplanetario.

Insomma, un ambiente di formazione planetaria molto diverso da quello a cui pensiamo di solito. Si tratta di un sistema particolare, dunque, o le stelle di piccola massa che formano pianeti rocciosi hanno generalmente una chimica diversa?

«Questa è una stella giovane particolare», commenta Alessio Caratti o Garatti, ricercatore dell’Inaf di Napoli e coautore dello studio. «Ha una massa estremamente piccola, e pienamente formata sarà quasi dieci volte meno massiccia del Sole. Potrebbe essere quindi un’eccezione rispetto alle stelle simili al Sole, che pensiamo debbano comportarsi in modo diverso. Le poche che abbiamo finora osservato con Webb, infatti, hanno una abbondanza di acqua e ossigeno tali da sostenere la vita. La chimica che abbiamo trovato, fatta di molecole ricche di carbonio – soprattutto idrocarburi, come il metano, per esempio – non sarebbe adatta a sviluppare la vita basata sui processi chimici che conosciamo e che sappiamo funzionare qui sulla Terra».

Secondo gli autori, questi risultati sarebbero importanti per definire l’astrochimica dei pianeti rocciosi che si formano intorno alle stelle molto poco massicce, e molto vicino a queste (entro 0,1 unità astronomiche).

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Lo spettro di emissione della regione attorno alla stella di piccola massa ISO-ChaI-147 (0.11 masse solari), ottenuto dallo strumento Miri del telescopio spaziale Webb. Il grafico mostra un andamento della luminosità rispetto alla lunghezza d’onda con evidenziati i picchi di alcuni idrocarburi trovati nel disco protoplanetario. Fra questi, etano, metano, propile, cianoacetilene e del radicale metile. Crediti: ESA/NASA/CSA JWST, MIRI, MINDS collaboration

«È profondamente diversa dalla composizione che vediamo nei dischi intorno alle stelle di tipo solare, dove dominano le molecole contenenti ossigeno (come l’anidride carbonica e l’acqua)», aggiunge Inga Kamp, ricercatrice dell’Università di Groningen e coautrice dello studio. «Questo sistema stabilisce che si tratta di una classe unica di oggetti».

Gli autori, che hanno osservato la stella all’interno del programma osservativo Minds (Mid-Infrared Disk Survey), intendono quindi espandere lo studio a un campione più ampio di dischi di questo tipo attorno a stelle di diversa massa, per capire quanto siano comuni queste regioni esotiche ricche di carbonio per la formazione di pianeti terrestri.

«Finalmente il telescopio spaziale Webb ci permette di studiare la composizione chimica delle regioni più interne delle stelle giovani, dove si formano i pianeti rocciosi», conclude Caratti o Garatti. «Il nostro campione nel progetto Minds include stelle giovani con masse molto differenti fra loro: da molto piccole, come Iso-ChaI-147, a molto più grandi, con masse due o tre volte maggiori di quella solare. Questi studi ci aiutano a comprendere meglio la possibile composizione dei pianeti rocciosi che si formano attorno a stelle di massa diversa, e stiamo scoprendo che potrebbero essere molto diversi da come ce li eravamo immaginati».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Abundant hydrocarbons in the disk around a very-low-mass star”, di A. M. Arabhavi, I. Kamp, Th. Henning, E. F. van Dishoeck, V. Christiaens, D. Gasman,A. Perrin, M. Güdel, B. Tabone, J. Kanwar, L. B. F. M. Waters, I. Pascucci, M. Samland, G. Perotti, G. Bettoni, S. L. Grant, P. O. Lagage, T. P. Ray, B. Vandenbussche, O. Absil, I. Argyriou, D. Barrado, A. Boccaletti, J. Bouwman, A. Caratti o Garatti, A. M. Glauser, F. Lahuis, M. Mueller, G. Olofsson, E. Pantin, S. Scheithauer, M. Morales-Calderón, R. Franceschi, H. Jang, N. Pawellek, D. Rodgers-Lee, J. Schreiber, K. Schwarz, M. Temmink, M. Vlasblom, G. Wright, L. Colina e G. Östlin


Consegnati oggi a Napoli i premi Sait 2024


Giovedì 6 giugno, al termine della quarta giornata del congresso annuale della Società astronomica italiana, sono stati consegnati i premi intitolati a “Pietro Tacchini”, “Giuseppe Lorenzoni” e “Giovanni Fabrizio Bignami”, vinti rispettivamente da Nicola

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Si è conclusa con la consegna dei premi annuali la quarta giornata del 65esimo congresso della Sait, la Società astronomica italiana, in corso in questi giorni a Napoli, all’Auditorium nazionale Inaf “Ernesto Capocci”, presso l’Osservatorio astronomico di Capodimonte.

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Il presidente dell’Inaf Roberto Ragazzoni consegna la pergamena del premio “Pietro Tacchini” a Nicola Borghi. Crediti: P. Schipani/Inaf

Vincitore del premio “Pietro Tacchini” – premio da duemila euro intitolato a uno fra gli astronomi fondatori, nell’Ottocento, della Società degli spettroscopisti italiani, e riservato alle tesi di dottorato di ricerca di carattere astrofisico in area scientifica generale – è Nicola Borghi dell’Università di Bologna, per la sua tesi di dottorato dal titolo Unveiling the expansion history of the universe with cosmic chronometers and gravitational waves (vedi articolo su Media Inaf), giungendo a “risultati originali, innovativi e tempestivi in quanto riguardano grandi problemi aperti, come la tensione sulla costante di Hubble. Le metodologie sviluppate, applicate a esperimenti attuali e futuri, come Euclid e Einstein Telescope, potranno contribuire ad attenuare o risolvere tale tensione”.

Il premio “Giuseppe Lorenzoni”, quarto direttore della Specola di Padova e primo astronomo padovano a compiere ricerche astrofisiche, va invece a quello che è stato ritenuto dalla commissione il miglior articolo scientifico di carattere astrofisico pubblicato nell’ultimo triennio, nel contesto del Raggruppamento scientifico su “Sole e Sistema solare”, avente come primo autore un giovane: il paperLaboratory measurements of anhydrous minerals mixed with hyperfine hydrated minerals to support interpretation of infrared reflectance observations of planetary surfaces”, di Giovanni Poggiali (et al.) dell’Inaf di Arcetri, lavoro che ha come obiettivo principale quello di indagare le caratteristiche spettroscopiche nell’infrarosso di minerali anidri in presenza di basse quantità di particelle iperfini di minerali idrati”.

