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Dobbiamo decidere che ora è sulla Luna


Dobbiamo decidere che ora è sulla Luna

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La NASA vuole stabilirne una entro il 2026, per semplificare le operazioni internazionali legate al programma Artemis

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L’eclissi del Re del Siam


L’eclissi del 18 agosto 1868 è passata alla storia per la scoperta dell’elio. L’elemento, tanto semplice ed elegante da un punto di vista atomico quanto difficile da osservare sulla Terra, venne osservato sia da Pierre Jules Janssen che da Norman Lockyer,

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Eclissi totale di Sole del 18 agosto 1868.

Siamo a Guntur, in India. È giovedì 18 agosto 1868 quando alle 10:42 il Sole viene oscurato completamente dalla Luna per 6 minuti e 47 secondi. È un’eclissi totale molto lunga che passerà alla storia per un motivo indimenticabile. Ma prima di raccontarvelo è opportuno fare un passo indietro, per farvi assaporare meglio la scoperta.

Esiste uno strumento, fondamentale in astronomia, che permette di studiare la composizione chimica e lo stato fisico dei corpi celesti che osserviamo. Si chiama spettroscopio e fu inventato da Joseph von Fraunhofer nel 1814, il quale fu il primo a scoprire che la luce ottenuta bruciando del comune sale da cucina con una candela, passando attraverso un prisma, mostrava una riga gialla molto brillante… e che quella riga, osservazione dopo osservazione, era sempre nella stessa posizione (oggi diciamo alla stessa frequenza). Fraunhofer si chiese cosa sarebbe successo rivolgendo quello strumento verso il Sole.

Decise allora, cannocchiale alla mano, di far passare un fascio di luce solare attraverso una fenditura lunga e stretta, poi attraverso un prisma e di studiare il ventaglio di colori risultante. Ciò che vide fu un arcobaleno di colori (lo spettro della luce solare) nel quale, però, erano presenti delle righe scure. In altre parole, mancavano dei colori. Tra queste righe mancanti c’era anche quella brillante che aveva visto con la fiamma ottenuta bruciando il sale da cucina. Ancora una volta, esperimento dopo esperimento, le righe mancanti erano sempre nella stessa posizione. Poi fu la volta delle stelle, ognuna delle quali presentava combinazioni di righe diverse, di diversa intensità.

Se volete avere un assaggio di quanto scritto, potreste costruire anche voi un piccolo spettroscopio portatile. Non è in grado di vedere lo spettro delle stelle perché la luce che arriva sulla Terra è troppo debole, ma potreste vedere le righe del sodio e le brillanti righe caratteristiche delle lampade al neon o a risparmio energetico.

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Spettro visibile dell’elio. Crediti: Jan Homann

Chiusa la parentesi, Fraunhofer morì giovane, nel 1826, a soli 39 anni. Ucciso dalla tubercolosi per aver respirato i vapori metallici caratteristici del suo lavoro di vetraio. Non seppe mai, purtroppo, che quella sua scoperta avrebbe rappresentato un passo enorme per l’astronomia (e la chimica): quelle righe spettrali sono considerate la carta di identità degli elementi chimici che emettono, o assorbono, la radiazione. Ancora oggi quelle righe sono chiamate righe di Fraunhofer, in suo onore.

Ma torniamo in India, nel 1868. Manca un anno alla pubblicazione della tavola periodica degli elementi da parte del chimico russo Dmitrij Ivanovič Mendeleev e di elementi chimici se ne conoscono parecchi.

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Ritratto fotografico di Jules Janssen (1824-1907). Nell’arco di quarant’anni, Janssen osservò un gran numero di eclissi con gli spettrografi, che permisero di determinare la composizione della corona solare

Siamo a Guntur, vicino alla Baia del Bengala, e con gli occhi al cielo c’è anche un astronomo francese di nome Pierre Jules Janssen, molto tenace e determinato, con un grande spirito d’avventura. C’era un sole che spaccava le pietre e quando sparì, eclissato dalla Luna, Janssen ebbe tutto il tempo per misurare con uno spettrografo le righe di emissione delle protuberanze solari, che emergevano dal bordo nero della Luna perfettamente sovrapposta al Sole. Così misurò le righe C e D di Fraunhofer, corrispondenti all’idrogeno.

Nei giorni successivi si spostò sull’Himalaya e, mascherando la luce blu del Sole, riuscì a ripetere l’osservazione anche senza l’eclissi e a scoprire una riga gialla molto brillante e vicina a quelle del sodio. Per questo motivo, per la vicinanza alle due righe del sodio, pensò fosse una terza riga del sodio. Ma si trattava in realtà dell’elio, uno degli elementi più semplici e abbondanti in natura, allora ancora sconosciuto, di cui è ricca la corona solare.

Forse vi starete chiedendo come sia possibile che un elemento così semplice risultasse all’epoca ancora sconosciuto. Di fatto, sulla Terra è un gas relativamente raro perché riesce a sfuggire, sebbene più pesante dell’idrogeno, all’attrazione gravitazionale. Usando le parole di Massimo Capaccioli, che ha scritto un bellissimo racconto sulla storia della scoperta dell’elio, pubblicato sulla rivista Il nuovo Saggiatore della Società italiana di fisica: «L’elio vanta una struttura perfetta (nel senso latino del termine), sia nel nucleo che nel corredo elettronico, e di conseguenza una spocchiosa riluttanza a mescolarsi con altre sostanze in modo da formare composti pesanti e perciò restii alla fuga. Molto più alla mano, l’idrogeno si combina in diverse molecole (basterà pensare all’acqua e a tutti gli acidi) e così, aggrappato agli elementi pesanti, riesce a salvarsi, almeno in parte. Ecco dunque il motivo per cui, nel 1868, l’elio era ancora sconosciuto».

Pochi mesi dopo la scoperta di Janssen (che tuttavia non aveva realizzato di essere in presenza di un nuovo elemento), la stessa riga brillante venne vista anche da un inglese, Norman Lockyer, oggi famoso anche per aver fondato la rivista Nature. Anche Lockyer arrivò a una conclusione sbagliata, ipotizzando che l’elemento all’origine della riga dovesse corrispondere a una sostanza peculiare al Sole, che decise di chiamare elio (dal greco ἥλιος, hḕlios, “Sole”) .

È così che, grazie a un’eclissi di Sole, venne scoperto il secondo elemento della tavola periodica degli elementi, tanto elegante quanto raro… sulla Terra.

A questo punto vi starete chiedendo cosa c’entra con questa eclissi il Re del Siam.

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Re Mongkut (seduto al centro) e la sua comitiva, partiti per osservare l’eclissi solare il 18 agosto 1868. Crediti: Wikimedia Commons

Re Mongkut, noto anche come Rama IV del Siam, era un grande appassionato di astronomia, affascinato dalla precisione dei calcoli occidentali. Nel suo osservatorio astronomico, calcolò correttamente il tempo e il luogo dell’eclissi totale di Sole, che si sarebbe dovuta verificare il 18 agosto del 1868 (anche) in un piccolo villaggio del Siam meridionale, a sud di Hua Hin. E lì andò, in quel giorno, insieme all’intera famiglia reale, ai nobili di corte e a numerosi astronomi francesi inviati dal loro governo: l’eclissi si verificò esattamente come il re aveva previsto, con una fase di totalità della durata di 6 minuti e 47 secondi. Purtroppo quel viaggio gli costò molto caro perché si ammalò di malaria e morì di lì a poco, ma il suo nome rimarrà per sempre legato all’eclissi dell’estate del 1868, che è passata alla storia come eclissi del Re del Siam.

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La scienza dell’eclissi: la Luna come coronografo


Il prossimo 8 aprile avremo a disposizione un coronografo d’eccezione: la Luna, che oscurerà completamente il disco solare e ci permetterà di osservare la corona in tutta la sua magnificenza. Per l’occasione, l’Osservatorio astrofisico di Torino ha organi

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Eclissi solare totale del 21 agosto 2017, fotografata da Madras, in Oregon. Il cerchio nero al centro è la Luna, intorno alla quale si vede la luce bianca della corona solare. Crediti: Nasa/Aubrey Gemignani

Proposto da Bernard Lyot negli anni ’30, il coronografo è uno strumento astronomico utilizzato per osservare la corona solare, da cui prende il nome. Si tratta di un telescopio in cui il percorso dei raggi emessi dalla sorgente luminosa – il Sole – è ostruito da un ostacolo posto davanti a una lente di campo. Questi strumenti generano eclissi artificiali perché solo così si riescono a osservare la corona, le protuberanze solari e altri fenomeni della nostra stella, che non sarebbero altrimenti visibili a causa della sua luminosità. Ma il prossimo 8 aprile avremo a disposizione un coronografo d’eccezione: la Luna, che oscurerà completamente il disco solare e ci permetterà di osservare la corona in tutta la sua magnificenza.

Per l’occasione l’Osservatorio astrofisico di Torino dell’Istituto nazionale di astrofisica ha organizzato una campagna osservativa a Torreon, nel nord del Messico, e Media Inaf ha intervistato Lucia Abbo, ricercatrice nel gruppo di fisica solare dell’Osservatorio di Torino con più di 20 anni di esperienza nell’analisi scientifica di dati solari. È co-principal investigator del coronografo spaziale Metis a bordo della missione Esa Solar Orbiter, lanciata nel febbraio del 2020, e coordina il progetto Eclipse 2024, dedicato proprio a questa imminente eclissi.

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Lucia Abbo, ricercatrice all’Inaf – Osservatorio astrofisico di Torino

Siete in partenza, quindi, per studiare il Sole grazie alla Luna?

«Sì, le eclissi rappresentano un’occasione unica per lo studio della fisica dell’atmosfera esterna del Sole, la corona. Durante le eclissi totali di Sole, infatti, la Luna occulta interamente il disco solare permettendo così di osservare la tenue emissione della corona solare estesa, un milione di volte più debole di quella del disco. La corona è costituita da plasma magnetizzato da dove si origina il vento e le tempeste solari».

Quali strumenti utilizzerete per studiare la corona solare?

«La spedizione scientifica prevede di utilizzare tre strumenti: un telescopio per l’osservazione della corona K polarizzata (E-KPol) e due telescopi per le osservazioni spettro-polarimetriche delle righe coronali Fe XIV a 530.3 nm (la “riga verde”) e He I D3 a 587.6 nm (E-CorMag e Strato-CorMag). Le misure che verranno acquisite durante l’eclisse – alcune mai fatte in precedenza – offrono un’opportunità unica di analizzare i parametri fisici delle strutture coronali, e in particolare di studiare il campo magnetico coronale molto vicino al lembo solare. Durante l’eclisse è prevista una campagna osservativa congiunta con altri strumenti da Terra e dallo spazio coordinata dal network Whole Heliosphere and Planetary Interactions (Whpi)».

Perché è così importante fare osservazioni durante le eclissi?

«L’importanza delle osservazioni durante le eclissi totali è dovuta al fatto che la corona è visibile dal lembo solare (senza diffusione di alcun occultatore) fino a distanze eliocentriche pari a cinque raggi solari, poiché la luminosità del cielo (sky-brightness) durante l’eclissi è circa mille volte meno intensa di quella misurata durante il giorno».

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La card della missione dell’Inaf di Torino in Messico. Crediti: Inaf

Chi sta partecipando a questa campagna osservativa?

«Il progetto è coordinato e sviluppato dall’Inaf di Torino con la partecipazione di personale dell’Agenzia spaziale europea, con il supporto tecnico/logistico dell’Osservatorio astronomico della regione autonoma Valle d’Aosta e con il supporto tecnico dell’Università di Firenze. Alla spedizione scientifica partecipano nove persone: sette ricercatori e tecnologi dell’Inaf di Torino, un ricercatore dell’Agenzia spaziale europea e uno studente del Dipartimento di fisica dell’Università di Torino. Sono Giorgio Bergamin, Gerardo Capobianco, Valeria Caracci, Silvano Fineschi, Hervé Haudemand, Davide Loreggia, Maurizio Pancrazzi, Luca Zangrilli e Joe Zender».

Come è nato questo progetto?

«Il progetto è iniziato a ottobre 2023 con l’ideazione di un nuovo telescopio (E-CorMag), che viene integrato e messo a punto (insieme agli altri due strumenti) nei laboratori dell’Osservatorio astrofisico di Torino. Gli strumenti sono stati spediti a marzo con destinazione il sito di osservazione (Torreon, Messico) e messi a punto in-loco dal 3 aprile. L’osservazione dell’eclisse totale di Sole sarà l’8 aprile 2024 con il massimo della totalità alle ore 13:16 in Messico che corrispondono alle ore 20:16 in Italia».


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Eclissi totale di Sole, l’Inaf è in prima fila


II raro e spettacolare fenomeno produrrà una zona d’ombra che attraverserà il Nord America, dal Messico al Canada. L’Istituto nazionale di astrofisica ha in programma cinque spedizioni in loco (Messico, Texas e cascate del Niagara) e due dirette per chi n

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Crediti: Nasa

Lunedì prossimo, 8 aprile 2024, si verificherà un’eclissi totale di Sole. Non visibile dall’Italia, il fenomeno produrrà una zona d’ombra che attraverserà il Nord e Centro America, dal Messico al Canada. Rispetto agli orari italiani, l’eclissi inizierà quando da noi saranno le 17:42 e si concluderà alle 22:52. La massima durata della fase di totalità sfiorerà i quattro minuti e mezzo.

Per l’occasione l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) sarà sui luoghi che verranno attraversati dall’eclissi con vari gruppi di ricercatrici e ricercatori, per svolgere una serie di attività scientifiche e riprendere in tempo reale il fenomeno con telescopi e fotocamere.

Le dirette

Chi non avrà la possibilità di assistere dal vivo lo straordinario evento, potrà seguirlo via streaming con due dirette online pensate sia per il grande pubblico che per gli studenti delle scuole. In particolare vi segnaliamo una diretta speciale di Nuovi Mondi – Astronomia e Scienza in collaborazione con Inaf, sui canali Facebook e Youtube.

Anche EduInaf, il magazine di didattica e divulgazione dell’Inaf, partecipa alle iniziative dedicate all’eclissi con una diretta speciale della serie “Il cielo in salotto” pensata appositamente per docenti e studenti delle scuole di ogni ordine e grado. Grazie alla partnership con il sito web TimeAndDate, la trasmissione seguirà l’eclissi al telescopio in diretta partire dalle 19:00 ora italiana fino a conclusione del fenomeno. A partire dalle 20:00, una serie di ospiti, tra cui le ricercatrici Inaf Ilaria Ermolli e Mariarita Murabito e il professor Francesco Berrilli dell’Università di Roma Tor Vergata, commenteranno in diretta le immagini in arrivo dall’America e risponderanno, come di consueto, alle domande del pubblico. La registrazione della diretta sarà disponibile già dai giorni successivi in formato school edition per poter portare in classe la meraviglia di questo fenomeno astronomico, accompagnata dalle spiegazioni degli esperti.

Le spedizioni Inaf in Nord America

Cinque saranno i team Inaf a seguire l’eclissi in loco. Con strumenti all’avanguardia, non solo immortaleranno uno fra gli eventi astronomici più rari e affascinanti, ma proveranno anche a studiare altri fenomeni celesti (in prossimità del Sole e oltre).

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I team Inaf in America per seguire l’eclissi dell’8 aprile

Albino Carbognani, ricercatore dell’Inaf di Bologna, proverà a verificare quante stelle si possono riprendere in cielo durante l’eclissi: il cielo, infatti, non diventa mai completamente buio perché l’ombra della Luna ha un’estensione di soli 200-300 km e il fondo cielo è paragonabile a quello del crepuscolo circa 40 minuti dopo il tramonto del Sole. Da Burleson (Texas), il ricercatore Inaf tenterà anche l’osservazione di eventuali oggetti attorno al Sole, all’interno dell’orbita di Mercurio: i cosiddetti “vulcanoidi”, previsti dalle teorie sulla formazione del Sistema solare. Un altro obiettivo sarà documentare l’elusivo e imprevedibile fenomeno delle “ombre volanti”, una serie di bande parallele alternativamente chiare e scure dovute alla rifrazione degli ultimi raggi solari, pochi istanti prima dell’inizio della totalità, da parte dell’atmosfera terrestre. Durante questa eclissi c’è anche la possibilità di riprendere su un unico fotogramma tutti i pianeti del Sistema solare, da Mercurio a Nettuno, più la cometa 12P/Pons-Brooks in un gigantesco “ritratto di famiglia”. Infine, si vuole riprendere le varie fasi dell’eclisse e la totalità con la cromosfera e la corona solare per scopi didattici e divulgativi. «Nonostante le missioni spaziali», dice Carbognani, «un’eclisse totale di Sole è sempre un’opportunità per studiare fenomeni o corpi celesti estremamente elusivi».

Per l’Inaf di Bologna anche Maura Sandri volerà in America. Da Niagara on the Lake, poco sopra le celeberrime cascate del Niagara, la ricercatrice tenterà di fotografare l’eclissi. La riuscita di questa spedizione è ancora in forse a causa dello stato di emergenza proclamato dalle autorità dell’Ontario in vista dell’arrivo di oltre un milione di visitatori (sui 14 milioni di visitatori annuali).

Anche l’Inaf di Torino parteciperà alla campagna osservativa. Il team di Lucia Abbo documenterà l’eclissi da Torreon (Messico). Obiettivo: lo studio della fisica dell’atmosfera esterna del Sole, la corona. La spedizione scientifica prevede l’utilizzo di tre strumenti: un telescopio per l’osservazione della corona solare e due telescopi per le osservazioni spettro-polarimetriche delle righe coronali prodotte dal ferro e dall’elio presente nella corona. «Le misure che verranno acquisite durante l’eclissi (alcune mai fatte in precedenza) offrono un’opportunità unica», spiega Abbo, «di analizzare i parametri fisici delle strutture coronali, e in particolare di studiare il campo magnetico coronale molto vicino al lembo solare». Durante il fenomeno è prevista una campagna osservativa congiunta con altri strumenti da Terra e dallo spazio coordinata dal network Whole Heliosphere and Planetary Interactions (Whpi). «Avere informazioni sui campi magnetici coronali sembra un sogno proibito della fisica solare ma possiamo sperarci grazie alle nostre misurazioni durante l’eclissi».

L’Inaf di Roma (Iaps) sarà invece a Ennis (Texas) per raccontare l’eclisse da una posizione privilegiata. Il Texas, infatti, è considerato uno dei posti migliori per osservare il fenomeno solare, perché attraversato dalla linea centrale dell’ombra lunare, il che significa che i ricercatori presenti sul posto sperimenteranno la durata di totalità più lunga rispetto ad altre aree (4:23 minuti). Ernesto Palomba e colleghi porteranno i lettori di Media Inaf e i follower della pagina social Nuovi Mondi – Astronomia & Scienza al centro dell’eclissi con la diretta già citata nei paragrafi precedenti. Anche il team di ricercatori Inaf in Texas tenterà di osservare la corona solare e la possibile presenza dei vulcanoidi. «Servirà una buona dose di fortuna per osservare per la prima volta un vulcanoide, ma se c’è un momento nel quale questo può avvenire è proprio durante un’eclisse come questa», commenta Palomba.

Per l’Inaf di Napoli sarà Clementina Sasso a seguire l’eclissi negli Stati Uniti, questa volta però dal meeting scientifico “Joint Solar Orbiter, Parker Solar Probe, and Dkist Meeting”, a San Antonio, sempre in Texas. A cavallo dei giorni dell’eclissi, la corona solare sarà osservata e studiata anche dal satellite Solar Orbiter che si troverà in un punto particolare della sua orbita, vicino al perielio (raggiunto il 4 aprile) e a un angolo di 90 gradi rispetto alla Terra. In questo modo potrà osservare la corona che da Terra vediamo al lembo ovest del Sole, di fronte e, in più, potrebbe osservare le espulsioni di massa coronale (Cmes) dirette verso la Terra, nel caso dovessero verificarsi. Le osservazioni dal 7 al 9 aprile in questa particolare configurazione orbitale saranno dedicate alla ricerca di eruzioni solari, il nome della campagna è infatti “Eruption Watch”, che vedrà coinvolti tutti i telescopi a bordo di Solar Orbiter e sarà guidata proprio da Clementina Sasso, che sottolinea come «nonostante sia abituata a vedere il Sole eclissato (con lo strumento Metis), assistere ad un’eclissi di Sole “naturale” non ha paragoni. Se poi durante le osservazioni congiunte da Terra e dallo spazio dovesse capitare anche un evento eruttivo, nella direzione giusta, la giornata diventerebbe semplicemente perfetta!».

Per saperne di più:

Segui la diretta di Nuovi Mondi e dell’Inaf con i collegamenti live ai cinque team presenti in America:

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Segui la diretta di EduInaf per docenti e studenti:

youtube.com/embed/oG94pZ706lw?…



Solar Orbiter a caccia di eruzioni durante l’eclissi


Durante l'eclissi di Sole dell’8 aprile, la sonda Solar Orbiter si troverà in una posizione particolarmente vantaggiosa per monitorare, in tandem con le osservazioni da terra, l'eventuale verificarsi di espulsioni di massa coronale e altri fenomeni erutti

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La posizione della sonda Solar Orbiter l’8 aprile 2024. Crediti: Esa

Ricordate la missione Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea (Esa)? Sì, esatto, quella che si sta gradualmente approssimando al Sole per fotografarlo più da vicino di quanto non sia mai stato fatto finora. Ebbene, oggi la sonda ha raggiunto il perielio, ovvero la sua minima distanza – circa 44 milioni di chilometri – dalla nostra stella.

Non è una grande sorpresa, in effetti. Per via della sua orbita, Solar Orbiter si avvicina al Sole periodicamente, ogni sei mesi circa, per poi riallontanarsene. Ma l’approccio odierno è un po’ più speciale del solito: mancano infatti solo quattro giorni all’attesissima eclissi di Sole che lunedì prossimo sarà visibile da una lunga striscia che taglia diagonalmente l’America del nord.

La sonda, che in questi giorni si trova a circa 150 milioni di chilometri dalla Terra, non risente certo dell’eclissi, poiché osserva il Sole da tutt’altra prospettiva. Ed è proprio questa prospettiva a essere particolarmente interessante: la Terra, Solar Orbiter e il Sole formano un angolo retto – cosa che accade due volte per orbita, dunque circa quattro volte l’anno – quindi ciò che, dal nostro pianeta, si vede al lembo ovest del Sole appare frontalmente agli strumenti di Solar Orbiter.

La comunità scientifica approfitta di queste occasioni per tenere d’occhio il Sole nei giorni immediatamente precedenti o successivi, sorvegliando eventuali espulsioni di massa coronale e altri possibili fenomeni eruttivi che, dalla superficie solare, sversano enormi quantità di plasma ad altissima energia nello spazio interplanetario, che potrebbero essere dirette anche verso di noi. E quale migliore occasione dell’eclissi, durante la quale anche da Terra è possibile osservare l’atmosfera più esterna, o corona, del Sole: nasce così la campagna “Eruption Watch”, prevista nei giorni dal 7 al 9 aprile e guidata da Clementina Sasso, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Napoli.

«Le campagne “Eruption Watch” sono disegnate per catturare eventi eruttivi con osservazioni ad alta risoluzione dei telescopi su Solar Orbiter», spiega Sasso a Media Inaf. «Anche se abbiamo avuto già diverse campagne del genere, questa sarà particolare perché potremmo osservare eruzioni dirette verso Terra che ci aiuterebbero a capire i meccanismi che le portano a diventare pericolose per la tecnologia terrestre».

«È emozionante pensare che, mentre le persone sulla Terra osservano la corona del Sole da una direzione, Solar Orbiter la osserverà lateralmente, pronto a catturare qualsiasi impetuosa esplosione che potrebbe dirigersi verso il nostro pianeta», commenta Daniel Müller, Solar Orbiter project scientist dell’Esa.

Le eclissi sono un fenomeno straordinariamente affascinante, che ha stregato l’umanità sin da tempi immemori, ma sono notoriamente molto rare. Per poter studiare la corona solare senza dover aspettare l’allineamento propizio tra Sole, Terra, Luna (e meteo), si ricorre alle “eclissi artificiali”, create grazie a uno speciale strumento, chiamato coronografo. Ne è un esempio Metis: ideato e realizzato in Italia, il coronografo a bordo di Solar Orbiter riflette nello spazio la luce proveniente dalla superficie del Sole per poter visualizzare solo la corona, sia in luce visibile che nell’ultravioletto.

«Con le osservazioni da terra e dallo spazio saremo sicuramente in grado di combinare diversi punti di vista della corona solare», aggiunge Federico Landini dell’Inaf di Torino, membro del team di Metis. «Se c’è un evento eruttivo e avviene nella giusta direzione della Terra, ancora meglio». Verso la fine del 2024, l’Esa lancerà un’altra missione, Proba-3, tutta dedicata alle osservazioni della corona solare. Sarà formata da due sonde, che lavoreranno a 144 metri di distanza: una bloccherà la luce del Sole mentre l’altra osserverà la corona.

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L’eclissi dell’Antico Testamento, o del Faraone


Un evento riportato nella Bibbia, che menziona sia la Luna che il Sole, potrebbe essere interpretato come la descrizione di un'eclissi solare, avvenuta il 30 ottobre 1207 a.C.: tolta quella di Ugarit, la cui attendibilità rimane controversa, sarebbe quest

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Mappa dell’antica Canaan che mostra il percorso seguito dagli israeliti, a partire da Gilgal, secondo Giosuè 10:9–10. Crediti: A&G, Humphreys and Waddington

C’è un libro molto antico, conosciuto dai più, che sembra riporti la testimonianza di un’eclissi di Sole. È la Bibbia ebraica, parte dell’Antico Testamento. Esiste infatti un possibile riferimento a un’eclissi solare in un passaggio del Libro di Giosuè, un testo composto da ventiquattro capitoli in cui è narrata la storia della conquista della terra di Canaan (Palestina) da parte delle dodici tribù guidate da Giosuè, successore di Mosè.

Il periodo descritto è tradizionalmente riferito al 1200-1150 a.C. ed il passo in questione (Giosuè 10:12–13) riporta:

12 Allora, quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: «Sole, fèrmati [in lingua ebraica, dôm] in Gàbaon e tu, Luna, sulla valle di Aialon». 13 Si fermò il Sole e la Luna rimase immobile [in ebraico, ‘amad] finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto: «Stette fermo il Sole in mezzo al cielo e non si affrettò a calare quasi un giorno intero».


Anche in questo caso, come nel precedente (eclissi di Ugarit), la domanda che viene spontaneo porsi è cosa significhino effettivamente quelle parole, e se si riferiscano davvero a un’eclissi. Allo scopo, ci viene in aiuto uno studio pubblicato nel 2017 su Astronomy & Geophysics della Royal Astronomical Society di Colin Humphreys e Graeme Waddington, di cui avevamo già scritto nel 2017.

Se le parole della Bibbia descrivono un’osservazione reale, si tratta di un evento astronomico importante (Non c’è stato un giorno simile, né prima né dopo, Giosuè 10:14). La parola ebraica dôm significa essere silenzioso, muto o immobile. Il termine ‘amad significa fermarsi o stare in piedi. Le traduzioni inglesi moderne di questo passo hanno tutte seguito la Bibbia di re Giacomo, tradotta nel 1611, e hanno assunto che il testo ebraico significhi che il Sole e la Luna smisero di muoversi. Tuttavia, un significato alternativo plausibile è che il Sole e la Luna smisero di fare ciò che fanno normalmente, ossia smisero di brillare. In altre parole, il testo si potrebbe riferire a un’eclissi solare, quando effettivamente il Sole pare smettere di brillare. Poiché un’eclissi solare può verificarsi solo quando la Luna si trova direttamente tra la Terra e il Sole, la Luna stessa non è visibile e quindi non riflette la luce solare: come il Sole, anch’essa ha “smesso di brillare”.