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Il presidente dell’Inaf Roberto Ragazzoni consegna la pergamena del premio “Giovanni Fabrizio Bignami” a Riccardo Ferrazzoli. Crediti: P. Schipani/Inaf

Il premio “Giovanni Fabrizio Bignami” – astrofisico delle alte energie e protagonista dell’astrofisica spaziale degli ultimi decenni, come presidente dell’Asi e dell’Inaf, presidente del Cospar, scomparso nel 2017 –, destinato a un giovane ricercatore che abbia conseguito il dottorato in fisica o in astronomia da non più di cinque anni, è invece stato assegnato a Riccardo Ferrazzoli dell’Inaf Iaps di Roma “per i suoi rilevanti contributi sia tecnologici sia scientifici all’astrofisica delle alte energie con lo studio della polarizzazione della radiazione X nella missione Ixpe, che hanno portato, in particolare, all’osservazione di nuovi fenomeni nei resti di supernova”.

La commissione esaminatrice del “Premio Tacchini” ha poi deciso di assegnare tre menzioni speciali, a Elenia Pacetti dell’Università Sapienza di Roma, a Giacomo Mantovan dell’Università di Padova e a Matilde Signorini dell’università di Firenze. Una menzione speciale arriva anche dalla commissione del “Premio Lorenzoni” per il paperMulti-spacecraft Observations of the 2022 March 25 CME and EUV Wave: An Analysis of Their Propagation and Interrelation” di Alessandro Liberatore (et al.) del Jet Propulsion Laboratory, pubblicato su The Astrophysical Journal nel 2023.

È rimasto invece non assegnato il premio “Guido Horn D’Arturo” in quanto nessuna delle domande ricevute era relativa a tesi di dottorato di argomento strettamente inerente le tecnologie astronomiche, come richiedeva il bando. Dunque si è deciso di valutare le domande ricevute nell’ambito del premio “Tacchini”.



Usare l’oceanografia per capire i cicloni di Giove


Una nuova ricerca pubblicata su Nature Physics dimostra che le tempeste che si scatenano nelle regioni polari di Giove sono alimentate da processi noti ai fisici che studiano gli oceani e l'atmosfera della Terra. Le affinità geofisiche tra i due corpi cel

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Sistema di nubi nell’emisfero settentrionale di Giove, fotografato dalla sonda Juno. Crediti: Nasa

Una nuova ricerca guidata da Lia Siegelman, fisico-oceanografo presso lo Scripps Institution of Oceanography della Uc San Diego, dimostra che le tempeste che si scatenano nelle regioni polari di Giove sono alimentate da processi ben noti ai fisici che studiano gli oceani e l’atmosfera della Terra. Le affinità geofisiche tra i due corpi celesti, distanti in media oltre 700 milioni di chilometri, potrebbero aiutare a migliorare la comprensione di questi processi sulla Terra.

Siegelman stabilì per la prima volta un collegamento tra il nostro pianeta e il gigante gassoso nel 2018, quando notò una sorprendente somiglianza tra le immagini degli enormi cicloni di Giove e la turbolenza oceanica che stava studiando. Per un fisico, l’aria e l’acqua sono entrambi considerati fluidi, quindi applicare la fisica degli oceani a Giove non è così inverosimile come sembra. Giove è fondamentalmente un oceano di gas, sostiene l’autrice.

Questa osservazione portò Siegelman a essere coautrice di uno studio del 2022 pubblicato su Nature Physics che analizzò le immagini a infrarossi ad alta risoluzione dei cicloni di Giove riprese dalla sonda Juno della Nasa. L’analisi rivelò che un tipo di convezione simile a quella che si osserva sulla Terra contribuisce a sostenere le tempeste di Giove, che possono essere vaste migliaia di chilometri e durare anni.

Lo studio del 2022 si era concentrato direttamente sui cicloni di Giove, ma Siegelman in quell’occasione vide anche dei vaporosi filamenti negli spazi tra i vortici gassosi. Così, la ricercatrice usò le immagini dettagliate di Juno per valutare se questa somiglianza con i processi oceanici e atmosferici del nostro pianeta fosse solo apparente.

Pubblicato oggi su Nature Physics e finanziato da Scripps e dalla National Science Foundation, il nuovo studio di Siegelman trova ulteriori somiglianze tra i processi che alimentano i cicloni di Giove e quelli che agiscono sulla Terra. Dimostra che i filamenti tra i cicloni di Giove agiscono di concerto con la convezione per promuovere e sostenere le tempeste giganti del pianeta. In particolare, i filamenti di Giove agiscono in modo simile a quelli che gli oceanografi e i meteorologi sulla Terra chiamano fronti.

Nelle previsioni meteorologiche si parla spesso di fronti freddi o fronti temporaleschi, ma il concetto si applica sia ai gas che ai liquidi. Un fronte è il confine tra masse gassose o liquide con densità diverse dovute a differenze di alcune proprietà, come ad esempio la temperatura. Negli oceani, i fronti possono anche essere dovuti a differenze di salinità, che influenzano la densità dell’acqua marina insieme alla temperatura. Una caratteristica fondamentale dei fronti è che i loro bordi presentano forti velocità verticali che possono creare venti o correnti.

Per cercare di capire il ruolo dei filamenti visibili chiaramente tra i cicloni di Giove nelle immagini di Juno, Siegelman ha esaminato una serie di immagini a infrarossi di Juno, in particolare della regione nordpolare di Giove, scattate a distanza di 30 secondi.

Il fatto che le immagini fossero a infrarossi ha permesso a Siegelman e Patrice Klein del Jet Propulsion Laboratory della Nasa di calcolare la temperatura: le aree chiare erano più calde e quelle scure più fredde. Su Giove, le parti più calde dell’atmosfera corrispondono a nubi sottili, mentre le parti più fredde rappresentano una copertura nuvolosa spessa, che blocca una maggiore quantità di calore emesso da Giove.

I ricercatori hanno quindi seguito il movimento delle nubi e dei filamenti negli intervalli di 30 secondi che separano le fotografie per calcolare le velocità orizzontali del vento, applicando a Giove i metodi impiegati per gli oceani e l’atmosfera terrestre. Una volta calcolate le velocità verticali del vento, il team ha potuto constatare che i filamenti di Giove si comportavano effettivamente come i fronti sulla Terra.

Le velocità verticali del vento calcolate ai bordi dei fronti su Giove implicano che i fronti sono coinvolti nel trasporto di energia sotto forma di calore dall’interno del pianeta all’atmosfera superiore, alimentando i cicloni giganti. Sebbene la convezione sia il motore principale, i fronti rappresentano un quarto dell’energia cinetica totale che alimenta i cicloni di Giove e il quaranta per cento del trasporto verticale di calore.