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Il percorso dell’eclissi solare anulare del 30 ottobre 1207 a.C., che passò direttamente sulla terra di Canaan nel pomeriggio. L’ombra lascia la superficie terrestre al tramonto sull’odierno Iraq. La mappa è centrata su Azekah, che è contrassegnata da un cerchio. Crediti: A&G, Humphreys and Waddington

Humphreys e Waddington non sono stati i primi a suggerire che il testo biblico possa riferirsi a un’eclissi. Il primo sembra essere stato il linguista Robert Wilson nel 1918.

Wilson sosteneva che nei testi cuneiformi babilonesi esistono parole con la stessa radice dell’ebraico dôm che vengono utilizzate nelle tavolette astronomiche babilonesi in relazione alle eclissi, con il significato di “essere buio”.

Tuttavia, all’epoca – 100 anni fa – non si ritenne possibile approfondire l’argomento a causa della laboriosità dei calcoli richiesti.

Se l’interpretazione dell’eclissi solare in questo passo di Giosuè è corretta, allora il testo la descrive come se fosse stata vista dagli israeliti a Gibeon, in Canaan.

Una prova indipendente che gli israeliti si trovavano in Canaan proviene dalla Stele di Merneptah, un grande blocco di granito oggi conservato al Museo Egizio del Cairo. Il faraone egiziano Merneptah (o Merenptah) era figlio del noto Ramses il Grande (Ramses II). L’iscrizione sulla stele riporta che fu scolpita nel quinto anno del regno di Merneptah e menziona una campagna in Canaan in cui sconfisse il popolo di Israele. Quindi gli israeliti dovevano essere già in Canaan nel quinto anno di Merneptah.

Gli storici precedenti utilizzarono questi due testi – libro di Giosuè e Stele di Merneptah – per cercare di datare la possibile eclissi, ma senza successo perché si limitarono a considerare le eclissi totali, in cui il disco del Sole appare completamente coperto dalla Luna, mentre questa passa tra la Terra e il Sole. Ciò che non considerarono fu un’eclissi anulare, in cui la Luna passa direttamente davanti al Sole ma è troppo lontana per coprire completamente il disco, dando luogo al caratteristico “anello di fuoco”. Nel mondo antico infatti, la stessa parola veniva usata sia per le eclissi totali che per quelle anulari.

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La stele conservata al Museo egizio del Cairo. Crediti: Wikimedia Commons

Humphreys e Waddington, nel lavoro del 2017, hanno presentato un nuovo codice per le eclissi da loro sviluppato che tiene conto delle variazioni della rotazione terrestre nel tempo. Dai loro calcoli, hanno determinato che l’unica eclissi anulare visibile da Canaan tra il 1500 e il 1050 a.C. si verificò il 30 ottobre 1207 a.C., nel pomeriggio. Se così fosse, escludendo quella di Ugarit su cui molti hanno delle perplessità, non solo si tratterebbe della più antica eclissi solare mai registrata, ma permetterebbe anche di datare i regni di Ramses il Grande e di suo figlio Merneptah.

Secondo il libro di Giosuè dell’Antico Testamento, dopo una marcia di una notte intera da Ghilgal, gli Israeliti attaccarono gli Amorrei a Gabaon, li inseguirono fino ad Azekah e poi a Makkedah. Gibeon si trovava a circa 10 chilometri a nord-ovest di Gerusalemme, Azekah a circa 30 chilometri a sud-ovest di Gibeon e Makkedah a circa 20 chilometri a sud di Azekah. Poiché l’eclissi si è verificata nel pomeriggio, è stata probabilmente osservata dalle vicinanze di Azekah, da dove l’eclissi parziale sarebbe iniziata alle 15:27, con l’anularità che si è verificata tra le 16:48 e le 16:53. Il Sole sarebbe stato ancora parzialmente eclissato al tramonto, avvenuto alle 17:38. Durante l’anularità, l’86 per cento dell’area del disco solare era coperto dalla Luna.

Una caratteristica interessante del testo di Giosuè è la constatazione che non solo il Sole si è fermato (ha smesso di brillare), ma che anche la Luna si è fermata (ha smesso di brillare). Poiché la Luna si trova in congiunzione al momento di un’eclissi solare, è stata effettivamente assente dal cielo per un paio di giorni (era nella fase di Luna nuova). Siccome gli israeliti utilizzavano un calendario lunare, è ragionevole supporre che fossero ben consapevoli di questo periodo di Luna nuova e che quindi avrebbero potuto programmare il loro attacco notturno a sorpresa a Gabaon, in modo da sfruttare la mancanza di illuminazione notturna naturale.

Insomma, l’eclissi dell’Antico Testamento – o eclissi del Faraone – potrebbe davvero essere una delle prime a essere state testimoniate dalla parola scritta.

In generale, le eclissi solari sono spesso utilizzate come punti fermi per datare gli eventi del mondo antico. Utilizzando questi calcoli, il regno di Merneptah iniziò nel 1210 o 1209 a.C.. Poiché dai testi egiziani si sa per quanto tempo regnarono lui e suo padre, ciò significa che Ramses il Grande regnò dal 1276 al 1210 a.C., con una precisione di un anno, in più o in meno.

Per saperne di più:



Gaia18cjb, come te nessuna mai


Un team guidato da Eleonora Fiorellino, astronoma romana oggi all’Inaf di Napoli, ha scoperto una sorgente singolare al punto da indurre gli scienziati a prendere in considerazione la possibilità di dover introdurre una nuova classe nella tassonomia delle

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Rappresentazione artistica dell’episodio eruttivo di una giovane stella in formazione. In alto: la materia proveniente dal disco polveroso e ricco di gas (arancione) e il gas caldo (blu) fluiscono sulla stella. Al centro: ha inizio l’outburst, il disco interno si riscalda, aumenta il flusso di materia verso la stella e il disco si stringe verso l’interno. In basso: l’emissione è in pieno svolgimento, la parte interna del disco si fonde con la stella e il gas (in verde) fluisce verso l’esterno. Crediti: Caltech/T. Pyle (Ipac)

Potrebbe essere la protagonista ideale d’un romanzo di formazione. È giovane, è inquieta, non si lascia incasellare. È pressoché unica. Si chiama Gaia18cjb. Abita a qualche migliaio d’anni luce da noi in direzione della costellazione dell’Unicorno. E diventerà una stella. Una stella singolare al punto – ha scoperto ora un team guidato da Eleonora Fiorellino, astronoma romana oggi all’Inaf di Napoli – da costringere gli scienziati a prendere in considerazione la possibilità di dover introdurre una nuova classe nella tassonomia di oggetti questo genere. Se non addirittura a ripensare da principio l’ancora enigmatico processo di formazione stellare, arrivando a ipotizzare che quella di Gaia18cjb non sia una classe, bensì una fase: un periodo, per quanto breve, che tutte le stelle, nel corso della loro più o meno tumultuosa adolescenza, si trovano ad attraversare.

E ‘tumultuose’ pare proprio essere un aggettivo appropriato, per queste imprevedibili stelle in formazione. Anzi, per distinguerle dalla grande maggioranza delle loro quiete e composte coetanee – le cosiddette stelle ad accrescimento steady – gli astronomi usano per Gaia18cjb e per le sue rare compagne il termine ‘eruttive’: eruptive young stars.

Quiete e meno quiete, sono tutte stelle non ancora mature, queste di cui parliamo. In gergo tecnico si definiscono pre-sequenza principale: stelle con temperature attorno al milione di gradi, dunque già in grado di bruciare deuterio ma ancora insufficienti a innescare la fusione dei normali nuclei d’idrogeno. Anche dal punto di vista “geometrico” s’assomigliano tutte: all’esterno c’è un guscio di polvere che alimenta, andando verso il centro, un cosiddetto disco d’accrescimento – proprio come quello che cinge i buchi neri, solo che qui non parliamo di stelle morte ma, appunto, di stelle ancora non del tutto sbocciate; e nel nucleo c’è la stella vera e propria, che si nutre di quel che il disco di accrescimento le fornisce.

Ebbene, la maggior parte delle stelle in formazione succhia materia dal disco in modo uniforme e lineare, crescendo senza particolari sobbalzi, un poco per volta, fino a raggiungere temperature adeguate alla fusione nucleare dell’idrogeno. Ma alcune – a oggi se ne conoscono appena una cinquantina – sembrano vivere la loro adolescenza, come dicevamo, in modo assai più burrascoso.

Una cinquantina, dicevamo. Pochissime, e questo a causa dell’enorme difficoltà di riconoscerle. In base al loro comportamento, gli astronomi le suddividono in due classi: le Exor e le Fuor. Le prime, dall’inglese Ex Lupi-type objects (prendono il nome da Ex Lupi, una stella della costellazione del Lupo), sono sì bulimiche ma con moderazione, potremmo dire. L’intemperanza del loro regime d’accrescimento – dunque del ritmo al quale si nutrono di materia – si riflette in variazioni della loro luminosità nell’ordine delle due magnitudini e su tempi scala relativamente brevi, da qualche giorno a qualche decina di anni. Nelle seconde invece – le Fuor, dall’inglese FU Orionis-type objects (il loro prototipo è la stella variabile Fu Orionis, nella costellazione di Orione) – la variazione è più alta rispetto alle Exor, arriva fino a quattro o più magnitudini, e anche i tempi scala del burst sono maggiori, dell’ordine di centinaia di anni (almeno). E a distinguerle non c’è solo l’andamento della curva di luminosità nel tempo – meno ripida e meno ampia per le Exor, più ripida e più ampia per le Fuor – ma anche gli spettri: le righe di transizione dell’idrogeno HI, per esempio, sono in emissione per le Exor e in assorbimento per le Fuor.

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Eleonora Fiorellino, ricercatrice all’Inaf di Napoli, prima autrice dello studio su Gaia18cjb in uscita su A&A. Crediti: Inaf

Insomma, due classi di stelle di pre-sequenza principale eruttive, ben distinte sia per l’aspetto – la curva di luce – che per la firma – lo spettro. E Gaia18cjb?

«Gaia18cjb è un ibrido. Ha la curva di luce di una Fuor e lo spettro di una Exor», spiega Fiorellino a Media Inaf. «Ce ne siamo accorti anzitutto usando un programma di machine learning – sviluppato all’Osservatorio ungherese di Konkoly, dove ho trascorso alcuni anni come ricercatrice postdoc – in grado di individuare, nel database di osservazioni del telescopio spaziale Gaia, gli oggetti giovani che abbiamo mostrato una variabilità fotometrica maggiore di due magnitudini, dunque oggetti potenzialmente eruttivi. Per verificare che fosse effettivamente questo il caso, quando Gaia18cjb è emersa fra i possibili candidati abbiamo fatto quel che si chiama in gergo follow-up spettroscopico. In particolare, abbiamo acquisito lo spettro della stella nel vicino infrarosso con gli strumenti Luci del Large Binocular Telescope (in Arizona), Sofi del New Technology Telescope (in Cile) ed Emir del Gran Telescopio Canarias (alle Canarie). E abbiamo avuto la conferma: Gaia18cjb si comporta come una Fuor, ma ha lo spettro tipico di una Exor».

Un rarissimo ibrido, dunque. Oltre a Gaia18cjb, di giovani stelle ad accrescimento eruttivo così riluttanti a ogni classificazione se ne conoscono a oggi due soltanto, V350Cep e V1647Ori. «Ma sono comunque diverse da Gaia18cjb», nota Fiorellino. «Diversa è la variabilità della loro curva di luce, diversa è l’intensità del tasso di accrescimento. E soprattutto abbiamo i loro dati solo per la banda ottica: ancora non sono state osservate nel vicino infrarosso».

«Grazie ai dati raccolti da Gaia stiamo scoprendo sempre più oggetti eruttivi. E iniziamo ad avere indizi della possibile esistenza di una nuova classe, oltre alle Exor e alle Fuor. Un’ibrida soltanto poteva essere il segno di qualcosa che non funzionava nei dati, vederne due pure, magari anche tre, ma stanno aumentando… Se davvero si trattasse di una nuova classe, questo ci porterebbe a porci nuove domande su come nascono le stelle. Ma la grande domanda è un’altra: tutti questi oggetti – le Fuor, le Exor, le ibride come Gaia18cjb – sono delle anomalie nel processo di formazione stellare o, al contrario, a un certo punto della fase iniziale della loro vita tutte le stelle attraversano una fase caratterizzata da fenomeni eruttivi intensi? Perché se fosse così», conclude Fiorellino, «allora vorrebbe dire che non ci abbiamo capito niente, che dobbiamo riconsiderare tutto da capo».

Domanda alla quale potrebbe arrivare una risposta a breve, una volta che entrerà in azione l’Extremely Large Telescope, unico in grado di studiare con sufficiente sensibilità le candidate più deboli individuate da Gaia.

Per saperne di più:

  • Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The enigma of Gaia18cjb: A possible rare hybrid of FUor and EXor properties”, di Eleonora Fiorellino, Peter Abraham, Agnes Kospal, Maria Kun, Juan M. Alcala, Alessio Caratti o Garatti, Fernando Cruz-Saenz de Miera, David Garcia-Alvarez, Teresa Giannini, Sunkyung Park, Michal Siwak, Mate Szilagyi, Elvira Covino, Gabor Marton, Zsofia Nagy, Brunella Nisini, Zsofia Marianna Szabo, Zsofia Bora, Borbala Cseh, Csilla Kalup, Mate Krezinger, Levente Kriskovics, Waldemar Ogloza, Andras Pal, Adam Sodor, Eda Sonbas, Robert Szakats, Krisztian Vida, Jozsef Vinko, Lukasz Wyrzykowski e Pawel Zielinski


Scienziati, chi vuole un po’ di polvere di Bennu?


La prima e unica possibilità per il 2024 di accaparrarsi un po’ dei grani di Bennu che Osiris-Rex ha riportato sulla Terra è ora. Fino al 25 giugno. Occorre presentare una proposta motivata alla commissione dell'Astromaterials Allocation Review Board dell

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Il team di Osiris-Rex si apre al mondo. Per la prima e unica volta nel 2024, apre una call per le proposte di utilizzo scientifico dei campioni raccolti dall’asteroide Bennu. La scadenza è fissata al 25 giugno alle 23:59 (o le 00 del 26 giugno, se preferite), ma nel frattempo sono già state pubblicate immagini molto dettagliate (come quella riportata qui sotto), e cataloghi contenenti immagini, pesi e descrizioni, da usare per supportare la propria idea di utilizzo.

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Immagine ad alta risoluzione di una parte dei campioni prelevati dall’asteroide Bennu dalla sonda della Nasa Osiris-Rex. Alcuni di questi grani sono, ora, a disposizione degli scienziati del mondo che parteciperanno a un processo di selezione delle proposte scientifiche da parte della Nasa. Crediti: Nasa/Erika Blumenfeld & Joseph Aebersold

La foto, dicevamo, mostra parte del campione di rocce e polveri dell’asteroide Bennu riportato sulla Terra dalla sonda della Nasa Osiris-Rex. In tutto, il materiale raccolto ammonta a 121.6 grammi: il più cospicuo di sempre. Una parte di questo è già in mano al team di Osiris-Rex, che ha già condotto alcune analisi trovando, ad esempio, tracce di molecole organiche e minerali contenenti fosforo e acqua. Una parte rimarrà archiviata e non sarà utilizzata (almeno per il momento) per indagini scientifiche, mentre la restante parte sarà finalmente a disposizione della comunità scientifica mondiale per condurre analisi, dopo un’attentata valutazione delle proposte.

Sul sito web dell’Astromaterials Research and Exploration Science (Ares) della Nasa si trova una guida dettagliata per presentare una proposta è disponibile nel modulo di richiesta di campioni. Le richieste saranno esaminate da una commissione dell’Astromaterials Allocation Review Board, e a partire dal 2025 ci saranno due call annuali per le proposte di esamina dei campioni da parte di scienziati che non fanno parte del team Osiris-Rex, una in primavera e una in autunno.

«Costruire questo catalogo di campioni e renderlo disponibile alla comunità scientifica entro sei mesi dal ritorno dei campioni è un risultato fenomenale», commenta Jemma Davidson, capo dell’Ufficio acquisizione e curatela degli astromateriali di Ares. «Il team di curatori ha lavorato in modo incredibilmente duro e persistente per superare le varie sfide e rendere disponibile il catalogo dei campioni. È un’enorme pietra miliare per la missione e anche per la più ampia comunità di analisi dei campioni».



La “prima” eclissi e l’eredità dei babilonesi


Tra le rovine dell'antica città di Ugarit, nel 1948 è stata rinvenuta una tavoletta d’argilla sulla quale sembra essere riportata, in caratteri cuneiformi, la descrizione di un’eclissi totale di Sole. Se fosse davvero così, si tratterebbe della prima test

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Il Palazzo Reale di Ugarit. Crediti: Loris Romito (Cc By-Sa 3.0)

Tra le rovine dell’antica città di Ugarit – una delle più antiche città del mondo, l’attuale Ras Shamra, in Siria – sono state rinvenute oltre mille tavolette di argilla sulle quali sono incisi testi risalenti a un periodo compreso tra il XIV e XII secolo a.C., conservate in diversi archivi della città. Una in particolare ha destato l’attenzione degli astronomi: scoperta nel 1948 in quello che un tempo era l’Archivio del Palazzo Occidentale, la tavoletta denominata Ktu 1.78 sembra riportare, in caratteri cuneiformi, la descrizione di un’eclissi totale di Sole.

Parecchi sono gli studi che hanno cercato di stabilire la data di questa presunta eclissi, sfruttando diversi indizi e calcoli astronomici, e a dirla tutta la questione rimane controversa. Ma assecondiamo l’ipotesi suggestiva che l’incisione riporti davvero questo fenomeno astronomico perché, se così fosse, si tratterebbe della prima testimonianza scritta di una eclissi solare, e vediamo di capire di quale eclissi si potrebbe trattare.

Il contenuto dell’archivio in cui è stata ritrovata la tavoletta in questione mostra che è stato utilizzato per tutto il terzo periodo dell’Età del Bronzo (dal 1350 al 1175 a.C.). Tuttavia, tra i diversi generi rinvenuti nei vari archivi di Ugarit, sembrano essere stati conservati per tutto questo periodo solo i testi giuridici e i trattati. Gli altri testi rinvenuti risalgono all’ultimo mezzo secolo di esistenza di Ugarit. Pertanto, è probabile che Ktu 1.78 risalga alla seconda metà del XIII secolo o al primo quarto del XII secolo prima di Cristo.

Il testo riportato sulla tavoletta Ktu 1.78 è stato studiato in dettaglio da Sawyer e Stephenson nel 1970, i quali sono stati i primi a ipotizzare che l’evento astronomico descritto poteva riferirsi a una eclissi totale di Sole. Negli anni ‘80 il testo è stato studiato nuovamente da van Soldt, che ha proposto una traduzione sibillina che suona più o meno così:

Il … giorno di luna nuova del (mese) hiyaru il Sole calò, il suo custode fu Ršp.


Il significato della parola lasciata in sospeso (al posto dei tre puntini, dove nell’originale è indicato btt) è problematico. Sawyer e Stephenson hanno rifiutato la traduzione più ovvia del numero “sei” perché un’eclissi di Sole può verificarsi solo in prossimità dell’inizio di un mese lunare. De Jong e van Soldt hanno proposto la “sesta ora”, come possibilità dichiaratamente speculativa. Di più certa interpretazione sembra essere la parola Ršp che, come già sottolineato da Sawyer e Stephenson, va probabilmente identificata con il pianeta Marte.

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Antica tavoletta ugaritica, esposta al Museo del Louvre. Non si tratta di Ktu 1.78. Crediti: Wikimedia Commons

Per capire in che data è avvenuta l’eclissi, dobbiamo capire la posizione del mese hiyaru nel calendario ugaritico. Ma quale calendario usavano a Ugarit a quell’epoca? Il calendario ugaritico era un calendario lunare composto da dodici mesi, di cui dieci conosciuti per nome (uno è appunto hiyaru) e successione temporale. Si ritiene che l’anno a Ugarit iniziasse con la Luna nuova più vicina all’equinozio d’autunno, e il primo giorno del mese hiyaru cadesse nella seconda metà di febbraio o prima metà di marzo. Quindi, in base a queste considerazioni, l’anno in cui è avvenuta la presunta eclissi dovrebbe essere tra il 1250 e il 1175 a.C., il pianeta Marte deve essere stato visibile durante l’eclissi e la data (il “giorno della Luna nuova” del mese hiyaru) deve essere fissata nella seconda metà di febbraio o nella prima metà di marzo.

Sawyer e Stephenson identificarono quattro potenziali eclissi solari nel periodo 1450-1200 a.C.: il 14 luglio 1406 a.C., il 3 maggio 1375 a.C., l’8 gennaio 1340 a.C. e il 5 marzo 1223 a.C.. Selezionarono quella avvenuta il 3 maggio 1375 a.C. come l’eclissi a cui fa riferimento la tavoletta, in base al fatto che si svolse in aprile-maggio, periodo dell’anno che loro associavano al mese di hiyaru. Ma secondo de Jong e van Soldt questa associazione si basa su una identificazione errata di hiyaru con il mese babilonese ajjaru. Utilizzando una recente tabulazione di tutte le eclissi solari osservabili nel Vicino Oriente antico dal 3000 a.C. all’anno zero, questi autori hanno trovato che solo quelle del 1406 a.C., 1375 a.C. e 1223 a.C. dovrebbero essere state visibili da Ugarit nella totalità. Tra il 1250 a.C. e il 1175 a.C. l’eclissi del 5 marzo 1223 a.C. è l’unica candidata possibile.

Dobbiamo ora chiederci se in quel momento Marte fosse presente nel cielo di questa eclissi. Effettivamente, delle tre eclissi candidate menzionate sopra, quella avvenuta il 5 marzo 1223 a.C. è l’unica durante la quale il pianeta Marte era sopra l’orizzonte. Ancora più significativo, Marte si trovava a soli 3,5 gradi dal centro del Sole eclissato. Inoltre, l’osservazione che Marte fosse presente durante l’eclissi è una forte indicazione del fatto che l’eclissi deve essere stata effettivamente totale.

Ma c’è di più. Il “giorno della Luna Nuova” per la data dell’eclissi riportata sulla tavoletta non ha senso in un calendario lunare di tipo babilonese, per il quale i mesi iniziavano al tramonto del giorno della prima falce di luna. Sempre secondo de Jong e van Soldt, l’indicazione del “giorno della Luna Nuova” si adatterebbe a un calendario egizio, il cui uso non sarebbe inaspettato a Ugarit.

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Eclissi totale di Sole del 21 agosto 2017, ripresa da Madras, Oregon. Crediti: Nasa/Gopalswamy

Se anche il tempo fosse tenuto alla maniera egizia (dieci ore del giorno dall’alba al tramonto) la traduzione suggerita di btt (i tre puntini di sospensione nella frase riportate all’inizio) come “sesta ora” guadagnerebbe credibilità, perché l’eclissi è avvenuta alle 13:20, e l’alba e il tramonto sono avvenuti alle 6:45 e alle 17:45 locali, rispettivamente.

È quindi plausibile che su quella tavoletta di argilla 3247 anni fa qualcuno abbia inciso, probabilmente con sollievo dopo essere uscito da un’anomala oscurità, la testimonianza di un fenomeno astronomico tra i più coinvolgenti ai quali si può assistere nella vita.

Chi vuole vedere con i propri occhi la tavoletta la trova al Museo nazionale di Damasco, in Siria. La domanda più importante, ossia se Ktu 1.78 riporti o meno un’eclissi solare, certamente rimane. Alcuni autori hanno fermamente respinto questa possibilità (Pardee & Swerdlow 1993, Pardee 2002). Date le numerose incertezze che circondano la traduzione e l’interpretazione di questo breve testo, probabilmente non lo sapremo mai.

La serie di Saros

Ciò che invece sappiamo con certezza, grazie ancora una volta alle preziose tavolette di argilla, è che i babilonesi – i Caldei, in particolare – ci hanno lasciato una grande eredità astronomica: la consapevolezza dell’esistenza di un ciclo che governa le eclissi, il ciclo di Saros.

Furono loro ad accorgersi che la Luna, il Sole e la Terra si ritrovano ciclicamente nella medesima posizione reciproca e che una volta avvenuta un’eclissi (lunare o solare), la successiva si sarebbe verificata dopo circa 6585 giorni. Questo numero, considerato magico, veniva tramandato in segreto e la sua conoscenza conferiva prestigio ai sacerdoti perché erano in grado di prevedere le eclissi.

Cerchiamo di capire da dove salta fuori…

Per capirlo occorre partire dal moto della Luna attorno alla Terra e dalle definizioni di rivoluzione sinodica e rivoluzione draconica. Va ricordato, prima di passare alle due definizioni, che il piano dell’orbita della Luna attorno alla Terra è inclinato di circa 5,14 gradi rispetto all’eclittica, e che i due punti in cui l’orbita lunare interseca l’eclittica sono chiamati nodi: il nodo ascendente (il punto in cui la Luna si sposta nell’emisfero settentrionale dell’eclittica) e il nodo discendente (il punto in cui la Luna si sposta nell’emisfero meridionale dell’eclittica).

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Un diagramma che illustra la differenza tra una Luna piena e un’eclissi lunare, e la differenza tra una Luna nuova e un’eclissi solare. Il fatto che non ci siano due eclissi al mese è dovuto all’inclinazione di 5° del piano orbitale della Luna intorno alla Terra, rispetto al piano orbitale della Terra attorno al Sole. Un’eclissi può avvenire solo quando la Luna è in prossimità dei nodi.

La rivoluzione sinodica si compie in un mese sinodico, che è l’intervallo di tempo tra due lune nuove successive, pari a 29,53059 giorni. La rivoluzione draconica – il cui nome deriva dal fatto che in latino i due nodi sono chiamati caput draconis (testa del drago) e cauda draconis (coda del drago) – si compie in 27,21222 giorni, che è il tempo impiegato dalla Luna a ritornare nel nodo ascendente della sua orbita. Tanto per complicarci le cose, esiste un terzo periodo da considerare: il mese anomalistico, che è il tempo che impiega la Luna per passare da un perigeo (il punto in cui si trova più vicina alla Terra) al successivo, pari a 27,55455 giorni.

I tre periodi sono leggermente diversi ma si può dire che dopo 223 mesi sinodici (pari a 6585 giorni, 7 ore e 42 minuti) – o dopo 242 mesi draconici (pari a 6585 giorni, 8 ore e 34 minuti), o dopo 239 mesi anomalistici (pari a 6585 giorni, 12 ore e 54 minuti) – la Luna si trova nello stesso nodo, alla stessa distanza dalla Terra e nello stesso periodo dell’anno. Quindi, ogni eclissi di Sole o di Luna si ripete, con geometrie molto simili, trascorso tale periodo pari a circa 6585 giorni. Il circa è importante, come vedremo tra poco.