«I cicloni ai poli di Giove persistono da quando sono stati osservati per la prima volta nel 2016», spiega Siegelman. «Questi filamenti tra i grandi vortici sono relativamente piccoli, ma rappresentano un meccanismo importante per il mantenimento dei cicloni. È affascinante che i fronti e la convezione siano presenti e influenti sulla Terra e su Giove: ciò suggerisce che questi processi potrebbero essere presenti anche su altri corpi fluidi turbolenti nell’universo».

Siegelman ha anche detto che l’enorme scala di Giove e le immagini ad alta risoluzione di Juno possono consentire una visualizzazione più chiara dei modi in cui i fenomeni su scala ridotta, come i fronti, si collegano a quelli più grandi, come i cicloni e l’atmosfera in generale. Connessioni, queste, che sono difficili da osservare sulla Terra, dove sono molto più piccoli ed effimeri. Tuttavia, conclude l’autrice, un nuovo satellite a lungo atteso, Swot, è destinato a rendere molto più facile l’osservazione di questo tipo di fenomeni oceanici sulla Terra.

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Via libera ad Andes, alla ricerca di vita su altri mondi


Oggi Eso ha firmato l’accordo con un consorzio internazionale guidato da Inaf per la progettazione e la costruzione di Andes, uno strumento di altissima tecnologia che sarà installato su Elt. Andes verrà utilizzato per cercare segni di vita negli esopiane

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Foto della firma dell’accordo. Crediti: Eso

L’accordo è stato firmato dal Direttore Generale dell’European Southern Observatory (Eso) Xavier Barcons e da Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), l’Ente che guida il consorzio Andes. Alla cerimonia della firma erano presenti anche Sergio Maffettone, Console Generale d’Italia a Monaco di Baviera, e Alessandro Marconi dell’Università di Firenze e associato Inaf, Principal Investigator di Andes, oltre ad altri rappresentanti dell’Eso, dell’Inaf e del consorzio Andes, che vede la partecipazione di Istituti, Università ed Enti di Ricerca di 13 Paesi. La firma ha avuto luogo presso il quartier generale dell’Eso a Garching, in Germania.

«Andes è una macchina che sfrutta molte delle tecnologie sviluppate in Italia e che complementa gli sforzi che come Inaf stiamo facendo per individuare mondi alieni», commenta Ragazzoni. «Poterne analizzare chimicamente la composizione delle atmosfere è uno di quei problemi formidabili che mettono a dura prova la filiera tecnologica sia della ricerca che industriale. Anche se al limite delle sue capacità, potrebbe riuscire a fornire misure dirette della espansione dell’universo, ma certamente aprire nuovi quesiti che solleciteranno ulteriori sviluppi tecnologici, in un circolo virtuoso che l’Inaf porta avanti da tempo».

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Rappresentazione artistica dello strumento Andes. Crediti: Eso

Precedentemente denominato Hires, Andes (ArmazoNes high Dispersion Echelle Spectrograph) è un sofisticato spettrografo, uno strumento che divide la luce nelle lunghezze d’onda che la compongono in modo che gli astronomi possano determinare importanti proprietà degli oggetti astronomici, come la loro composizione chimica. Lo strumento avrà prestazioni senza precedenti nelle osservazioni in luce visibile e nel vicino infrarosso e, in combinazione con il potente sistema di specchi e ottica adattiva che costituiscono Elt, consentirà enormi passi in avanti nello studio dell’universo.

«Andes è uno strumento con un enorme potenziale per scoperte scientifiche rivoluzionarie, che possono influenzare profondamente la nostra percezione dell’universo ben oltre la comunità di scienziati», afferma Marconi.

Andes permetterà di realizzare indagini dettagliate delle atmosfere di esopianeti simili alla Terra, consentendo agli astronomi di analizzare la loro composizione, alla ricerca di tracce legate alla presenza di vita. Sarà anche in grado di analizzare elementi chimici in oggetti lontani nell’universo primordiale, rendendolo probabilmente il primo strumento in grado di rilevare le firme delle stelle di Popolazione III, le prime stelle in assoluto che si sono formate nell’universo. Inoltre, gli astronomi saranno in grado di utilizzare i dati Andes per verificare se le costanti fondamentali della fisica variano nel tempo e nello spazio. I suoi dati saranno utilizzati anche per misurare direttamente l’accelerazione dell’espansione dell’universo, uno degli enigmi ancora insoluti dell’astrofisica.

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Rendering dell’Extremely Large Telescope, in costruzione sulla cima del Cerro Armazones in Cile, ad oltre 3000 metri di quota. Crediti: Eso

Il contributo di Inaf ad Andes, oltre alla responsabilità di gestione manageriale e ingegneristica del progetto a livello di sistema e di sviluppo software (con le sedi coinvolte di Trieste per il management, Milano per l’ingegneria del sistema e Bologna per la parte di collegamento scientifico), copre anche la progettazione e la successiva realizzazione opto-meccanica e software, di alcuni moduli che compongono Andes. In particolare, la sede Inaf di Firenze, con i contributi di quelle di Trieste e Brera, è responsabile sia del collegamento in fibra ottica che consentirà il passaggio della luce tra i vari moduli di Andes che del modulo di ottica adattiva. Oltre all’aspetto tecnologico, quello scientifico vede la partecipazione di ricercatrici e ricercatori di quasi tutte le sedi Inaf, con quella di Trieste responsabile anche del coordinamento del pacchetto scientifico che studierà le galassie ed il mezzo intergalattico.

Il telescopio Elt dell’Eso è attualmente in costruzione nel deserto di Atacama, nel nord del Cile. Quando entrerà in funzione alla fine di questo decennio, Elt sarà il più grande telescopio mai costruito al mondo, che aprirà letteralmente una nuova era nell’astronomia da Terra.

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Webb rileva la più lontana fusione di buchi neri


Un team internazionale di astronomi ha utilizzato il telescopio spaziale James Webb per trovare le prove di una fusione tra due galassie – e i rispettivi buchi neri supermassicci – avvenuta quando l'universo aveva solo 740 milioni di anni. Si tratta della

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Questa immagine mostra l’ambiente del sistema di galassie Zs7 del programma Jwst Primer visto dallo strumento NirCam di Webb. Una nuova ricerca condotta con lo strumento NirSpec ha stabilito che il sistema è la prova di una fusione in corso tra due galassie e i loro buchi neri massicci quando l’universo aveva solo 740 milioni di anni. Si tratta della più lontana rilevazione di una fusione di buchi neri mai ottenuta e della prima volta che questo fenomeno è stato rilevato così presto nell’universo. Crediti: ESA/Webb, NASA, CSA, J. Dunlop, H. Übler, R. Maiolino, et. al

Gli astronomi hanno trovato buchi neri con masse da milioni a miliardi di volte quella del Sole nella maggior parte delle galassie massicce dell’universo locale, compresa la Via Lattea. Questi buchi neri – chiamati buchi neri supermassicci – probabilmente hanno avuto un grande impatto sull’evoluzione delle galassie in cui risiedono. Tuttavia, non è ancora chiaro come si siano evoluti fino a diventare così massicci. La scoperta di buchi neri giganteschi già presenti nel primo miliardo di anni dopo il Big Bang indica che la loro crescita deve essere avvenuta molto rapidamente e molto presto.