Eclissi totale di Luna nel 2019. Crediti: Nasa/Msfc/Joe MatusPrendendo sempre come fonte di informazione queste tavolette d’argilla, sembra che gli antichi Caldei avessero compilato lunghe liste di osservazioni di eclissi lunari (ma lo stesso si può dire per quelle solari), e nella consultazione di questi dati si fossero accorti che queste ricorrevano con un certo periodo. A questi cicli periodici i sacerdoti diedero il nome di Saros e il numero di anni (18 anni, 11 giorni, 8 ore e 42 minuti) che intercorreva tra il loro ripetersi venne usato per prevedere la data delle eclissi. Se fate i conti vedrete che 18 anni e 11 giorni corrispondono a 6585 giorni. E le 8 ore e i 42 minuti?

In quelle 8 ore che avanzano la Terra ruota di circa 120 gradi e questo fa sì che dopo un Saros la stessa eclissi (o meglio, un’eclissi con le stesse caratteristiche) si ripeta in una località diversa. In teoria bisognerebbe aspettare tre Saros (54 anni e 34 giorni), nei quali la Terra compie un numero intero di rotazioni, per avere eclissi che si verificano all’incirca nello stesso luogo. In teoria. In pratica le cose sono più complicate.

Gli astronomi hanno definito sequenze di cicli di Saros – o serie di Saros – che hanno un inizio e una fine, e sono rappresentate in un grafico di non semplice interpretazione ma che permette di visualizzare lo schema di ripetitività delle eclissi. Senza entrare nella descrizione del grafico, riportato sotto, cerchiamo qui di spiegare perché le serie di Saros hanno un inizio e una fine.

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Il sistema di numerazione utilizzato per le serie di Saros è stato introdotto dall’astronomo olandese G. van den Bergh nel suo libro Periodicità e variazione delle eclissi solari (e lunari) (Tjeenk Willink, Haarlem, Paesi Bassi, 1955). Egli ha inserito tutte le 8.000 eclissi solari del Canon der Finsternisse di von Oppolzer (1887) in una grande matrice bidimensionale. Ogni serie di Saros è stata disposta in una colonna separata con le eclissi in ordine cronologico. Le colonne delle serie di Saros sono state poi sfalsate in modo che l’intervallo tra due eclissi di colonne adiacenti fosse di 10571,95 giorni (29 anni e 20 giorni). Questo è un altro importante ciclo di eclissi chiamato Inex. Il panorama Saros-Inex che ne risulta si è rivelato utile per organizzare le eclissi. Crediti: Nasa

I tre mesi lunari – sinodico, draconico e anomalistico – non sono perfettamente commisurati tra loro e il nodo lunare si sposta verso est di circa 0,5 gradi a ogni Saros. Una tipica serie di Saros per un’eclissi solare inizia quando la Luna nuova si trova a circa 18 gradi a est di un nodo. Se la prima eclissi si verifica in corrispondenza del nodo discendente della Luna, l’umbra (l’ombra, in latino) della Luna passerà a circa 3500 chilometri al di sotto della Terra e dalla regione polare meridionale sarà visibile un’eclissi parziale. Al successivo ritorno, l’umbra passerà circa 300 chilometri più vicino alla Terra e si verificherà un’eclissi parziale di magnitudine leggermente maggiore. Dopo dieci o undici cicli di Saros (circa 200 anni), si verificherà la prima eclissi centrale (cioè totale, ibrida o anulare) vicino al polo sud della Terra. Nel corso dei successivi 950 anni, si verificherà un’eclissi centrale ogni 18,031 anni (un Saros), ma sarà spostata in media di circa 300 chilometri verso nord. A metà di questo periodo, si verificheranno eclissi di lunga durata in prossimità dell’equatore. L’ultima eclissi centrale della serie si verifica vicino al polo nord. Le successive dieci eclissi saranno parziali e di magnitudine sempre minore. Infine, la serie di Saros terminerà una dozzina o più di secoli dopo il suo inizio al polo opposto.

Nella figura sottostante si può vedere l’ombra (strisce gialle) della Luna sulla Terra in occasione di alcune eclissi totali di Sole della serie di Saros 136. Come vedete, a distanza di un Saros le zone interessate dall’eclissi si spostano di 120 gradi verso ovest (ad esempio 1937, 1955 e 1973). I tre cicli successivi (1991, 2008 e 2027) avvengono più o meno alla stessa longitudine dei precedenti (sono passati 54 anni dal 1955 al 2009, ad esempio) ma hanno diversa latitudine. Come descritto poco sopra, l’ombra si alza verso il polo nord.

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Alcune eclissi della serie di Saros 136, dal 1937 al 2081. Crediti: Nasa, Michael Zeiler

A causa dell’eccentricità delle orbite della Terra e della Luna, la durata esatta e il numero di eclissi in una serie di Saros completa non sono costanti. Una serie può durare da 1226 a 1550 anni ed è composta da 69-87 eclissi, di cui circa 40-60 sono centrali.

Le eclissi solari che si verificano in prossimità del nodo ascendente della Luna hanno numeri di Saros dispari: ogni eclissi successiva di una serie di questo tipo si sposta progressivamente verso sud rispetto al centro della Terra. Le eclissi solari che si verificano in prossimità del nodo discendente della Luna hanno invece numeri di Saros pari: ogni eclissi successiva in una serie di questo tipo si sposta progressivamente verso nord rispetto al centro della Terra.

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Questa animazione mostra la serie di Saros 139, tra cui rientra l’eclissi dell’8 aprile 2024. Notate le date che cambiano in alto a destra? La linea blu rappresenta il percorso tracciato dall’ombra della Luna – il percorso della totalità – per ciascuna delle eclissi totali di questa serie. La serie di Saros 139 è iniziata nell’anno 1501 e si concluderà nel 2763. Crediti: Nasa

L’eclissi solare dell’8 aprile 2024 fa parte della serie di Saros 139, che ha avuto inizio con un’eclissi parziale nell’emisfero settentrionale il 17 maggio 1501. La serie si concluderà con un’eclissi parziale nell’emisfero meridionale il 3 luglio 2763. La durata totale della serie Saros 139 è di 1262,11 anni, con 71 eclissi solari (di cui 43 totali). Così, per inquadrare meglio l’evento a cui stiamo per assistere.

Per gli amanti di questi calcoli celesti, questo sito della Nasa riporta il catalogo delle serie di Saros, con una descrizione dettagliata di tutte le eclissi, passate e future.

Abbiamo iniziato questo approfondimento con quella che potrebbe essere stata la prima testimonianza scritta di un’eclissi solare, per poi arrivare – grazie agli antichi babilonesi – alla previsione di quelle future. Ora concentriamoci sul presente: abbiamo la fortuna di dover attendere ancora solo pochi giorni per vedere, dal vivo oppure in diretta streaming, una delle più belle eclissi totali del secolo.

Per saperne di più:



Comete ed eclissi sotto il Sombrero


A parte Giove, gli altri pianeti saranno difficili da osservare, ma possiamo seguire nei primi giorni la cometa 12P/Pons-Brooks che potrebbe ancora riservarci qualche sorpresa. L'8 aprile la lunga eclisse totale di Sole farà da padrona. Purtroppo sarà inv

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Traiettoria sopra l’orizzonte ovest della cometa 12P/Pons-Brooks nei primi giorni di aprile. La mappa si riferisce alla serata del 10 aprile, con anche la Luna, e sono indicate le costellazioni e la griglia di coordinate equatoriali. Simulazione effettuata con software Stellarium

In questo mese è ancora possibile osservare la cometa 12P/Pons-Brooks. Pur avendo superato inaspettatamente la soglia di visibilità a occhio nudo, non è molto appariscente e nello scorso mese la sua osservazione ha richiesto pazienza e costanza. In aprile si avvicinerà al Sole ancor di più, e il 21 del mese la cometa passerà al perielio, il punto più vicino alla nostra stella, e perciò dovrebbe raggiungere la massima luminosità.

Un tentativo di osservazione si potrebbe fare i primi giorni del mese verso ovest appena dopo il tramonto del Sole. Come ora ottimale per l’osservazione suggeriamo le otto e mezza di sera, quando il Sole è appena tramontato e la cometa non è troppo bassa sull’orizzonte. Ma è solo un’indicazione che non tiene conto della particolare zona di osservazione. Difficile prevedere se si potrà osservare a occhio nudo. Anche se la luminosità prevista è intorno alla quarta magnitudine, il chiarore del cielo dovuto al Sole appena tramontato e la vicinanza con l’orizzonte potrebbe impedircelo. Con un binocolo dovrebbe essere più semplice.

Il 10 aprile la cometa sarà a meno di dieci gradi dalla sottile falce di luna crescente e, come già detto, non lontano da Giove. I tre astri formeranno quasi un triangolo isoscele con la Luna nel vertice e, come base, la cometa e il pianeta gassoso. Cercate un posto con l’orizzonte ovest libero e godetevi il tramonto, meglio con un binocolo o un piccolo telescopio.

14167915L’8 aprile ci sarà un’eclisse totale di Sole, sfortunatamente invisibile dall’Italia, nemmeno come eclisse parziale. Sarà invece visibile dagli Stati Uniti, Canada e Messico. È una delle eclissi più lunghe che possa capitare in quanto appartenente al ciclo 139 di Saros. A partire dal 2 aprile, alcuni inviati speciali di Media Inaf si recheranno nella fascia di totalità per seguire l’eclissi. Non perdetevi, nei prossimi giorni, i loro articoli sul raro fenomeno celeste e lo speciale sulle eclissi storiche a cura di Maura Sandri. Sarà inoltre possibile seguire l’eclisse in diretta sul canale YouTube di Nuovi Mondi.

In questo aprile i pianeti non sono particolarmente appariscenti in cielo, restando prospetticamente piuttosto vicini al Sole. Giove brillerà al tramonto a ovest insieme a Urano, ma quest’ultimo troppo debole per essere apprezzato a occhio nudo. I due pianeti si avvicineranno prospetticamente tra loro e saranno già dai primi giorni di aprile visibili nello stesso campo di un binocolo. Saranno in congiunzione il 20 del mese, ma immersi nelle luci del tramonto dell’orizzonte ovest e quindi sempre più difficili da osservare. Al mattino Venere sarà inosservabile mentre Marte e Saturno si potranno osservare, ma con difficoltà, verso l’orizzonte est prima del sorgere del Sole. Il 6 aprile saranno vicini tra loro e anche vicini a una bellissima falce di Luna calante.

Da non perdere, l’11 aprile, l’incontro della Luna con le Pleiadi. Uno degli ultimi prima che la primavera e l’estate, con lo scorrere delle costellazioni, mettano a dormire le sette sorelle. Mentre il 16 il nostro satellite sarà piuttosto vicino a un altro ammasso stellare: M44, o Presepe, nella costellazione del Cancro.

Nella prima parte della sera, il Toro e Orione ci stanno abbandonando oramai al tramonto, mentre ci vorrà ancora qualche ora per il tramonto delle costellazioni dell’Auriga e dei Gemelli. Oramai stanno lasciando il posto a quelle primaverili, nelle quali possiamo osservare galassie e ammassi di galassie. l’Orsa Maggiore è alta in cielo e cominceranno a mostrarsi il Boote ed Ercole, nonché, con il passare delle ore fino al mattino, anche le costellazioni tipicamente estive della Lira e del Cigno.

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La galassia M104 o Sombrero ripresa dal telescopio spaziale Hubble. Crediti: Nasa/Esa and The Hubble Heritage Team (Stsci/Aura)

Concentrandoci nelle costellazioni di primavera, nelle nottate senza il disturbo della Luna è possibile osservare le galassie nel Leone, nella Chioma di Berenice, nei Cani da Caccia e nella Vergine – alcune visibili anche con un piccolo telescopio o un binocolo, purché senza inquinamento luminoso, e aspettando magari la mezzanotte che il cielo diventi più buio.

C’è una galassia al confine tra la costellazione della vergine e del corvo che è piuttosto particolare. È M104 o galassia Sombrero, per il suo strano aspetto. Visibile anche con un buon e luminoso binocolo, tuttavia la sua peculiare banda scura è appena visibile solo con telescopi almeno di 20 cm di diametro. La sua forma da copricapo messicano è in realtà data da un anello di polveri scure che circonda la galassia come ben visibile in questa immagine del telescopio spaziale Hubble. Come riporta questo articolo di Media Inaf, sembra che la composizione chimica delle sue stelle e degli ammassi globulari attorno alla galassia possa far pensare che questa isola di stelle sia in realtà il risultato di una collisione tra galassie, senza però che ce ne sia evidenza gravitazionale. Future osservazioni potranno chiarire il mistero.

Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:

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Cristalli di ghiaccio in quelle strane nane bianche


Alcune nane bianche non sembrano comportarsi come previsto dalle comuni teorie di evoluzione stellare. Dai dati del satellite europeo Gaia era infatti stata identificata, nel 2019, una popolazione il cui processo di raffreddamento si era interrotto per ol

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Illustrazione artistica della formazione di cristalli all’interno di una nana bianca. Crediti: Università di Warwick/Mark Garlick

Alla fine della loro vita la maggior parte delle stelle, compreso il Sole, diventano nane bianche. Queste stelle, di massa iniziale inferiore alle otto masse solari, dopo aver esaurito l’idrogeno e l’elio a disposizione come fonte di energia non sono in grado di innescare reazioni termonucleari successive e collassano sotto il proprio peso fino a che la pressione degli elettroni è sufficiente a contrastare la gravità. Nel frattempo si verifica al loro interno un raffreddamento progressivo che porta al loro definitivo spegnimento. Grazie a ciò, è possibile determinare l’età di una nana bianca in base alla sua temperatura e, secondo i modelli evolutivi comunemente accettati, durante questo processo di raffreddamento il plasma denso all’interno della nana bianca si cristallizza e la stella subisce un processo di solidificazione interna. Nel 2019 era stato riscontrato un comportamento anomalo in un certo tipo di nane bianche, che avrebbero mantenuto la loro luminosità costante per un periodo molto più lungo del previsto senza che fossero chiari i motivi. Uno studio pubblicato il mese scorso su Nature fornisce una possibile spiegazione.

Dai dati del satellite europeo Gaia era infatti stata identificata una popolazione di nane bianche il cui processo di raffreddamento si era interrotto oltre otto miliardi di anni fa. Questo aveva suggerito a Sihao Cheng dell’università di Princeton e al suo team – nello studio “A Cooling Anomaly of High-mass White Dwarfsche esistesse qualche fonte supplementare di energia che ne inibiva il raffreddamento. Dalla spiegazione ora proposta dal gruppo di ricerca di cui lo stesso Cheng fa parte, pare che nel processo di cristallizzazione di queste particolari nane bianche si inneschi un meccanismo di distillazione solido-liquido causato dall’impoverimento della fase solida delle impurità più pesanti. In pratica, in alcune nane bianche sembra che il plasma denso non si solidifichi semplicemente dall’interno verso l’esterno ma si formino cristalli solidi densi nel liquido che iniziano a galleggiare verso la superficie. Quando i cristalli si spostano verso l’alto, il liquido più pesante si sposta verso il basso, e questo trasporto convettivo di materiale più denso verso il centro della stella permette di liberare energia gravitazionale sufficiente a interrompere il processo di raffreddamento della stella per miliardi di anni.

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Quando la stella si raffredda, i cristalli solidi formati nel modo ordinario (a) sono più pesanti del liquido e quindi si accumulano sulla superficie del solido sottostante. Se invece i cristalli solidi sono più leggeri del liquido (b), galleggiano verso l’alto e alla fine si sciolgono. Crediti: Bédard et al., 2024

«L’interpretazione che abbiamo proposto spiega tutte le proprietà osservate nell’insolita popolazione di nane bianche», dice il primo autore dello studio, Antoine Bédard dell’università di Warwick (Regno Unito). «È la prima volta che questo meccanismo di trasporto viene osservato in qualsiasi tipo di stella, il che è entusiasmante: non capita tutti i giorni di scoprire un fenomeno astrofisico completamente nuovo».

Ma perché questo fenomeno si verifica solo in alcune stelle e non in altre? La differenza è probabilmente dovuta alla composizione chimica della stella, poiché alcune nane bianche si formano dalla fusione di due stelle diverse che potrebbe variare, appunto, gli elementi presenti nella stella.

«Un aspetto affascinante di questa scoperta è che la fisica coinvolta è simile a qualcosa che osserviamo nella vita quotidiana: i cristalli solidificati all’interno della nana bianca galleggiano invece di affondare. Potremmo paragonare il loro comportamento a quello dei cubetti di ghiaccio che galleggiano nell’acqua», sottolinea Cheng.

Poiché le nane bianche sono utilizzate come indicatori di età delle popolazioni stellari, la scoperta del loro raffreddamento ritardato di alcune potrebbe portare a una revisione del processo utilizzato dagli astronomi per ricostruire il percorso di formazione della nostra galassia.

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Ammasso della Vergine: distanze mai così precise


Misurate con grande accuratezza le distanze di circa 300 galassie nell'ammasso della Vergine con il metodo delle fluttuazioni di brillanza superficiale. Questa tecnica risulta particolarmente efficace in galassie ellittiche molto massicce, dominate da ste

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Galassie nell’ammasso della Vergine. Crediti: Canada–France–Hawaii Telescope (Cfht) e Coelum

Un nuovo studio, accettato per la pubblicazione su The Astrophysical Journal, getta nuova luce sulle caratteristiche delle galassie che costituiscono l’Ammasso della Vergine e soprattutto sulla loro distanza dalla Terra, sfruttando il metodo delle fluttuazioni di brillanza superficiale (Sbf, dall’inglese surface brightness fluctuations) delle galassie ospiti. Il team di ricerca, guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e composto da scienziati di varie istituzioni internazionali, ha condotto un’analisi dettagliata su un campione di circa trecento galassie nell’ambito della Next Generation Virgo Cluster Survey (Ngvs). A parte il valore intrinseco della misura di distanze, con l’accuratezza permessa dal metodo Sbf l’analisi della distribuzione 3D delle galassie, anche di quelle più deboli e quindi meno luminose, è la più precisa mai realizzata su questo ammasso di galassie.

Ngvs è un programma di osservazioni realizzato con il Canada France Hawaii Telescope (Cfht), guidato da Laura Ferrarese dell’Herzberg Astronomy & Astrophysics Research Center di Victoria (Canada), volto a esaminare un’area di 104 gradi quadrati nella regione dell’Ammasso della Vergine, ossia la più grande concentrazione di galassie nell’universo vicino. La survey copre una vasta area dell’ammasso, dalle regioni centrali sino a quelle periferiche, e viene eseguita in cinque bande ottiche a cavallo fra la radiazione ultravioletta e il vicino infrarosso.

«Le fluttuazioni di brillanza superficiale derivano dalle fluttuazioni casuali di stelle non risolte all’interno della galassia osservata», spiega Michele Cantiello, primo autore dell’articolo e ricercatore all’Inaf d’Abruzzo. «Qualitativamente, per la stima delle distanze, l’idea alla base del metodo è piuttosto semplice: una popolazione di stelle più vicina appare più “granulosa” rispetto a una popolazione lontana, il cui profilo di luminosità appare invece relativamente liscio. Questo metodo risulta particolarmente efficace in galassie ellittiche molto massicce, dominate da stelle vecchie ad alta metallicità, dove l’accuratezza del metodo può essere migliore del due per cento sulla distanza per singole galassie».

Attualmente, con questo metodo, è possibile misurare distanze fino a circa 600 milioni di anni luce (potenzialmente oltre un miliardo di anni luce con il James Webb Space Telescope), e non solo per galassie ellittiche ma anche per galassie nane, nuclei di spirale, galassie peculiari e altri oggetti celesti. «La forza di questo metodo risiede nel fatto che le misure di fluttuazioni di brillanza superficiale non richiedono lunghe campagne osservative, ma rivaleggiano per precisione con metodi che utilizzano le stelle variabili di tipo Cefeide e le supernove del tipo Ia», aggiunge Cantiello.

Il catalogo, pubblicato inizialmente con 89 galassie, fa ora riferimento a un altro campione di ben 300 oggetti, tutti nell’ammasso della Vergine. Questo agglomerato galattico è caratterizzato dalla presenza di numerose sotto-strutture, oggetto di studio da diversi decenni. «Attraverso il nostro lavoro, siamo riusciti a esplorare la struttura tridimensionale dell’ammasso con un livello di precisione mai raggiunto prima su un così ampio campione di galassie. Questo ammasso, il più ricco di galassie entro i 50 milioni di anni luce dal Gruppo Locale, rappresenta un punto di particolare interesse. Il nostro lavoro ha permesso di evidenziare chiaramente, ad esempio, una struttura “filamentosa” che collega il nucleo principale e più vicino dell’ammasso a una struttura più distante, nota come nube W», aggiunge il ricercatore.

Durante la fase conclusiva dell’analisi, i ricercatori hanno notato che, esaminando le distanze delle galassie nel gruppo principale dell’ammasso (comunemente noto come sotto-ammasso A e considerato una struttura unica e “rilassata”), si individua per la prima volta un sotto-raggruppamento di galassie posizionato circa il 15 per cento più lontano rispetto all’ammasso principale. «In pratica, sembra che il sotto-ammasso A ospiti un ulteriore piccolo gruppo lungo la stessa linea di vista, ma leggermente più distante. Per dare un’immagine visiva, potremmo pensare al sotto-ammasso A come ad una forma “a pera”, con una parte più larga rivolta verso l’osservatore e una parte più stretta, che ospita questo piccolo gruppo aggiuntivo», sottolinea Cantiello.

La misura delle distanze è di fondamentale importanza in qualsiasi campo dell’astronomia, sia che si tratti dello studio di pianeti, stelle, galassie o delle costanti del modello cosmologico. Una stima affidabile delle distanze è un prerequisito essenziale per conoscere le caratteristiche fisiche fondamentali dell’oggetto studiato, come le dimensioni, la luminosità, la massa e così via.

Lo studio rappresenta un passo significativo verso una comprensione più approfondita della formazione e dell’evoluzione delle galassie e degli ammassi galattici. «Da questo lavoro seguirà una serie di studi dello stesso tipo realizzati con i dati dal satellite Euclid, dal telescopio Lsst e altri, che copriranno però l’intero cielo».

«Attualmente, la comunità mondiale che si occupa di misure di Sbf è numericamente esigua, e le persone coinvolte possono essere contate sulle dita di due mani. Oggi, nella comunità italiana, con il coinvolgimento del gruppo Euclid di Roma e Firenze, insieme alla partecipazione italiana alle attività di Lsst, l’interesse e la discussione su questo argomento sono decisamente più ampi», conclude Cantiello.

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Tutti scienziati con l’eclissi solare


Il prossimo 8 aprile, visibile dal Nord America, ci sarà un’eclissi totale di Sole, uno fra gli eventi astronomici più rari e affascinanti. Per l’occasione, la Nasa ha stilato una lista di progetti di scienza partecipata che, sfruttando proprio il momento

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Immagine generata con Copilot. Crediti: Chiara Badia

Si può fare scienza senza essere dei veri e propri scienziati? La risposta è sì! Per coloro che, per uno o più giorni, desiderino provare l’emozione di raccogliere e analizzare dati scientifici, esiste la citizen science, un potente strumento per coinvolgere persone di ogni età, estrazione sociale e formazione culturale nella ricerca e nella scoperta scientifica. Tra le discipline alle quali la “scienza partecipata” può dare un contributo significativo c’è senza dubbio l’astronomia: i vari eventi celesti offrono, infatti, opportunità uniche agli astronomi dilettanti – o meglio ai citizen scientist – e a quelli professionisti di collaborare su vari progetti e osservazioni contribuendo a migliaia di importanti scoperte scientifiche. La partecipazione a progetti di citizen science legati all’astronomia non è solo educativa ma anche stimolante per i volontari e, in particolare, per i giovani che soprattutto in queste occasioni dimostrano la propria curiosità e l’interesse per il mondo naturale e la scienza.

Scrutare il cielo – sempre con gli occhi ben protetti – durante un’eclissi solare, uno tra i più affascinanti e rari fenomeni astronomici a cui assistiamo dalla Terra, rappresenta un’occasione imperdibile per mettersi alla prova. E chi vive sull’altra sponda dell’Atlantico non dovrà aspettare molto: lunedì 8 aprile un’eclissi solare totale – quando la Luna incrocia il suo percorso con il Sole bloccandone completamente la vista dalla Terra – partirà dall’Oceano Pacifico meridionale, attraverserà il Nord America, passando per il Messico, gli Stati Uniti e il Canada, per poi terminare la sua corsa nell’Oceano Atlantico.

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Il percorso della totalità dell’eclissi di Sole dell’8 aprile 2024 (cliccare per ingrandire). Crediti: Nasa

Per l’occasione, la Nasa propone sul proprio sito alcuni progetti di citizen science incentrati, ad esempio, sul monitoraggio delle macchie solari per studiare il campo magnetico del Sole, o sul cronometraggio dei momenti precisi dell’inizio e della fine dell’eclissi per perfezionare i modelli di previsione e calcolare le ricorrenze nei prossimi anni. Come funziona? Utilizzando strumenti semplici come smartphone o fotocamere digitali dotate di filtri solari, i partecipanti possono catturare immagini o video dell’eclissi e inviare alla Nasa i dati e le informazioni raccolte.

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Tre screenshot dalla app SunSketcher. Crediti: Nasa

Con la App SunSketcher gli “scienziati in erba” aiutano, ad esempio, a misurare l’esatta forma e dimensione del Sole fotografando i grani di Baily (Baily’s Beads), particolari effetti ottici luminosi naturali osservabili solo per pochi istanti in prossimità del bordo lunare. La partecipazione di massa consente di popolare un enorme database di immagini che, analizzate insieme, potrebbero aiutare gli scienziati a mappare la forma esatta del disco del Sole.

Oppure è possibile partecipare alla ricerca di getti solari – enigmatiche esplosioni di energia e materiale provenienti dalla nostra stella – con il progetto di Zooniverse Solar Jet Hunter. In questo caso, ci si concentra sulle caratteristiche dei getti che si trovano in varie parti del Sole, osservabili chiaramente nelle immagini dell’ultravioletto estremo, per costruire un database di getti solari: un punto di partenza per studiare la fisica delle espulsioni solari, per confrontare i dati con altri tipi di database sull’attività solare e per condurre ampi studi statistici sulle proprietà dei getti. Il progetto Eclipse Megamovie, invece, invita a utilizzare una fotocamera Dslr, una reflex digitale, per registrare la dinamica della corona solare durante l’eclissi totale e scoprire così la vita segreta dei getti e dei pennacchi solari, che sembrano scomparire o cambiare dal momento in cui si formano sul Sole fino a quando si spostano nel vento solare.

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Crediti: Citizen Cate 2024/Southwest Research Institute

Sempre immagini, ma questa volta provenienti dai telescopi, saranno utilizzate dal progetto Deb Initiative, dedicato alla trasmissione “dinamica” delle eclissi: le immagini Hdr catturate dagli oltre 80 team di volontari saranno combinate in un filmato che mostrerà l’evoluzione coronale e consentirà un’analisi scientifica della corona interna del Sole. Durante l’eclissi, man mano che una postazione è in osservazione attiva, le immagini verranno aggiornate in continuazione su un sito dedicato. Per studiare le strutture e i cambiamenti nell’atmosfera esterna del Sole, cioè nella corona solare, sono inoltre pronte 40 staffette di volontari istruiti e attrezzati con telescopi identici lungo il percorso dell’eclissi totale dell’8 aprile – mentre attraversa gli Stati Uniti dal Texas al Maine – per scattare immagini in luce polarizzata, che consentiranno un’osservazione estesa della corona medio-bassa. Il progetto si chiama Citizen Cate 2024 (Citizen Continental-America Telescope Eclipse).