Ora, nuove osservazioni effettuate con il telescopio spaziale James Webb hanno fornito prove di una fusione “in corso” tra due galassie e i loro buchi neri supermassicci quando l’universo aveva appena 740 milioni di anni, in un sistema noto come Zs7.

I buchi neri supermassicci che fagocitano attivamente materia – conosciuti come nuclei galattici attivi, o Agn – hanno caratteristiche spettrografiche distintive che permettono agli astronomi di identificarli. Per le galassie molto distanti, come quelle oggetto di questo studio, queste firme sono inaccessibili da terra e possono essere viste solo con Webb. «Abbiamo trovato prove di gas molto denso con movimenti veloci in prossimità del buco nero, così come di gas caldo e altamente ionizzato illuminato dalla radiazione energetica tipicamente prodotta dai buchi neri nei loro episodi di accrescimento», spiega Hannah Übler dell’Università di Cambridge nel Regno Unito, prima autrice dello studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. «Grazie alla nitidezza senza precedenti del suo imaging, Webb ha anche permesso al nostro team di separare spazialmente i due buchi neri».

Il team ha scoperto che uno dei due buchi neri ha una massa pari a 50 milioni di volte quella del Sole. «La massa dell’altro buco nero è probabilmente simile, anche se è molto più difficile da misurare perché questo secondo buco nero è sepolto da un gas denso», afferma Roberto Maiolino dell’Università di Cambridge e della University College London.

«I nostri risultati suggeriscono che la fusione è una via importante attraverso la quale i buchi neri possono crescere rapidamente, anche all’alba cosmica», aggiunge Übler. «Insieme ad altre scoperte di Webb di buchi neri attivi e massicci nell’universo lontano, i nostri risultati mostrano anche che i buchi neri massicci hanno plasmato l’evoluzione delle galassie fin dall’inizio».

«Il lavoro fa parte della survey Ga-Nifs [acronimo di Galaxy Assembly with NirSpec Integral Field Spectroscopy, ndr], che utilizza dati di spettroscopia integral field con NirSpec su Jwst per studiare galassie e nuclei galattici attivi (Agn) a z>3», spiega Giovanni Cresci dell’Inaf di Arcetri, coautore dello studio. «I dati stanno mostrando un’abbondanza di buchi neri superiore a quella attesa, che riusciamo a identificare grazie alla presenza delle righe larghe della serie di Balmer tipiche delle broad line regions (Blr) dei nuclei galattici attivi. In questo caso la scoperta è ancora più interessante perché la Blr si troverebbe non al centro della galassia, ma a circa 600 parsec di distanza dal nucleo, facendo ipotizzare la presenza di due buchi neri in interazione. Lo studio mostra come l’analisi spazialmente risolta con uno strumento come NirSpec permette di scoprire dettagli interessantissimi delle prime galassie e Agn formatesi nell’universo».

Quando i due buchi neri si fonderanno, genereranno onde gravitazionali. Eventi come questo saranno rilevabili con la prossima generazione di osservatori di onde gravitazionali, come la missione Laser Interferometer Space Antenna (Lisa), recentemente approvata dall’Agenzia spaziale europea (Esa), che sarà il primo osservatorio spaziale dedicato allo studio delle onde gravitazionali. «I risultati di Webb ci dicono che i sistemi più leggeri rilevabili da Lisa dovrebbero essere molto più frequenti di quanto ipotizzato in precedenza», dice la responsabile del progetto Nora Luetzgendorf dell’Esa.

Il team ha recentemente ottenuto un nuovo Large Programme nel Ciclo 3 di osservazioni di Webb, per studiare in dettaglio la relazione tra i buchi neri massicci e le galassie che li ospitano nei primi miliardi di anni. Una componente importante di questo programma sarà la ricerca e la caratterizzazione sistematica delle fusioni di buchi neri. Questo sforzo determinerà il tasso di fusione dei buchi neri nelle prime epoche cosmiche e valuterà il ruolo della fusione nella crescita iniziale dei buchi neri e il tasso di produzione delle onde gravitazionali dalla notte dei tempi.

Per saperne di più:

  • Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “GA-NIFS: JWST discovers an offset AGN 740 million years after the big bang” di Hannah Übler, Roberto Maiolino, Pablo G Pérez-González, Francesco D’Eugenio, Michele Perna, Mirko Curti, Santiago Arribas, Andrew Bunker, Stefano Carniani, Stéphane Charlot, Bruno Rodríguez Del Pino, William Baker, Torsten Böker, Giovanni Cresci, James Dunlop, Norman A Grogin, Gareth C Jones, Nimisha Kumari, Isabella Lamperti, Nicolas Laporte, Madeline A Marshall, Giovanni Mazzolari, Eleonora Parlanti, Tim Rawle, Jan Scholtz, Giacomo Venturi, Joris Witstok


News da Marte #29: tempeste solari e di sabbia l Coelum Astronomia

News da Marte tipi di tempeste, di sabbia e solari, e le loro conseguenze. Il Sole grazie all039;occhio acutissimo di Perseverance. Si parte!#newsdamarte



Ammassi globulari d’estate


Giugno è il mese dell'inizio dell'estate astronomica. Ma è anche un ottimo mese per sfruttare le poche ore di buio e osservare tantissimi ammassi globulari. Solo contando quelli catalogati da Messier, se ne vedono 27 sopra l'orizzonte. Per chi ha la possi

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Aspetto del cielo con mostrati gli ammassi globulari del catalogo di Messier visibili nel mese di giugno. Simulazione con software Stellarium.

Con giugno inizia l’estate astronomica. Esattamente con il solstizio d’estate, il 20 del mese, quando le ore di luce saranno massime e quelle di buio minime. In questo giorno il Sole sorgerà intorno alle 5 e mezza e tramonterà addirittura poco dopo le 9 di sera. Si avranno così a disposizione poche ore da dedicare al cielo notturno; per l’osservazione di oggetti di profondo cielo occorrerà aspettare la notte inoltrata.