Ascoltare il Sole dal proprio giardino durante l’eclissi può invece contribuire alla comprensione delle emissioni radio causate dall’attività della nostra stella. È l’attività proposta dal progetto Radio Jove, che aiuta studenti e scienziati dilettanti a costruire i propri radiotelescopi e a sintonizzarsi su segnali radio provenienti da Giove, ì dalla ionosfera terrestre, dalla Via Lattea e, appunto, dal Sole. Tutto con spettrografi radio a 16-24 MHz assemblati e messi in funzione dai partecipanti. E sempre a proposito di frequenze radio, Avviata da scienziati radioamatoriali che studiano la fisica dell’alta atmosfera e dello spazio, l’Ham Radio Science Citizen Investigation (HamSci) è, invece, una piattaforma in cui i radioamatori generano grandi serie di dati che potrebbero fornire utili osservazioni della ionosfera terrestre e dei sistemi correlati.

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Con una fotocamera digitale e un treppiede si può partecipare al progetto Eclipse Megamovie sulle eclissi solari e su come contribuire a una vera ricerca scientifica sul Sole e i getti solari. Le immagini da tutto il mondo vengono caricate live sul portale. Crediti: Eclipse Megamove/Nasa

Le eclissi solari offrono anche l’opportunità di studiare i fenomeni atmosferici e il comportamento degli animali. L’eclissi solare, anche se parziale, produce effetti negativi sugli animali: la variazione di luminosità, anche se di breve durata, causa confusione in moltissime specie e il cambio improvviso della temperatura e del vento modifica comportamenti ed abitudini di diverse varietà. Il progetto Eclipse Soundscapes intende rivisitare proprio uno studio scientifico sull’eclissi di quasi un secolo fa che ha dimostrato come animali e insetti siano effettivamente influenzati da questo fenomeno astronomico. Per capire come reagisce la fauna selvatica di vari ecosistemi del Nord America a un’eclissi solare, il progetto raccoglie tutte le osservazioni multisensoriali e i dati sonori registrati prima, durante e dopo l’eclissi solare anulare del 14 ottobre 2023 e dell’eclissi solare totale del 2024.

Durante un’eclissi solare totale, i cambiamenti di temperatura, i modelli di circolazione dei venti e la copertura nuvolosa possono verificarsi rapidamente, creando una situazione unica e irripetibile per compiere indagini scientifiche. Utilizzando le applicazioni del progetto Globe Eclipse, ognuno di noi può contribuire durante un’eclissi documentando le variazioni ambientali con sensori portatili: lo strumento “Eclipse tool” utilizza un termometro meteorologico per misurare le variazioni di temperatura dell’aria; il “Land Cover tool” consente di caratterizzare la vegetazione vicino al sito di raccolta dati e il “Clouds tool” di osservare regolarmente le condizioni del cielo e monitorare le nuvole presenti durante l’eclissi.

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Chioma vorticosa della cometa Pons-Brooks, nell’immagine selezionata come foto del giorno dalla Nasa. Crediti: Jan Erik Vallestad

Dal punto di vista astronomico, poi, l’opportunità offerta da un’eclissi solare totale è certamente unica: alcune sorgenti situate in direzione del Sole, infatti, si vedono molto meglio – se non esclusivamente – spegnendo “la luce” che illumina il nostro pianeta. Oggetti celesti come la cometa luminosa 12P/Pons-Brooks, per esempio, il cui ritorno verso l’interno del Sistema solare la porta a trovarsi a soli 25 gradi di distanza dal Sole proprio durante l’eclissi solare totale dell’8 aprile. Attualmente la cometa è appena al limite della visibilità a occhio nudo – migliorata se si utilizza un binocolo nel cielo della prima serata verso la costellazione dei Pesci – ma sta comunque dando spettacolo anche in questi giorni mostrando la sua coda di ioni in continua evoluzione in azzurro e la sua chioma esterna in verde, circondata in una spirale di gas che brillano in rosso.

Se vi interessano le comete, segnaliamo anche il progetto Sungrazer, finanziato dalla Nasa, che punta a scoprire e segnalare comete precedentemente sconosciute nei campi di vista degli strumenti satellitari Soho e Stereo. Chiunque, in qualsiasi parte del mondo, può diventare un “cacciatore di comete” e iniziare immediatamente a cercarne di nuove nei dati dei due telescopi spaziali. Per la cronaca, Soho è lo scopritore di comete di maggior successo nella storia: è di questa settimana la notizia che, dal 1995 a oggi, ha consentito la scoperta di ben cinquemila comete. La cosa ancora più sorprendente è che la maggior parte di queste comete sono state trovate da astronomi dilettanti e appassionati di tutto il mondo, che hanno setacciato le immagini alla ricerca di un probabile “candidato cometa” restando seduti comodamente sul divano di casa.

Infine, tornando all’eclissi dell’8 aprile, purtroppo non visibile dall’Italia, per farvela comunque assaporare e apprezzare al meglio abbiamo in programma una serie di articoli dedicati al tema, raccolti in uno speciale che publicheremo giorno per giorno a partire da martedì 2. Non solo: alcuni team scientifici dell’Inaf e due inviati speciali di Media Inaf saranno presenti sul posto – dislocati in più siti, dal Messico al Canada, così da massimizzare la possibilità di cielo sereno – per studiare il fenomeno, mostrarlo e raccontarlo a chi ci segue. Restate dunque con noi anche nel corso dei prossimi giorni.

Per saperne di più:

  • Scopri come partecipare ai progetti di citizen science della Nasa sul Sole e le eclissi visitando la pagina dedicata e guardando i video tutorial di approfondimento

Guarda su MediaInaf Tv la guida al cielo del mese di aprile, a cura di Fabrizio Villa:

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Così il cambiamento climatico altera il tempo


Il riscaldamento globale, facendo sciogliere i ghiacciai, porta – secondo uno studio uscito questa settimana su Nature – a un rallentamento della rotazione terrestre, contrastando il trend opposto che si evidenziava ormai da qualche anno. E ritardando di

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Foto da Pixabay

L’uomo cambia il clima, e il clima cambia il pianeta. Fra le conseguenze globali dell’emergenza climatica, ce n’è una sorprendente: la decelerazione della rotazione terrestre. Secondo uno studio di Duncan Agnew, geofisico della University of California San Diego, pubblicato questa settimana su Nature l’effetto – scusate il gioco di parole – è il rallentamento più veloce di sempre. Tanto che posticiperebbe di circa tre anni una rischiosa ma inevitabile operazione: quella di togliere un secondo alla durata di un giorno, introducendo il cosiddetto leap second negativo, un provvedimento inedito ma già nell’aria da alcuni anni a causa della recente tendenza del nostro pianeta a ruotare più velocemente.

Cominciamo mettendo un po’ d’ordine. Anzitutto: chi stabilisce la durata del giorno? La rotazione terrestre, direte voi. Sì, ma non solo. Molte attività come le comunicazioni, l’informatica di rete, o i mercati finanziari, richiedono tempi coerenti, standardizzati e precisi. Richiedono, in particolare, la sincronizzazione degli orologi a livello globale, resa possibile dai cosiddetti orologi atomici, nei quali il tempo è scandito dalle transizioni elettromagnetiche degli atomi di cesio.

Da un lato la rotazione terrestre, dunque, dall’altro la convenzione umana. Da un lato, il tempo universale (Ut1), dall’altro il tempo coordinato universale (Utc). Con una differenza, però: se il secondo – l’Utc, quello scandito dagli orologi atomici – è preciso e costante, la rotazione terrestre lo è un po’ meno.

«La rotazione della Terra è ancora ricca di sorprese e di fenomeni non compresi quindi si può osservare la differenza rispetto al tempo atomico, ma non si riesce a predire a lungo termine», dice a Media Inaf Patrizia Tavella, direttrice dell’International Bureau of Weights and Measures (l’ente responsabile, fra le altre convenzioni metrologiche, dell’Utc) e autrice, sempre sullo stesso numero di Nature, di un articolo di commento allo studio di Agnew. «In questi ultimi anni la Terra sta accelerando meno del previsto, dice Agnew, e ci stiamo chiedendo se un secondo sarà da togliere per la prima volta. Non è facile fare prove su larga scala».

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Dal 2020 la durata media del giorno (linea viola) è scesa sotto gli 86400 secondi (cliccare per ingrandire). Crediti: Wikimedia Commons (grafico) e Matej/Pexels (sfondo)

Fino a oggi, infatti, l’utilizzo dei leap second – in italiano, secondo intercalare – è sempre stato in positivo. La tendenza del nostro pianeta, fino a pochi anni fa, era infatti quella di rallentare la rotazione, e l’aggiunta di un secondo in un giorno consentiva di riallineare il tempo della rotazione terrestre con quello coordinato universale. La regola, stabilita dall’International Earth Rotation and Reference Systems Service, era che lo scarto fra Ut1 e Utc non superasse i 9 decimi di secondo, e il secondo intercalare era la soluzione da inserire non appena questo scarto veniva superato. Ecco allora che, per compensare il fatto che la durata del giorno si andava progressivamente allungando, dal 1972 a oggi sono stati inseriti in tutto 27 leap second, riallineando così il tempo coordinato universale a quello scandito dagli orologi atomici. Come dicevamo, il calendario d’inserimento non è fissato a priori, ma varia in base alle necessità. Dal 1972 al 1979, ad esempio, sono stati inseriti nove secondi intercalari. Ma da qualche anno non è più stato necessario: l’ultima volta che si è dovuto far ricorso al secondo intercalare è stata nel 2016. Da allora più niente, anzi: dal 2020 la Terra, come mostra il grafico qui sopra, sembrerebbe aver aumentato la propria velocità di rotazione al punto da aprire le porte a uno scenario correttivo inedito: quello, appunto, di dover togliere un secondo, anziché aggiungerlo.

Ma quando? I primi calcoli portavano a prevedere che il ricorso al leap second negativo sarebbe avvenuto attorno al 2026. Poi però qualcosa è cambiato. Qualcosa che ha a che fare con il cambiamento climatico, dice lo studio di Agnew. Lo scioglimento dei ghiacciai in Groenlandia e Antartide causa una ridistribuzione delle masse d’acqua verso l’equatore. E di conseguenza – un po’ come accadrebbe a una ballerina che piroettando su se stessa allargasse le braccia – la velocità di rotazione riprende a rallentare, allontanando così lo spettro dell’utilizzo del leap second negativo. Di quanto? Di circa tre anni: stando ai calcoli di Agnew, il primo giorno in cui la differenza fra Utc e Ut1 supererà il secondo cadrà nel 2029. Concedendo così almeno tre anni di tempo in più per studiare e valutare meglio le conseguenze di quella che potrebbe non essere un’operazione indolore.

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Ricorso ai secondi intercalari dal 1972 a oggi. Crediti: Wikimedia Commons

«Un leap second negativo non è mai stato implementato. Ci sono sistemi che non sono stati progettati per affrontare questa situazione e il rischio di fallimento è sicuramente una preoccupazione per tutti gli utenti e i metrologi», osserva infatti Tavella che, al di là della preoccupazione, si mostra anche cauta nell’accettare le conclusioni dello studio di Agnew. «Purtroppo, gli esperti di rotazione terrestre e i diversi documenti disponibili non forniscono un parere chiaro e condiviso sulla previsione del prossimo secondo intercalare. A quanto mi risulta, possiamo osservare la rotazione terrestre, ma le sue variazioni sono dovute a cause troppo complesse, non siamo ancora in grado di prevederle con precisione e con un preavviso che vada oltre i sei mesi».

Secondo Tavella, inoltre, la questione non si pone solamente in termini di se e quando introdurre un secondo intercalare negativo, ma anche di come introdurlo. Negli anni, infatti, non tutti hanno agito allo stesso modo, rendendo necessaria una nuova presa di posizione. «C‘è chi i secondi intercalari non li applica, c’è chi spalma lo scarto applicando una correzione più lenta o più veloce», spiega, «e tutto ciò crea – nei giorni dei secondi intercalari – una grande confusione su quale sia l’ora effettiva. Per questo motivo, dopo 20 anni di discussioni, la Conferenza generale dei pesi e delle misure (Cgpm) del 2022 ha deciso che, dal 2035 se non prima, l’Utc continuerà sì a essere legato alla rotazione terrestre (Ut1), ma con una tolleranza maggiore».

«I dettagli relativi alla nuova tolleranza, la data esatta di attuazione e la procedura», continua Tavella, «saranno decisi alla prossima Cgpm del 2026. Gli esperti di metrologia stanno lavorando per preparare una proposta che possa rispondere alle esigenze degli utenti e al corretto utilizzo degli standard metrologici internazionali. Anche l’Unione internazionale delle telecomunicazioni, responsabile della trasmissione radio dei segnali di tempo e frequenza, ha approvato questa decisione. Negli anni ’70, per la navigazione celeste, era necessario uno stretto accordo tra l’Utc e la rotazione terrestre. Oggi possiamo estendere questa tolleranza e sarà quasi impossibile percepire una differenza di pochi minuti tra l’Utc e la posizione della Terra. In Europa si usa l’ora dell’Europa centrale dalla Polonia alla Spagna e il Sole non è esattamente sulla testa di tutti noi a mezzogiorno. In Cina si usa l’ora di Pechino in tutto il Paese, mentre la Cina si estende su 5 fusi orari».

Insomma, sarebbe solo una questione di convenzione, e non una necessità reale di fronte agli svantaggi che introdurre un leap second negativo potrebbe portare. Il tutto deve essere comunque deciso entro il 2035 e – è il caso di dirlo – senza perdere altro tempo. Per questo, Tavella conclude sottolineando «la necessità di modificare la pratica del leap second, che oggi rappresenta un rischio di anomalie che possono avere un impatto globale, molto più che il disagio emotivo di una maggiore tolleranza tra l’Utc e la rotazione terrestre».

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Due buchi neri con il singhiozzo


Un team di astronomi guidato da Dheeraj Pasham del Mit, e del quale fa parte anche Francesco Tombesi dell’Università di Roma Tor Vergata, ha scoperto un piccolo buco nero che, intersecando periodicamente il disco d'accrescimento d'un buco nero supermassic

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Simulazione al computer di un buco nero di massa intermedia che, orbitando attorno a un buco nero supermassiccio, provoca l’emissione periodica di flussi di gas. Crediti: Petra Sukova, Astronomical Institute of the Cas

Non s’era mai visto prima, un fenomeno simile. Un buco nero con il “singhiozzo”, lo hanno definito gli astrofisici. Uno spasmo alla settimana o poco più. Situata al centro di una galassia a circa 800 milioni di anni luce da noi, la sorgente identificata come Asassn-20qc, fino a qualche tempo fa anonima e tranquilla, s’è messa all’improvviso a eruttare in modo quasi periodico, emettendo un pennacchio di gas ogni otto giorni e mezzo, per poi tornare a placarsi.

Ad accorgersene è stato un team di astronomi guidato da Dheeraj Pasham del Mit, il Massachusetts Institute of Technology. Come spiegare un simile comportamento? Nello studio pubblicato ieri su Science Advances, l‘ipotesi ritenuta più probabile è che il responsabile dei singhiozzi sia un secondo buco nero. Un cosiddetto buco nero di massa intermedia, tra cento e diecimila volte quella del Sole, dunque più piccolo di quello supermassiccio al centro della galassia, orbiterebbe infatti attorno a quest’ultimo. Innescando l’emissione di potenti fiotti di materia – gli spasmi osservati ogni otto giorni e mezzo dagli astronomi – ogni volta che la sua traiettoria interseca il disco d’accrescimento del buco nero centrale, come illustrato nell’animazione.

«Questo lavoro», dice il secondo autore dello studio, l’astrofisico Francesco Tombesi dell’Università di Roma Tor Vergata, «dimostra un nuovo metodo per scovare sistemi di buchi neri binari. In particolare i buchi neri immersi nel disco di accrescimento di un buco nero supermassiccio, che altrimenti potrebbe apparire come un semplice nucleo galattico attivo».

«Un risultato», continua Tombesi, «che mette in discussione la nostra immagine tradizionale del disco di accrescimento di un buco nero supermassiccio. Uno scenario con un disco e possibilmente molti oggetti di massa stellare (buchi neri e stelle) che lo attraversano potrebbe essere più realistico della semplice immagine di un disco gassoso».

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Esplosioni termonucleari e getti relativistici


Lampi di raggi X improvvisi e luminosi, emessi dalla superficie delle stelle di neutroni in accrescimento, fanno brillare i loro getti immettendo gas extra al loro interno. I ricercatori hanno scoperto inoltre che il gas nel getto si muove a circa un terz

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Rappresentazione artistica di come le esplosioni nucleari su una stella di neutroni alimentano i getti che escono dalle sue regioni magnetiche polari. Crediti: Danielle Futselaar, Nathalie Degenaar, Anton Pannekoek Institute, University of Amsterdam

Un team internazionale di ricercatori guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha scoperto l’esistenza di una connessione tra le esplosioni termonucleari di raggi X che si verificano sulla superficie delle stelle di neutroni in accrescimento e i potenti getti emessi da queste sorgenti. I ricercatori hanno inoltre misurato per la prima volta, in maniera diretta, la velocità di un getto, migliorando la nostra comprensione sul loro meccanismo di lancio. I risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista Nature.

Le stelle di neutroni sono i resti di stelle massicce che hanno concluso la loro evoluzione con un’esplosione di supernova. Caratterizzati dall’avere un’enorme massa compressa in un volume molto piccolo – motivo per cui vengono anche chiamati ‘oggetti compatti’ – questi corpi celesti possono trascorrere tutta la loro esistenza in solitudine, ma possono anche fare coppia, nelle cosiddette binarie a raggi X (X-ray binaries, in inglese). Si tratta di sistemi astrofisici in cui una stella di neutroni (o un buco nero) attrae a sé materia dalla malcapitata stella compagna, utilizzandola a proprio vantaggio per aumentare di massa in un processo noto come accrescimento.

Una delle conseguenze di questo processo è l’accumulo di grandi quantità di materia sulla superficie della stella di neutroni. Con il progredire dell’accumulo, questa materia può raggiungere valori di temperatura e densità tali innescare potenti esplosioni termonucleari simili a quelle prodotte dalle bombe a idrogeno: improvvisi e luminosi lampi di luce X, di durata compresa tra i 10 e i 100 secondi, denominati burst di tipo I, il segno tangibile di un pasto abbondante in corso.

Nonostante la loro avidità, non tutta la materia in accrescimento viene però inghiottita dalla stella di neutroni: una parte viene infatti espulsa nello spazio sotto forma di potenti deflussi di materia collimati, osservabili anche nella banda radio dello spettro elettromagnetico: i cosiddetti getti.

Lanciati da tutti i sistemi binari con stella di neutroni o buco nero, questi getti sono studiati fin dagli anni ’70. Tuttavia, ci sono ancora molte domande aperte sul loro conto. Come vengono effettivamente lanciati? Qual è la relazione che lega il processo di accrescimento di un oggetto compatto e l’emissione di questi getti? E ancora, quanto velocemente vengono lanciati?

Ora, grazie a una articolata campagna di osservazioni in banda radio e X, un team internazionale guidato da ricercatori dell’Inaf, in collaborazione con scienziati dell’Agenzia spaziale europea (Esa), dell’Università di Amsterdam e della Texas Tech University, non solo ha scoperto che esiste una stretta connessione tra le esplosioni termonucleari e i getti, ma, per la prima volta, ha misurato la velocità di questi getti, parametro fondamentale per la comprensione del loro meccanismo di lancio.

«Gli oggetti compatti in accrescimento (buchi neri e stelle di neutroni) sono onnipresenti nell’universo», dice Thomas Russell, ricercatore all’Inaf di Palermo con una Inaf Astrophysics Fellowship (Iaf), e primo autore dello studio. «Questi oggetti non sono semplici aspirapolvere unidirezionali. Parte della materia in ingresso viene infatti sparata fuori sotto forma di deflussi di materia ed energia veloci e focalizzati, chiamati getti. Questi getti possono propagarsi verso l’esterno a velocità prossime a quella della luce, rilasciando enormi quantità di energia nell’ambiente circostante che possono condizionare la formazione stellare. Tuttavia, nonostante la loro importanza, attualmente non sappiamo come questi getti vengano lanciati. Il nostro studio fornisce uno strumento completamente nuovo per rispondere a questa importante domanda rimasta finora senza risposta».

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L’Australia Telescope Compact Array (Atca). Crediti: Alex Cherney/Csiro

Le stelle di neutroni oggetto dello studio sono quelle dei sistemi binari a raggi X 4U 1728-34 e 4U 1636-536, che mostrano entrambe frequenti esplosioni di raggi X di tipo I. Per ognuna delle due sorgenti, i ricercatori hanno condotto una campagna di osservazioni simultanee nell’X e nel radio. Le osservazioni in banda X, che tracciano il flusso di accrescimento della stella di neutroni, sono state condotte utilizzando il satellite Integral dell’Esa. Il monitoraggio in banda radio, che permette di studiare l’emissione dei getti, è stato condotto invece con l’Australia Telescope Compact Array (Atca), una schiera di sei antenne radio situate presso l’Osservatorio Paul Wild, in Australia, gestite dall’Agenzia scientifica nazionale australiana (Csiro).

L’obiettivo dei ricercatori era di individuare eventuali cambiamenti nell’emissione radio in seguito al verificarsi dei burst X di tipo I. E li hanno trovati: incrementi della luminosità radio, detti flare, sono stati osservati entro pochi minuti dopo ogni singola esplosione termonucleare.

Mettendo insieme tutti i pezzi del puzzle, la loro conclusione è che l’evoluzione dei getti è strettamente correlata a queste esplosioni.

«Grazie alla capacità di Integral di osservare ininterrottamente un oggetto celeste per circa tre giorni, abbiamo catturato quattordici burst X emessi da 4U 1728-34, che ci hanno permesso di determinare per la prima volta il loro impatto sull’evoluzione dei getti radio», sottolinea Erik Kuulkers, già project scientist della missione Integral presso l’Esa e co-autore dello studio. «Non sapevamo davvero cosa aspettarci. Inizialmente pensavamo che il ruolo di queste esplosioni sui getti fosse minimo. Tuttavia, le nostre osservazioni mostrano un impatto drammatico, in cui i burst potenziano la luminosità dei getti pompando ulteriore materia al loro interno».

Nello studio, i ricercatori sono riusciti anche a misurare la velocità dei getti del sistema binario 4U 1728-34 attraverso osservazioni a due diverse frequenze radio: a 5,5 e 9 gigahertz (GHz). Le frequenze più elevate provengono da regioni del getto più vicine alla stella di neutroni, mentre quelle più basse provengono da regioni più lontane.

«Poiché abbiamo le misure precise dei tempi di arrivo sia dei burst X che dei brillamenti radio, possiamo misurare la velocità con cui il materiale extra ha percorso il getto fino al punto in cui si sono verificati i flare», spiega Melania Del Santo, ricercatrice all’Inaf di Palermo e coautrice della pubblicazione. «Nel caso di 4U 1728-34 questa velocità risulta pari a 0,38 c, ovvero a un terzo della velocità della luce, corrispondente a circa 114mila chilometri al secondo. Si tratta di una velocità elevata, ma notevolmente inferiore rispetto a quella dei getti nei sistemi binari con buco nero, il cui valore stimato può essere anche superiore a 0,9 c».

La scoperta che i burst di raggi X di tipo I influenzano l’evoluzione dei getti e la determinazione della velocità di questi deflussi offre un modo completamente nuovo e robusto per comprendere quale sia il loro meccanismo di lancio, attualmente non ancora ben compreso. Ulteriori studi permetteranno di capire se il meccanismo di lancio sia basato sulla rotazione della stella di neutroni o sulla rotazione del suo disco di accrescimento.

«Ora che disponiamo di un metodo robusto per misurare la velocità dei getti, possiamo eseguire questo esperimento in sistemi binari in cui le stelle di neutroni hanno velocità di rotazione, masse e campi magnetici diversi», conclude Russell. «Con più di 120 stelle di neutroni nella nostra galassia che sappiamo produrre esplosioni di raggi X di tipo I, saremo in grado di determinare il meccanismo che guida il lancio di questi getti, confrontando la loro velocità con le proprietà del sistema binario».

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Guarda l’intervista a Melania Del Santo su MediaInaf Tv:

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Ecco il “nostro” buco nero in luce polarizzata


La prima immagine in luce polarizzata del buco nero supermassiccio Sagittarius A*, quello al centro della nostra galassia, mostra molteplici somiglianze con quella del buco nero di M87. Ottenuto dalla collaborazione Event Horizon Telescope, cui collaboran

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La collaborazione dell’Event Horizon Telescope, che ha prodotto la prima immagine in assoluto del buco nero al centro della Via Lattea, rilasciata nel 2022, ha catturato una nuova veduta di questo oggetto massiccio: il suo aspetto in luce polarizzata. Questa è la prima volta in cui gli astronomi sono riusciti a misurare la polarizzazione, un indicatore della presenza di campi magnetici, così vicino al bordo di Sagittarius A*. L’immagine mostra la veduta in luce polarizzata del buco nero della Via Lattea, la nostra galassia. Le linee sovrapposte all’immagine indicano l’orientamento della polarizzazione, legata al campo magnetico che circonda la zona chiamata l’ombra del buco nero. Crediti: Eht Collaboration. Fonte: Eso

La collaborazione scientifica Event Horizon Telescope (Eht) ha realizzato la prima immagine in luce polarizzata del buco nero supermassiccio Sagittarius A* (Sgr A*). Questa nuova immagine ha svelato la presenza di campi magnetici forti e organizzati che si sviluppano a spirale dal margine del buco nero al cuore della Via Lattea. Inoltre, ha rivelato che la loro struttura è sorprendentemente simile a quella dei campi magnetici del buco nero al centro della galassia M87, suggerendo che questi forti campi magnetici possano essere comuni ai buchi neri. Questa somiglianza suggerisce anche che vi possa essere un getto di materia nascosto in Sgr A*, così com’è in M87. I risultati sono stati pubblicati oggi su The Astrophysical Journal Letters.

«Il fatto che la struttura del campo magnetico di M87* sia così simile a quella di Sgr A* è significativo perché suggerisce che i processi fisici che governano il modo in cui un buco nero alimenta e lancia un getto potrebbero essere universali tra i buchi neri supermassicci, nonostante le differenze di massa, dimensione e ambiente circostante», spiega Mariafelicia De Laurentis, professoressa all’Università di Napoli Federico II e ricercatrice all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). «Questo risultato ci consente di affinare i nostri modelli teorici e le nostre simulazioni, migliorando la nostra comprensione di come la materia viene influenzata vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero».

La luce polarizzata è un’onda elettromagnetica che oscilla con un determinato orientamento. Nel plasma attorno ai buchi neri osservati, le particelle che ruotano attorno alle linee del campo magnetico determinano uno schema di polarizzazione perpendicolare al campo. Ciò consente di vedere con dettagli sempre più vividi che cosa stia accadendo nelle regioni dei buchi neri e di mappare le linee del loro campo magnetico. Dall’immagine della luce polarizzata proveniente dal gas caldo e incandescente vicino ai buchi neri, è possibile dedurre direttamente la struttura e la forza dei campi magnetici che attraversano il flusso di gas e materia che il buco nero inghiotte ed espelle. La luce polarizzata insegna quindi molto sull’astrofisica, sulle proprietà del gas e sui meccanismi che avvengono quando un buco nero si alimenta. Ma ottenere immagini in luce polarizzata dei buchi neri non è facile come osservare il mondo attorno a noi attraverso le lenti polarizzate di un paio di occhiali da sole. E questo è particolarmente vero per Sgr A* che muta assai velocemente, rendendo difficile catturare la sua immagine.