Ed è proprio nella prima decina di giorni, quando la Luna non rischiara il cielo, che si potrebbe andare alla ricerca di una categoria di oggetti particolari: gli ammassi globulari. In questo mese, solo per limitarsi ai più brillanti catalogati da Messier, se ne vedono ben ventisette sopra l’orizzonte.

Gli ammassi globulari sono tra gli oggetti più affascinati da osservare anche con telescopi modesti. Sono ammassi di stelle di forma sferica, molto compatti, formati da circa 100-1000 milioni di stelle. Circondano le galassie, distribuiti in una nuvola pressoché sferica – solo intorno alla nostra galassia se ne contano circa 150 – e sono formati da stelle vecchie. Addirittura, la loro età è simile all’età dell’universo e sono oggetti tutt’altro che conosciuti. Il loro studio può far luce su molte delle problematiche attuali sulla conoscenza del nostro universo. In cielo sono concentrati intorno alle costellazioni del Sagittario, dell’Ofiuco e dello Scorpione e perciò ben visibili durante l’estate. Ma già da questo mese possiamo godere della loro presenza osservandoli al telescopio o in alcuni casi (come M13, nella costellazione di Ercole) anche solo con un binocolo.

In questo periodo ci si può concentrare a osservare gli ammassi a declinazioni più alte, come nel caso di M13 – facile, bello e risolvibile in stelle con un telescopio di 20 cm di diametro, mostrando al meglio la sua forma sferica – M92 sempre in Ercole, e M3 nei Cani da Caccia. Già da questo mese saranno ben posizionati in cielo per l’osservazione anche M12, M10 e M62.

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Saturno con gli anelli quasi di taglio, come si può osservare all telescopio nel mese di giugno 2024. Simulazione con software Stellarium

Dando uno sguardo alle principali costellazioni, verso Sud e bassa sull’orizzonte è ben visibile la costellazione dello Scorpione con la stella rossa Antares e a sinistra il Sagittario con l’asterismo tipico a forma di teiera. Alzando lo sguardo verso lo zenith saranno ben riconoscibili l’Oficuo, la Corona Boreale ed Ercole. Verso Sud-Ovest il Boote e la Vergine più bassa sull’orizzonte. Invece verso Sud-Est sarà ben visibile il triangolo estivo formato dalle stelle Altair, Deneb e Vega con le corrispettive costellazioni dell’Aquila, del Cigno e della Lira. A Nord e ben alta in cielo, ma poco riconoscibile, volteggia la costellazione del Drago, situata tra il Cigno e l’Orsa Maggiore. E infine Cassiopea, sempre a Nord ma bassa sull’orizzonte.

Tra i pianeti principali, Marte si può timidamente osservare poco prima delle luci dell’alba. È rintracciabile dopo le quattro del mattino e prima del sorgere del Sole, a Est. La sua visibilità aumenterà con il passare dei giorni del mese. Giove sarà visibile soltanto a partire dalla fine del mese, basso sull’orizzonte verso Nord-Est, sempre prima del sorgere del Sole. Saturno invece sarà più visibile in cielo, sorgendo a Est dopo l’una di notte. Purtroppo per chi ha un telescopio, i suoi anelli saranno poco appariscenti perché appariranno quasi di taglio. Ma osservarlo sarà sempre un bellissimo spettacolo.

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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In pieno giorno, a guardar le stelle


Gli astronomi della Macquarie University, con il loro telescopio ottico multi-obiettivo Huntsman, hanno sperimentato una nuova tecnica per osservare gli oggetti celesti durante il giorno, che potrebbe consentire il monitoraggio nel visibile dei satelliti

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Una tecnologia all’avanguardia: l’Huntsman Telescope di Macquarie osserva lo spazio durante il giorno. Crediti: Macquarie University

Ah, la magia del firmamento nel cielo notturno! Non sarebbe bello se le stelle si potessero osservare anche di giorno? Assurdo e, invece, ora sembrerebbe possibile. I ricercatori della Macquarie University di Sydney, in Australia, hanno utilizzato il loro telescopio Huntsman per misurare e monitorare con precisione stelle, satelliti e altri oggetti nella volta celeste, non solo di notte – quando generalmente tutti gli astronomi scrutano il cielo – ma anche quando il Sole è a mezzogiorno.

«Per secoli, si è cercato di osservare stelle e satelliti nelle lunghezze d’onda del visibile alla luce del giorno, ma è sempre stato molto difficile farlo. I nostri test dimostrano che l’Huntsman può ottenere risultati notevoli anche nelle ore diurne», spiega l’autrice principale e dottoranda in astrofisica Sarah Caddy, che ha contribuito anche alla progettazione e alla messa in opera del telescopio Huntsman presso l’Osservatorio di Siding Springs a Coonabarabran.

Originariamente progettato per osservazioni ultrasensibili del cielo notturno, l’Huntsman Telescope dispone di una serie unica di 10 lenti per fotocamere che lavorano in parallelo, alimentando 10 sensori Cmos ultraveloci che insieme possono scattare migliaia di immagini a breve esposizione al secondo. Il telescopio combina una fotocamera astronomica e un’apparecchiatura di messa a fuoco astro-meccanica con una serie di 10 obiettivi Canon da 400 mm altamente sensibili, orientati in modo da coprire la stessa porzione di cielo. La telecamera collegata è così in grado di elaborare le immagini e di gestire flussi di dati molto grandi in un istante, utilizzando il controllo robotico per seguire e catturare oggetti in rapido movimento e garantendo un monitoraggio continuo degli oggetti per 24 ore.

Dato che il Sole oscura la maggior parte della luce proveniente da altri oggetti celesti, tradizionalmente gli astronomi osservano solo di notte: questo telescopio multi-obiettivo potrebbe aprire nuove possibilità per l’astronomia diurna. «Essere in grado di effettuare osservazioni accurate 24 ore su 24 infrange le restrizioni da tempo imposte agli astronomi per la scansione del cielo», afferma Lee Spitler, responsabile dei progetti spaziali presso l’Australian Astronomical Optics (Aao) di Macquarie, coautore dell’articolo presentato sulla rivista Publications of the Astronomical Society of Australia contenente i risultati dei test osservativi.

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Sarah Caddy con il telescopio Huntsman che ha contribuito a progettare e costruire. Questo telescopio ottico dispone di una serie unica di 10 lenti per fotocamere che lavorano in parallelo, alimentando 10 sensori fotocamera Cmos ultraveloci. Crediti: Macquarie University

L’idea di Caddy è stata quella di sperimentare speciali filtri “a banda larga” su una versione di prova dell’Huntsman – una copia ridotta del telescopio a lente singola installato presso l’osservatorio della Macquarie University – per bloccare la maggior parte della luce diurna, lasciando passare solo le specifiche lunghezze d’onda della luce emessa dagli oggetti celesti. Il mini-telescopio prototipo ha permesso al team di ricerca di valutare varie impostazioni in un ambiente controllato senza influenzare il telescopio Huntsman.