Essere riusciti a ottenere immagini di entrambi i buchi neri supermassicci in luce polarizzata è un grande risultato perché offre nuovi modi per confrontare e contrapporre buchi neri di diverse dimensioni e masse e, con il progredire della tecnologia, è probabile che le immagini rivelino ancora più segreti sui buchi neri e sulle loro somiglianze o differenze.

«In attesa di chiarire dove è stata originata una proprietà del segnale polarizzato (detta misura di rotazione) che abbiamo registrato a 230 GHz, ovvero se nelle nubi di gas che si trovano fra noi e Sgr A* o invece molto più vicino, nel plasma che lo circonda, questi nuovi risultati forniscono limiti stringenti sui modelli di accrescimento di Sgr A*. In futuro, combinando dati polarimetrici a 230 e 345 GHz, saremo in grado di conoscere meglio questi aspetti della natura del buco nero al centro della nostra galassia», dice Kazi Rygl, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Bologna.

La collaborazione scientifica Eht ha condotto diverse osservazioni dal 2017 e prevede di osservare nuovamente Sgr A* ad aprile. Ogni anno, le immagini migliorano man mano che Eht si arricchisce di nuovi telescopi, maggiore larghezza di banda e nuove frequenze di osservazione. Il potenziamento della capacità osservativa pianificato per il prossimo decennio consentirà di ottenere filmati ad alta fedeltà di Sgr A*: questo aumento di sensibilità e di dettaglio potrebbe portare a rivelare un getto di materia oggi ancora nascosto, e consentire agli scienziati di osservare caratteristiche di polarizzazione simili in altri buchi neri. Inoltre, estendere Eht nello spazio grazie al contributo di telescopi satellitari potrà fornire immagini dei buchi neri più nitide che mai.

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L’ammonio di Cerere, la (Vir)tù di Dawn


Osservati per la prima volta sali dell'ammonio su Cerere da un team di ricerca a guida Inaf. «La complessità chimica di questo pianeta nano è elevatissima, e le scoperte che ancora vengono fatte a quasi dieci anni dai primi dati acquisiti da Vir sulla mis

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Immagine di Cerere realizzata sulla base dei dati ottenuti dalla sonda Dawn della Nasa. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Ucla/Mps/Dlr/Ida

Per Giuseppe Piazzi che nel 1801 l’ha scoperto, Cerere era un puntino in movimento nell’oculare del suo cerchio di Ramsden. In epoca più recente, grazie a telescopi come l’Hubble space telescope e l’Herschel Space Observatory, l’oggetto celeste è diventato un piccolo corpo sfocato, di dimensione e forma nota, con una mineralogia complessa e vapore d’acqua in superficie. Ma è la missione Dawn della Nasa che ci ha restituito l’immagine del pianeta nano, com’è classificato dal 2006, per quel che realmente è: un potenziale mondo oceanico abitabile. Dopo la Terra, il corpo più ricco d’acqua del Sistema solare interno.

La missione Dawn è stata la prima e a oggi l’unica ad aver visitato il corpo celeste. Nei tre anni in orbita attorno a Cerere, dal 2015 al 2018, il veicolo spaziale ha mappato la geologia, la morfologia, la topografia, la struttura e la chimica del corpo celeste quasi a livello globale, rilevando tracce di un antico oceano di acqua salmastra subsuperficiale – una salamoia i cui resti potrebbero esistere ancora oggi in piccole sacche –, tracce di materia organica (localmente), di composti del carbonio (globalmente), di ghiaccio e di depositi di sale superficiali, segni di attività geologica recente e ancora in corso, nonché la presenza di un’esosfera.

Insomma, quello che Dawn ci ha restituito di Cerere è l’immagine di un mondo dal grande potenziale astrobiologico, strutturalmente differenziato, caratterizzato da una lunga storia di reazioni tra acqua liquida, roccia e composti organici; un mondo in cui è presente una chimica complessa e diversificata.

Grazie ai dati ottenuti dallo strumento Vir (Visible and infrared mapping spectrometer) a bordo della sonda – uno spettrometro finanziato dall’Agenzia spaziale italiana e realizzato da Leonardo sotto la guida scientifica dell’Inaf –, all’interno di caratteristiche formazioni geologiche chiamate faculae è stata rilevata la presenza di una straordinaria diversità di specie chimiche formatesi in ambienti acquosi. Fillosilicati, carbonati – in particolare carbonato di sodio – e cloruri come il cloruro di sodio idrato, il comune sale da cucina, sono alcune di queste specie chimiche.

Spulciando tra i 172 gigabyte di dati scientifici raccolti dalla sonda, un team di astronomi a guida Inaf ha ora rilevato, sempre all’interno delle faculae, sempre grazie allo strumento Vir, le tracce di un’ulteriore classe di composti, la cui presenza non solo aumenta la varietà e la complessità delle specie chimiche presenti su Cerere, ma sottolinea ancora una volta il grande potenziale astrobiologico di questo corpo celeste. Lo studio è pubblicato il 15 marzo scorso su Communications Earth & Environment, una rivista del gruppo Nature.

Nella ricerca, il team di scienziati, comprendente Maria Cristina De Sanctis, Filippo Giacomo Carrozzo, Mauro Ciarniello, Simone De Angelis, Marco Ferrari, Alessandro Frigeri e Andrea Raponi dell’ Inaf Iaps di Roma, ed Eleonora Ammanito dell’Asi, si è concentrato nello studio del cratere Dantu.

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Immagine a falsi colori del cratere Dantu. Crediti: Maria Cristina De Sanctis et al., Communications Earth & Environment, 2024

«Con un diametro di 126 km, il cratere Dantu è una delle strutture più importanti sulla superficie di Cerere», spiega a Media Inaf Maria Cristina De Sanctis, prima autrice della pubblicazione. «È un cratere relativamente giovane e con una mineralogia complessa, ed essendo uno dei crateri più profondi del pianeta nano, è una finestra sulla composizione del suo sottosuolo».

Una delle caratteristiche di questo cratere è la presenza di numerose faculae, che nell’insieme rappresentano il sistema spazialmente più esteso di tali formazioni geologiche al di fuori del cratere Occator, un altro dei grandi crateri di Cerere. Analizzando le immagini d’archivio del cratere ottenute dalle due framing camera della sonda – il sistema di telecamere scientifiche della missione – i ricercatori hanno identificato al suo interno due popolazioni distinte di faculae, con colori leggermente diversi: faculae bianche e faculae gialle; una dicotomia cromatica che si è rivelata essere anche una dicotomia composizionale.

Esaminando tutti gli spettri di queste faculae acquisiti dallo spettrometro Vir, gli scienziati hanno trovato nelle faculae bianche bande di assorbimento a circa 4 μm e 3.4–3.5 μm, insieme a bande di 2.73 e 3.07 μm: secondo i ricercatori sono la firma di carbonati di sodio mescolati con fillosilicati – composti presenti anche in altre faculae sparse su Cerere. Analizzando gli spettri Vir delle faculae gialle trovano però qualcosa che non si aspettavano. In questo caso negli spettri erano presenti caratteristiche di assorbimento a 3.07, 3.28 e 3.55 μm, bande associate associate alla presenza di specie chimiche diverse dai carbonati e dai sali precedentemente identificati: l’impronta di grandi quantità di composti ricchi di ammonio.

«In alcune di queste aree molto chiare, ci sono delle bande di assorbimento molto profonde nelle zone dello spettro elettromagnetico dove di solito si trovano gli assorbimenti dell’ammonio», sottolinea De Sanctis. «Inoltre, in alcuni casi, si nota una transizione tra aree ricche di fillosilicati ammoniati (ovvero argille che contengono ammonio), riconoscibili da bande di assorbimento specifiche, e queste faculae, che mostrano gli assorbimenti nello stesso range spettrale dei fillosilicati ammoniati, ma con intensità molto maggiori e con forme degli assorbimenti diversi. In aggiunta, tali faculae si trovano in una ampia regione di Cerere che era già stata identificata come quella più ricca di fillosilicati ammoniati».

A questo punto, la sfida dei ricercatori è stata quella di dare un nome e cognome a queste specie contenenti ammonio. Per riuscire nell’intento, hanno confrontato gli spettri delle faculae gialle con spettri già noti. Il risultato di questa indagine ha permesso di trovare il papabile candidato

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Maria Cristina De Sanctis dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’Inaf di Roma

«L’identificazione dei possibili composti viene fatta tramite riconoscimento degli assorbimenti, confrontandoli con i dati che vengono acquisiti in laboratorio su vari composti», aggiunge la ricercatrice. «Nel caso specifico qui descritto, abbiamo confrontato gli spettri delle faculae con moltissimi materiali ricchi di ammonio, anche facendo delle misure ad hoc nel nostro laboratorio. Il confronto viene fatto con dei metodi numerici che permettono di simulare uno spettro a partire da diversi composti miscelati tra loro in proporzioni variabili. Vengono fatti molti tentativi, fino ad ottenere il miglior risultato che simula lo spettro delle faculae di Cerere. Naturalmente, il risultato dipende fortemente dai materiali iniziali che vengono considerati nella simulazione. In questo caso, il miglior risultato è stato ottenuto con i dati del bicarbonato di ammonio»

La scoperta di questi composti su Cerere è rilevante per almeno tre motivi, spiegano i ricercatori. Il primo è che l’ammoniaca facilita i processi in soluzione acquosa e preserva i composti organici agendo da antigelo. Il secondo motivo è che l’individuazione di aree ricche di composti dell’ammonio suggerisce l’esistenza di complessi sistemi idrotermali che potrebbero essere alla base della circolazione di fluidi salini dall’interno del corpo celeste verso la superficie. Il terzo, infine, riguarda il fatto che nella sua forma ridotta l’ammoniaca può partecipare a numerose reazioni di chimica prebiotica.

«Azoto ed idrogeno, che costituiscono l’ammonio, insieme ad altri elementi, sono fondamentali nella chimica pre-biotica e biotica (ad esempio nella formazione degli amminoacidi)», ricorda a questo proposito De Sanctis. «Di conseguenza, la scoperta di nuovi materiali che sono di rilievo in tale contesto è molto interessante. Non dimentichiamo che Cerere mostra diversi elementi e molecole alla base della chimica organica, nonché molecole di organici alifatici. Mostra anche indicazioni di acqua liquida nel sottosuolo, in grado di risalire in superficie attraverso condotti e fratture; fratture che sono presenti anche nelle zone delle faculae qui studiate»

«La scoperta di questo nuovo composto (o mix di composti) arricchisce ulteriormente il numero di specie chimiche interessanti da un punto di vista astrobiologico, identificate sulla superficie di Cerere», conclude la ricercatrice. «La complessità chimica di questo pianeta nano è elevatissima, e le scoperte che ancora vengono fatte a quasi dieci anni dai primi dati acquisiti da Vir sulla missione Dawn indicano quanto questo target sia importante nella prossima esplorazione del Sistema solare».

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Ripristinata la “vista” della missione Euclid


La procedura di “sbrinamento” messa a punto per decontaminare le ottiche del satellite Esa Euclid da un sottilissimo strato di ghiaccio che ne comprometteva le osservazioni ha avuto buon esito: dopo aver riscaldato lo specchio più compromesso di soli 34 g

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Illustrazione artistica del satellite Euclid. Crediti: Esa

Era mezzanotte al centro di controllo dell’Agenzia spaziale europea (Esa) di Darmstadt, in Germania, quando il team che coordina le operazioni della missione Euclid ha “sbrinato” i primi due specchi del telescopio, la cui vista sopraffina si era andata via via affievolendo negli ultimi mesi a causa di un sottile quanto infausto strato di ghiaccio. «Siamo stati molto attenti alle tempistiche, assicurandoci di avere un contatto costante tra la sonda spaziale e la nostra stazione di terra a Malargüe, in Argentina, in modo da poter essere pronti a reagire in tempo reale in caso di anomalie», racconta Micha Schmidt, responsabile Esa per le operazioni della missione. «Per fortuna, tutto è andato come previsto. Quando abbiamo visto la prima analisi fornita dagli esperti scientifici, abbiamo capito che sarebbero stati molto contenti: il risultato è stato decisamente migliore di quanto potessimo aspettarci».

Euclid è l’ultima in ordine di lancio delle missioni scientifiche dell’Esa. Il suo obiettivo ambizioso – comprendere la natura della materia oscura e dell’energia oscura che dominano l’universo – richiede l’osservazione di miliardi di galassie negli ultimi dieci miliardi di storia del cosmo su circa un terzo del cielo. E non solo: occorre misurare con accuratezza senza precedenti la forma e la posizione di queste galassie. Le prime, spettacolari immagini di Euclid, rilasciate lo scorso novembre, indicano che la missione è in grado di raggiungere questo obiettivo. Ma poi, come già riportato su Media Inaf la scorsa settimana, si era iniziata a registrare una graduale diminuzione della luce proveniente da stelle lontane che entrava all’interno di Vis – uno dei due strumenti di bordo, quello dedicato alle osservazioni nella banda della luce visibile. A causare l’attenuamento della luce ricevuta da Vis erano pochi nanometri di ghiaccio d’acqua che si era accumulato sulle ottiche, che pur non compromettendo la definizione delle immagini comportava una significativa diminuzione della sensitività dello strumento. L’acqua è inevitabile nella costruzione di un satellite, poiché i laboratori e le camere pulite in cui le varie componenti vengono testate e integrate devono lavorare in ambienti umidi per evitare scintille nell’elettronica. Una piccola frazione di quest’acqua penetra alcuni dei materiali presenti: in particolare, l’isolante multi-strato che protegge le sonde può assorbire acqua fino all’un percento della sua massa. E l’acqua, nel gelo dello spazio profondo, si trasforma in ghiaccio.

Ci sono voluti mesi e un grande lavoro di squadra per ideare una procedura di decontaminazione che potesse riscaldare i singoli specchi nel complesso sistema ottico dello strumento, senza però interferire con la precisa calibrazione di Euclid oppure introdurre ulteriore contaminazione. Finalmente, la procedura messa a punto per rimuovere lo strato di ghiaccio sulle ottiche ha funzionato – anzi, si è rivelata addirittura più efficace di quanto auspicato.

Il piano era quello di riscaldare gli specchi all’interno di Euclid uno per volta, e poi in gruppi, un gruppo alla volta, per verificare progressivamente l’effetto delle operazioni sulla luce incidente. Si sospettava che fosse uno in particolare di questi specchi a creare più problemi, e così la procedura ha avuto inizio proprio da questo elemento.

«Il nostro principale indiziato, lo specchio più freddo dietro all’ottica principale del telescopio, è stato riscaldato da -147°C a -113°C», nota Mischa Schirmer del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, membro del consorzio Euclid e tra i principali artefici del piano di decontaminazione. «Non c’era bisogno di riscaldarlo molto, poiché nel vuoto questa temperatura è sufficiente a far evaporare rapidamente tutto il ghiaccio. E ha funzionato a meraviglia!». Ci avevano preso: dopo aver riscaldato il primo specchio di soli 34 gradi per circa un’ora e mezza, la vista di Euclid era già stata ripristinata, ricevendo il 15 per cento di luce in più dall’universo. «Sapevo che avremmo notato un miglioramento considerevole, ma non in modo così spettacolare», aggiunge Schirmer.

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La percentuale di luce raccolta dallo strumento Vis a bordo di Euclid durante il riscaldamento di uno degli specchi. Dopo circa un’ora e mezza, raggiunta la temperatura di sublimazione del ghiaccio (indicata dalla prima linea verticale rossa), la percentuale di luce ricevuta inizia ad aumentare. Da qui in poi il rilascio del ghiaccio procede rapidamente, e lo strato è stato sostanzialmente rimosso dopo altri 19 minuti, raggiunta la temperatura di –117 °C (seconda linea verticale rossa). Crediti: Esa/Euclid/Euclid Consortium

«Il problema della contaminazione da ghiaccio è piuttosto comune nelle missioni spaziali», sottolinea Anna Di Giorgio dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), che coordina il contributo italiano alla missione finanziato dall’Agenzia spaziale italiana. «La soluzione decisa per Euclid di eseguire una decontaminazione di tipo “chirurgico”, in cui i singoli elementi ottici del payload sono stati riscaldati poco e uno alla volta – per evitare di disturbare termicamente l’intero satellite, inficiando così molte delle calibrazioni fatte sino ad oggi – si è rivelata vincente. È stato possibile eseguire un monitoraggio continuo del guadagno sul flusso misurato in funzione delle superfici ottiche interessate di volta in volta dal riscaldamento e si sono ottenute informazioni preziose per ogni eventuale ripetizione del procedimento in futuro. Il guadagno di circa il 15 per cento nel flusso misurato è una prova della efficienza della procedura adottata e permette di confermare la possibilità di concludere la survey di un terzo del cielo nei limiti di luminosità previsti dall’inizio ed entro i sei anni di vita della missione».

Il successo della procedura di decontaminazione ha permesso al team di individuare il punto esatto in cui si era formato il ghiaccio e dove è probabile che si formi di nuovo. Per questo si continueranno a monitorare attentamente sia gli specchi di Euclid che la luce ricevuta da Vis, e i risultati di questo primo esperimento di “sbrinamento” diventeranno una componente fondamentale della missione.

«Ci aspettiamo che il ghiaccio offuscherà nuovamente la visione dello strumento Vis in futuro», commenta Reiko Nakajima dell’Argelander Institut für Astronomie di Bonn, membro del team dello strumento Vis. «Ma sarà semplice ripetere questa procedura di decontaminazione selettiva ogni 6-12 mesi e con un costo minimo per le osservazioni scientifiche o per il resto della missione».

Guarda l’intervista a Mischa Schirmer sul canale YouTube di Euclid Consortium (in inglese):

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Scoperto il 17esimo asteroide troiano di Marte


Scoperto lo scorso anno e confermato in un nuovo studio grazie alle osservazioni del Gran Telescopio Canarias, alle Canarie, il “nuovo” asteroide troiano di Marte si chiama 2023 FW14. Dopo Giove, il Pianeta rosso è quello che ha il maggior numero di troia

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Rappresentazione dei punti di equilibrio di Lagrange nel sistema Marte-Sole. I punti situati con un angolo di 60 gradi rispetto alla congiungente Sole-Marte sono L4 ed L5, dove si trovano gli asteroidi troiani. Crediti: Marspedia

È stato scoperto lo scorso anno ma ora, grazie alle osservazioni del Gran Telescopio Canarias, c’è la conferma: l’asteroide 2023 FW14 è un troiano di Marte, e sta accompagnando il pianeta rosso nel suo viaggio intorno al Sole, precedendolo sulla stessa orbita. Sale così a 17 il numero dei troiani attorno a Marte, anche se per l’ultimo arrivato c’è una differenza importante: alcune caratteristiche dell’orbita e della composizione chimica potrebbero indicare che si tratta di un asteroide catturato circa un milione di anni fa, di tipo primitivo, e che non rimarrà troiano per sempre. L’articolo che ne parla è stato pubblicato su A&A Letters.

Gli asteroidi troiani sono piccoli corpi del Sistema solare che condividono l’orbita di un pianeta, e si muovono assieme a questo insediandosi in uno dei punti di equilibrio stabile dell’orbita chiamati punti di Lagrange, situati 60 gradi davanti (L4) e 60 dietro (L5) al pianeta. Per capire meglio la configurazione in cui si trovano, potete guardare questo schema sulla destra. Al centro il Sole, mentre lungo il cerchio esterno – l’orbita di Marte, in questo caso – il pianeta e i suoi asteroidi troiani. I punti di equilibrio di Lagrange L4 ed L5 si trovano proprio calcolando angoli di 60 gradi rispetto alla linea che congiunge il Sole con il pianeta. Nel disegno, comunque vedete tutti e cinque i punti illustrati. Si tratta di uno schema ripetibile per qualunque pianeta in orbita attorno al Sole, quindi anche per la Terra. Il punto lagrangiano secondo, L2, situato a circa 1.5 milioni di chilometri dal nostro pianeta, ad esempio, è fra le mete preferite (e consuete) verso le quali si inviano telescopi spaziali come il James Webb, il satellite Gaia o Euclid.

Dopo la scoperta dell’asteroide, gli autori dell’articolo hanno effettuato simulazioni numeriche, dalle quali hanno avuto la conferma che 2023 FW14 è effettivamente un troiano L4 e che si muove davanti a Marte, precedendolo lungo l’orbita. È il secondo troiano conosciuto di questo tipo, dopo l’asteroide 1999 UJ7. Rispetto agli altri 16 troiani conosciuti c’è però una differenza fondamentale: mentre la maggior parte di questi sembra aver accompagnato il pianeta fin dall’epoca della sua formazione, 2023 FW14 sarebbe arrivato sulla sua traiettoria troiana circa un milione di anni fa e potrebbe lasciarla tra circa 10 milioni di anni, secondo i risultati delle simulazioni.

«Mentre l’evoluzione orbitale dei 16 troiani precedentemente conosciuti mostra una stabilità a lungo termine, l’orbita del nuovo troiano non è stabile», spiega Raul de la Fuente Marcos, ricercatore del Dipartimento di scienze della Terra e astrofisica dell’Universidad Complutense de Madrid, primo autore dell’articolo. «Ci sono due possibilità per la sua origine: potrebbe essere un frammento del troiano 1999 UJ7, oppure potrebbe essere stato catturato dalla popolazione di asteroidi vicini alla Terra che attraversano l’orbita di Marte».

Anche lo spettro ottenuto con il Gran Telescopio Canarias, presso l’Osservatorio Roque de los Muchachos, sull’isola di La Palma, che ha permesso ai ricercatori di individuare la composizione chimica di 2023 FW14, ha mostrato differenze rispetto al resto dei troiani marziani. Innanzitutto, l’asteroide non somiglia al suo compagno in L4 1999 UJ7, sebbene entrambi appartengano allo stesso gruppo di composizione, ovvero a quello degli asteroidi di tipo primitivo. Anche 1999 UJ7 sarebbe quindi stato catturato nell’orbita di Marte dall’esterno, circa 4 miliardi di anni fa. Inoltre 2023 FW14 (ma anche 1999 UJ7) sarebbe diverso anche dai troiani che si trovano in L5, tutti rocciosi e ricchi di silicati, e quindi parte di un’unica famiglia di asteroidi.

Si può quindi dire che 2023 FW14 sia una sorta di troiano di passaggio, catturato un milione di anni fa circa e il cui soggiorno in orbita marziana durerà almeno per i prossimi dieci milioni di anni. La possibilità che esistessero troiani catturati temporaneamente nell’orbita di Marte era stata teorizzata – per Marte ma anche per altri pianeti come Venere e la Terra – da due scienziati dell’università di Vienna nel 2012.

«Studiare i troiani reali, anziché solo quelli previsti matematicamente», conclude de la Fuente Marcos, «ci permette di testare l’affidabilità dei nostri modelli teorici».

Per saperne di più:



Encelado, la luna di Saturno, è l'obiettivo dell'ESA 2050 l Coelum Astronomia

Encelado è scelto come obiettivo strategico e principale del piano Voyage 2050 promosso dall'ESA nel 2021#Encelado #voyage2050



Specchi X forgiati da una “spada laser” ad acqua


Le avveniristiche “lenti” per raggi X del telescopio spaziale NewAthena dell’Esa, attualmente in costruzione nelle officine della società olandese cosine, impiegano la tecnologia a pori in silicio, e sono formate da moduli a più strati di wafer di silicio

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Il Laser MicroJet di Syniva in azione nelle officine di cosine, nei Paesi Bassi. Crediti: cosine

NewAthena – così si chiama ora la missione Athena rimodulata lo scorso anno per ottemperare al rescoping richiesto dall’Agenzia spaziale europea – sarà lanciata attorno al 2037 e avrà come compito lo studio dell’universo più caldo ed energetico: quello delle sorgenti che emettono raggi X. Per riuscirsi avrà bisogno di specchi molto speciali, in grado di riflettere i raggi X: specchi forgiati da una “spada laser” altrettanto speciale.

La vedete in azione nella foto qui a fianco. Prodotta dalla società svizzera Synova, si chiama Laser MicroJet ed è un dispositivo in grado di emettere un potente raggio laser incanalandolo verso il bersaglio attraverso un getto d’acqua sottile quanto un capello. Getto che agisce come una sorta di fibra ottica, presentando al tempo stesso numerosi vantaggi rispetto a un comune laser per il taglio di materiali. Anzitutto consente di raggiungere una “profondità di lavorazione” superiore, permettendo dunque di tagliare più campioni in parallelo. Inoltre l’acqua raffredda in continuazione la zona del taglio e asporta con efficacia i residui della lavorazione.

I materiali che Laser MicroJet sta in questi giorni lavorando all’interno delle officine di cosine, nei Paesi Bassi, sono wafer di silicio, simili a quelli normalmente utilizzati per produrre i chip in silicio industriali. Lastre di silicio, dunque, che opportunamente sagomate e sovrapposte andranno a costituire il cuore dei moduli di cui sarà fatto lo specchio – o forse sarebbe più corretto dire la lente – da 2,5 metri di diametro del telescopio di NewAthena. In totale, 678 moduli da 140 lastre di silicio ciascuno in grado di riflettere – grazie a una tecnologia d’avanguardia chiamata silicon pore optics (ottiche a pori in silicio) – i raggi X provenienti dalle più disparate sorgenti dell’universo e concentrali sul piano focale del telescopio.

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Uno dei 678 moduli che costituiranno lo specchio per raggi X di Athena. Crediti: Esa/cosine Research

«La tecnologia delle ottiche a pori in silicio è stata sviluppata da Esa, in partnership con la ditta cosine, allo scopo di realizzare le ottiche focalizzanti di telescopi a raggi X di grande apertura come – appunto – NewAthena, riducendo il più possibile la massa ma nel contempo mantenendo una risoluzione angolare ottimale», spiega a Media Inaf Daniele Spiga, primo tecnologo all’Inaf di Brera e membro del team NewAthena per le ottiche. «Le ottiche a pori in silicio sono ottiche modulari, nel senso che invece di realizzare degli specchi monolitici – come quelli realizzati con la tecnica di elettroformatura del nickel, adottata per BeppoSax, Xmm, Swift/Xrt e eRosita – si assemblano in una struttura portante un grande numero di moduli focalizzanti, ottenuti realizzando dei solchi all’interno di wafer di silicio che vengono successivamente impilati e curvati. Ogni modulo consiste perciò di una schiera di pori convergenti, in cui possono propagarsi i raggi X provenienti dalle sorgenti cosmiche ad alta energia. I raggi X vengono riflessi in radenza sulle superfici dei wafer, che sono lisce a livello nanometrico, e concentrati sul piano focale, a 12 metri di distanza. Tale tecnologia mira a ottenere una risoluzione angolare per NewAthena di 9 arcosecondi, con un’area efficace senza precedenti per un telescopio a raggi X (oltre 1.2 metri quadrati)».

«Anche l’Inaf di Brera», aggiunge Spiga, «è fortemente coinvolto nello sviluppo delle ottiche di NewAthena, specialmente sul versante dei test funzionali dei moduli ottici a pori in silicio con la facility a raggi X Beatrix, sviluppata dal nostro X-ray Optics team presso la sede di Merate, e con una facility di assemblaggio e calibrazione verticale (Vert-X) in collaborazione con la ditta Media Lario».

Guarda il video sul canale YouTube di cosine:

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I pericoli dell’illuminazione artificiale


« Io stessa sono stata sorpresa quando mi sono imbattuta negli studi sugli effetti negativi dell’illuminazione eccessiva su esseri umani, piante e animali, e mi sono chiesta come mai non sapessi quasi nulla di un argomento così importante anche per i suoi

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Patrizia Caraveo, “Troppa luce fa male. I pericoli dell’illuminazione artificiale”, Dedalo, 2024, 96 pagine, 12,50 euro

Se una (molto) ipotetica astronave aliena decidesse di osservare da vicino i pianeti rocciosi del Sistema solare noterebbe che gli emisferi in ombra di Mercurio, Venere e Marte sono immersi nell’oscurità mentre la Terra brilla di innumerevoli sorgenti luminose.

I nostri visitatori certamente non saprebbero a cosa attribuire questa straordinaria caratteristica, dal momento che non riuscirebbero a immaginare quali meccanismi naturali potrebbero essere responsabili di questo luccicante spettacolo. La loro perplessità sarebbe comprensibile, visto che il fenomeno che stanno ammirando non ha nulla di naturale: si tratta dell’illuminazione artificiale, uno degli interventi più globali della nostra civiltà sul pianeta Terra.

Gli esseri umani hanno tagliato foreste, deviato fiumi, costruito laghi, inquinato l’aria e l’acqua, ma la modifica più pervasiva all’ambiente naturale è anche la più immateriale: la luce artificiale che illumina la notte. Per millenni ci siamo dovuti accontentare di torce o di fumose lucerne, che troviamo in tutti i siti archeologici con ancora qualche frammento del grasso animale che veniva bruciato, poi sono venute le candele che hanno illuminato la reggia di Versailles e i gran balli di Napoleone. Nel frattempo venivano migliorate le lampade prima alimentate dal grasso delle balene, che venivano spietatamente cacciate per alimentare il fiorente mercato, per poi passare al petrolio o al gas. Le prime illuminazioni cittadine basate su lampade a gas, che venivano accese e spente manualmente, iniziano a funzionare in Inghilterra e in Francia nei primi decenni dell’800. Ma è stata l’elettricità, con l’invenzione della lampadina, a permetterci il grande salto di qualità.

L’illuminazione artificiale, nota con l’acronimo inglese ‘Alan’ per Artificial Light At Night, è una straordinaria conquista del genere umano, tanto che può essere considerata un’infrastruttura invisibile essenziale ed irrinunciabile per la nostra società. La luce artificiale è diventata un vero marchio di fabbrica dell’umanità, man mano che le nazioni migliorano il loro tenore di vita, aumenta l’illuminazione che si può considerare un indicatore della prosperità, ma anche della densità della popolazione e del consumo energetico.

Le misure da terra e dallo spazio, in effetti, ci dicono che la luce artificiale cresce molto più in fretta della ricchezza delle nazioni. Lo sapevamo dal confronto delle immagini prese dallo spazio nell’arco degli ultimi decenni, ma la recente introduzione della tecnologia Led, capace di massimizzare il rendimento energetico delle sorgenti luminose, ha portato a un ulteriore balzo luminoso.

I primi a studiare il fenomeno sono stati gli astronomi negli anni ’80 puntando il dito su una nuova forma di inquinamento immateriale ma onnipresente e in continua crescita: l’inquinamento luminoso. Il loro era un interesse professionale, dal momento che la luce artificiale disturba l’osservazione del cielo.

Ma non è solo l’astronomia a soffrire, la presenza delle luci artificiali è stata riconosciuta come un serio problema ecologico di proporzioni globali, in quanto modifica l’habitat di piante e animali.

Oltre a impedirci di godere dello spettacolo del cielo stellato, luci eccessive e del colore sbagliato hanno effetti negativi su tutti gli esseri viventi che si trovano costretti a vivere in un ambiente radicalmente diverso da quello naturale, da sempre governato dall’alternanza tra il giorno e la notte che la rotazione della Terra ha imposto a tutte le forme di vita. Cercando di sfruttare al meglio i regimi di luce naturale, si sono sviluppate nicchie ecologiche diurne e notturne. La notte è particolarmente popolare tra gli invertebrati, che contano il 60 per cento di specie notturne contro il 30 per cento dei vertebrati. Questo significa che hanno sviluppato capacità sensoriali adeguate alla poca luce disponibile, facendo affidamento sul ciclo lunare. L’illuminazione artificiale può alterare radicalmente tutto questo causando effetti avversi, purtroppo anche letali, alla vita selvatica.

Quindi, pur avendo una connotazione culturale e sociale molto positiva, l’illuminazione artificiale è, a tutti gli effetti, un inquinante e, come tale, deve essere usata responsabilmente per mitigare il suo impatto negativo sulla flora e sulla fauna del nostro pianeta. Nelle piante la luce artificiale stimola la crescita ma confonde l’orologio interno e disturba la sincronizzazione del ciclo vitale con le stagioni. Le luci attirano gli insetti e sono ritenute corresponsabili dello spaventoso calo delle popolazioni che gli scienziati denunciano con sempre maggiore preoccupazione. Le luci disturbano le rotte migratorie degli uccelli, interferiscono con la riproduzione e causano un gran numero di morti accidentali dovute all’impatto con i palazzi illuminati. Negli essere umani, l’illuminazione artificiale disturba l’orologio biologico che regola il ritmo circadiano del nostro corpo, alterando il ciclo del sonno e contribuendo all’insorgere di patologie.

Lo studio degli effetti biologici della luce è una disciplina relativamente recente, quindi non sentitevi in colpa se non ne avete mai sentito parlare. Io stessa sono stata sorpresa quando mi sono imbattuta negli studi sugli effetti negativi dell’illuminazione eccessiva su esseri umani, piante e animali, e mi sono chiesta come mai non sapessi quasi nulla di un argomento così importante anche per i suoi riflessi sociali. Mi sono convinta che occorreva parlare del problema per spiegare che illuminare meglio non è difficile: basta evitare di utilizzare luci intensamente bianche sia per illuminare gli spazi esterni, sia per le nostre case, dove dovremmo usare solo luci calde. Per limitare i danni l’illuminazione deve essere del colore giusto, non eccessiva, direzionale e “intelligente”, cioè accesa solo quando serve.

Non bisogna vivere al buio, basta fare attenzione alle luci che utilizziamo, cercando sempre di non esagerare, perché troppa luce fa male a noi e all’intero pianeta.



Shakti e Shiva, mattoncini stellari della Via Lattea


Khyati Malhan e Hans-Walter Rix, del Max Planck Institute for Astronomy, hanno identificato, grazie ai dati raccolti da Gaia, due tra i primi possibili gruppi di stelle che hanno formato la Via Lattea: Shakti e Shiva. Questi sembrerebbero essere i resti d

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Immagine della Via Lattea, con le stelle di Shiva rappresentate in verde e quelle di Shakti in rosa (cliccare per ingrandire). Crediti: S. Payne-Wardenaar / K. Malhan / Mpia

La storia primordiale della nostra galassia è stata caratterizzata probabilmente dall’unione di diverse galassie più piccole, di cui oggi dovremmo essere in grado di vedere i resti sotto forma di “blocchi di stelle”. Ora due astronomi del Max Planck Institute for Astronomy (Mpia), autori di in un articolo pubblicato la settimana scorsa su The Astrophysical Journal, sono riusciti a identificare due tra i primi possibili frammenti protogalattici. Si suppone che questi “blocchi” si siano fusi con una versione preistorica della Via Lattea circa tra i 12 e 13 miliardi di anni fa, all’inizio dell’era della formazione delle galassie nell’universo.

«Quello che trovo davvero sorprendente è che siamo in grado di identificare strutture così antiche», dice Khyati Malhan, primo autore dell’articolo. «La Via Lattea è cambiata così significativamente, da quando le stelle che le formano sono nate, che non ci aspetteremmo di riconoscerle così chiaramente come un gruppo; ma i dati senza precedenti che stiamo ottenendo da Gaia lo hanno reso possibile».

È infatti utilizzando i dati raccolti dal satellite Gaia che i due ricercatori sono stati in grado di identificare le orbite delle singole stelle nella Via Lattea, insieme alla loro composizione. «Quando abbiamo visualizzato le orbite di tutte queste stelle, due nuove strutture si sono distinte dal resto delle altre formazioni stellari d’una certa composizione chimica», aggiunge Malhan. «Le abbiamo chiamate Shakti e Shiva». La scelta dei nomi non è casuale: nella cultura induista Shiva e Shakti rappresentano la contrapposizione dei due principi cardine dell’universo – il primo è lo spirito, legato alla figura maschile, mentre il secondo rappresenta l’energia del mondo, connesso invece alla figura femminile.

Ciascuno dei due gruppi contiene una massa di circa 10 milioni di masse solari, con stelle di età compresa tra 12 e 13 miliardi di anni, tutte con orbite e composizione simili. Il modo in cui Shakti e Shiva sono distribuiti suggerisce che potrebbero essersi formati come frammenti distinti, per poi fondersi successivamente con la Via Lattea all’inizio della sua vita.

Sebbene molto simili, i due gruppi non sono identici: le stelle di Shakti orbitano un po’ più distanti dal centro della galassia e lungo orbite più circolari rispetto alle stelle di Shiva. Entrambi tendono comunque verso il cuore della Via Lattea. Gaia ha esplorato questa regione della nostra galassia nel 2022: dalle osservazioni si è notato che è piena delle stelle più antiche dell’intera galassia, tutte nate prima che il disco della Via Lattea si formasse nella sua interezza.

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Alcune delle popolazioni di stelle che si pensa possano aver formato la Via Lattea (cliccare per ingrandire). Crediti: Esa/Gaia/Dpac/K. Malhan et al. (2024)

Per il loro studio, Malhan e Rix hanno combinato i dati di Gaia con spettri stellari dettagliati provenienti dalla data release 17 della Sloan Digital Sky Survey, che ha fornito informazioni dettagliate sulla composizione chimica. «Le stelle lì presenti sono così antiche da non avere molti degli elementi più pesanti caratteristici invece delle stelle più giovani», aggiunge Rix, co-autore dell’articolo. «Le stelle nel cuore della nostra galassia sono povere di metalli. Non a caso abbiamo soprannominato questa regione il ‘povero vecchio cuore’ della Via Lattea».

«Fino a oggi, avevamo riconosciuto solo frammenti molto antichi che si sono uniti per formare il cuore primordiale della Via Lattea», continua Rix. «Con Shakti e Shiva, vediamo ora i primi pezzi che sembrano essere altrettanto antichi ma posizionati più lontano. Questi rappresentano i primi passi della crescita della nostra galassia verso la sua dimensione attuale».

Malhan e Rix hanno anche costruito una mappa dinamica di altri componenti conosciuti che hanno giocato un ruolo nella formazione della nostra galassia e sono stati scoperti utilizzando i dati di Gaia. Tra questi troviamo per esempio Gaia-Sausage-Enceladus, Lms-1/Wukong, Arjuna/Sequoia/I’itoi e Pontus: tutti gruppi stellari che fanno parte del complesso albero genealogico della Via Lattea, al quale Gaia ha lavorato nel corso dell’ultimo decennio.

«Rivelare di più sull’infanzia della nostra galassia è uno degli obiettivi principali di Gaia, ed è sicuramente sulla buona strada», dice Timo Prusti, project scientist per Gaia all’Esa. «Abbiamo bisogno di individuare le sottili ma cruciali differenze tra le stelle nella Via Lattea per capire come la nostra galassia si è formata ed evoluta. Questo richiede dati incredibilmente precisi, che grazie a Gaia siamo riusciti a ottenere».

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#DropSea: Un nuovo modo di vedere l'universo


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E proviamo a raccontare l'ultima proposta cosmologica per abbandonare la #materiaoscura

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Stelle gemelle, divoratrici di mondi


Il team internazionale del progetto Astro-3D ha analizzato la luce e la composizione chimica di quasi cento coppie di stelle “gemelle” – stelle nate insieme e nella stessa nube molecolare – usando il Very Large Telescope dell'Eso, il Magellan Telescope il

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Rappresentazione artistica di una stella che “mangia” un pianeta. Crediti: Nasa, Esa e G. Bacon (Stsci)

Forse non inquietanti come le gemelle Lisa e Louise in Shining di Stanley Kubrick, ma anche le coppie di stelle gemelle hanno sicuramente comportamenti peculiari e molto curiosi, tanto da suscitare l’interesse degli astronomi. Uno studio pubblicato questa settimana su Nature rivela che almeno una stella su dodici potrebbe aver inghiottito un pianeta.

Utilizzando il satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea, un team internazionale guidato dai ricercatori del progetto australiano Astro-3D (Arc Centre for All Sky Astrophysics in 3D) ha osservato stelle gemelle, relativamente vicine l’una all’altra – meno di un milione di unità astronomiche di distanza – e probabilmente “nate” nello stesso periodo, cercando di dedurne la composizione chimica elementare.

In generale, quando le molecole vengono riscaldate emettono spettri di lunghezze d’onda della luce unici, dai quali è possibile risalire agli elementi chimici di cui sono composte. Poiché le molecole stellari sono esposte a temperature molto elevate, gli scienziati che analizzano la luce proveniente da stelle lontane possono dunque carpire anche i segreti della loro composizione chimica. L’individuazione delle firme chimiche dovute all’eventuale “ingestione” di un pianeta è tuttavia molto difficile, sia a causa dell’ampiezza spesso molto contenuta del segnale prodotto sia per la composizione dei campioni stellari, spesso eterogenei e di età differenti. Il confronto fra gli spettri di stelle gemelle – quelle nate insieme, appunto – si rivela perciò utilissimo: assumendo che le due stelle abbiano identica composizione chimica, l’individuazione negli spettri di firme dovute ai pianeti risulta infatti facilitata.

Nel caso riportato nello studio, per analizzare in dettaglio la luce di stelle co-natali, gli scienziati hanno utilizzato il Very Large Telescope dell’Eso e il Magellan Telescope, entrambi in Cile, e dalle Hawai il Keck Telescope. E hanno concentrato la propria attenzione su 91 coppie di stelle gemelle. Ciò che hanno scoperto è sorprendente: in circa l’8 per cento dei casi le stelle gemelle presentano differenze significative nella loro composizione. In pratica, in circa una coppia su 12 c’è una stella con una composizione chimica diversa rispetto alla gemella, suggerendo dunque che una delle due stelle abbia inghiottito pianeti o materiale planetario.

«Abbiamo osservato stelle gemelle che viaggiano insieme, nate dalla stessa nube molecolare e quindi teoricamente con composizioni chimiche identiche», spiega Fan Liu, ricercatore di Astro-3D della Monash University e autore principale dell’articolo. «Grazie quest’analisi di altissima precisione, siamo stati in grado di cogliere differenze chimiche tra le due stelle. Segno che molto probabilmente una delle stelle ha inghiottito pianeti o materiale planetario, alterando così la propria composizione».

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Illustrazione artistica di una stella divoratrice di pianeti. Immagine: Nasa / Cxc / M. Weiss

Il fenomeno dell’ingestione di pianeti ha implicazioni profonde per la comprensione dell’evoluzione dei sistemi planetari. Fino a poco tempo fa, si pensava che gli eventi di ingestione planetaria fossero rari e limitati alle fasi finali della vita di una stella: la nuova ricerca suggerisce, al contrario, che non solo le giganti rosse ma anche le stelle che stanno attraversando la fase di sequenza principale, dunque ancora nel pieno della sua vita, possano inghiottire materiale planetario.

Rimane però un dubbio: le stelle “divorano” interi pianeti o si cibano di porzioni di materiale protoplanetario circostante? «È una questione complicata», dice Liu. «L’ingestione dell’intero pianeta è il nostro scenario favorito, ma naturalmente non possiamo escludere che queste stelle abbiano invece ingerito materiale in abbondanza da un disco protoplanetario».

I risultati ottenuti hanno implicazioni di ampio respiro e potrebbero cambiare la nostra comprensione dei sistemi planetari, che ora sappiamo essere estremamente instabili e soggetti a eventi catastrofici come l’ingestione da parte della loro stella madre. «Prima d’ora, gli astronomi tendevano a ritenere che questo tipo di eventi non fosse possibile. Ma dalle nostre osservazioni, al contrario, possiamo dedurre che, sebbene la loro frequenza non sia elevata, è effettivamente possibile che avvengano tali fenomeni», conclude Yuan-Sen Ting, coautore dello studio e ricercatore qll’Australian National University (Anu).

Per saperne di più:





Trovata in un’altra galassia una stella antichissima


Con il satellite Gaia e il Magellan Telescope un team di scienziati, guidati da Anirudh Chiti dell’Università di Chicago, ha trovato nella Grande Nube di Magellano una delle più antiche stelle formate in una galassia diversa dalla nostra. Lo studio, oltre

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Immagini della Grande Nube di Magellano, una galassia caduta nella nostra miliardi di anni fa, in infrarosso. Crediti: Nasa/Jpl

Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatte le stelle e la nostra piccola vita è cinta di stelle. Il ferro che scorre nelle nostre vene, il calcio che forma i nostri denti e il sodio che alimenta i nostri pensieri sono tutti nati nel cuore di una stella morta da molto tempo. La prima generazione di stelle ha cambiato l’universo; all’interno dei loro nuclei idrogeno ed elio si fondono per creare una vasta gamma di elementi. Quando queste stelle morirono, esplosero e sparsero questi nuovi elementi per tutto l’universo.

Nessuno è stato finora in grado di trovare una di queste stelle di prima generazione, ammesso che ne rimangano nell’universo, ma gli scienziati non demordono, e giusto mercoledì scorso hanno annunciato in un articolo su Nature Astronomy una scoperta unica: una stella di seconda generazione che originariamente si formò in una galassia diversa dalla nostra.

«Questa stella fornisce una finestra unica sul primissimo processo di formazione degli elementi in galassie diverse dalla nostra», spiega Anirudh Chiti, ricercatore post-dottorato alla University of Chicago e primo autore dell’articolo. «Ci siamo fatti un’idea di come queste stelle, che sono state chimicamente arricchite dalle prime stelle, appaiono nella nostra galassia, ma ancora non sappiamo se alcune delle caratteristiche che le contraddistinguono siano uniche, o se invece le cose siano andate più o meno allo stesso modo anche nelle altre galassie».

Chiti è specializzato in quella che viene chiamata archeologia stellare: ricostruire come le prime generazioni di stelle hanno cambiato l’universo. «Vogliamo capire quali fossero le proprietà di quelle prime stelle e quali furono gli elementi che produssero», dice Chiti.

Per rispondere a queste domande Chiti e i suoi colleghi cercano le stelle che si sono formate dai resti della prima generazione. Il problema della ricerca è che ormai anche la seconda generazione è incredibilmente antica e rara: la maggior parte delle stelle nell’universo — compresa la nostra — sono infatti il risultato di decine o migliaia di generazioni, che accumulano elementi sempre più pesanti dalle precedenti.

«Forse meno di 1 stella su 100mila nella Via Lattea è una di queste stelle di seconda generazione», dice Chiti. «È davvero come cercare un ago in un pagliaio». Ma è un’impresa che vale comunque la pena portare avanti, se si vuole comprendere la storia dell’universo. «Nei loro strati esterni, queste stelle preservano gli elementi vicini al luogo in cui si sono formate», spiega il ricercatore. «Se riesci a trovare una stella molto antica e a ricavarne la composizione chimica, puoi capire quale fosse la composizione chimica dell’universo nel luogo in cui si è formata quella stella, miliardi di anni fa». Le stelle, infatti, formandosi “raccolgono” gli elementi del mezzo interstellare in cui si trovano e li preservano pressoché inalterati negli strati esterni.

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La Grande e la Piccola Nube di Magellano sono le due chiazze biancastre visibili nell’angolo in basso a destra di quest’immagine della Via Lattea (cliccare per ingrandire) acquisita dal satellite Gaia della European Space Agency. Crediti: Esa/Gaia/Dpac

Per questo studio, Chiti e i suoi colleghi hanno puntato i loro telescopi verso un obiettivo insolito: le stelle che compongono la Grande Nube di Magellano, una luminosa fascia di stelle visibile a occhio nudo nell’emisfero australe.

Distante appena 160mila anni luce dalla Via Lattea, dunque nostra “vicina di casa”, gli astronomi ritengono che in origine fosse una galassia separata dalla nostra, e che sia stata catturata dalla gravità della Via Lattea solo pochi miliardi di anni fa. Ciò la rende particolarmente interessante, perché le sue stelle più antiche si sono formate al di fuori della Via Lattea, offrendo agli astronomi la possibilità di scoprire se le condizioni nell’universo primordiale erano tutte uguali o se erano diverse in altri luoghi.

Utilizzando prima il satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea e poi il Magellan Telescope, in Cile, gli scienziati sono riusciti a catalogare dieci stelle particolarmente antiche. Una di queste stelle, in particolare, è subito balzata all’occhio per una sua anomalia: la quantità di elementi pesanti in essa contenuti è enormemente inferiore a quella di qualsiasi altra stella mai vista nella Grande Nube di Magellano. Ciò significa che probabilmente si è formata sulla scia della prima generazione di stelle, senza dunque aver potuto ereditare gli elementi più pesanti, accumulati dalle stelle nel corso di ripetuti cicli vitali.

Mappando gli elementi di questa stella peculiare, gli scienziati sono rimasti sorpresi anche nel vedere che conteneva molto meno carbonio che ferro rispetto a quello che vediamo nelle stelle della Via Lattea. «È un fatto molto intrigante, e suggerisce che, forse, l’aumento del carbonio della prima generazione, osservato nella Via Lattea, non è un fenomeno universale», nota Chiti. «Dovremo fare ulteriori studi, ma ciò suggerisce che ci siano differenze da luogo a luogo».

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I Magellan Telescopes del Las Campanas Observatory, in Cile, che gli scienziati hanno utilizzato per mappare il profilo essenziale delle stelle antiche. Crediti: Carnegie Institution for Science

«Penso che stiamo completando il quadro di come doveva apparire il processo di arricchimento degli elementi iniziali in diversi ambienti», dice il ricercatore.

I risultati ottenuti stanno anche corroborando altri studi che suggerivano che la Grande Nube di Magellano producesse molte meno stelle rispetto alla Via Lattea.

Chiti sta ora conducendo un programma di imaging per mappare un’ampia porzione del cielo meridionale, sempre in cecra delle prime stelle possibili. «La nostra scoperta suggerisce che, se guardiamo da vicino, dovrebbero esserci molte di queste stelle nella Grande Nube di Magellano», conclude l’astronomo. «È davvero emozionante scoprire l’archeologia stellare della Grande Nube di Magellano ed essere in grado di mappare in modo così dettagliato come le prime stelle abbiano arricchito chimicamente l’universo in diverse regioni».

Per saperne di più:



Ad Abano Terme, “Donne fra le stelle”


Da venerdì 22 a domenica 24 marzo, ad Abano Terme (Pd), si terrà la terza edizione di “Donne fra le stelle”, un convegno di astronome, astronaute e ingegnere dello spazio per valorizzare il ruolo della donna nella ricerca scientifica astronomica e nel set

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Locandina dell’evento (cliccare per ingrandire)

Secondo un rapporto Unesco del 2021 solo il 30 per cento delle donne si laurea in discipline Stem e, nell’Unione europea, solo il 33.8 per cento delle donne lavora nel mondo della ricerca. In Italia il 39 per cento dei laureati nelle discipline Stem è donna ma, secondo uno studio dell’Università Cattolica di Milano, pubblicato sulla rivista The Lancet Regional Health Europe, riguardo la parità di genere nel mondo della ricerca l’Italia è al terzultimo posto fra i paesi europei.

Qualche passo avanti è stato fatto, ma la strada per le donne nella carriera scientifica è ancora lunga. Per questo è importante infondere fiducia nelle giovani attraverso l’esempio e l’esperienza di donne di successo nella carriera scientifica. Donne come le ventidue scienziate e ricercatrici provenienti dai principali istituti e centri di ricerca europei nel campo della fisica, astronomia, astronautica, astrofisica e ingegneria aerospaziale che si racconteranno, come donne e come professioniste, il 22, 23 e 24 marzo ad Abano Terme (Pd), durante la terza edizione di “Donne fra le stelle”. Fra loro anche due astrofisiche dell’Inaf: Bianca Poggianti, direttrice della sede di Padova, e Patrizia Caraveo, della sede di Milano.

«Questo evento mette in luce il contributo fondamentale delle donne alla ricerca astrofisica e aerospaziale in Italia», dice a Media Inaf Poggianti, che domani pomeriggio interverrà durante la sessione dedicata alla ricerca di base e al racconto delle leggi che regolano l’universo. «Mi auguro, e sono convinta, che possa essere un’occasione per attrarre giovani donne interessate a questi argomenti e incoraggiarle a intraprendere questa strada».

«Oltre a questa finalità, che definirei generale, l’evento si focalizzerà sul ruolo delle donne in questo settore e sui problemi che devono affrontare e risolvere per poter affermare la loro professionalità», aggiunge Caraveo, che nella mattinata di sabato interverrà durante la sessione delle 11.30 intitolata “Sistema solare e sue dinamiche”, assieme all’astrofisica padovana Monica Lazzarin. «Inaf, negli ultimi anni, ha dimostrato un interesse crescente alla questione della parità di genere: la percentuale di donne tra le giovani leve di ricercatori e ricercatrici è migliore rispetto alla media europea, perché si aggira intorno al 40 per cento. Rimane, purtroppo, una differenza molto più pronunciata nelle posizioni apicali, dove le donne sono meno del 20 per cento, anche se la situazione è in miglioramento. Diversa la situazione nelle industrie dove si è imparato a fare più attenzione alla presenza femminile, anche se i numeri sono meno confortanti di quelli del mondo scientifico. Anche qui, purtroppo, si nota l’esiguità delle donne nelle posizioni di più alta responsabilità. Le relatrici di “Donne fra le stelle” hanno storie da raccontare e modelli di ruolo da offrire per ispirare tutti gli ascoltati, giovani e meno giovani».

Accompagnamento costante durante i tre giorni sarà l’attore e cantante Riccardo Mei, voce narrante di numerosi programmi Rai (Superquark, Kilimangiaro, Voyager, Rai Storia, Freedom oltre il confine…) e di documentari del National Geographic, e che si esibirà in un concerto jazz nella serata di sabato.

Il convegno si svolgerà principalmente presso il Teatro Marconi di Abano Terme, e nei dintorni avranno luogo anche alcune attività collaterali di stampo divulgativo. Nella piazza del Sole e della Pace, antistante il Teatro Marconi, chiunque avrà l’opportunità di osservare il cielo notturno e diurno con i telescopi messi a disposizione gratuitamente dal Gruppo astrofili di Padova, partner dell’evento. Vi saranno anche workshop gratuiti per i bambini con attività laboratoriali di disegni e osservazione al telescopio, fino al rilascio di un attestato di partecipazione con la foto sulla riproduzione dell’Apollo 11. Nella piazza sarà infatti presente anche l’installazione in riproduzione 1:1 del modulo di allunaggio dell’Apollo 11 realizzato da Y40 The Deep Joy, oltre che un’esposizione di astrofotografie. Infine, una novità di questa edizione è anche l’assegnazione del Premio nazionale per la divulgazione scientifica spaziale dedicato a Rossella Panarese, giornalista di Radio3 Scienza, e dedicato a ricercatori, giornalisti, studiosi, autori, registi, blogger che con il loro impegno e attraverso la loro arte di comunicatori hanno contribuito a divulgare la scienza spaziale.