Quali sono i vantaggi di poter osservare l’universo anche di giorno? Ce ne sono molti. Primo fra tutti la possibilità di monitorare costantemente alcune stelle luminose che di notte non possono essere osservate perché troppo vicine al Sole. Un esempio è la supergigante rossa Betelgeuse, una stella vicina a circa 650 anni luce di distanza, nella costellazione di Orione della Via Lattea. Questa stella è di grande interesse per gli astronomi poiché si è notevolmente oscurata tra il 2019 e il 2020, probabilmente a causa di un’importante espulsione di gas e polvere. Sappiamo, inoltre, che Betelgeuse esploderà “presto” – in termini astronomici, in qualsiasi momento tra oggi e i prossimi milioni di anni – ma non sappiamo esattamente quando accadrà. Ma Betelgeuse è osservabile per circa quattro mesi all’anno e solo di giorno, quando il Sole si frappone tra Betelgeuse e la Terra. Sarebbe quindi un peccato perdersi proprio il suo momento esplosivo. «Senza questa modalità diurna, non potremo sapere se una delle stelle più luminose del cielo sarà diventata una supernova, se non pochi mesi dopo che la sua luce esplosiva raggiungerà la Terra», afferma Spitler.

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Rendering 3D notturno di Betelgeuse, la stella luminosa nella costellazione di Orione con la sua corona dinamica in espansion e l’eruzione di gas o polvere. Crediti: Macquarie University

Con un’indagine di sette mesi sulla luminosità della supergigante rossa durante il giorno, il gruppo di ricerca ha confermato che i dati della fotometria diurna del telescopio Huntsman per Betelgeuse corrispondono alle misure degli osservatori di tutto il mondo e dei telescopi spaziali. Dunque, se tutto andrà bene, il telescopio farà felici gli astronomi che amano studiare le stelle che diventano supernove ed espellono enormi quantità di materiale stellare, per capire la formazione degli elementi chimici nell’universo.

Le esplosioni di supernove nella Via Lattea sono relativamente rare – l’ultima è stata nel 1604 – tanto che gli astronomi, ancora oggi, si soffermano a studiare l’esplosione di una supernova in una mini-galassia vicina alla nostra avvenuta nel 1987. «Questa scoperta apre la strada a studi ininterrotti e a lungo termine di stelle come Betelgeuse, che subiscono potenti eruzioni verso la fine della loro vita», continua Spitler.

Poter fare osservazioni diurne ha anche un altro grande vantaggio nel campo in rapida espansione della space situational awareness (Ssa), il monitoraggio ravvicinato di una popolazione sempre crescente di satelliti, detriti spaziali e altri oggetti artificiali in orbita intorno alla Terra.

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Una vista diurna della vicina stella Betelgeuse, situata a circa 650 anni luce di distanza. Crediti: Macquarie University

L’astronomia diurna sarà sempre più critica man mano che entreremo nella prossima era spaziale: nei prossimi dieci anni saranno lanciati più satelliti che nell’intera storia dell’esplorazione spaziale umana. La fotometria dei satelliti – una tecnica astronomica che utilizza telescopi ottici per studiare le variazioni di luminosità degli oggetti celesti – può rivelare informazioni preziose, tra cui la composizione, l’età e le condizioni degli oggetti in orbita.

«Con circa 10mila satelliti attivi che già circolano sul pianeta e i piani per il lancio di altri 50mila satelliti in orbita terrestre bassa nel prossimo decennio, c’è una chiara necessità di reti di telescopi diurni e notturni dedicati per rilevare e tracciare continuamente i satelliti. L’apertura all’osservazione diurna dei satelliti ci permetterà di monitorare non solo la loro posizione, ma anche il loro orientamento, unendosi alle informazioni che otteniamo dai radar e da altri metodi di monitoraggio», spiega Caddy che con il suo team ha già utilizzato per diversi mesi il mini-Huntsman per affinare le tecniche di monitoraggio, studiando sistematicamente fattori quali i tempi di esposizione ottimali, la tempistica di osservazione e l’inseguimento preciso dei bersagli anche attraverso la turbolenza atmosferica.

«Abbiamo perfezionato una metodologia per l’osservazione diurna e abbiamo dimostrato che può essere effettuata con apparecchiature di fascia alta a prezzi accessibili. L’astronomia diurna è un campo entusiasmante e, grazie ai progressi dei sensori delle fotocamere, dei filtri e di altre tecnologie, abbiamo assistito a notevoli miglioramenti nella sensibilità e nella precisione ottenibili in condizioni di cielo luminoso», conclude la ricercatrice.

Per saperne di più:



Cellule di lievito come microlenti biologiche ottiche


Una ricerca condotta dall’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Cnr di Pozzuoli, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Università degli Studi di Napoli Federico II, dimostra che cellule biologiche possono essere

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Rappresentazione schematica delle proprietà ottiche dei vari compartimenti intracellulari all’interno di una cellula di lievito di birra equivalente a una biolente ottica. Crediti: Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti “Eduardo Caianiello” (Cnr-Isasi); Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf); Università degli Studi di Napoli Federico II (UniNa)

Le cellule biologiche possono essere modificate per comportarsi come microlenti ottiche, piccole strutture che funzionano come lenti tradizionali ma fatte di materiali biologici. Proprio come una goccia d’acqua su una superficie agisce come una lente di ingrandimento, focalizzando i raggi luminosi, così fanno le cellule modificate in microlenti. Studiando il loro comportamento ottico, in futuro queste cellule potrebbero essere utilizzate per diagnosi mediche basate sulle loro proprietà di focalizzazione della luce. È quanto emerge da una ricerca dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Consiglio nazionale delle ricerche di Pozzuoli (Cnr-Isasi), in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e l’Università degli Studi di Napoli Federico II (UniNa). La scoperta apre nuove prospettive per la ricerca scientifica e potrebbe rivoluzionare il campo della diagnostica medica.

Lo studio si concentra sull’uso delle cellule di lievito di birra come lenti ottiche biologiche. Queste cellule possiedono proprietà che permettono di modificare rapidamente i loro vacuoli intracellulari, piccole sacche fondamentali per il funzionamento e la salute delle cellule. Sfruttando queste proprietà, i ricercatori hanno trasformato un vacuolo di una cellula di lievito in una microlente.