Per prendere parte all’evento di persona, di seguito il programma completo, giorno per giorno. Per chi è lontano, invece, “Donne fra le stelle” verrà anche trasmesso anche in diretta streaming dalla pagina Facebook dell’iniziativa.

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Il programma dettagliato (cliccare per ingrandire) della terza edizione di “Donne fra le stelle”, che si terrà il 22, 23, 24 marzo ad Abano Terme (Pd), al Teatro Marconi



Alle origini del cerio, l’accendino dell’universo


Un team di ricerca internazionale guidato dall’Istituto nazionale di fisica nucleare ha svelato uno degli enigmi sulla produzione di cerio nell’universo. I risultati dell'esperimento, proposto da Sergio Cristallo dell'Istituto nazionale di astrofisica, so

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Elaborazione grafica dell’ammasso globulare M22 con le risonanze la sezione d’urto misurata (in basso a destra) e l’apparato dei rivelatori utilizzato a n_Tof. Crediti: Esa/Hubble & NASA – modificata da D. Santonocito

Il cosmo, un enorme laboratorio di reazioni nucleari, nasconde ancora molti segreti. Una nuova ricerca, guidata dall’Istituto di fisica nucleare (Infn) con la partecipazione dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), pubblicata oggi sulla rivista Physical Review Letters e condotta al Cern presso l’esperimento n_Tof, getta luce sul mistero della produzione di cerio nell’universo, ponendo nuove domande stimolanti sulla nucleosintesi stellare e l’evoluzione chimica delle galassie.

Sebbene non sia famoso, il cerio è un elemento chimico fondamentale, qui sulla Terra. Fa parte delle cosiddette terre rare, al giorno d’oggi fondamentali per le più avanzate applicazioni tecnologiche ma anche per oggetti utilizzati quotidianamente da miliardi di persone nel mondo: senza il cerio, ad esempio, non funzionerebbero gli accendini.

Nello studio, n_Tof è stato utilizzato come sorgente di fasci di neutroni che riproduce alcune delle reazioni da essi indotte, determinanti in vari campi di ricerca, tra cui la fisica medica, l’astrofisica nucleare e la produzione di energia. Le misure portate avanti a n_Tof sono state affiancati da sofisticati modelli teorici, utili a comprendere la produzione degli elementi chimici nell’universo, a partire dal Big Bang, fino ad arrivare ai processi di cattura neutronica lenta e veloce, che avvengono – rispettivamente – nelle stelle Agb e durante le fasi finali dell’evoluzione delle stelle massicce.

Le abbondanze degli elementi più pesanti del ferro osservati nelle stelle (come stagno, argento, oro e piombo) si possono riprodurre dal punto di vista teorico ipotizzando l’esistenza di due processi di cattura neutronica: il processo di cattura neutronica lenta (o processo s, dall’inglese slow) e il processo di cattura neutronica veloce (o processo r, dall’inglese rapid). I flussi neutronici che li caratterizzano sono di circa 10 milioni di neutroni per centimetro cubico e più di un milione di miliardi di miliardi di neutroni per centimetro cubico, rispettivamente. Tanto per intenderci, il processo s produce circa la metà degli elementi più pesanti del ferro presenti nell’universo. Il cerio è uno di essi.

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n_Tof (abbreviazione di “neutron time of flight”, tempo di volo del neutrone) è una sorgente di fasci di neutroni in funzione al Cern di Ginevra. Crediti: Cern

Relativamente raro nella crosta terrestre, nell’universo il cerio è leggermente più abbondante e lo scopo della ricerca condotta a n_Tof è stato proprio la misurazione della sezione d’urto della reazione nucleare dell’isotopo 140 del cerio con un neutrone per produrre l’isotopo 141, un meccanismo chiave per il processo di cattura lenta di neutroni. Questa reazione, svolgendo un ruolo cruciale nella sintesi di elementi pesanti nelle stelle, è stata misurata a tutte le energie di interesse astrofisico con un’accuratezza senza precedenti, inferiore al 5 per cento. La sezione d’urto è una grandezza fisica adoperata per descrivere un processo di interazione tra particelle; la sua misura è importantissima in fisica nucleare per risalire ai meccanismi dinamici delle singole reazioni e quindi alle interazioni nucleari. Proprio attraverso la misura delle sezioni d’urto – intese come il numero di eventi rivelati per unità di tempo da un determinato rivelatore, ovvero la grandezza fisica che esprime la probabilità che una reazione avvenga – si ricavano informazioni relative alle forze nucleari.

«La misura che abbiamo effettuato ci ha permesso di identificare risonanze nucleari mai osservate prima nell’intervallo di energie coinvolte nella produzione del cerio nelle stelle», spiega Simone Amaducci, dei Laboratori nazionali del Sud dell’Infn e primo autore dello studio. «Questo grazie all’altissima risoluzione energetica dell’apparato sperimentale ed alla disponibilità di un campione purissimo di cerio 140».

L’esperimento, che ha utilizzato la prima linea di accelerazione dei protoni del Cern – ovvero quelli che poi finiranno, con energie molto più grandi, all’interno del grande acceleratore Lhc –, è stato proposto da Sergio Cristallo dell’Inaf d’Abruzzo, e apre nuovi interrogativi sulla natura e sulla composizione chimica dell’universo. Un aspetto intrigante della scoperta riguarda una discrepanza significativa tra le previsioni sulla quantità di cerio sintetizzata nelle stelle e le osservazioni spettroscopiche di stelle arricchite dal processo s nell’ammasso globulare M22. «Quello che ci ha incuriosito, all’inizio», ricorda a questo proposito Amaducci, «è stata una discrepanza tra i modelli stellari teorici e i dati osservativi del cerio nelle stelle dell’ammasso globulare M22, nella costellazione del Sagittario».

«I nuovi dati nucleari», osserva Cristallo, «sono significativamente diversi da quelli presenti nelle “librerie nucleari” utilizzate attualmente, persino del 40 per cento, decisamente oltre l’incertezza stimata».

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Apparato di misura utilizzato presso la facility n_Tof del Cern. Lo scopo di n_Tof è studiare le interazioni neutrone-nucleo. Crediti: Simone Amaducci/Infn

I risultati delle ultime misurazioni n_Tof hanno notevoli implicazioni astrofisiche, suggerendo una riduzione del 20 per cento del contributo del processo s all’abbondanza di cerio nella galassia. Questo cambiamento avrà un impatto significativo sulla nostra comprensione dell’evoluzione chimica galattica, con conseguenze anche per la composizione di elementi più pesanti.

Inaspettatamente, i nuovi risultati nucleari portano nella direzione opposta rispetto a quella necessaria per risolvere questa discrepanza tra teoria e osservazione. «È necessario un “cambio di paradigma” nell’interpretazione della nucleo sintesi del cerio», sostiene Cristallo, «che includa l’esistenza di altri processi fisici, al momento non considerati nei calcoli di evoluzione stellare».

La ricerca influenzerà i vari modelli stellari, migliorando le stime teoriche dell’abbondanza di cerio nelle stelle. «I nuovi dati nucleari sono fondamentali per determinare la “robustezza” dei dati spettroscopici delle grandi campagne osservative – quali Gaia, Apogee e Galah – fornendo chiavi essenziali per comprendere le differenze nei dati raccolti», conclude Cristallo. «Questi dati fisici di alta precisione, come la sezione d’urto appena misurata, sono utilissimi per minimizzare le incertezze presenti nei calcoli teorici stellari e potrebbero essere utilizzati come “cartina di tornasole” per identificare i dati spettroscopici migliori».

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Il sogno di Ulisse Aldrovandi in mostra a Roma


Da venerdì 22 marzo a domenica 21 luglio 2024, la Sala della Balena del Museo civico di zoologia di Roma ospiterà la mostra “Oltre lo spazio, oltre il tempo. Il sogno di Ulisse Aldrovandi”, un intreccio di arte e scienza, curiosità e scoperta, realtà e fa

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Crediti: Fondazione Golinelli, Sma/Unibo

Da venerdì 22 marzo a domenica 21 luglio 2024, la Sala della Balena del Museo civico di zoologia di Roma ospiterà la mostra “Oltre lo spazio, oltre il tempo. Il sogno di Ulisse Aldrovandi”, un intreccio di arte e scienza, curiosità e scoperta, realtà e fantasia. Prodotta da Fondazione Golinelli e Sistema museale di ateneo dell’Università di Bologna, la mostra è realizzata con la collaborazione dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), che ha fornito oggetti e strumenti astronomici.

“Oltre lo spazio, oltre il tempo. Il sogno di Ulisse Aldrovandi” gode di una cornice d’eccezione, incastonata tra gli scheletri dei dinosauri e i barriti degli elefanti del vicino Bioparco. Cosa c’entri in tutto questo lo spazio e l’astrofisica lo si scopre solo seguendo il percorso espositivo, in un viaggio immaginario tra passato e futuro che parte dal mondo conosciuto per tratteggiarne altri, infiniti, ancora sconosciuti.

Il binomio arte e scienza

La mostra nasce e si snoda sullo stimolante binomio arte-scienza e gravita attorno alla figura di Ulisse Aldrovandi, uno dei più grandi naturalisti del sedicesimo secolo, al quale lo scorso anno è stata dedicata la prima edizione della mostra, realizzata al Centro arti e scienze Golinelli di Bologna.

Nel percorso espositivo si riconoscono le due anime del naturalista bolognese: c’è lo scienziato, scrupoloso osservatore della realtà, e c’è l’artista, che si spinge a immaginare scenari destinati, con il progredire della scienza, a diventare la nuova realtà. Arte e scienza si tengono per mano nel suggestivo allestimento realizzato da diverserighestudio, che fonde opere d’arte, oggetti e reperti delle collezioni museali romane e bolognesi a exhibit tecnico-scientifici immersivi e interattivi, fino a strumenti, immagini e video astronomici, provenienti dalle due sedi Inaf di Bologna (Oas) e Roma (Iaps) e dall’Agenzia spaziale europea (Esa).

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Fra gli oggetti esposti, qui in primo piano uno dei modelli di qualifica delle antenne a 30 GHz del telescopio spaziale Planck dell’Esa. Crediti: F. Villa/Inaf

Il percorso espositivo

All’inizio della mostra i visitatori potranno rivivere, con un salto nel metaverso, l’esperienza allestita un anno fa nel Centro arti e scienze di Bologna. Tra sculture, installazioni e quadri di epoche diverse e celebri artisti, l’apertura del percorso espositivo coincide con l’ingresso dell’umanità nella storia e accompagna i visitatori attraverso l’epoca della rivoluzione scientifica, tappa cruciale che ha consentito all’uomo di aprirsi alla modernità e sfruttare le infinite possibilità che conoscenza e immaginazione, e di nuovo arte e scienza, gli offrono.

La riproduzione dello studio “ideale” di Aldrovandi è una vera e propria stanza delle meraviglie, con tavole acquerellate, dipinti d’epoca, opere contemporanee a sfondo naturalistico e trattati su mostri e prodigi soprannaturali.

Solo qualche passo avanti nella mostra per ritrovarsi diversi passi più in là nel futuro. Grazie alla realtà virtuale i visitatori potranno infatti scoprire le recenti frontiere interplanetarie raggiunte dall’uomo, sperimentare alcune delle condizioni in cui l’umanità si troverà a vivere in un futuro non troppo lontano e perfino scoprire gli odori dell’universo tramite particolari installazioni olfattive. Una collezione di oggetti e opere d’arte, speculare a quella dello studio di Aldrovandi, porterà il pubblico a interrogarsi sul destino dell’umanità e su un futuribile, ma sempre più possibile, viaggio verso altri mondi.

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Fabrizio Villa (Inaf, a sx) con uno dei curatori della mostra, Antonio Danieli (Fondazione Golinelli, a dx). Crediti: Fondazione Golinelli, Sma/Unibo

Il contributo Inaf

Anche l’universo è una grande stanza delle meraviglie, come quella che Aldrovandi aveva iniziato a sognare ed esplorare e che gli astrofisici costruiscono ogni giorno con dati e immagini dello spazio. Nel percorso espositivo i materiali e i contributi dell’Inaf proietteranno i visitatori dal “qui e ora” verso un viaggio fino agli albori dell’universo e in mondi inesplorati. «Tra lo spazio e il tempo c’è l’astrofisica», dice Fabrizio Villa, responsabile dei contenuti Inaf Oas per la mostra. «Abbiamo voluto inserire come oggetti espositivi alcune tecnologie di frontiera utilizzate a bordo del satellite Planck dell’Esa, proprio per testimoniare la capacità dell’uomo di arrivare lontano nello spazio e indietro nel tempo. È importante che in questo viaggio di scoperta noi scienziati rimaniamo un po’ sognatori, guardando al passato con un piede nel futuro, come Aldrovandi ci ha insegnato».

«Pensando al futuro è inevitabile parlare di esplorazione spaziale», aggiunge Livia Giacomini, responsabile dei contenuti Inaf Iaps per la mostra. «Siamo nel secolo della corsa verso altri pianeti e gli astrofisici di oggi sono gli esploratori dell’universo. I campioni analoghi marziani presenti nella mostra provengono da veri e propri laboratori a cielo aperto in diverse parti del mondo, che sono uno specchio sulla Terra di altri mondi affascinanti e misteriosi«.

O mostruosi, come avrebbe detto Ulisse Aldrovandi.

Guarda il trailer della mostra:

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I tesori di Europa Clipper


Europa Clipper, la missione della Nasa con destinazione la luna gioviana Europa, continuerà la consolidata tradizione dell’agenzia spaziale statunitense, portando con sé varie testimonianze della nostra civiltà, per lo più incise su una lastra triangolare

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Il lato della lastra rivolto verso l’esterno presenta rappresentazioni visive della parola “acqua” in 103 lingue, che si estendono radialmente a partire da un simbolo centrale che raffigura il segno dell’acqua nel linguaggio americano dei segni. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

È ormai consuetudine per la Nasa “imbarcare” sulle sue sonde spaziali messaggi ispiratori, dalla placca dei Pioneer, al Voyager Golden Record, alle varie decorazioni portate a bordo dei rover marziani. Europa Clipper, la missione della Nasa in partenza il 10 ottobre 2024 verso la luna gioviana Europa, non sarà da meno e continuerà questa tradizione portando con sé diverse testimonianze della nostra civiltà, per lo più incise su una placca triangolare di tantalio, di circa un millimetro di spessore e una dimensione di circa 18 x 28 centimetri, facente parte della struttura che proteggerà l’elettronica di Europa Clipper dalle radiazioni potenzialmente dannose di Giove.

L’acqua è il sottile filo rosso che lega il nostro pianeta alla luna di Giove, Europa. La missione Europa Clipper è stata progettata per verificare l’esistenza di un vasto oceano sotto la superficie ghiacciata di Europa, che la renderebbe un luogo promettente per studiare l’abitabilità oltre la Terra. Questo elemento comune – l’acqua – ha ispirato il team di Europa Clipper a “personalizzare” la suddetta placca in un modo originale.

Il lato della placca rivolto verso l’esterno presenta infatti rappresentazioni visive della parola “acqua” in ben 103 lingue diverse, che si estendono radialmente a partire da un simbolo centrale che raffigura il segno dell’acqua nel linguaggio americano dei segni. Linguisti professionisti hanno contribuito a raccogliere un campione variegato e inclusivo di lingue provenienti da tutto il mondo. Ciò che è inciso sulla lastra sono le registrazioni audio di queste parole sotto forma di forme d’onda, ovvero rappresentazioni visive di ciascun suono. Se volete provare anche voi a “vedere” la parola acqua pronunciata in varie lingue, potete usare il generatore di forma d’onda della Nasa.

Dall’altro lato della placca sono presenti diverse incisioni.

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La metà superiore della lastra del caveau di Europa Clipper, che mostra l’equazione di Drake con la scrittura di Frank Drake. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

Nella parte alta e stretta, è incisa nella calligrafia dell’astrofisico e astrobiologo Frank Drake, scomparso nel 2022, la famosa Equazione di Drake: un tributo all’idea visionaria dell’ideatore che la probabilità di trovare vita nel cosmo sia qualcosa che possiamo stimare. Più che un’equazione, si tratta di una formula matematica che indica la possibilità di trovare nella Via Lattea civiltà avanzate capaci di comunicare, e che ha guidato e ispirato la ricerca scientifica in vari campi legati all’astrobiologia.

In basso a sinistra è presente uno schizzo disegnato a mano e la firma di Ron Greeley (1939-2011), che è stato uno dei fondatori del campo della scienza planetaria, contribuendo a gettare le basi per gli sbarchi sulla Luna degli astronauti delle missioni Apollo. Greeley ha lavorato a tante missioni di scienza planetaria e, come membro del team della sonda Galileo, ha guidato e sviluppato la strategia di imaging di Europa. I suoi primi sforzi per sviluppare una missione su Europa, iniziati due decenni fa, hanno gettato le basi per la missione Europa Clipper. È stato un mentore per molti ricercatori, alcuni dei quali sono attualmente membri del team scientifico di Europa Clipper.

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La metà inferiore della lastra del caveau di Europa Clipper, che mostra la poesia di Ada Limón (in basso a destra), un disegno che rappresenta il sistema gioviano che ospiterà i nomi di 2,6 milioni di persone che volano con la missione su un microchip (in alto a destra), un omaggio allo scienziato planetario Ron Greely (in basso a sinistra) e le linee di emissione radio note come “Water Hole” (al centro). Crediti: Nasa/Jpl-Caltech

A destra del ritratto sono incise le righe di emissione dell’idrogeno a 1420 megahertz e dell’idrossile a 1660-1666 megahertz. Le frequenze comprese tra questi due estremi costituiscono quello che gli astronomi chiamano water hole, relativamente silenziose rispetto al rumore di fondo e che quindi sono state considerate ideali da alcuni ricercatori per la comunicazione interstellare. Queste linee rappresentano un collegamento tra l’acqua e la ricerca di vita oltre la Terra. Costituiscono anche un modo scientifico e matematico di esprimere la parola “acqua”: i simboli chimici dell’idrogeno e dell’idrossile, H e OH, rappresentano i prodotti della scissione delle molecole d’acqua (H2O). Come l’equazione di Drake, le linee rappresentano la nostra capacità di usare il linguaggio della scienza per inseguire la nostra curiosità.

Al centro della placca è riportata una poesia originale della poetessa statunitense Ada Limón, incisa con la sua stessa calligrafia. La poesia (che si può leggere integralmente qui) collega i due mondi acquatici: la Terra, che desidera raggiungere e capire cosa rende un mondo abitabile, ed Europa, che attende con i suoi segreti ancora da esplorare.

Infine più in alto, tra la poesia e l’equazione di Drake, c’è una bottiglia collocata all’interno di un disegno che rappresenta il sistema gioviano e le orbite delle sue quattro lune maggiori. La bottiglia è il simbolo della campagna della Nasa Message in a Bottle. Fino al 31 dicembre 2023 è stato infatti possibile firmare con il proprio nome la poesia di Ada Limón, incidendolo su un microchip di silicio delle dimensioni di un’unghia, che viaggerà verso la luna di Giove a bordo della sonda spaziale. E sono oltre 2,6 milioni le persone che hanno “imbarcato” il loro nome sul microchip che salperà il prossimo autunno verso uno dei (pochi) luoghi nel Sistema solare in cui potrebbe esserci la vita. Alla ricerca dell’acqua.



Il satellite Swift è in safe mode


Il 15 marzo, l'osservatorio Swift della Nasa è entrato in modalità di sicurezza, sospendendo temporaneamente le operazioni scientifiche a causa del deterioramento delle prestazioni di uno dei suoi tre giroscopi, che servono a mantenere il puntamento nel c

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Da alcuni giorni il satellite della Nasa Swift è entrato in safe mode, una modalità di emergenza nella quale i satelliti si rifugiano quando qualcosa non funziona a dovere, rimanendo in attesa che da terra qualcuno capisca il problema e lo risolva. L’osservatorio ha quindi sospeso tutte le attività scientifiche e si limita a sopravvivere, con i pannelli solari orientati in direzione del Sole, in modo da avere sempre il massimo della potenza garantita, e l’antenna verso terra.

The Swift Observatory went into safe mode on March 15 due to a degrading gyro. Science operations are temporarily suspended while the team works on a solution to operate with its remaining gyros. The rest of the spacecraft remains in good health. t.co/sMeWcwPEZ7 pic.twitter.com/VorBtsCyAz

— NASA Universe (@NASAUniverse) March 18, 2024

In questo caso, occorre precisarlo, non si tratta di una vera sorpresa, né c’è da indagare sulla causa che ha innescato il safe mode. Il guasto era nell’aria: uno dei tre giroscopi del satellite ha smesso di funzionare, e occorre effettuare un aggiornamento del software di bordo per insegnare a Swift a cavarsela usando solamente i due giroscopi rimanenti.

«Era ormai qualche mese che il nostro Swift aveva problemi di puntamento. Questo era dovuto all’aumento nel rumore di fondo in uno dei tre giroscopi a bordo del satellite», spiega a Media Inaf Sergio Campana, ricercatore all’Inaf di Milano (Brera) e responsabile della calibrazione del telescopio Xrt a bordo del satellite. «I giroscopi hanno infatti la funzione di mantenere l’orientamento del satellite rispetto alle stelle fisse, e quindi stabilizzare il puntamento di una sorgente. «Quindi, c’erano state delle avvisaglie. Fin dalla sua progettazione più di vent’anni fa, comunque, il satellite aveva contemplato la possibilità che uno dei giroscopi potesse avere dei problemi. Una soluzione adottata anche in seguito all’esperienza del telescopio spaziale Hubble. Swift può quindi funzionare in modo pressoché identico anche con due giroscopi attivi. Abbiamo deciso di fermare le osservazioni in modo da caricare sul computer di bordo e testare il nuovo software per far funzionare il satellite con due giroscopi attivi ed essere pronti per lo studio delle onde gravitazionali».

Lanciato nel 2004, Swift osserva l’universo ad alta energia da quasi 20 anni. Swift ospita tre telescopi a più lunghezze d’onda che raccolgono dati nella luce visibile, ultravioletta, dei raggi X e dei raggi gamma. È famoso per le sue osservazioni sui gamma-ray burst, le esplosioni più potenti dell’universo.

«Il 3 aprile prossimo partirà il nuovo run osservativo degli interferometri gravitazionali (il cosiddetto O4b) a cui Swift darà un contributo unico», continua Campana, «cercando in tempo reale la controparte elettromagnetica nei raggi X e nella banda più blu dello spettro ottico».



Il cubesat Milani è pronto per la missione Hera


Giovedì scorso il cubesat Milani è stato consegnato ufficialmente a Hera, missione europea di difesa planetaria il cui lancio è previsto nell’ottobre 2024 e che avrà il compito di studiare il sistema binario di asteroidi Didymos e Dimorphos. A bordo del n

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Il cubesat Milani. Crediti: Tyvak International

La scorsa settimana, giovedì 14 marzo, il cubesat Milani è stato consegnato ufficialmente al team di Hera, missione europea di difesa planetaria – con lancio previsto nell’ottobre 2024 – che avrà il compito di studiare il sistema binario di asteroidi Didymos e Dimorphos e compiere una valutazione dettagliata del test dell’impattatore cinetico Dart della Nasa. Il passaggio di consegne è avvenuto a Torino presso la sede di Tyvak International, dove il nanosatellite è stato realizzato. Prossima tappa sarà il centro Esa Estec, nei Paesi Bassi, dedicato alla ricerca e la tecnologia spaziale. Qui il cubesat stazionerà fino al lancio per la fase di integrazione e la successiva convalida del sistema di collegamento intersatellitare con Hera e Juventas, l’altro piccolo veicolo spaziale della missione, dedicato all’imaging radar. Milani e Juventas saranno i primi cubesat dell’Esa a operare nello spazio profondo.

«Questo è un risultato fondamentale per noi», spiega Margherita Cardi, vicepresidente dei programmi di Tyvak International e responsabile del programma Milani. «Milani è ora pronto per essere consegnato all’Esa e per essere sottoposto ai test di sistema con Hera, per garantire la validazione delle interfacce e della comunicazione end-to-end prima del lancio. Il viaggio non è finito, ma siamo un passo più vicini a Didymos».

Milani è un veicolo spaziale grande quanto una scatola di scarpe e incorpora una telecamera a luce visibile, un altimetro laser e un inseguitore di stelle per la navigazione, oltre a un sistema di propulsione a gas freddo. Il piccolo satellite effettuerà il rilevamento di Dimorphos e Didymos in una gamma di colori più ampia di quella visibile all’occhio umano, e sarà in grado di identificare la loro composizione minerale analizzando nel frattempo anche l’ambiente polveroso che circonda i due asteroidi. Il sistema di collegamento intersatellitare tra la navicella madre Hera e i due minisatelliti consentirà di monitorare i piccoli spostamenti dovuti alla forza di attrazione gravitazionale degli asteroidi, consentendo quindi di valutare la loro massa.

Durante la fase di crociera di Hera verso Didymos – che durerà circa due anni – i due piccoli satelliti saranno custoditi all’interno dei Deep Space Deployers, dopodichè verranno rilasciati uno alla volta e in modo parziale per verificare la funzionalità di ciascun CubeSat. Infine, saranno dispiegati alla velocità di pochi centimetri al secondo perché una velocità maggiore potrebbe causare una fuga nello spazio a causa della bassa gravità. Mentre Hera orbiterà a circa dieci chilometri di distanza dagli asteroidi, Milani si avventurerà a quote inferiori, avvicinandosi fino a due chilometri dalla superficie. Poiché non sarà possibile far orbitare il minisatellite intorno al sistema Didymos in modo tradizionale a causa della sua bassa gravità, Milani effettuerà una serie di “archi iperbolici” nelle sue vicinanze grazie a una serie di fly-by in cui i suoi propulsori aggiusteranno regolarmente la direzione del volo per permettergli di restare il più vicino possibile alla superficie dell’asteroide.
Dopo questa fase, Milani tenterà un atterraggio su Dimorphos per cercare di raccogliere dati preziosi sulle proprietà della superficie dell’asteroide.

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La consegna del cubesat Milani presso l’azienda Tyvak International Srl a Torino. Da sinistra: Andrea Longobardo (Inaf Iaps, team Vista), Diego Scaccabarozzi (Politecnico di Milano), Emiliano Zampetti (Cnr), Ian Carnelli (project manager della missione Hera), Ernesto Palomba (Inaf Iaps, responsabile scientifico dello strumento Vista), Fabrizio Dirri (Inaf Iaps, team Vista), Chiara Gisellu (Inaf Iaps, team Vista). Crediti: C. Gisellu

A bordo di di Milani si trovano due strumenti scientifici: Aspect e Vista. Aspect (Asteroid Spectral Imager) è uno spettrometro per immagini, sviluppato dal centro di ricerca tecnica finlandese Vtt, costituito da quattro sensori posti ai lati di Milani, con il compito di immortalare gli asteroidi nel visibile e nel vicino infrarosso. Il secondo strumento a bordo di Milani è Vista (Volatile In-Situ Thermogravimetre Analyser), di fabbricazione italiana e a guida scientifica Inaf. È un rivelatore di polveri basato sull’uso di cristalli di quarzo: per la precisione, un microtermogravimetro, sviluppato da un team interamente italiano guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica in collaborazione con il Politecnico di Milano e il Cnr. Il suo compito sarà individuare l’acqua e altre specie volatili intorno ai due asteroidi.