Le lenti di ingrandimento tradizionali raccolgono i raggi luminosi provenienti da un oggetto e li focalizzano in un punto preciso, permettendo una visione dettagliata e ingrandita. Questo è possibile grazie alla capacità delle lenti di deviare i raggi luminosi. Tuttavia, i vacuoli modificati nelle cellule di lievito si comportano in modo diverso: anziché concentrare la luce in un punto (focalizzazione convergente), disperdono la luce (focalizzazione divergente). Questo risultato è significativo perché arricchisce la comprensione di come la luce interagisce con le strutture biologiche e potrebbe portare allo sviluppo di dispositivi biofotonici innovativi, strumenti che utilizzano la luce (fotoni) per studiare, diagnosticare o trattare fenomeni biologici e medici.

Lo studio è uno dei primi risultati del progetto “Luna” (Label-free cytoplasmic vacUoles pheNotyping plAykit), condotto da Cnr-Isasi e Università di Napoli (responsabile scientifico Vittorio Banco di Cnr-Isasi, responsabile di unità del progetto Massimo d’Agostino dell’Università di Napoli) nell’ambito del programma Prin 2022, finanziato dall’Unione Europea– Next Generation Eu. «Studiare come i vacuoli delle cellule rispondono alla luce è utile per capire meglio le cellule nel sangue e in altri fluidi del corpo. Questo potrebbe aiutare a migliorare le diagnosi mediche e rendere più facile individuare malattie o problemi nel corpo in modo veloce e meno invasivo», spiega Bianco. Lo studio del comportamento della luce nei vacuoli intracellulari può essere utile per individuare rapidamente varie malattie, come quelle da accumulo lisosomiale, il cancro e anche infezioni virali, tra cui il Covid-19 causato dal virus Sars-CoV-2. «La piattaforma che stiamo sviluppando aiuterà a identificare queste malattie in modo più efficiente. Inoltre, questa piattaforma sarà utilizzata per testare quanto sono efficaci i farmaci nel rimuovere o ridurre i vacuoli presenti nelle cellule malate», aggiunge Daniele Pirone, ricercatore presso Cnr-Isasi e primo autore dell’articolo.

Secondo i ricercatori, lo studio offre molteplici applicazioni pratiche in vari settori. «Questa tecnologia innovativa potrebbe migliorare le tecniche di imaging esistenti attraverso la creazione di circuiti ottici biocompatibili per i computer del futuro. Inoltre, poiché una lente così piccola ha dimensioni comparabili a molte strutture intracellulari, potrebbe migliorare notevolmente le capacità risolutive della microscopia ottica e permetterebbe di osservare e misurare con maggiore dettaglio le strutture all’interno delle cellule. In pratica, questo porterebbe a metodi più precisi e dettagliati per identificare e studiare malattie», afferma Pietro Ferraro, dirigente di ricerca presso Cnr-Isasi di Pozzuoli e coordinatore del gruppo di ricerca. «Proprio le simulazioni numeriche realizzate dai ricercatori Inaf consentiranno di predire in futuro tali identificazioni dal punto di vista ottico», conclude Matteo Lombini, ricercatore presso Inaf.

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Chang'e-6 on the Moon l La storie di kosmonautika

Quelle che vedrete sono le immagini riprese dalla camera interna e da quella del rover, della stazione automatica #ChangE6 sulla superficie lunare e sequenza delle operazioni di scavo, deposito campioni e decollo dalla #Luna.



Ghiacci di CO2 e CO al confine del Sistema solare


Per la prima volta sono stati osservati ghiacci di anidride carbonica e monossido di carbonio su oggetti transnettuniani nelle zone più lontane del Sistema solare. La scoperta è stata possibile grazie alle capacità spettrali nell'infrarosso del James Webb

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Impressione artistica di un oggetto della fascia di Kuiper, situato al bordo esterno del Sistema solare a una distanza di oltre 6 miliardi di chilometri dal Sole. Crediti: Nasa, Esa e G. Bacon (STScI)

Per la prima volta sono stati osservati ghiacci di anidride carbonica e monossido di carbonio su oggetti transnettuniani (Tno) nelle zone più lontane del Sistema solare. Un team di ricercatori, guidato da Mário Nascimento De Prá e Noemí Pinilla-Alonso del Florida Space Institute è riuscito a fare questa scoperta utilizzando le capacità spettrali nell’infrarosso del James Webb Space Telescope (Jwst) per analizzare la composizione chimica di 59 oggetti transnettuniani e centauri.

Lo studio pionieristico, pubblicato la scorsa settimana su Nature Astronomy, suggerisce che il ghiaccio di anidride carbonica fosse abbondante nelle fredde regioni esterne del disco protoplanetario, l’esteso disco di gas e polvere da cui si è formato il Sistema solare. Sono necessarie ulteriori indagini per comprendere le origini del ghiaccio di monossido di carbonio, presente anche sugli oggetti tran-snettuniani oggetto dello studio.

Il ghiaccio di monossido di carbonio era già stato osservato su Plutone dalla sonda New Horizons, ma solo con Jwst è stato possibile individuare e rilevare tracce di ghiaccio di monossido di carbonio e di anidride carbonica sulla più grande popolazione di Tno. Il lavoro presentato fa parte del programma Discovering the Surface Compositions of Trans-Neptunian Objects (Disco-Tnos) guidato dalla University of Central Florida (Ucf), uno dei programmi di Jwst incentrati sullo studio del Sistema solare.

Nel campione di 59 Tno osservati con Jwst, i ricercatori hanno rilevato anidride carbonica in 56 Tno e monossido di carbonio in 28 (più sei con rilevamenti dubbi o marginali). L’anidride carbonica è risultata essere molto diffusa sulle superfici della popolazione transnettuniana, indipendentemente dalla classe dinamica e dalle dimensioni del corpo, mentre il monossido di carbonio è stato rilevato solo negli oggetti con un’elevata abbondanza di anidride carbonica. «È la prima volta che osserviamo questa regione dello spettro per un vasto numero di Tno, quindi in un certo senso tutto ciò che abbiamo visto è eccitante e unico», afferma de Prá, primo autore dello studio. «Non ci aspettavamo di scoprire che l’anidride carbonica fosse così onnipresente nella regione dei Tno e ancor meno che il monossido di carbonio fosse presente in così tanti Tno».

«Gli oggetti transnettuniani sono reliquie del processo di formazione planetaria», spiega de Prá. «Queste scoperte possono porre importanti vincoli su dove si sono formati tali oggetti, come hanno raggiunto la regione in cui si trovano oggi e come si sono evolute le loro superfici dopo la loro formazione. Poiché si sono formati a distanze maggiori dal Sole e sono più piccoli dei pianeti, contengono informazioni incontaminate sulla composizione originale del disco protoplanetario».

La scoperta di anidride carbonica e monossido di carbonio sui Tno solleva anche molte domande. «Mentre l’anidride carbonica è stata probabilmente accresciuta dal disco protoplanetario, l’origine del monossido di carbonio è più incerta», osserva de Prá. «Quest’ultimo è un ghiaccio volatile anche nelle superfici fredde dei Tno. Non possiamo escludere che il monossido di carbonio sia stato accresciuto primordialmente e in qualche modo sia stato trattenuto fino a oggi. Tuttavia, i dati suggeriscono che potrebbe essere prodotto dall’irradiazione di ghiacci contenenti carbonio».

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Spettro della superficie di un oggetto transnettuniano ricco di ghiacci volatili di carbonio, ottenuto con Jwst nell’ambito del programma Disco Large. Gli assorbimenti di anidride carbonica (CO2), del suo isotopologo (13CO2) e del monossido di carbonio sono evidenziati in giallo. La luce del Sole (vicino al centro dell’immagine) è attenuata a miliardi di chilometri di distanza, dove risiedono gli oggetti transnettuniani. Crediti: William Gonzalez Sierra, Istituto spaziale della Florida

«La scoperta dell’anidride carbonica sugli oggetti transnettuniani è stata entusiasmante, ma ancora più affascinanti sono state le sue caratteristiche», dice Pinilla-Alonso. «L’impronta spettrale dell’anidride carbonica ha rivelato due distinte composizioni superficiali all’interno del nostro campione. In alcuni Tno, l’anidride carbonica è mescolata ad altri materiali come metanolo, ghiaccio d’acqua e silicati. Tuttavia, in un altro gruppo – dove l’anidride carbonica e il monossido di carbonio sono i principali componenti della superficie – la firma spettrale è sorprendentemente unica. Questa forte impronta di anidride carbonica è diversa da qualsiasi altra osservata su altri corpi celesti del Sistema solare o replicata in laboratorio».

Sembra ormai chiaro che quando l’anidride carbonica è abbondante, appare isolata da altri materiali, ma questo da solo non spiega la forma delle bande. La comprensione di queste bande di anidride carbonica è un altro mistero, probabilmente legato alle loro proprietà ottiche uniche e al modo in cui riflettono o assorbono specifici colori di luce.

«Nelle comete osserviamo l’anidride carbonica come gas, rilasciato dalla sublimazione dei ghiacci sulla superficie o appena sotto di essa», spiega Pinilla-Alonso. «Tuttavia, poiché l’anidride carbonica non era mai stata osservata sulla superficie dei Tno, la convinzione comune era che fosse intrappolata sotto la superficie. Le nostre ultime scoperte hanno sconvolto questa nozione. Ora sappiamo che l’anidride carbonica non solo è presente sulla superficie dei Tno, ma è anche più comune del ghiaccio d’acqua, che in precedenza pensavamo fosse il materiale superficiale più abbondante. Questa rivelazione cambia radicalmente la nostra comprensione della composizione dei Tno e suggerisce che i processi che interessano le loro superfici sono più complessi di quanto si pensasse».

Elsa Hénault, una delle coautrici dello studio, ricercatrice all’Institut d’Astrophysique Spatiale di Parigi, ha analizzato e confrontato le bande di assorbimento dell’anidride carbonica e del monossido di carbonio in tutti gli oggetti. Nonostante vi siano ampie prove della presenza di ghiaccio, spiega, vi è una grande diversità in termini di abbondanza e distribuzione. «Sebbene abbiamo riscontrato che la CO2 è onnipresente nei Tno, non è assolutamente distribuita in modo uniforme», nota Hénault. «Alcuni oggetti sono poveri di anidride carbonica, mentre altri sono molto ricchi di anidride carbonica e presentano monossido di carbonio. Alcuni oggetti mostrano anidride carbonica pura, mentre altri la presentano mescolata ad altri composti. Collegando le caratteristiche dell’anidride carbonica ai parametri orbitali e fisici, abbiamo concluso che le variazioni di anidride carbonica sono probabilmente rappresentative delle diverse regioni di formazione degli oggetti e della loro prima evoluzione».

Dalle analisi effettuate, è molto probabile che l’anidride carbonica fosse presente nel disco protoplanetario, tuttavia è improbabile che il monossido di carbonio sia primordiale, osserva Hénault. «Il monossido di carbonio potrebbe formarsi in modo efficiente grazie al costante bombardamento di ioni proveniente dal Sole o da altre fonti», afferma l’autrice. «Stiamo attualmente esplorando questa ipotesi, confrontando le osservazioni con esperimenti di irradiazione ionica in grado di riprodurre le condizioni di congelamento e ionizzazione delle superfici Tno».

La ricerca ha portato alcune risposte definitive a domande di vecchia data che risalgono alla scoperta dei Tno quasi 30 anni fa, ma i ricercatori hanno ancora molta strada da fare, dice Hénault. «Ora si pongono altri interrogativi», afferma l’autrice. «In particolare, l’origine e l’evoluzione del monossido di carbonio. Le osservazioni sull’intera gamma spettrale sono così ricche che sicuramente terranno impegnati gli scienziati per gli anni a venire».

Sebbene le osservazioni del programma Disco stiano per concludersi, l’analisi e la discussione dei risultati è appena iniziata. Secondo de Prá, le conoscenze fondamentali acquisite dallo studio si riveleranno un’importante integrazione per le future ricerche di scienza planetaria e astronomia. «Abbiamo solo scalfito la superficie di come sono fatti questi oggetti e come si sono formati», conclude l’autore. «Ora dobbiamo capire la relazione tra questi ghiacci e gli altri composti presenti sulle loro superfici e comprendere l’interazione tra il loro scenario di formazione, l’evoluzione dinamica, la ritenzione volatile e i meccanismi di irraggiamento nel corso della storia del Sistema solare».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Widespread CO2 and CO ices in the trans-Neptunian population revealed by JWST/DiSCo-TNOs” di Mário N. De Prá, Elsa Hénault, Noemí Pinilla-Alonso, Bryan J. Holler, Rosario Brunetto, John A. Stansberry, Ana Carolina de Souza Feliciano, Jorge M. Carvano, Brittany Harvison, Javier Licandro, Thomas G. Müller, Nuno Peixinho, Vania Lorenzi, Aurélie Guilbert-Lepoutre, Michele T. Bannister, Yvonne J. Pendleton, Dale P. Cruikshank, Charles A. Schambeau, Lucas McClure & Joshua P. Emery