«Vedere concretizzarsi l’idea che ho avuto quasi 15 anni fa, ovvero mandare una microbilancia per misurare polveri e composti volatili nello spazio, è stato molto emozionante», dice a Media Inaf Ernesto Palomba, dirigente di ricerca all’Inaf Ipas di Roma e responsabile dello strumento Vista. «Nel caso di Hera la sfida era molto impegnativa, ovvero realizzare uno strumento pronto per essere lanciato nello spazio in meno di due anni. In questi mesi tutto il gruppo di ricerca ha dovuto lavorare alacremente e in maniera totalizzante al progetto».

«Sulla Terra la stessa tecnologia di precisione dello strumento Vista viene utilizzata nei laboratori di analisi e per controllare i processi di deposito di film sottili di materiale. Il nostro strumento la utilizzerà per identificare l’acqua e altre specie volatili intorno agli asteroidi, nonché la presenza di polvere. Speriamo che il nostro strumento possa continuare a funzionare anche sulla superficie di Dimorphos» conclude Palomba.



Cicloni e anticicloni su Giove


Hubble monitora Giove e gli altri pianeti esterni del Sistema solare ogni anno nell'ambito del programma Outer Planet Atmospheres Legacy. Questi giganti gassosi sono infatti avvolti da nubi e nebbie sollevate da venti violenti, che cambiano ed evolvono co

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Ogni anno il telescopio spaziale Hubble passa in rassegna i giganti gassosi del Sistema solare per fare il punto sulle loro condizioni meteo. Lo fa in maniera sistematica dal 2014, quando è cominciato un programma osservativo, l’Outer Planet Atmospheres Legacy (Opal), che ha lo scopo di monitorare le variazioni atmosferiche dei pianeti esterni, quelli con orbite più esterne rispetto a quella di Marte, formati appunto in prevalenza da gas. Il 5 e 6 gennaio 2024 è stato il turno di Giove. Le immagini le vedete qui sotto.

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I due emisferi del pianeta Giove osservati da Hubble il 5 e 6 gennaio 2024 nell’ambito del programma osservativo di monitoraggio delle atmosfere dei pianeti esterni Opal. Crediti: Nasa, Esa, J. DePasquale (Stsci), A. Simon (Nasa-Gsfc)

A causa della maggiore distanza, la luce solare ha una capacità inferiore, rispetto a quanto avviene nell’atmosfera terrestre, di guidare la circolazione atmosferica dei pianeti gassosi esterni. Il clima di Giove, ad esempio, è guidato dal calore proveniente dall’interno. Questo calore, maggiore rispetto a quello del Sole, determina indirettamente i cicli di cambiamento di colore nelle nubi, come quello che sta attualmente evidenziando un sistema di alternanza di cicloni e anticicloni.

Le ultime immagini scattate dal telescopio Hubble sono quelle che vedete qui, e che catturano entrambi i lati del pianeta. Sono state prese con la Wide Field Camera 3 e con l’utilizzo di tre filtri: blu, verde e rosso. Qui potete invece trovare quelle scattate lo scorso anno.

Cominciamo dall’immagine di sinistra. Abbastanza grande da inghiottire la Terra, la caratteristica Grande Macchia Rossa non può mancare. È un tratto distintivo dell’atmosfera del pianeta da almeno 300 anni. In basso a destra, a una latitudine più meridionale, si trova un’altra macchia, più piccola per dimensioni e meno appariscente nella colorazione. Forse proprio per questo talvolta viene soprannominata ‘Macchia Rossa Jr’. Questo anticiclone è il risultato dell’unione di diverse tempeste nel 1998 e nel 2000, si è colorato di rosso per la prima volta nel 2006 per poi tornare a un pallido beige negli anni successivi. Quest’anno è di nuovo un po’ più rosso. L’origine della colorazione rossa è sconosciuta, ma potrebbe riguardare una serie di composti chimici come zolfo, fosforo o persino materiale organico. Rimanendo nelle loro corsie in latitudine, ma muovendosi in direzioni opposte, la Macchia Rossa Jr incrocia la Grande Macchia Rossa ogni due anni circa. Se aguzzate la vista, infine, potete scorgere un altro piccolo anticiclone rosso appare molto più a nord.

Passiamo ora all’attività temporalesca nell’emisfero opposto, l’immagine di destra. Qui si trovano una coppia di tempeste: un ciclone rosso intenso di forma quasi triangolare e un anticiclone rossastro, uno accanto all’altro, spostati un poco a destra rispetto al centro. Si tratta di tempeste che ruotano in direzioni opposte, indicano l’alternanza di sistemi di alta e bassa pressione e dovrebbero rimbalzare l’una sull’altra perché le loro rotazioni opposte in senso orario e antiorario le fanno respingere.

Verso il bordo sinistro dell’immagine si vede una delle lune galileiane, la più interna: Io, il corpo più attivo dal punto di vista vulcanico del Sistema solare, nonostante le sue dimensioni ridotte (solo poco più grande della luna terrestre). Hubble è in grado di risolvere i depositi vulcanici presenti in superficie.



Un milione di quasar per Gaia


Grazie ai dati del telescopio spaziale Gaia dell'Agenzia Spaziale Europea, gli scienziati sono riusciti a realizzare un catalogo di quasar distribuiti in quello che è il volume più grande mai mappato dell'universo osservabile. Si chiama Quaia, raccoglie c

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Impressione artistica di un quasar. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Joseph Olmsted (Stsci)

Sebbene l’obiettivo principale del telescopio spaziale Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea sia quello di mappare le stelle della nostra galassia, durante la scansione del cielo individua anche oggetti al di fuori della Via Lattea, come quasar e altre galassie. È proprio grazie a questi dati – che potremmo definire impropriamente “di scarto” – che gli scienziati sono riusciti a realizzare un catalogo di quasar distribuiti in quello che è il volume più grande mai mappato dell’universo osservabile.

Il catalogo si chiama Quaia ed è stato presentato in un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal. Raccoglie circa 1,3 milioni di quasar – pensate che i più lontani brillavano quando l’universo aveva solo 1,5 miliardi di anni – e potrebbe aiutare a comprendere meglio le proprietà della materia oscura.

I quasar sono nuclei galattici attivi, ossia galassie alimentate da buchi neri supermassicci attivi al centro delle galassie stesse, e possono essere centinaia di volte più luminosi di un’intera galassia. Quando l’attrazione gravitazionale del buco nero fa spiraleggiare il gas circostante, si genera un disco di accrescimento estremamente luminoso e talvolta getti che i telescopi possono osservare. Le galassie in cui si trovano i quasar sono circondate da massicci aloni di materia oscura. Così, studiando i quasar gli astronomi possono indagare la materia oscura.

«Siamo stati in grado di effettuare misurazioni del modo in cui la materia si aggrega nell’universo primordiale con una precisione pari a quella di alcuni dei principali progetti di survey internazionali, il che è piuttosto notevole se si considera che abbiamo ottenuto i nostri dati come ‘bonus’ dal progetto Gaia, focalizzato sulla Via Lattea», spiega Kate Storey-Fisher del Donostia International Physics Center in Spagna, prima autrice dello studio.

«Questo catalogo di quasar è diverso da tutti i cataloghi precedenti perché ci fornisce una mappa tridimensionale del volume più grande dell’universo», afferma David Hogg, del Flatiron Institute’s Center for Computational Astrophysics di New York City. «Non è il catalogo con il maggior numero di quasar e non è il catalogo con le misure di migliore qualità dei quasar, ma è il catalogo con il più grande volume totale dell’universo mappato».

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Crediti: Esa/ Gaia/ Dpac; Lucy Reading-Ikkanda/ Simons Foundation; K. Storey-Fisher et al. 2024

Gli astronomi possono utilizzare la posizione dei quasar distanti e delle galassie che li ospitano anche per capire meglio come è avvenuta l’espansione dell’universo. Ad esempio, hanno già confrontato la nuova mappa dei quasar con la luce più antica del cosmo, il fondo cosmico a microonde. Mentre questa luce viaggia verso di noi, viene “piegata” dalla rete di materia oscura che intercetta, la stessa mappata dai quasar. Confrontando le due cose, è possibile misurare la forza con cui la materia oscura si aggrega.

Il team ha utilizzato i dati della terza release di Gaia, che contiene 6,6 milioni di quasar candidati, e i dati del Wide-Field Infrared Survey Explorer della Nasa e della Sloan Digital Sky Survey. Combinando i set di dati, i ricercatori hanno rimosso i “contaminanti” come stelle e galassie dal set di dati originale di Gaia e hanno individuato con maggiore precisione le distanze dei quasar. Inoltre, hanno creato una mappa che mostra dove polvere, stelle e altri oggetti celesti potrebbero bloccare la vista di alcuni quasar, fondamentale per interpretare la nuova mappa.

«Questo catalogo di quasar è un ottimo esempio di quanto siano produttivi i progetti astronomici», conclude Hogg. «Gaia è stata progettata per misurare le stelle della nostra galassia, ma nello stesso tempo ha anche trovato milioni di quasar che ci forniscono una mappa dell’intero universo».

Il catalogo Quaia è scaricabile gratuitamente a questo link.

Per saperne di più:



Euclid alle prese con qualche nanometro di ghiaccio


La visione del telescopio spaziale Euclid è compromessa da un sottilissimo strato di ghiaccio che si è depositato sugli specchi, spesso quanto un filamento di Dna. Dopo mesi di ricerca, i team della missione stanno ora testando una procedura di nuova conc

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Illustrazione di Euclid. Crediti: Esa – Cc By-S 3.0 Igo

La missione Euclid dell’Agenzia spaziale europea (Esa), che circa un mese fa ha iniziato la sua campagna scientifica, deve ora fronteggiare una nuova sfida prima di poter affrontare i misteri dell’universo oscuro: il ghiaccio. Un finissimo strato di ghiaccio, spesso da pochi nanometri a qualche decina di nanometri. Un po’ come la brina che si forma sul parabrezza delle auto in inverno, ma molto più sottile. Un sottilissimo strato di ghiaccio, dicevamo, si è posato sugli specchi del telescopio, offuscando la visione del potente occhio spaziale e mettendo a rischio la sua capacità di scandagliare il cielo per misurare la forma e precisione di miliardi di galassie con precisione inaudita.

Non è la prima volta che si verifica questo problema: del ghiaccio sui sistemi ottici era stato riscontrato – e in seguito rimosso – anche per Gaia, la sonda dell’Esa che sta mappando le stelle della Via Lattea e che, come Euclid, si trova nel punto lagrangiano L2, a un milione e mezzo di chilometri da Terra. Qui, eventuali molecole d’acqua assorbite dalle componenti di un veicolo spaziale durante le fasi di assemblaggio pre-lancio vengono rilasciate verso l’esterno, dove però tendono ad accumularsi sulle superfici che incontrano.

Nel caso di Euclid, a lanciare l’allarme è stata una lieve ma progressiva diminuzione della quantità di luce proveniente dalle stelle osservate con Vis, uno dei due strumenti a bordo del satellite. «Abbiamo confrontato la luce stellare che arriva attraverso lo strumento Vis con la luminosità delle stesse stelle registrata in tempi precedenti, sia con Euclid che con Gaia», chiarisce Mischa Schirmer del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg, in Germania, che si occupa della calibrazione dei dati per il consorzio Euclid. «Ci sono stelle nell’universo che variano in luminosità, ma la maggior parte rimane stabile per molti milioni di anni. Quando i nostri strumenti hanno iniziato a rilevare un debole e graduale declino dei fotoni in arrivo, abbiamo capito che il motivo non erano loro, ma eravamo noi».

In previsione di questa eventualità, era già stata svolta una campagna poco dopo il lancio di Euclid, utilizzando sia i radiatori di bordo che la fonte di calore per eccellenza: il Sole. A partire dal 4 luglio scorso, per ben novantasei ore di fila, Euclid era stato puntato verso il Sole per far sublimare le molecole d’acqua rimaste in prossimità del satellite e tentare di eliminare questa fonte di contaminazione. Eppure una frazione di acqua deve essere sopravvissuta all’interno dell’isolante multistrato, e viene ora lentamente rilasciata nello spazio. Si tratta di una quantità minuscola: appena qualche strato di molecole congelate, dallo spessore pari alla larghezza di un filamento di Dna. Impercettibile a molti, ma non ai sensibilissimi strumenti di Euclid. Per poter raggiungere gli ambiziosi obiettivi della missione che, dalle misure di miliardi di galassie, punta a comprendere la natura delle enigmatiche materia ed energia oscure che permeano l’universo e ne determinano l’evoluzione, questo ghiaccio va decisamente rimosso.

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Test in laboratorio per studiare l’effetto del ghiaccio sulle ottiche di Euclid presso la Yuta vacuum facility al centro Estec dell’Esa in Olanda. Crediti: Esa

Dopo una lunga fase di ricerca e calibrazione, con tanto di esperimenti in laboratorio per studiare la diffrazione e riflessione della luce da parte di sottili strati di ghiaccio sugli specchi – un argomento poco coperto dalla letteratura scientifica – è stato elaborato un piano per capire dove si trova il ghiaccio nel sistema ottico di Euclid e mitigarne l’impatto, sia nella fase attuale che in futuro, nel caso continui ad accumularsi.

L’opzione più semplice sarebbe riscaldare l’intero veicolo spaziale, accendendo tutti i radiatori di bordo per diversi giorni e aumentando lentamente la temperatura da circa -140 °C fino ad appena -3 °C in alcuni punti del satellite. In questo modo si rimuoverebbe il ghiaccio dalle ottiche, ma si riscalderebbe anche l’intera struttura meccanica, con il rischio di introdurre piccole deformazioni all’allineamento del sistema ottico. Una missione come Euclid ha invece bisogno di estrema stabilità termica. Per limitare gli sbalzi termici, dunque, si inizierà riscaldando individualmente le parti ottiche a basso rischio, situate in aree in cui è improbabile che l’acqua rilasciata contamini altre componenti. Si parte con due specchi di Euclid che possono essere riscaldati in modo indipendente. Se la perdita di luce dovesse persistere e avere un impatto sulle osservazioni scientifiche, si andrà avanti riscaldando altri gruppi di specchi.

È la prima volta che si esegue una procedura simile: il team ha ragionevole cognizione di quali siano le superfici intaccate dal ghiaccio, ma la certezza arriverà solo dopo l’operazione di riscaldamento. «Una volta isolata l’area interessata, la speranza è che in futuro potremo semplicemente riscaldare questa parte isolata della sonda a seconda delle necessità», aggiunge Schirmer, uno dei principali artefici del piano di decontaminazione. Piccole quantità di acqua continueranno a essere rilasciate all’interno di Euclid per l’intera durata della missione, quindi è necessario trovare una soluzione a lungo termine per “sbrinare” regolarmente le sue ottiche.

«È probabile che all’inizio non ci fosse ghiaccio sulle superfici ottiche di Euclid: ovvero, la procedura applicata durante il raffreddamento iniziale ha funzionato», spiega a Media Inaf Pierre Ferruit, Euclid mission manager dell’Esa. «Quello che è stato rilevato è un progressivo accumulo di ghiaccio su una o più superfici ottiche nel corso del tempo».

Questo rischio era presente anche per il James Webb Space Telescope (Jwst), che pure si trova nelle gelide “lande” di L2 insieme a Euclid e Gaia. Eppure non c’è alcuna indicazione della presenza di ghiaccio sulle superfici ottiche di Jwst, né subito dopo il lancio né da allora. Come mai?

«Il rischio di contaminazione da ghiaccio era presente per Jwst ed è stato preso molto sul serio come per tutte le missioni criogeniche (come Euclid). Una tipica procedura di mitigazione per questo tipo di rischio», prosegue Ferruit, «è quella di controllare attentamente il tempo di raffreddamento iniziale dopo il lancio per garantire che gli elementi ottici critici rimangano più caldi rispetto all’ambiente circostante durante il raffreddamento e che, finché le temperature non diventano sufficientemente basse, le molecole d’acqua non si “muovano” più. Questo è stato implementato in entrambe le missioni. È estremamente difficile confrontare missioni che hanno dimensioni e geometria molto diverse e utilizzano anche materiali molto diversi. Le lezioni apprese da Gaia e Jwst sono state comunicate al team di Euclid e sono state prese in considerazione. In sistemi così complessi non è possibile modellare, prevedere e testare tutto quindi, anche dopo aver tenuto conto di tutte queste esperienze pregresse e aver applicato le mitigazioni standard per il rischio di contaminazione da ghiaccio, una piccolissima quantità di acqua – ricordate, stiamo parlando di pochi nanometri di ghiaccio! – è arrivata su una o più superfici delle ottiche di Euclid. Per fortuna, visto che non è mai possibile eliminare completamente il rischio, ci sono sempre dei modi per riscaldare Euclid per intero oppure, in maniera più selettiva, i singoli specchi».



Increspature marziane nel tunnel del vento


Un team guidato dall’Università Ben-Gurion (Israele), del quale fanno parte anche Simone Silvestro e Gabriele Franzese dell’Inaf di Napoli, ha messo a punto – e verificato sperimentalmente – una nuova teoria in grado di spiegare l’origine e la conformazio

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Quello che vedete nell’immagine qui sotto è un panorama marziano. È la sommità d’una duna di sabbia sul pendio nordoccidentale di Aeolis Mons – una montagna del Pianeta rosso, chiamata anche Mount Sharp – immortalata dal rover della Nasa Curiosity il 13 dicembre 2015 usando le fotocamere poste sulla sommità del suo braccio robotico Mastcam. A una prima occhiata potrebbe ricordare la superficie increspata del mare. E non sarebbe un’impressione così sbagliata. Certo, non è acqua: è un mare di sabbia. Sabbia finissima, com’è la sabbia marziana. Ma le conformazioni che osserviamo sono chiamate dai geologi planetari ripples: increspature, dunque, proprio come quelle del mare.

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La Mastcam del rover marziano Curiosity della Nasa ha scattato le immagini multiple che compongono questa scena il 13 dicembre 2015, durante il 1192esimo giorno marziano, o sol, di lavoro del rover su Marte. La scala graduata è stata sovrapposta come indicatore della distanza fra le creste dei due tipi di increspature della sabbia. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Msss

Ed è così che le chiamano anche gli autori di uno studio sulla loro origine guidato da Hezi Yizhaq della Ben-Gurion University of the Negev, in Israele, e pubblicato lo scorso gennaio su Nature Geology: ripples, appunto. Guardandole con occhi da scienziati, Yizhaq e il suo team hanno immediatamente notato che si dividono in due tipologie, queste increspature: ci sono le “onde” e ci sono le “ondine”. Le prime sono increspature sulla scala dei metri, la distanza fra una cresta e l’altra si potrebbero misurare in passi. Le seconde invece – le ondine tracciate sulle onde – sono sulla scala dei decimetri, si potrebbero misurare in palmi.

Come si sono prodotte, queste increspature? La teoria più gettonata, fino a poco tempo fa, era che entrassero in azione due meccanismi differenti. A produrre le increspature più piccole – le “ondine” – è l’impatto sulle dune sabbiose delle particelle trasportate dal vento, come avviene anche qui sulla Terra. Quelle più grandi, invece, si pensava fossero dovute a un fenomeno di instabilità idrodinamica. Non solo: si riteneva che le condizioni fisiche che le producevano su Marte non fossero in grado di produrle qui sulla Terra.

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Simone Silvestro (a sx) e Gabriele Franzese (a dx) al tunnel del vento per la simulazione dell’ambiente marziano di Aarhus, in Danimarca. Crediti: Giuseppe Mongelluzzo/Inaf

Yizhaq e il suo team non ne erano però del tutto convinti. Hanno così deciso di provare a riprodurre il tutto in un ambiente controllato qui sul nostro pianeta. Ma come, e dove? Di questo si sono fatti carico due scienziati italiani del team: due ricercatori dell’Inaf di Napoli, Simone Silvestro e Gabriele Franzese, che conoscevano l’esistenza di una struttura – l’unica in Europa – adatta allo scopo. E che sapevano come usarla.

«Il nostro ruolo in questo lavoro», spiega infatti Simone Silvestro a Media Inaf, «è stato quello di coordinare l’attività di laboratorio nel tunnel del vento all’Università di Aarhus, in Danimarca, dove l’esperimento di formazione dei ripples eolici è stato condotto a pressioni diverse da quella terrestre». Pressione più bassa, dunque, come appunto quella presente su Marte. Ma non è stato sufficiente: la svolta è arrivata quando anche la sabbia è stata scelta – adottando microscopiche palline di vetro – in modo da risultare più simile a quella marziana, dunque più fine di quella terrestre. Solo a quel punto gli autori dello studio sono stati in grado di riprodurre entrambe le tipologie di ripples: onde e ondine insieme, proprio come sul Pianeta rosso. Mostrando che non si formano separatamente ma che coevolvono.

Yizhaq e colleghi sono così stati in grado di proporre un quadro teorico unificato capace di rendere conto di tutte queste increspature – osservabili sia su Marte che sulla Terra, pur se in contesti differenti: per ritrovarne di simili a quelle più distanziate prodotte sul Pianeta rosso dall’azione del vento, qui sul nostro pianeta occorre infatti scendere a cercarle nei fondali marini, dove a generarle è il moto dell’acqua.

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Simone Silvestro e Gabriele Franzese in Botswana per studiare fenomeni analoghi ai “dust devils” marziani. Crediti: Hezi Yizhaq

«Per dimostrare la nostra teoria saranno necessarie molte altre ricerche, sia sul campo che a livello sperimentale, ma è comunque sorprendente arrivare a proporre qualcosa di così radicalmente nuovo in un campo che studio da oltre vent’anni», dice Yizhaq. «Ed è emozionante andare a cercare sulla Terra ciò che si può osservare così chiaramente su Marte».

Come si appresta a fare l’altro ricercatore italiano del team. «Sono in partenza per la regione del Gansu, in Cina, a ridosso del deserto del Gobi», dice infatti a Media Inaf Gabriele Franzese, «dove, in collaborazione con i colleghi dell’università di Lanzhou, uniremo le competenze delle comunità degli esperti terrestri e dei planetologi per studiare la fisica della mobilitazione della sabbia e sollevamento delle polveri. E magari capiteremo anche in qualche tempesta di polvere grande come quelle marziane, chissà».

Per saperne di più:

  • Leggi su Nature Geoscience l’articolo “Coevolving aerodynamic and impact ripples on Earth”, di Hezi Yizhaq, Katharina Tholen, Lior Saban, Nitzan Swet, Conner Lester, Simone Silvestro, Keld R. Rasmussen, Jonathan P. Merrison, Jens J. Iversen, Gabriele Franzese, Klaus Kroy, Thomas Pähtz, Orencio Durán e Itzhak Katra


Con l’instabilità di Crow un’esplosione di stile


Per anni si è cercato di comprendere l’origine e la distribuzione degli agglomerati lungo l’anello equatoriale della supernova Sn 1987A. La settimana scorsa un gruppo di scienziati dell’Università del Michigan ha pubblicato su Physical Rewiew Letter un ar

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In alto, immagine di Sn 1987A catturata dal James Webb Space Telescope. In basso: a sinistra la forma della nube di gas, a destra i vortici, o regioni di flusso in rapida rotazione. Ogni anello rappresenta un momento successivo dell’evoluzione della nube. Crediti per l’immagine Jwst: Nasa, Esa, Csa, M. Matsuura (Cardiff University), R. Arendt (Nasa’s Goddard Spaceflight Center & University of Maryland, Baltimore County), C. Fransson (Stockholm University), J. Larsson (Kth Royal Institute of Technology), A. Pagan (Stsci); per la simulazione: Michael Wadas, Scientific Computing and Flow Laboratory, University of Michigan

La supernova 1987A è una delle esplosioni stellari più famose, trovandosi relativamente vicino alla Terra: dista infatti “solo” 163mila anni luce. Inoltre, la sua luce ha raggiunto il nostro pianeta meno di quarant’anni fa, dunque in un momento storico in cui esistevano strumenti tecnologici abbastanza sofisticati per poterne osservare con continuità l’evoluzione. Ma Sn 1987A ha anche un’altra peculiarità: ci tiene particolarmente ad apparire più smagliante di tutti gli altri resti di supernova, indossando sempre la sua collana di perle preferita, come possiamo vedere nel ritratto qui a fianco.

Sebbene si conosca ancora poco sulla stella che è esplosa, si suppone che l’anello di gas, che circondava la stella prima dell’esplosione, provenisse dalla fusione di due stelle. Stelle che, decine di migliaia di anni prima dell’esplosione, hanno disperso idrogeno nello spazio circostante nel corso del processo di formazione di una gigante blu. Inoltre, si pensa che la nube di gas a forma di anello sia stata poi colpita da un flusso di particelle cariche proveniente dalla stella, noto come vento stellare.

Le “perle” erano dunque probabilmente già presenti quando la supernova è esplosa, ma la natura della loro formazione è sempre stata di difficile comprensione per gli astronomi. Ora Michael Wadas e i suoi colleghi dell’Università del Michigan hanno trovato una possibile soluzione. In uno studio pubblicato la settimana scorsa Physical Review Letters, gli scienziati suggeriscono che questa struttura a grumi possa essersi formata a causa dello stesso fenomeno fluidodinamico che può portare alla rottura della scia di condensazione dietro ad un aereo: l’instabilità di Crow.

Spesso i fisici ricorrono all’instabilità di Rayleigh-Taylor per spiegare perché si formano strutture fluide all’interno dei plasmi. Ma nel caso di Sn 1987A potrebbe non essere la soluzione più adatta: l’instabilità di Crow sembra infatti spiegare meglio la presenza di questa struttura a “collana di perle”.

Nelle scie di condensazione degli aerei, l’instabilità di Crow crea delle interruzioni nella linea uniforme delle scie a causa dei flussi d’aria spiraleggianti che provengono dalla punta di ogni ala, noti come vortici d’estremità d’ala. Questi vortici si mescolano tra di loro creando spazi vuoti, visibili grazie alla presenza di vapore acqueo nelle scie.

Il ricorso all’instabilità di Crow permette di fare qualcosa che l’instabilità di Rayleigh-Taylor non consentirebbe: prevedere il numero di “perle” che possono formarsi intorno ai resti della supernova. «L’instabilità di Rayleigh-Taylor potrebbe suggerire un eventuale presenza di grumi, ma sarebbe molto difficile ottenere da essa un numero preciso», dice infatti Wadas, primo autore dello studio e attualmente ricercatore post-dottorato presso il California Insitute of Technology.

I ricercatori hanno simulato come il vento, proveniente dalla stella progenitrice di Sn 1987A, spinge la nube di idrogeno verso l’esterno e ne deforma la superficie, con la parte superiore e inferiore della nube che viene spinta verso l’esterno più velocemente rispetto al centro. Ciò potrebbe causare una compressione della nube su sé stessa, che innescherebbe l’instabilità di Crow, portandola alla frammentazione in grumi abbastanza regolari formando questa struttura a “collana di perle”. La previsione è di 32 grumi, molto vicina dunque ai 30-40 effettivamente osservati intorno ai resti della supernova. «Questo è un aspetto fondamentale per cui pensiamo si tratti dell’instabilità di Crow», dice Eric Johnsen, professore di ingegneria meccanica all’Università del Michigan e co-autore dell’articolo.

Il team di scienziati ha anche suggerito che l’instabilità di Crow potrebbe avere un ruolo nella formazione dei pianeti, anche se saranno necessarie ulteriori ricerche per esplorare questa ipotesi.

Per saperne di più: