Emissione di raggi X su Urano: l’inquietante scoperta l Passione Astronomia
Ecco l’ultima incredibile scoperta della NASA su uno dei pianeti più misteriosi e affascinanti del sistema solare: Urano!#urano #poliverso.org/search?tag=
La fascia di Kuiper è molto più vasta del previsto
Rappresentazione artistica di una collisione tra due oggetti nella parte più esterna della fascia di Kuiper. Tali collisioni sono una delle principali fonti di polvere nella fascia. Crediti: Dan Durda, Fiaaa
Dopo averci regalato, nel 2015, le prime immagini ravvicinate di Plutone, la sonda New Horizons della Nasa prosegue da ormai quasi un decennio il suo viaggio ai confini del Sistema solare, esplorando la misteriosa fascia di Kuiper. E scoprendo, peraltro, che questa regione popolata da migliaia di asteroidi e altri piccoli corpi è molto più estesa di quanto pensassimo.
Lo strumento Venetia Burney Student Dust Counter (Sdc), a bordo della sonda, sta infatti rivelando livelli di polvere molto più alti del previsto. Questo strumento, il primo a bordo di una missione planetaria della Nasa ad essere stato progettato, costruito e gestito “in volo” da studenti, è stato progettato per contare le particelle di polvere interplanetaria e misurarne le dimensioni. In questo modo può stimare il tasso di collisioni tra i corpi più grandi della fascia di Kuiper e le particelle che si sollevano da essi a seguito di impatti con corpuscoli microscopici provenienti dalle regioni esterne al Sistema solare.
Dai modelli correnti, ci si aspetta che la popolazione di corpi della fascia di Kuiper, e con essa la densità della polvere che ne risulta, vadano a calare a distanze maggiori di 50 unità astronomiche – circa 7,5 miliardi di chilometri – dal Sole. I nuovi dati, invece, sembrano contraddire questa previsione: la fascia di Kuiper potrebbe estendersi per molti miliardi di chilometri al di là delle aspettative attuali, fino a 80 unità astronomiche – circa 12 miliardi di chilometri – dal Sole. Potrebbe addirittura esistere una seconda fascia, oltre a quella già nota.
«New Horizons sta realizzando le prime misure dirette di polvere interplanetaria ben oltre Nettuno e Plutone, quindi ogni osservazione potrebbe portare a una scoperta», commenta Alex Doner, dottorando alla University of Colorado Boulder, alla guida dello strumento Sdc e primo autore dell’articolo apparso su The Astrophysical Journal. «L’idea che potremmo aver rilevato un’estesa fascia di Kuiper – con un’intera nuova popolazione di oggetti che si scontrano e producono più polvere – offre un altro indizio per risolvere i misteri delle regioni più distanti del Sistema solare».
I nuovi risultati, raccolti da New Horizons a distanze tra 45 e 55 unità astronomiche (ovvero tra 6,7 e 8,2 miliardi di chilometri) dal Sole, vanno ad aggiungersi alle recenti scoperte di oggetti appartenenti alla fascia di Kuiper al di là dei confini tradizionali di questa regione, realizzate con telescopi come il giapponese Subaru alle Hawai‘i. Esistono spiegazioni alternative, anche se forse meno probabili, agli elevati livelli di polvere registrati da Sdc: a spingere la polvere verso le regioni esterne della fascia potrebbe anche essere la pressione di radiazione del Sole. Oppure potrebbe trattarsi di particelle di ghiaccio dalla vita più breve, che non si trovano nel Sistema solare più interno e dunque non vengono incluse nei modelli ordinari.
«Potrebbe essere la prima volta che un veicolo spaziale scopre una nuova popolazione di corpi nel Sistema solare», aggiunge il co-autore Alan Stern, principal investigator di New Horizons presso il Southwest Research Institute di Boulder. «Non vedo l’ora di vedere fino a dove arrivano questi livelli elevati di polvere della fascia di Kuiper».
Lo strumento Sdc ha rivelato granelli microscopici di polvere prodotti dalle collisioni tra asteroidi, comete e altri corpi della fascia di Kuiper lungo l’intero tragitto della sonda New Horizons, sin dal lancio nel 2006. La missione, che si trova ora nella sua seconda fase di estensione, dovrebbe avere carburante a sufficienza per operare fino agli anni 2040, raggiungendo distanze fino a 100 unità astronomiche (15 miliardi di chilometri) dal Sole. Qui potrebbe addirittura rivelare una transizione verso una regione di polvere dominata da particelle interstellari.
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo su The Astrophysical Journal “New Horizons Venetia Burney Student Dust Counter Observes Higher than Expected Fluxes Approaching 60 au” di Alex Doner1, Mihály Horányi, Fran Bagenal, Pontus Brandt, Will Grundy, Carey Lisse, Joel Parker, Andrew R. Poppe, Kelsi N. Singer, S. Alan Stern, and Anne Verbiscer
Massa e spin d’un buco nero nella sua variabilità
L’infografica del getto relativistico osservato nel 1992 dal buco nero stellare Grs 1915+105 scelta nel 2017 da Tomaso Belloni per accompagnare il suo testo sui buchi neri. Crediti: Nrao/Aui
Quando nel 2017 decidemmo di pubblicare, qui su Media Inaf, una serie di approfondimenti – scritti direttamente dai ricercatori, li trovate tutti qui – sulle grandi domande dell’astrofisica contemporanea, per compilare la voce dedicata ai buchi neri stellari si offrì subito con entusiasmo Tomaso Belloni, una fra le massime autorità sull’argomento. Serviva un’immagine, e Tomaso scelse senza alcuna esitazione un’infografica relativa al buco nero di Grs 1915+105. Pensammo che fosse una scelta più o meno casuale, comunque l’immagine era suggestiva, mostrava l’evoluzione nell’arco di un mese dell’emissione del buco nero, non aveva problemi di copyright… insomma andava bene, la pubblicammo.
Invece non era affatto una sorgente come tutte le altre: era la sua sorgente. E ad essa è dedicato anche il suo ultimo articolo, ora in corso di pubblicazione su Astronomy & Astrophysics. Belloni è venuto a mancare lo scorso agosto. Il mese prima lui e Sara Elisa Motta, collega di Belloni a Merate, dove si trova una delle due sedi dell’Inaf di Brera, avevano rimesso mano a un metodo proposto da loro stessi, insieme a Luigi Stella, una decina di anni fa e se ne erano avvalsi per calcolare la massa e il momento angolare intrinseco del buco nero di quel sistema sfruttando informazioni sulla variabilità della sua emissione X – le sue oscillazioni quasi periodiche.
Ma che oggetto è, questo Grs 1915+105? Abbiamo chiesto a Sara Motta di tracciarcene un identikit.
«Grs 1915+105 è un sistema binario che ospita un buco nero di massa stellare, di circa 12 masse solari, in orbita con una compagna di massa simile a quella del Sole. Grs 1915+105 è anche nota come V1487 Aquilae e si trova nella costellazione dell’Aquila, nel cielo meridionale, a circa 30mila anni luce da noi, più o meno la stessa distanza che ci separa dal Centro galattico. Questo sistema binario è noto soprattutto per l’estrema variabilità dell’emissione X che da esso proviene: estrema sia per il range di flusso che si osserva dalla sorgente, sia per le caratteristiche stesse dell’emissione, che mostra tratti come la presenza di flares su tempi scala molto diversi – da pochi millisecondi a giorni, settimane, o anche molti mesi. Tra le caratteristiche dell’emissione X osserviamo, in particolare, la presenza di una modulazione quasi periodica a 67 Hz. Il fatto che sia quasi periodica, e non strettamente periodica, implica che la modulazione non è sempre esattamente a 67 Hz, ma a volte è osservata a frequenze leggermente più basse, a volte leggermente più alte – sempre comunque entro qualche hertz dai 67 Hz».
Questa di 67 Hz non è una frequenza insolitamente elevata, per la modulazione di un’emissione? Parliamo di un periodo di pochi millisecondi… cos’è che si ripete così rapidamente, su quel buco nero?
«In effetti 67 Hz è una frequenza relativamente alta. Dal buco nero, per sua natura, non può derivare nessun segnale. I segnali che osserviamo dai buchi neri in accrescimento sono prodotti nella materia nei pressi del buco nero, che proviene dalla stella compagna. Questa materia si distribuisce in un disco di accrescimento formato da particelle che spiraleggiano verso l’orizzonte degli eventi del buco nero, per poi caderci dentro. La modulazione a 67 Hz, così come tanti altri tipi di modulazione, rispecchia i moti delle particelle in orbita attorno al buco nero. Per osservare queste modulazioni, occorrono strumenti dotati di alta risoluzione temporale, ovvero in grado di osservare singoli fotoni a distanze di tempo molto corte. Per molti anni il satellite per l’astronomia X Rossi X-ray Timing Explorer è stato il miglior osservatorio per lo studio delle modulazioni veloci nelle sorgenti binarie in accrescimento, ed è proprio questo il satellite che abbiamo utilizzato nel nostro lavoro».
È un risultato che riguarda solo questa sorgente in particolare, il vostro, o può avere implicazioni più generali?
«Sicuramente è un risultato che avrà implicazioni più generali: la misura degli spin di buchi neri e stelle di neutroni è estremamente difficoltosa in generale, esistono soltanto pochi metodi che la permettono e spesso non sono applicabili. Il metodo che abbiamo proposto noi, già nel 2014, permette di misurare lo spin e la massa di oggetti compatti unicamente tramite lo studio della variabilità temporale delle sorgenti di interesse, che richiede strumenti relativamente semplici e poco affetti da errori sistematici. Poter misurare lo spin degli oggetti compatti in sistemi binari galattici è estremamente importante anche nel contesto dello studio delle onde gravitazionali prodotte dal collasso di due oggetti di massa stellare: si pensa che i sistemi binari in accrescimento che studiamo noi siamo imparentati con i sistemi binari “progenitori” delle onde gravitazionali rilevate dagli interferometri per onde gravitazionali come Ligo, Virgo e Kagra, per cui conoscere gli spin degli uni permette di acquisire informazioni fondamentale sugli altri, informazioni che non sarebbero altrimenti accessibili».
Questo che avete appena pubblicato è l’ultimo articolo firmato da Tomaso Belloni prima della sua scomparsa, è venuto a mancare il 26 agosto scorso. È un lavoro che stavate seguendo insieme da tempo?
«Le origini di questo lavoro risalgono in realtà al 2014, fu un’idea che io e Tomaso abbiamo discusso all’epoca della pubblicazione del primo lavoro sul modello, che già allora applicammo anche a Grs 1915+105. Abbiamo discusso questo risultato per anni, cercando di trovare la modalità migliore per rendere giustizia alla sua importanza, consapevoli che spesso il timing viene visto solo come un insieme di tecniche poco chiare. Solo a luglio dell’anno scorso ci siamo decisi a scrivere l’articolo, che di fatto ha visto la luce in appena tre giorni di scrittura. Tomaso diceva che questo lavoro era la “ciliegina sulla torta” della letteratura più rilevante che ha pubblicato in tutti gli anni della sua carriera, perché in qualche modo raccoglie una serie di tematiche che, nel corso della sua carriera, ha affrontato ripetutamente, e che lui riteneva particolarmente importanti: il buco nero Grs 1915+105, le oscillazioni quasi periodiche a 67 Hz, la correlazione tra diversi tipi di variabilità, e il modello di precessione relativistica – in inglese, relativistic precession model. Grs 1915+105 è e rimarrà indubbiamente una sorgente strettamente legata al nome di Tomaso».
Com’è nato il suo interesse per questo sistema binario?
«Alla fine degli anni Novanta Tomaso ha definito uno schema di classificazione per le classi di variabilità di Grs 1915+105 che è stato largamente utilizzato negli ultimi 25 anni, e sicuramente continuerà a rappresentare un gold standard. Grs 1915+105 è stato anche il laboratorio che ha permesso di gettare le basi per la costruzione di un paradigma, ormai universalmente noto come disc-jet coupling, che stabilisce la connessione tra le proprietà del disco di accrescimento e dei getti relativistici. Tomaso ha contribuito largamente alla costruzione di questo paradigma, in collaborazione con diversi colleghi che insieme a lui hanno fatto la storia dell’astronomia X dagli anni Novanta in poi. Il paradigma nato dallo studio di Grs 1915+105 è oggi applicato alle binarie X in generale, e per estensione a tutti i sistemi in accrescimento.
Tomaso si è occupato di variabilità veloce davvero in tutte le salse, dalle pulsazioni al millisecondo nelle stelle di neutroni alla variabilità a banda larga di sistemi in accrescimento di tutti i tipo. Una scoperta fondamentale a cui era particolarmente legato è la correlazione di Psaltis-Belloni-van der Klis, che lega diverse componenti di variabilità, osservabili negli spettri di potenza delle binarie X attive. Mostra come lo stesso processo fisico che produce modulazione coerenti a decine e centinaia di hertz generi, invece, componenti di variabilità a banda larga a pochi hertz. Da ultimo, Tomaso era un grande estimatore del già nominato modello di precessione relativistica».
Di che si tratta?
«È un modello che risale agli ultimi anni Novanta – fu proposto da Luigi Stella e Mario Vietri – e lega i moti della materia attorno a un buco nero rotante, predetti dalla teoria della Relatività Generale, a diverse classi di oscillazioni quasi periodiche. Nel 2014 io, Tomaso e Luigi abbiamo ottenuto la prima stima della massa e del momento angolare di spin di un buco nero in una binaria X di bassa massa. Lui sosteneva, tra le altre cose, che con questo lavoro avevamo dato una prova della veridicità della Relatività Generale, mostrando osservativamente e inconfutabilmente l’esistenza dell’ultima orbita stabile attorno a un buco nero di massa stellare. Dal lavoro del 2014 sono emerse molte idee che sono confluite in una lunga lista di articoli basati sull’utilizzo del modello di precessione relativistica per la stima dello spin di oggetti compatti, incluso quello che purtroppo sarà l’ultimo firmato da Tomaso, ma mi auguro non l’ultimo della serie».
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics “Rethinking the 67 Hz QPO in GRS 1915+105: Type C quasi-periodic oscillations at the innermost stable circular orbit”, di S.E. Motta e T.M. Belloni
Titano, un banco di prova per capire il metano
La luna di Saturno, Titano. Il ritratto è una combinazione di immagini scattate con la fotocamera grandangolare della sonda Cassini il 30 gennaio 2012 da una distanza di 191.000 chilometri. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Space Science Institute
Una delle sfide che si pone oggi l’astrofisica moderna è la caratterizzazione chimica delle atmosfere degli esopianeti. L’obiettivo di questi studi è di individuare la firma di molecole che ci diano informazioni sui processi geochimici e biologici che avvengono su mondi oltre il Sistema solare. Da questo punto di vista, una molecola considerata di particolare interesse è il metano. Il suo potenziale astrobiologico è dovuto al fatto che la maggior parte di questa molecola nella nostra atmosfera è di origine biologica. L’interesse dal punto di vista geochimico è invece dovuto al fatto che nelle atmosfere esoplanetarie la molecola viene distrutta rapidamente e in modo irreversibile dalla radiazione solare; si pensa dunque che ci siano dei processi geochimici che riforniscono l’atmosfera della molecola.
Individuare il metano nell’atmosfera di un pianeta non è semplice, soprattutto se la molecola è presente in piccole quantità. Un modo per ovviare questo problema è studiare l’atmosfera di un mondo in cui il metano è il principale assorbitore di luce visibile, magari un mondo relativamente vicino, e cercare di ottenere l’impronta digitale completa della molecola, così da poterla utilizzare poi per individuare il composto nelle atmosfere di altri mondi. È ciò che ha fatto un team di ricerca guidato dall’Università di Lisbona, utilizzando come laboratorio naturale la luna di Saturno, Titano, un corpo nella cui atmosfera il metano è l’unico grande assorbitore di luce visibile.
Nella studio, i cui risultati sono pubblicati su Planetary and Space Science, i ricercatori hanno utilizzato gli spettri di assorbimento della luce visibile della luna ottenuti dallo strumento Uves, uno spettrografo installato sul Very Large Telescope dell’Eso, in Cile. Tali spettri di assorbimento mostrano delle righe prodotte dalla luce proveniente dal Sole che è stata assorbita dai gas presenti nell’atmosfera della luna. Righe che, come fossero le linee d’un codice a barre, etichettano inequivocabilmente l’elemento che ne è responsabile. Analizzando questi spettri, Rafael Silva, ricercatore presso l’Università di Lisbona, e colleghi hanno identificato e caratterizzato al loro interno 97 righe di assorbimento del metano a lunghezze d’onda inferiori a 620 nanometri; righe mai identificate prima d’ora e che sono indispensabili per scovare la molecola in altre atmosfere.
Sezione di uno spettro di assorbimento di Titano che mostra tre caratteristiche di assorbimento del metano accanto a tre linee di origine solare di profondità simile. Crediti: Rafael Rianço-Silva et al., Planetary and Space Science, 2024
In questo tipo di indagini, la sfida è riuscire a distingue le righe di assorbimento di molecole presenti nell’atmosfera di Titano dalle righe di assorbimento delle molecole presenti nell’atmosfera solare. Come Titano, anche l’atmosfera della nostra stella contiene molecole che possono assorbire luce visibile e produrre righe di assorbimento. Per ottenere informazioni precise sulla molecola che si vuole studiare bisogna dunque “eliminare” queste ultime righe. Il motivo? potendosi trovare nelle stesse posizioni spettrali delle righe del metano, ne rendendo difficile l’identificazione.
L’approccio utilizzato dai ricercatori per raggiungere lo scopo sfrutta il noto effetto Doppler dovuto alla velocità radiale Titano-Sole. A seconda che il Sole si muova verso di noi o si allontani da noi, la sua luce rispetto a Titano sarà spostata verso il blu o verso il rosso. Un tale spostamento si traduce in un cambiamento nella posizione delle righe di assorbimento nello spettro della stella.
Sfruttando quattro distinte notti di osservazione di Titano e utilizzando il relativo spostamento Doppler della luce solare, i ricercatori sono riusciti a distinguere tra le righe di assorbimento solare, la cui posizione è cambiata nel tempo, e le righe di assorbimento di Titano. Il confronto visivo tra i distinti spettri di osservazione notturna ha mostrato infatti le righe solari spostate per effetto Doppler rispetto a quelle originate da Titano.
La scoperta delle righe di assorbimento nel visibile del metano non è l’unico risultato di questo studio. L’analisi degli spettri di assorbimento di Titano ha permesso infatti ai ricercatori di rilevare la presenza negli strati alti dell’atmosfera, a circa 600 chilometri di altitudine, della molecola del tricarbonio, un gas incolore individuato per la prima volta nella chioma di una cometa, successivamente trovato nelle nubi interstellari diffuse ma mai prima d’ora in una atmosfera planetaria. Nonostante siano molto specifiche per questo tipo di molecole, le righe di assorbimento che il team ha associato al tricarbonio sono poche e di bassa intensità. Per questo motivo i ricercatori effettueranno nuove osservazioni per cercare di confermare questa rilevazione.
Data la rilevanza geochimica e astrobiologica del metano, questo studio è di particolare importanza per i futuri studi delle atmosfere esoplanetarie, concludono i ricercatori. La ricerca mostra anche i vantaggi di utilizzare un obiettivo planetario vicino per testare nuovi metodi di caratterizzazione di composti atmosferici minori.
Per saperne di più:
- Leggi su Planetary and Space Science l’articolo “A study of very high resolution visible spectra of Titan: Line characterisation in visible CH4 bands and the search for C3” di Rafael Rianço-Silva, Pedro Machado, Zita Martins, Emmanuel Lellouch, Jean-Christophe Loison, Michel Dobrijevic, João A. Dias e José Ribeiro
Aspettando Marte: c’è un italiano nel team
Marco Ferrari, geologo quarantacinquenne di Roma e ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica, è l’unico italiano selezionato per far parte del Measurement Definition Team della missione Mars Sample Return. Crediti: Inaf
La missione Mars Sample Return è una campagna di esplorazione spaziale con l’ambizioso obiettivo di raccogliere campioni di roccia e regolite dalla superficie di Marte e portarli sul nostro pianeta per un’analisi approfondita nei laboratori terrestri. Un’impresa, frutto della collaborazione di Nasa ed Esa, che avvicina scienziati e non al sogno di svelare i misteri del passato del Pianeta rosso. Un’impresa, soprattutto, che fornirà informazioni preziose sulla possibilità che su Marte ci sia o ci sia stata vita. Una volta sulla Terra, i campioni saranno portati all’interno della Sample Receiving Facility, una struttura che dovrà essere in grado di caratterizzare, studiare e conservare il materiale marziano in modo sicuro.
Il Measurement Definition Team (Mdt) è il gruppo internazionale che da settembre scorso sta lavorando per definire al meglio la struttura di ricezione, la strumentazione necessaria e le misure sui campioni marziani che verranno fatte all’interno della Sample Receiving Facility. Marco Ferrari, ricercatore all’Istituto di astrofisica e planetologia spaziali dell’Inaf di Roma, è l’unico italiano selezionato per far parte del team. Geologo quarantacinquenne originario di Roma, Ferrari vanta un’esperienza quindicennale nelle tecniche di analisi di campioni extraterrestri di vario tipo, tra cui frammenti cometari, campioni di asteroidi, meteoriti e particelle raccolte in alta stratosfera. Media Inaf lo ha intervistato prima della chiusura dei lavori dell’Mdt, prevista per maggio.
Ferrari, lei è l’unico italiano a far parte di questo progetto. Cos’ha provato quando ha saputo di aver vinto la selezione?
«Sono rimasto estremamente sorpreso. È stato gratificante sapere di essere stato selezionato all’interno di un gruppo internazionale di 40 scienziati di altissimo livello. Sono momenti importanti nella carriera di un ricercatore».
Cosa significa essere membro del Measurement Definition Team? Sarà tra gli scienziati che toccheranno per primi con mano un frammento marziano?
«No, anche se ci spero! Ci sarà una gara nel vicino futuro che stabilirà quali gruppi di ricerca nel mondo riceveranno i campioni raccolti su Marte, ma solo dopo che questi avranno ricevuto una caratterizzazione preliminare nella Sampling Receiving Facility. Prima di allora ci sono tanti piccoli passi da fare. Tra questi, organizzare il rientro dei campioni e il corretto funzionamento della struttura che li ospiterà qui sulla Terra, che sarà negli Stati Uniti, probabilmente all’interno del Johnson Space Center della Nasa, a Houston. Quello che facciamo noi scienziati all’interno del Measurement Definition Team è proprio immaginare da zero il laboratorio perfetto per ospitare i campioni marziani».
Cosa intendiamo quando parliamo di campioni marziani? Come sono fatti e quanto sono grandi?
«Il rover della Nasa Perseverance è atterrato su Marte nel febbraio 2021 e da allora è a spasso nelle vicinanze del cratere Jezero, una zona particolarmente interessante dal punto di vista scientifico. Perseverance sta prelevando delle piccole quantità di roccia e suolo marziano, effettuando dei campionamenti che permettono di raccogliere pezzetti di roccia delle dimensioni di una matita attraverso l’uso di appositi portacampioni simili a delle provette. Ognuno di questi conterrà circa 15 grammi di materiale marziano. Alcuni torneranno vuoti, o meglio contenenti “solo” atmosfera marziana, ma risulteranno comunque dei campioni di estrema importanza scientifica».
A che punto siamo della raccolta?
«Perseverance ha già raccolto 23 campioni su un totale previsto di 30 che arriveranno a Terra, per circa mezzo chilo di materiale marziano. Possiamo dire di essere a buon punto, anche se la strada è ancora lunga».
Quanto lunga?
«Per ricevere i campioni sulla Terra dobbiamo aspettare il 2033, sperando che non ci siano intoppi nelle fasi intermedie».
Rappresentazione artistica con i protagonisti della missione Mars Sample Return, con i due elicotterini (Nasa), il Mars Ascent Vehicle (Nasa) e l’Earth Return Orbiter (Esa). A Perseverance il compito di consegnare le provette con i campioni al Mars Ascent Vehicle. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Supponiamo che fili tutto liscio: come sarà il viaggio di rientro di queste capsule?
«La fase successiva alla raccolta è ancora in via di definizione. Quello che sappiamo è che verrà inviato un lander che atterrerà nelle vicinanze – o all’interno – del cratere Jezero con un piccolo razzo, su cui verranno caricati i campioni raccolti da Perseverance. Probabilmente ci saranno anche due elicotteri simili a Ingenuity, che ha dimostrato di funzionare egregiamente, e che faranno da ausilio per il recupero dei campioni. Dopodiché, un altro veicolo spaziale, in orbita attorno a Marte, recupererà la capsula con tutti i campioni e la spedirà verso la Terra in un viaggio di rientro, che durerà qualche mese».
Se sarà tra quelli che riceveranno una capsula del tesoro marziana, cosa si aspetta e cosa spera di trovarci?
«Da scienziato che spera nella scoperta del secolo, se non del millennio, vorrei ovviamente che dentro ci fosse qualcosa che testimoni che su Marte c’è o ci sia stata la presenza di una qualche forma di vita. Se non sarà questa la risposta che avremo, da geologo mi piacerebbe comunque capire meglio le caratteristiche geologiche e il ruolo che ha avuto l’acqua sul Pianeta rosso».
Ricordiamoci che parliamo di una capsula aliena: non ha paura che da questi contenitori esca qualcosa di pericoloso per la specie umana?
«Come dicevo, lo scopo principale della missione è cercare tracce di vita su un altro pianeta, ma non sappiamo in che forma sarà l’eventuale vita che stiamo cercando. Quindi siamo tutti consapevoli che potremmo trovare anche qualcosa di pericoloso per il genere umano, come virus e batteri o qualcosa di alieno che non conosciamo. Per questo, una volta che ogni campione sarà stato preliminarmente caratterizzato all’interno della Sampling Receiving Facility dal punto di vista biologico e della sua composizione, verrà meticolosamente sterilizzato prima di essere trasferito nei laboratori esterni alla struttura».
E invece, al contrario, non potreste essere voi scienziati a contaminare e quindi rovinare i campioni?
«Il rischio è altissimo qualora i campioni vengano esposti all’atmosfera terrestre e maneggiati senza le dovute attenzioni. Per questo all’interno del Measurement Definition Team stiamo studiando delle procedure che ci consentano di conservare e trattare i campioni senza alterarli e contaminarli».
Carl Sagan diceva che “l’esplorazione spaziale è un’impresa umana fondamentale che ci aiuta a comprendere il nostro posto nell”universo”. Cosa ne pensa, dal punto di vista etico, della colonizzazione umana di altri pianeti?
«Dal punto di vista scientifico è un’opportunità incredibile e credo che una volta risolti alcuni aspetti, come la necessità di reperire dell’acqua e proteggersi da radiazioni dannose, la prima colonizzazione umana diventerà assolutamente possibile e in un tempo non troppo lontano. Eticamente parlando, sono uno scienziato, per me la curiosità è tutto. Non mi sento di mettere limiti alla scoperta di mondi che ci sono quasi del tutto sconosciuti e che non vedo l’ora di scoprire».
Ingredienti della vita nei ghiacci delle protostelle
Immagine di una nube protostellare simile a quelle studiate da Webb in questo studio, e fotografata anch’essa dallo strumento Miri. Crediti: Esa/Webb, Nasa, Csa, W. Rocha et al. (Leiden University)
Si sente spesso attribuire a comete e asteroidi l’onere (e l’onore) di aver portato sulla Terra i composti utili alla formazione della vita. Fra questi ci sarebbero le cosiddette molecole organiche complesse (o Com, dall’inglese complex organic molecules), finora osservate solamente in fase gassosa in alcuni sistemi planetari in formazione, probabilmente a causa di limitazioni strumentali. Il James Webb Space Telescope, con il suo strumento Miri, ha ora individuato per la prima volta alcune di queste molecole complesse allo stato solido – sotto forma di ghiaccio – in due protostelle che probabilmente stanno formando nuovi sistemi planetari. L’articolo è stato pubblicato ieri su Astronomy and Astrophysics.
Le parole chiave del paragrafo precedente sono due: Com e ghiaccio. La prima perché, per la prima volta, Webb ha visto delle molecole organiche più complesse (e più grandi) di quelle osservate finora allo stato solido. E perché alcune di queste sono fondamentali per lo sviluppo della vita. La seconda perché alcune di queste erano già state osservate in forma gassosa, ma mai nei ghiacci.
«Una domanda fondamentale in astrochimica è se queste molecole si formino in stato gassoso nei dischi protoplanetari (in questo caso non sono molto abbondanti), oppure si possano formare anche sui grani di polvere in forma di ghiacci», spiega a Media Inaf Alessio Caratti o Garatti, ricercatore dell’Inaf di Capodimonte e coautore dello studio. «In questo caso la riserva di materiale è molto maggiore, perchè dopo essersi formate rimangono “intrappolate” nei ghiacci in regioni periferiche dei sistemi (proto)planetari. Vengono poi trasportate verso le regioni di formazione dei pianeti rocciosi (di tipo terrestre, nelle regioni più interne del disco) dalle comete (soprattutto) oppure dai grani di polvere che migrano verso le regioni interne dei sistemi. Questo significa che i pianeti in formazione hanno una riserva costante di molecole organiche complesse».
I due sistemi osservati da Webb si chiamano Iras 2A e Iras 23385+6053, sono rispettivamente una protostella di piccola massa e una di massa elevata; la prima fa parte della nebulosa Ngc 1333, una piccola regione di formazione stellare in direzione della costellazione di Perseo a circa mille anni luce da noi, la seconda appartiene invece a una regione di formazione stellare di alta massa a circa 16mila anni luce da noi.
Le molecole organiche complesse allo stato solido rilevate da Webb all’interno dei due dischi protostellari sono acetaldeide, etanolo (ciò che chiamiamo alcol), formiato di metile e probabilmente acido acetico (l’acido dell’aceto). Poiché diverse molecole fra queste erano state precedentemente rilevate in fase gassosa, gli autori hanno ipotizzato che derivino dalla sublimazione della loro fase ghiacciata. In pratica, queste molecole esistono prima come ghiacci, in maggiore quantità, e in un secondo momento alcune di queste diventano gas. L’esistenza in forma ghiacciata consente loro di essere trasportate sui pianeti quando il sistema in formazione si trova in uno stato più evoluto.
Questo grafico (cliccare per ingrandire) mostra lo spettro di una delle due protostelle, Iras 2A, quella più simile al Sole. Include le righe di acetaldeide, etanolo, metilformato e probabilmente acido acetico, in fase solida. Queste e altre molecole rilevate da Webb rappresentano ingredienti chiave per la creazione di mondi potenzialmente abitabili. Crediti: Nasa, Esa, Csa, L. Hustak (Stsci)
Quando le Com sono allo stato solido ghiacciato, infatti, non solo sono presenti in maggiore quantità, ma il loro trasporto risulta molto più efficiente rispetto a quando si trovano in fase di gas nelle nubi, perché possono migrare all’interno del disco oppure essere ereditate da comete e asteroidi che a loro volta entrano in collisione con i pianeti in formazione. Creando, come dicevamo all’inizio, le condizioni giuste affinché si sviluppi la vita.
«Gli oggetti che stiamo osservando con il nostro programma sono per lo più stelle in formazione com’era il Sole 4-5 miliardi di anni fa», continua Caratti o Garatti. «Ci vorranno ancora centinaia di milioni di anni prima che raggiungano la sequenza principale e diventino delle stelle come il Sole. Sono circondate da dischi di polvere e gas dove si stanno formando pianeti simili a quelli del nostro sistema solare, rocciosi nelle regioni interne e gassosi in quelle esterne. Quindi ci possiamo aspettare che una possibile Terra possa avere accesso anche a queste molecole più complesse».
Delle due protostelle osservate, in realtà è soprattutto Iras 2A a somigliare al Sole (in potenza). Vederla in questa fase, quindi, ci mostra le possibili analogie con le fasi primordiali del Sistema solare. Se così fosse, le specie chimiche identificate in questa sorgente erano probabilmente presenti anche nelle prime fasi di sviluppo del Sistema solare, e sono state successivamente trasportate sulla Terra primordiale. Nelle nubi, inoltre, sono state identificate anche molecole più semplici, tra cui metano, acido formico (che rende dolorosa la puntura delle formiche), anidride solforosa, formaldeide e biossido di zolfo. Quest’ultimo è di interesse prebiotico perché le ricerche esistenti suggeriscono che i composti contenenti zolfo hanno svolto un ruolo importante nel guidare le reazioni metaboliche sulla Terra. Proprio quelle che hanno dato l’inizio alla vita.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy and Astrophysics l’articolo “JWST Observations of Young protoStars (JOYS+): Detecting icy complex organic molecules and ions“, di W. R. M. Rocha, E. F. van Dishoeck, M. E. Ressler, M. L. van Gelder, K. Slavicinska, N. G. C. Brunken, H. Linnartz, T. P. Ray, H. Beuther, A. Caratti o Garatti, V. Geers, P. J. Kavanagh, P. D. Klaassen, K. Justtanont, Y. Chen, L. Francis, C. Gieser, G. Perotti, Ł. Tychoniec, M. Barsony, L. Majumdar, V. J. M. le Gouellec, L. E. U. Chu, B. W. P. Lew, Th. Henning e G. Wright
L’intelligenza artificiale affronta l’energia oscura
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Mappa della materia derivata da uno degli universi simulati. Le aree più chiare della mappa mostrano le regioni in cui la materia oscura è più densa, che corrispondono ai superammassi di galassie. Le macchie scure, quasi nere, sono i vuoti cosmici, gli ampi spazi vuoti tra gli ammassi di galassie. Crediti: Niall Jeffrey et al.
Un gruppo di ricerca guidato dallo University College London (Ucl) ha utilizzato tecniche di intelligenza artificiale per dedurre con maggiore precisione l’influenza e le proprietà dell’energia oscura da una mappa dell’universo che copre gli ultimi sette miliardi di anni. Lo studio, condotto dalla collaborazione Dark Energy Survey e sottomesso alla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society la settimana scorsa, ha raddoppiato la precisione con cui è stato possibile dedurre dalla mappa le caratteristiche fondamentali dell’universo, compresa la densità dell’energia oscura. Questa maggiore precisione sta permettendo ai ricercatori di escludere modelli di universo che in precedenza potevano essere plausibili.
«Utilizzando l’intelligenza artificiale per “imparare” dagli universi simulati al computer, abbiamo aumentato di due volte la precisione delle nostre stime sulle proprietà chiave dell’universo», dice Niall Jeffrey, primo autore dello studio. «Per ottenere questo miglioramento senza queste nuove tecniche, avremmo bisogno di una quantità di dati quattro volte superiore. Ciò equivarrebbe a mappare altre 300 milioni di galassie».
«I nostri risultati sono in linea con la migliore previsione attuale dell’energia oscura come costante cosmologica, il cui valore non varia nello spazio o nel tempo. Tuttavia, consentono anche una certa flessibilità per una spiegazione diversa. Per esempio, potrebbe ancora essere che la nostra teoria della gravità sia sbagliata», spiega il co-autore Lorne Whiteway.
In linea con la precedente analisi della mappa rilasciata dalla Dark Energy Survey, pubblicata per la prima volta nel 2021, i risultati suggeriscono che la materia nell’universo è distribuita in modo più uniforme – meno grumoso – rispetto a quanto previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein. Tuttavia, la discrepanza in questo studio risulta essere meno significativa rispetto all’analisi precedente, poiché le barre di errore sono più grandi.
La mappa della Dark Energy Survey è stata ottenuta attraverso il metodo del weak gravitational lensing, ovvero osservando come la luce proveniente da galassie lontane sia stata piegata dalla gravità indotta dalla materia interposta nel suo percorso verso la Terra.
La collaborazione ha analizzato le distorsioni nelle forme di 100 milioni di galassie per dedurre la distribuzione di tutta la materia, sia oscura che visibile, in primo piano rispetto a quelle galassie. La mappa risultante ha coperto un quarto del cielo dell’emisfero meridionale.
Per il nuovo studio, i ricercatori hanno utilizzato un supercomputer per eseguire simulazioni di diversi universi basate sui dati della mappa della materia della Dark Energy Survey. Ogni simulazione era basata su un diverso modello matematico dell’universo. Da ciascuna di queste simulazioni hanno creato mappe di materia. Poi, hanno usato un modello di apprendimento automatico per estrarre da queste mappe le informazioni rilevanti per i modelli cosmologici. Un secondo strumento di apprendimento automatico, che ha imparato dai numerosi esempi di universi simulati con diversi modelli cosmologici, ha esaminato i dati reali osservati e ha fornito le probabilità che qualsiasi modello cosmologico sia il vero modello del nostro universo.
Questa nuova tecnica ha permesso ai ricercatori di utilizzare molte più informazioni dalle mappe di quanto sarebbe stato possibile con il metodo precedente.
La prossima fase dei progetti sull’universo oscuro – tra cui la missione Euclid dell’Agenzia spaziale europea, lanciata l’estate scorsa – aumenterà notevolmente la quantità di dati in nostro possesso sulle strutture su larga scala dell’universo, aiutando i ricercatori a determinare se l’inaspettata uniformità – smoothness, in inglese – dell’universo è un segno che gli attuali modelli cosmologici sono sbagliati o se esiste un’altra spiegazione. Attualmente, questa uniformità è in contrasto con quanto è previsto dall’analisi del fondo cosmico a microonde, il residuo “fossile” del Big Bang.
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il pre-print dell’articolo “Dark Energy Survey Year 3 results: likelihood-free, simulation-based wCDM inference with neural compression of weak-lensing map statistics” di N. Jeffrey, L. Whiteway, M. Gatti, J. Williamson, J. Alsing, A. Porredon, J. Prat, C. Doux, B. Jain, C. Chang, T.-Y. Cheng, T. Kacprzak, P. Lemos, A. Alarcon, A. Amon, K. Bechtol, M. R. Becker, G. M. Bernstein, A. Campos, A. Carnero Rosell, R. Chen, A. Choi, J. DeRose, A. Drlica-Wagner, K. Eckert, S. Everett, A. Ferté, D. Gruen, R. A. Gruendl, K. Herner, M. Jarvis, J. McCullough, J. Myles, A. Navarro-Alsina, S. Pandey, M. Raveri, R. P. Rollins, E. S. Rykoff, C. Sánchez, L. F. Secco, I. Sevilla-Noarbe, E. Sheldon, T. Shin, M. A. Troxel, I. Tutusaus, T. N. Varga, B. Yanny, B. Yin, J. Zuntz, M. Aguena, S. S. Allam, O. Alves, D. Bacon, S. Bocquet, D. Brooks, L. N. da Costa, T. M. Davis, J. De Vicente, S. Desai, H. T. Diehl, I. Ferrero, J. Frieman, J. García-Bellido, E. Gaztanaga, G. Giannini, G. Gutierrez, S. R. Hinton, D. L. Hollowood, K. Honscheid, D. Huterer, D. J. James, O. Lahav, S. Lee, J. L. Marshall, J. Mena-Fernández, R. Miquel, A. Pieres, A. A. Plazas Malagón, A. Roodman, M. Sako, E. Sanchez, D. Sanchez Cid, M. Smith, E. Suchyta, M. E. C. Swanson, G. Tarle, D. L. Tucker, N. Weaverdyck, J. Weller, P. Wiseman e M. Yamamoto
Lo spazio fa venire il mal di testa?
Da sinistra: Alexander Grebenkin di Roscosmos, Matthew Dominick e Jeanette Epps della Nasa all’interno del modulo Destiny della Stazione spaziale internazionale. Crediti: Nasa
Il mal di spazio, così come il mal d’auto, il mal di mare o il mal di montagna, esiste. La causa, in questo caso, è l’assenza di gravità – o meglio, la microgravità – e i sintomi sono molto simili: nausea, vomito, vertigini e mal di testa. Di solito migliora man mano che il corpo si adatta alla nuova condizione, nel giro di due o tre giorni. Alcuni di questi sintomi, però, potrebbero diventare persistenti durante i soggiorni spaziali lunghi. Il mal di testa, ad esempio. Un gruppo di ricercatori olandesi ha condotto un’indagine su 24 astronauti di varie agenzie spaziali, fra cui quella europea, che abbiano partecipato ad almeno una missione sulla Stazione spaziale internazionale, trovando appunto una correlazione fra permanenza nello spazio e insorgenza ripetuta del sintomo. Lo studio è stato pubblicato oggi su Neurology, la rivista medica della American Academy of Neurology.
«I cambiamenti di gravità causati dal volo spaziale influenzano il funzionamento di molte parti del corpo, compreso il cervello», spiega Willebrordus P. J. van Oosterhout, ricercatore al Leiden University Medical Center nei Paesi Bassi, e primo autore dell’articolo. «Il sistema vestibolare, che influenza l’equilibrio e la postura, deve adattarsi al conflitto tra i segnali che si aspetta di ricevere e quelli che riceve effettivamente in assenza di gravità normale. Questo può portare alla cinetosi spaziale nella prima settimana, di cui il mal di testa è il sintomo più frequentemente riportato».
Lo studio, dicevamo, ha coinvolto 24 astronauti dell’Agenzia spaziale europea, della Nasa e della Jaxa – l’agenzia spaziale giapponese – che sono stati assegnati a spedizioni sulla Stazione spaziale internazionale per un massimo di 26 settimane fra novembre 2011 e giugno 2018. Prima dello studio, nove astronauti avevano dichiarato di non aver mai avuto mal di testa a terra, mentre tre avevano avuto episodi di mal di testa che aveva interferito con le loro attività quotidiane nell’ultimo anno. Nessuno di loro, comunque, soffriva di mal di testa ricorrenti o di emicrania.
Durante la loro missione spaziale, gli astronauti hanno compilato un questionario giornaliero per i primi sette giorni e un questionario settimanale ogni settimana successiva per tutta la durata della permanenza nella stazione spaziale. In totale, 22 astronauti hanno riportato uno o più episodi di mal di testa durante il loro periodo di permanenza nello spazio. Dei mal di testa riportati, il 90 per cento (170) era di tipo tensivo e il restante 10 per cento (19) erano emicranie.
I ricercatori hanno anche scoperto che il mal di testa era di intensità maggiore e più frequentemente di tipo emicranico durante la prima settimana di permanenza nello spazio. Durante questo periodo, 21 astronauti hanno avuto uno o più mal di testa per un totale di 51 episodi. Di questi, 39 sono stati considerati di tipo tensivo e 12 (il 23,5 per cento, più del doppio rispetto alla statistica sull’intero periodo) di tipo emicranico.
Nei tre mesi successivi al rientro sulla Terra nessuno degli astronauti ha riportato mal di testa. Rispetto al mal di testa causato dal cosiddetto “mal di spazio”, che si esaurisce in pochi giorni, lo studio dimostra che questo sintomo può manifestarsi anche in un secondo momento durante il volo spaziale.
Per quanto riguarda le cause, nell’articolo si avanza qualche ipotesi, anche se questa ricerca si limita a evidenziare l’associazione fra sintomo (mal di testa) e circostanza (permanenza nello spazio). Occorre comunque invocare due diversi meccanismi, che differenziano il mal di testa dei primi giorni nello spazio da quello persistente nelle settimane successive. Nella prima settimana si verifica infatti l’adattamento all’assenza di peso. In assenza di gravità si assiste a una perdita dei segnali otolitici legati all’inclinazione, e l’ipotesi è che questo generi un conflitto tra i segnali attesi dagli organi sensoriali e quelli effettivi, che servono a determinare l’orientamento spaziale. Questa sarebbe anche la causa principale della cinetosi spaziale (il mal di spazio), di cui la cefalea è il sintomo più frequente. Durante il periodo di permanenza più lungo, invece, avviene una ridistribuzione dei fluidi corporei che interessa anche la testa e che potrebbe provocare spostamenti di fluidi intracranici ed extracranici, aumentando la pressione intracranica e scatenando mal di testa.
«Sono necessarie ulteriori ricerche per svelare le cause di fondo della cefalea spaziale ed esplorare come queste scoperte possano fornire spunti per le cefalee che si verificano sulla Terra», conclude Van Oosterhout. «Inoltre, è necessario sviluppare terapie più efficaci per combattere il mal di testa spaziale, che per molti astronauti rappresenta un problema importante durante i voli spaziali».
Per saperne di più:
- Leggi su Neurology l’articolo “Frequency and Clinical Features of Space Headache Experienced by Astronauts During Long-Haul Space Flights”, di Willebrordus P.J. van Oosterhout, Matthijs J.L. Perenboom, Gisela M. Terwindt, Michel D. Ferrari e Alla A. Vein
Nelle rocce le tracce d’un nuovo ciclo astronomico
La prima autrice dello studio, la geologa Adriana Dutkiewicz, indica uno dei siti di campionamento lungo una dorsale che mostra la discontinuità della successione stratigrafica. Crediti: Università di Sydney
Per i geologi gli strati di sedimento roccioso sono come le pagine di un libro di storia: ognuna racconta le vicende di un’epoca diversa. Nel caso dei sedimenti, di un’epoca diversa del nostro pianeta. Prodotti nell’arco di miliardi di anni per deposizione di materiale di varia natura, questi strati possono raccontare, ad esempio, la storia del clima. Ma non solo. La stratigrafia del sedimento può dirci anche se il clima è stato influenzato, nel corso delle ere geologiche, da fattori come le variazioni orbitali della Terra, producendo i cosiddetti cicli astronomici – come i cicli di Milanković.
Proviamo a illustrare – semplificandola molto – la relazione che lega il clima, le oscillazioni dell’orbita terrestre e la sedimentazione su tempi scala geologici: le variazioni cicliche dell’orbita del nostro pianeta provocano variazioni dell’insolazione; queste variazioni, ripercuotendosi sul clima, modificano il moto delle correnti oceaniche, che a loro volta controllano il processo di sedimentazione. Ciclostratigrafia orbitale: è così che si chiama la disciplina che si occupa dello studio di questa relazione. Utilizzando tecniche tipiche della ciclostratigrafia, un team di geologi guidati dall’Università di Sydney e dall’Università della Sorbona ha ora scoperto un nuovo ciclo astronomico. Un ciclo della durata milioni di anni durante il quale la Terra sperimenta variazioni climatiche che sarebbero dovute alle interazioni del pianeta con Marte.
Per giungere a questa conclusione, i ricercatori hanno utilizzato i dati di ben 370 campioni di sedimento roccioso di origine oceanica, che coprono circa 70 milioni di anni di storia della Terra. I campioni oggetto dello studio provengono da 293 “carote” prelevate dai cosiddetti iati, discontinuità nella successione stratigrafica dovute all’arresto della deposizione, che rappresentano un segno di importanti cambiamenti nella circolazione oceanica e, come conseguenza, di profonde perturbazioni climatiche. Le discontinuità negli strati dei sedimenti sono infatti la firma di forti correnti oceaniche, mentre un continuo accumulo di questi indica una circolazione oceanica più calma.
L’obiettivo dei ricercatori era di comprendere come la forza delle correnti marine profonde cambiasse nel tempo. Per farlo hanno esaminato l’erosione del sedimento roccioso derivante da eventuali variazioni della forza delle correnti. Analizzando i dati dei carotaggi prelevati da centinaia di siti sparsi in tutto il mondo alla ricerca di indicatori di parametri paleoclimatici – quelli che gli addetti ai lavori chiamano proxies – e mediante analisi statistiche di serie temporali, i ricercatori hanno trovato un raggruppamento di discontinuità che copriva un periodo di 2,4 milioni di anni: la prova di un “grande ciclo astronomico”, come chiamano gli astronomi queste lunghe finestre temporali, durante il quale la Terra sperimenta una circolazione oceanica profonda più vigorosa. Un ciclo astronomico alla cui base ci sarebbe la risonanza orbitale tra Marte e la Terra.
«Siamo rimasti sorpresi di trovare questi cicli di 2,4 milioni di anni nei dati provenienti da sedimenti rocciosi di acque profonde», dice a questo proposito Adriana Dutkiewicz dell’Università di Sydney, prima autrice dello studio pubblicato ieri su Nature Communications. «C’è solo un modo per spiegarli», aggiunge la ricercatrice: «collegarli a cicli di interazione tra Marte e Terra in orbita attorno al Sole». I risultati dello studio indicano infatti che il ciclo di discontinuità di 2,4 milioni di anni corrisponde a un ciclo di eccentricità di pari durata relativo alla precessione dei perieli della Terra e di Marte.
«I campi gravitazionali dei due pianeti nel Sistema solare interferiscono l’uno con l’altro», spiega lo scienziato dell’Università di Sydney Dietmar Müller, tra gli autori della pubblicazione. «Questa interazione, chiamata risonanza, cambia l’eccentricità planetaria, che è una misura di quanto le loro orbite siano vicine all’essere circolari».
La mappa dei siti scientifici da cui provengono i campioni di sedimento utilizzati nello studio. Le “carote” sono state prelevate nell’ambito del Deep-Sea Drilling Project. Crediti: Dutkiewicz at al., Nature Communications, 2024
Ma che cosa significa tutto ciò per la Terra? Secondo gli astronomi, questa interazione comporta una maggiore radiazione solare incidente, che è responsabile di climi più caldi. E poiché i climi più caldi sono collegati a oceani più caldi, in questi periodi lunghi 2,4 milioni di anni, osservano i ricercatori, si producono forti correnti oceaniche. Questi movimenti di grandi masse d’acqua ed energia sarebbero guidati da vortici oceanici profondi, giganteschi mulinelli – eddies, in inglese– che possono arrivare anche a 6500 metri di profondità. Vortici che porterebbero all’erosione del fondale marino e a grandi accumuli di sedimenti chiamati contouriti.
Secondo i ricercatori, inoltre, è possibile che questi mulinelli possano in parte mitigare la stagnazione degli oceani che potrebbe essere causata dal rallentamento della circolazione di ribaltamento meridionale dell’Atlantico, il principale sistema di correnti dell’oceano Atlantico che guida la Corrente del Golfo e mantiene i climi temperati in Europa.
«I nostri dati suggeriscono che gli oceani più caldi hanno una circolazione profonda più vigorosa», sottolinea Dutkiewicz. «Ciò eviterà potenzialmente che l’oceano diventi stagnante anche se la circolazione di ribaltamento meridionale dell’Atlantico rallenta o si ferma del tutto».
Oltre ai ben noti cicli astronomici con periodi di 19mila, 23mila, 41mila, 100mila e 400mila anni che scandiscono il clima della Terra, i cosiddetti cicli di Milanković, i sedimenti contengono dunque anche tracce di questo “grande ciclo” dal periodo molto più lungo. Un ciclo che, come altri del suo genere, è legato a cambiamenti delle correnti oceaniche e del paleoclima terrestre. Gli autori sperano che la scoperta di questo ciclo possa aiutare gli scienziati a costruire in futuro modelli climatici migliori.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Deep-sea hiatus record reveals orbital pacing by 2.4 Myr eccentricity grand cycles” di Adriana Dutkiewicz, Slah Boulila e R. Dietmar Müller
Bloodstain pattern analysis in microgravità
Gli esperimenti sono stati condotti in gravità ridotta a bordo di un aereo parabolico. Crediti: Staffordshire University
Se siete amanti di Csi (la famosa serie Crime Scene Investigation) o del podcast di Stefano Nazzi, Indagini, questo studio fa per voi.
Mentre sempre più persone cercano di andare là, dove nessun uomo è mai giunto prima, alcuni ricercatori stanno indagando su come la scienza forense possa essere adattata agli ambienti extraterrestri. In particolare, un nuovo studio della Staffordshire University e dell’Università di Hull mette in evidenza il comportamento del sangue in microgravità e l’analisi delle macchie di sangue a bordo dei veicoli spaziali.
La tecnica si chiama Bloodstain Pattern Analysis(Bpa) e la sua pratica, che consiste nello studio e nell’analisi delle macchie di sangue su una scena del crimine, è tuttora controversa. Viene utilizzata soprattutto per studiare gli omicidi o altri crimini violenti in cui è presente del sangue, e si ritiene che aiuti a ricostruire la scena del crimine. Dalla fine degli anni ’50, gli esperti di Bpa sostengono di essere in grado di utilizzare la biologia, la fisica (fluidodinamica) e i calcoli matematici per ricostruire con precisione gli eventi sulla scena del crimine. In realtà, la validità dell’analisi delle macchie di sangue è stata messa in discussione fin dagli anni ’90 e studi più recenti hanno messo in dubbio la sua accuratezza. Comunque, lo studio in questione ha l’obiettivo di capire il modo in cui si comporta il sangue nello spazio, in condizioni di microgravità.
«Lo studio delle macchie di sangue può fornire informazioni preziose per la ricostruzione di un crimine o di un incidente. Tuttavia, poco si sa su come il sangue liquido si comporti in un ambiente a gravità alterata. Si tratta di un’area di studio che, pur essendo nuova, ha implicazioni per le indagini forensi nello spazio», commenta Zack Kowalske, del Csi Atlanta, negli Stati Uniti, che ha condotto lo studio nell’ambito del suo dottorato di ricerca presso la Staffordshire University. «La scienza forense non si limita a cercare di risolvere i crimini, ma ha anche un ruolo nella ricostruzione degli incidenti o nell’analisi dei guasti. Con questo concept, si pensi a come le varie discipline forensi potrebbero essere utilizzate in un incidente critico a bordo di una stazione spaziale o di uno shuttle».
Gli esperimenti sono stati condotti a bordo di un aereo parabolico Boeing 727 modificato dalla Zero Gravity Corporation. È stata utilizzata una miscela di glicerina al 40 per cento e colorante alimentare rosso al 60 per cento, simulando la densità e la viscosità relativa del sangue umano. Le gocce di sangue sono state spinte da una siringa idraulica verso un bersaglio durante periodi di gravità ridotta tra 0,00 e 0,05 g. Da queste macchie di sangue, i ricercatori hanno ricostruito l’angolo di impatto.
«In assenza di influenza gravitazionale, la tensione superficiale e la coesione delle gocce di sangue sono amplificate. Ciò significa che il sangue nello spazio ha una maggiore tendenza ad aderire alle superfici finché una forza maggiore non ne provoca il distacco. Nell’ambito della formazione delle macchie di sangue, ciò significa che le gocce di sangue mostrano una velocità di diffusione più lenta e, quindi, hanno forme e dimensioni che non sarebbero come sulla Terra. Sulla Terra, la gravità e la resistenza dell’aria hanno un’influenza notevole sulla deviazione dell’angolo calcolato. L’ipotesi iniziale era che, grazie all’assenza di gravità, alcuni calcoli matematici sarebbero stati più accurati. Tuttavia, l’effetto amplificato della tensione superficiale è diventato un fattore predominante che ha causato una maggiore varianza nei calcoli, anche in assenza di gravità», spiega Graham Williams dell’Università di Hull, coautore dello studio.
Si tratta del primo studio relativo al comportamento del sangue nel volo libero. Con il ritmo dell’evoluzione tecnologica dell’esplorazione spaziale, gli autori affermano che la necessità di tecniche forensi affidabili diventerà sempre più importante. «Ci troviamo in una nuova era della scienza forense; proprio come la ricerca della metà del XIX secolo poneva la questione di cosa significasse una macchia di sangue in relazione alla causa, siamo ancora una volta all’inizio con nuove domande che legano come i nuovi ambienti influenzano la scienza forense. La scienza astroforense è una nuova sub-disciplina che è agli inizi. Ampliare la comprensione di tutte le scienze forensi in ambienti non terrestri è fondamentale nel momento in cui ci evolviamo in una specie che viaggia nello spazio. È necessaria una ricerca che abbracci tutte le discipline», conclude Zack.
Per saperne di più:
- Leggi su Forensic Science International: Reports l’articolo “Bloodstain pattern dynamics in microgravity: Observations of a pilot study in the next frontier of forensic science” di Zack Kowalske, George Pantalos, Abdulrahman Oleiwi, Graham Williams
Una squadra di mini rover per la Luna
La Nasa invierà sulla Luna un trio di rover grandi come un bagaglio a mano. Il progetto Cadre è stato ideato per dimostrare che più robot possono cooperare ed esplorare insieme in modo autonomo. Credito: Nasa
«Tutti per uno, uno per tutti!». Potrebbe essere il motto del trio di piccoli rover Nasa che, ormai prossimi al lancio, esploreranno la Luna in sincronia tra loro. Gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (Jpl), nel sud della California, hanno da poco terminato l’assemblaggio dei nuovi robot a quattro ruote e li hanno sottoposti a una serie di test per garantirne la sopravvivenza durante l’arduo viaggio nello spazio e, una volta arrivati a destinazione, all’inesorabile ambiente lunare.
Il trio fa parte di Cadre (Cooperative Autonomous Distributed Robotic Exploration), un progetto della Nasa per l’esplorazione robotica cooperativa autonoma: come suggerisce il nome, punta ad avere dei rover capaci di muoversi e interagire tra loro in modo indipendente e, a differenza di altri rover semi-automi, senza il contributo diretto del centro di controllo sul nostro pianeta. Sono piccoli rover a energia solare, delle dimensioni di un bagaglio a mano, ideati per perlustrare aree della Luna potenzialmente pericolose per gli astronauti, come ad esempio la regione Reiner Gamma – nel mare più grande della Luna, l’Oceanus Procellarum –, soggetta a intensi fenomeni di magnetismo. I rover e le componenti hardware associate saranno installati su un lander lunare e trascorreranno le ore di luce di un giorno lunare – l’equivalente di circa 14 giorni sulla Terra – conducendo esperimenti di esplorazione, mappatura e utilizzo di radar a penetrazione del suolo, per scrutare sotto la superficie del nostro satellite naturale.
Quella dei rover per l’esplorazione lunare è una storia lunga, ma se il progetto Cadre avrà successo le missioni future potranno includere intere squadre di robot per effettuare misurazioni scientifiche simultanee e distribuite. Per ora, gli ingegneri stanno sottoponendo i rover agli ultimi test, eliminando i bug per completare l’hardware e preparando l’integrazione con il lander. «Sono stati mesi di test, quasi 24 ore su 24, ma il duro lavoro del team sta dando i suoi frutti. Ora sappiamo che questi rover sono pronti a mostrare ciò che una squadra di piccoli robot spaziali può realizzare combinandosi insieme», dice Subha Comandur, project manager di Cadre presso il Jpl.
L’elenco dei test effettuati è lungo. I più “brutali” sono quelli sulle condizioni ambientali estreme, per garantire che i rover siano in grado di resistere alle strade impervie sul suolo lunare. Altre simulazioni includono camere a vuoto termico che simulano le condizioni di assenza d’aria dello spazio e le sue estreme temperature calde e fredde. Inoltre, l’hardware viene fissato a uno speciale e brusco “tavolo vibrante”, per assicurarsi che possa sopportare le sollecitazioni meccaniche che lo attendono. «Questo è ciò che facciamo ai nostri rover: li “agitiamo” per simulare il lancio del razzo stesso e li “cuociamo” per simulare le temperature estreme dello spazio», spiega Guy Zohar, responsabile del sistema di volo al Jpl. Gli ingegneri hanno anche eseguito test ambientali su tre elementi hardware montati sul lander: una stazione base con cui i rover comunicheranno tramite radio in rete, una telecamera per seguire le attività dei rover e i sistemi di dispiegamento che caleranno i rover sulla superficie lunare tramite un cavo in fibra alimentato da una bobina motorizzata. Successivamente, l’hardware verrà spedito a Intuitive Machines, l’azienda della Nasa che opera per il programma lunare commerciale, per poi essere installato su un lander Nova-C che verrà lanciato su un razzo Falcon 9 di SpaceX dal Kennedy Space Center della Nasa, in Florida.
L’elenco dei test è ampio, ma i più impegnativi prevedono condizioni ambientali estreme per garantire che i rover possano resistere ai rigori della strada da percorrere. Crediti: Nasa
Nel frattempo, il team che si occupa del software di autonomia cooperativa di Cadre ha portato versioni in scala dei rover nel sabbioso e roccioso Mars Yard – un terreno di prova all’aperto ricreato al Jpl per simulare una varietà di terreni planetari. Con il software di volo e le capacità di autonomia a bordo, questi modelli di rover hanno dimostrato di poter raggiungere gli obiettivi chiave del progetto “spostandosi” in formazione. Di fronte a ostacoli imprevisti, hanno modificato i loro piani e i loro movimenti agendo in gruppo, condividendo mappe aggiornate e pianificando nuovi percorsi alternativi in maniera coordinata. E senza lasciare indietro i robot “compagni”: quando la carica della batteria di un rover si è esaurita, il resto della squadra ha fatto una pausa per poter poi proseguire insieme.
Anche le “prove su strada” sono andate a buon fine. Il progetto ha condotto diversi test di guida di notte, sotto grandi lampade ad alta illuminazione, in modo che i rover potessero sperimentare ombre estreme e condizioni di luce simili a quelle che incontreranno durante il giorno lunare. In più, su un terreno di consistenza diversa dalla superficie lunare, più scivoloso, i robot sono usciti dalla formazione, scombinando l’allineamento iniziale. Poi si sono fermati, si sono riadattati e hanno proseguito il percorso previsto.
«Saper gestire le sorprese è fondamentale, per l’autonomia. La forza del nostro progetto è proprio questa: i robot sono capaci di rispondere agli imprevisti, si riorganizzano e procedono con successo», conclude Jean-Pierre de la Croix del Jpl, responsabile scientifico del progetto Cadre e dei processi di automazione. «Abbiamo fatto del nostro meglio per prepararci, testando insieme software e hardware in varie situazioni. Andremo sulla Luna, è chiaro che dovremo saper affrontare incognite e fuori-programma».
Webb sfida i modelli per l’universo giovane
Gz9p3, la fusione di galassie più luminosa conosciuta nei primi 500 milioni di anni dell’universo, osservata da Jwst. In alto: l’immagine diretta mostra un nucleo doppio nella regione centrale. In basso: i contorni del profilo di luce rivelano una struttura allungata a più frammenti prodotta dalla fusione di galassie. Crediti: Kristan Boyett et al. Nature Astronomy, 2024
Un gruppo internazionale di ricercatori – tra cui sette astronomi dell’Inaf di Roma – ha puntato gli occhi del telescopio spaziale James Webb (Jwst) verso Gz9p3, una galassia massiccia e brillante che si trova a circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang, riuscendo a ottenere immagini con dettagli senza precedenti della fusione di galassie più giovane mai vista. Lo studio, guidato da Kristan Boyett della University of Melbourne (Australia) e pubblicato la settimana scorsa sulla rivista Nature Astronomy, indica che le galassie primordiali, e le stelle al loro interno, si sono sviluppate molto più velocemente e in modo più efficace di quanto prevedano i modelli a nostra disposizione.
La galassia Gz9p3 è stata identificata nel 2023 durante una delle prime campagne osservative del telescopio spaziale Webb grazie alla survey Glass, ed è stata poi confermata come una delle galassie più lontane da noi – con un redshift pari a 9.3, che corrisponde a un’età dell’universo di circa 525 milioni di anni – grazie a una serie di osservazioni spettroscopiche.
«Questa galassia si trova prospetticamente dietro l’ammasso di galassie Abell 2744, del quale sfrutta l’effetto di lente gravitazionale, che la fa apparire di un fattore 1.7 volte più luminosa», spiega Antonello Calabrò dell’Inaf di Roma, fra i coautori dell’articolo. «La prima particolarità di Gz9p3 è che si tratta di un sistema interagente. La galassia è infatti composta da una parte centrale che sta formando stelle a un ritmo di circa 10 masse solari all’anno, e di una lunga coda di gas e stelle derivante dall’interazione e che si estende per oltre 10mila anni luce dal centro».
Jwst, lanciato a dicembre del 2021, consente agli astronomi di vedere l’universo primordiale in modi prima impossibili. Gli oggetti che apparivano come singoli punti luminosi attraverso i telescopi precedenti, come il telescopio spaziale Hubble, stanno rivelando la loro complessità. Grazie all’alta risoluzione spaziale raggiunta nel vicino infrarosso con Jwst, i ricercatori hanno potuto vedere che la zona centrale di Gz9p3 è formata in realtà da due nuclei distinti e molto vicini tra loro, e dunque che stiamo assistendo a uno scontro tra titani.
«Le sorprese, però non sono finite qui», continua Calabrò. «La luminosità intrinseca della galassia (M = -21.8) è del 50 per cento più alta di quella caratteristica delle galassie alla stessa epoca, mentre la massa stellare, stimata a 2.5 miliardi di masse solari, supera di almeno un ordine di grandezza la massa di tutte le altre galassie finora scoperte a redshift 9. Tutte queste proprietà fanno di questa galassia una delle più massive e brillanti confermate finora all’epoca della reionizzazione».
Sebbene la probabilità di osservare delle galassie interagenti a queste distanze cosmiche sia piuttosto alta (intorno al 20 per cento), i modelli non sono in grado di prevedere luminosità e masse stellari così grandi, per di più in una porzione di cielo molto ridotta, di circa 10 arcominuti quadrati. Questo può significare due cose: o i ricercatori sono stati molto fortunati, e hanno individuato una galassia molto rara in quell’epoca cosmica, oppure c’è qualcosa di importante da rivedere nei modelli teorici, affinché contengano al loro interno gli ingredienti per poter formare galassie di questo tipo in tempi così brevi. Questo dilemma ci riporta all’eccesso di sorgenti brillanti e massicce osservate, sempre grazie a Jwst, a redshift superiori a 10, su cui gli astronomi stanno ancora lavorando.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “A massive interacting galaxy 510 million years after the Big Bang” di K. Boyett, M. Trenti, N. Leethochawalit, A. Calabrò, B. Metha, G. Roberts-Borsani, N. Dalmasso, L. Yang, P. Santini, T. Treu, T. Jones, A. Henry, C. A. Mason, T. Morishita, T. Nanayakkara, N. Roy, X. Wang, A. Fontana, E. Merlin, M. Castellano, D. Paris, M. Brada, M. Malkan, D. Marchesini, S. Mascia, K. Glazebrook, L. Pentericci, E. Vanzella e B. Vulcani
Le scorribande di Srt nell’ammasso della Chioma
Quello della Chioma è un imponente ammasso composto da ben un migliaio di galassie che interagiscono tra loro a 350 milioni di anni luce da noi. Sembra una distanza abissale e invece Coma cluster è uno degli ammassi più vicini, tanto da consentire agli astronomi osservazioni molto dettagliate della sua emissione radio. L’ottima visibilità dell’ammasso della Chioma non dipende solo dalla sua vicinanza fisica alla nostra Via Lattea. A fare la differenza è anche la sua posizione in cielo, coincidente con un riferimento a cui non siamo abituati: il polo nord galattico. Questo insolito ma importante pilastro celeste si trova proprio nella costellazione della Chioma di Berenice (da cui poi ha preso il nome anche l’ammasso), ben lontano dalla parte più luminosa e visibile della nostra galassia. Una zona perfetta, insomma, per guardare fuori.
Nell’infografica (cliccare per ingrandire) si può individuare facilmente il punto di osservazione del cielo da parte del Sardinia Radio Telescope e il Polo nord galattico che si trova nella costellazone della Chioma di Berenice, da cui l’ammasso prende il nome. Questa zona del cielo è ideale per osservare fuori dalla via lattea in quanto lontana dall’alone luminoso che, appunto, caratterizza la Via Lattea. del disco. Crediti M. Murgia, S. Poppi, P. Soletta, Stellarium, Sdss
Alle numerose e storiche osservazioni del Coma cluster ora si aggiunge un nuovo studio, condotto da Matteo Murgia dell’Inaf di Cagliari e pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, che vede protagonista Srt – il Sardinia Radio Telescope – con osservazioni effettuate in due diverse bande di frequenza a 1,4 e 6,6 GHz.
«Grazie a una lunga serie di osservazioni con Srt dell’ammasso della Chioma», spiega Murgia a Media Inaf, «abbiamo ottenuto nuove immagini profonde dell’alone radio centrale e del relitto radio periferico, ricostruendo in maniera completa la brillanza delle strutture a larga scala. A 6,6 GHz sono stati rivelati sia il relitto radio che la parte centrale dell’alone in intensità totale e polarizzazione. Queste sono le immagini a frequenza più alta finora disponibili per queste sorgenti radio diffuse nell’ammasso, un record che estende le precedenti osservazioni effettuate con i due radiotelescopi single-dish più grandi del mondo: il Green Bank Telescope (Gbt) negli Stati Uniti e il radiotelescopio da 100 metri di Effelsberg, in Germania.”
Dettaglio dell’osservazione dell’ammasso della Chioma a 6,6 GHz sovrapposta ad una immagine ottica (cliccare per ingrandire). L’alone radio al centro dell’immagine occupa all’incirca mezzo grado, ovvero la dimensione apparente della luna piena in cielo e può essere visto solo nelle onde radio, non nella luce visibile. Crediti: M. Murgia et al. 2024
A 6.6 GHz (ovvero 6.6 miliardi di cicli al secondo) le onde elettromagnetiche – che, ricordiamolo, viaggiano alla velocità della luce – hanno una lunghezza di 4,5 centimetri, configurandosi così come microonde in quell’intervallo che tecnicamente si chiama Super High Frequency e che, in radioastronomia, si restringe ulteriormente venendo definito banda C.
Il campo di osservazione in banda C è stato più o meno di quattro gradi quadrati. In quel vasto campo da gioco l’alone radio visto da Srt ha una dimensione angolare di 30 minuti d’arco, ovvero il famoso “mezzo grado di cielo” che occupa la luna piena. Alla distanza di 350 milioni di anni luce questa distanza angolare corrisponde a una panoramica frontale pari a circa 2 milioni e mezzo di anni luce, esattamente la distanza tra la Via Lattea – dunque noi – e la galassia di Andromeda, la nostra grande vicina di casa.
«Lo studio degli spettri di aloni e relitti radio», continua Murgia, «è particolarmente interessante alle alte frequenze, dove possono essere trovati vincoli importanti sui meccanismi fisici responsabili della loro formazione ed evoluzione. Tuttavia, misurare accuratamente i loro spettri su un ampio intervallo di frequenze è un compito difficile, sia per ragioni fisiche che tecniche. Queste sorgenti diffuse nel mezzo intergalattico presentano infatti una luminosità superficiale molto bassa alle frequenze superiori al GHz, che è proprio una parte dello spettro radio dove gli interferometri soffrono il cosiddetto problema della spaziatura zero mancante, che li rende “ciechi” alle strutture più grandi rispetto alla dimensione angolare corrispondente alla spaziatura minima tra le antenne. I telescopi single-dish di grandi dimensioni sono, invece, ottimali per rilevare emissioni su larga scala e sono quindi strumenti complementari agli interferometri operanti a bassa frequenza, come LoFar».
Matteo Murgia all’Inaf – Osservatorio astronomico di Cagliari a Selargius (CA). Crediti: P. Soletta/Inaf 2024
Insomma, parafrasando la saggezza popolare e le sue apparenti contraddizioni, è senz’altro vero che, con le osservazioni single dish chi fa da sé fa per tre, ma è altrettanto vero che, confrontando a posteriori i dati di vari telescopi, l’unione fa la forza.
Le osservazioni sono state effettuate nel 2016 nell’ambito di un progetto osservativo condotto dallo stesso Murgia, e all’epoca il Sardinia Radio Telescope non disponeva ancora dei nuovi ricevitori, installati nel 2023, che oggi consentono di osservare onde cortissime (fino a 3 millimetri) a frequenze altissime (fino a 116 GHz). Può darsi, dunque, che l’ammasso della Chioma possa riservare ancora nuove sorprese se osservato in questo range di frequenze.
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Sardinia Radio Telescope observations of the Coma Cluster”, di M. Murgia, F. Govoni, V. Vacca, F. Loi, L. Feretti, G. Giovannini, A. Melis, R. Concu, E. Carretti, S. Poppi, G. Valente, A. Bonafede, G. Bernardi, W. Boschin, M. Brienza, T.E. Clarke, F. de Gasperin, T.A. Ensslin, C. Ferrari, F. Gastaldello, M. Girardi, L. Gregorini, M. Johnston-Hollitt, E. Orrù, P. Parma, R.A. Perley, G.B Taylor e P. Marchegiani
Baby quasar… cosa vuoi fare da grande?
Un immagine di Jwst con il quasar J1148+5251. Insieme nello stesso set di dati due “baby quasar”. Crediti: Nasa, Esa, Csa, J. Matthee (Ista), R. Mackenzie (Eth Zurich), D. Kashino (National Observatory of Japan), S. Lilly (Eth Zurich)
I buchi neri supermassicci (Smbh, dall’inglese supermassive black holes) sono tra gli oggetti più affascinanti dell’universo, possono raggiungere masse che variano da milioni fino a miliardi di masse solari e si ritiene che ce ne sia uno nel cuore di ogni galassia. Ma non si comportano tutti allo stesso modo: alcuni di loro, quelli attivi, crescono rapidamente inghiottendo enormi quantità di materia. Questi oggetti prendono il nome di quasar e rientrano tra le sorgenti più luminose del cosmo.
Alcuni di questi voraci quasar stanno dando agli astronomi filo da torcere. «Sembrano essere eccessivamente massicci, considerando l’età dell’universo al momento della loro osservazione. Li chiamiamo quasar problematici», dice Jorryt Matthee dell’Istituto austriaco di scienza e tecnologia (Ista). «Se consideriamo che i quasar hanno origine dalle esplosioni delle stelle massicce e che, grazie alle leggi della fisica, conosciamo il loro tasso di crescita massimo, alcuni di essi sembrano essere cresciuti più rapidamente di quanto sia possibile. È come guardare un bambino di cinque anni che è alto due metri. Qualcosa non quadra».
È dunque possibile che i buchi neri supermassicci crescano ancora più velocemente di quanto si pensi? O che si formino in modo diverso da quello ipotizzato? La risposta a queste domande potrebbe arrivare anche grazie alla scoperta che Matthee e colleghi hanno pubblicato hanno pubblicato la settimana scorsa su The Astrophysical Journal: il team di astronomi ha infatti identificato, avvalendosi del James Webb Space Telescope (Jwst), un gruppo di oggetti che appaiono come dei piccoli puntini rossi, riuscendo a dimostrare che sono appunto dei buchi neri “supermassicci ma non troppo”.
«Mentre i quasar problematici sono blu, estremamente luminosi e raggiungono miliardi di volte la massa del Sole», spiega Matthee, «i piccoli punti rossi sono più simili a baby quasar. Le loro masse si collocano tra dieci e cento milioni di masse solari, e appaiono rossi perché sono pieni di polvere». Ma anche questi quasar “neonati” evolveranno in giganti, pertanto gli astrofisici dell’Ista suggeriscono che i puntini rossi osservati con Webb siano, appunto, versioni su piccola scala dei giganteschi buchi neri supermassicci blu, colti in una fase precedente a quella dei quasar problematici. «Studiare in dettaglio versioni “neonate” dei buchi neri supermassicci», continua l’astronomo, «ci permetterà di comprendere meglio come sia possibile l’esistenza dei quasar problematici».
Matthee e il suo team hanno potuto trovare questi baby quasar grazie ai dati raccolti da Eiger e Fresco, due programmi osservativi di Jwst. «Eiger è stato progettato specificamente per studiare i rari quasar supermassicci blu, e non per trovare questi piccoli punti rossi», ricorda Matthee. «Li abbiamo trovati per caso nello stesso set di dati. Ciò è dovuto al fatto che, utilizzando la fotocamera nel vicino infrarosso del Jwst, Eiger acquisisce gli spettri di emissione di qualunque oggetto». Fondamentale per determinare che questi puntini rossi sono buchi neri supermassicci è stato il rilevamento della riga di emissione spettrale dell’Hα e del suo profilo. La righe dell’idrogeno Hα appartengono alla regione rossa della luce visibile e la loro larghezza è legata al moto del gas. «Più ampia è la base delle righe di Hα, maggiore è la velocità del gas», spiega infatti il primo autore dell’articolo. «Pertanto, questi spettri ci dicono che stiamo osservando una nuvola di gas molto piccola che si muove rapidamente e orbita attorno a qualcosa di molto massiccio come, appunto, un Smbh».
Il lavoro di Matthee e del suo team non si ferma qui: poco prima della pubblicazione del loro articolo, il Space Telescope Science Institute (Stsci) ha infatti annunciato i nuovi programmi di osservazione selezionati per il terzo anno di operazioni scientifiche di Jwst, e tra questi c’è anche una proposta dell’astronomo dell’Ista – “Dissecting Little Red Dots: il legame tra la crescita precoce dei buchi neri supermassicci e la reionizzazione cosmica” – dedicata, appunto, ai baby quasar dalle sembianze di puntini rossi.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Little Red Dots: An Abundant Population of Faint Active Galactic Nuclei (AGN) at z ~ 5 Revealed by the EIGER and FRESCO JWST Surveys“, Jorryt Matthee, Rohan P. Naidu, Gabriel Brammer, John Chisholm, Anna-Christina Eilers, Andy Goulding, Jenny Greene, Daichi Kashino, Ivo Labbe, Simon J. Lilly, Ruari Mackenzie, Pascal A. Oesch, Andrea Weibel, Stijn Wuyts, Mengyuan Xiao, Rongmon Bordoloi, Rychard Bouwens, Pieter van Dokkum, Garth Illingworth, Ivan Kramarenko, Michael V. Maseda, Charlotte Mason, Romain A. Meyer, Erica J. Nelson, Naveen A. Reddy, Irene Shivaei, Robert A. Simcoe, and Minghao Yue
A caccia di fotoni oscuri con Archimedes
La caverna del laboratorio Sar-Grav, nella miniera di Sos Enattos. Crediti: Sar-Grav Team
In attesa di Einstein Telescope, nell’area dell’ex miniera di Sos Enattos, in Sardegna, sono già in corso esperimenti che stanno producendo risultati scientifici interessanti, come l’esperimento di fisica fondamentale Archimedes, coordinato dall’Infn, che ha recentemente pubblicato su The European Physical Journal Plus (Epj Plus) i suoi primi risultati, segnalati anche tra gli highlight dalla rivista.
Operativo nel laboratorio Sar-Grav a Sos Enattos, Archimedes punta a misurare l’interazione tra le fluttuazioni del vuoto elettromagnetico e il campo gravitazionale: in particolare, il gruppo di ricerca dell’esperimento ha realizzato una bilancia, prototipo di quella che sarà utilizzata per Archimedes, con una sensibilità nella banda di frequenze comprese tra i 20 e 100 millihertz, compatibile con il rumore termico. Il raggiungimento di questa sensibilità, oltre a dimostrare l’affidabilità del design ottico e meccanico della bilancia prototipo, apre la strada anche alla ricerca dei cosiddetti fotoni oscuri ultraleggeri di tipo B-L, candidati a costituire la materia oscura.
Gli obiettivi scientifici dell’esperimento Archimedes ruotano intorno al concetto di “vuoto”, che nel contesto della meccanica quantistica è in realtà tutt’altro che tale (almeno nel significato associato abitualmente a questo termine): il vuoto quantistico è infatti dotato di una sua energia, diversa da zero, ed è caratterizzato da incessanti fluttuazioni, dovute alla continua creazione e distruzione di particelle e antiparticelle. Tali fluttuazioni possono, almeno in teoria, produrre delle interazioni con gli oggetti macroscopici: Archimedes, in particolare, punta a osservare le eventuali interazioni del vuoto quantistico con il campo gravitazionale, e quindi la sua influenza sul peso dei corpi. Per riuscirci, deve operare in condizioni di assoluto silenzio sismico e antropico, requisiti garantiti dal sito di Sos Enattos – che per gli stessi motivi è considerato ideale anche per ospitare l’Einstein Telescope, futuro osservatorio di onde gravitazionali.
Il prototipo della bilancia dell’esperimento Archimedes. Crediti: Infn
La bilancia prototipo usata finora lavora a temperatura ambiente: ha un braccio in alluminio di 50 centimetri e sostiene un campione di alluminio di 200 grammi, con un contrappeso in piombo. Una prima breve sessione di misure, i cui risultati sono riportati nell’articolo pubblicato su Epj Plus, è stata già sufficiente a certificarne l’efficienza e la sensibilità, aprendo la strada al completamento della bilancia vera e propria di Archimedes. Quest’ultima sarà criogenica e potrà raggiungere una sensibilità circa dieci volte superiore rispetto al prototipo, sia grazie alla bassa temperatura sia per effetto di un miglioramento del fattore di qualità della sospensione, attualmente in fase di studio.
Ma questi risultati preliminari aprono anche altri scenari interessanti, legati in particolare alla ricerca della materia oscura, la misteriosa forma di materia che costituisce circa l’86 per cento della massa dell’intero universo, la cui natura è ancora ignota. Tra i tanti candidati di materia oscura proposti nel corso degli ultimi decenni c’è anche il fotone oscuro, una sorta di controparte del fotone elettromagnetico che fungerebbe da mediatore tra il mondo della materia ordinaria e il “settore oscuro”, composto appunto dalle ipotetiche particelle di materia oscura. A loro volta, sono stati teorizzati numerosi tipi di fotoni oscuri, dalle caratteristiche fisiche variabili.
«Tra i vari candidati rientra il cosiddetto fotone oscuro B-L: si tratta di un bosone vettoriale massivo ultraleggero sensibile al numero quantico B-L, dove B è il numero barionico e L è il numero leptonico», spiega Luigi Rosa, fisico teorico all’Università di Napoli Federico II e della Sezione Infn di Napoli. «Gli strumenti di misurazione di piccole forze si sono rivelati tra i migliori per la ricerca dei fotoni oscuri ultraleggeri».
Ed è qui che entra in gioco Archimedes: la sensibilità raggiunta dall’esperimento è infatti già tale da poter indagare l’esistenza di questo tipo di fotone oscuro, o almeno porre dei vincoli più stringenti ai valori ammessi della sua massa. «L’esperimento Archimedes, nel suo progredire verso la misura dell’interazione delle fluttuazioni di vuoto con la gravità, ha raggiunto un interessante risultato intermedio: realizzare la prima bilancia limitata dal rumore termico, nella banda di frequenze compresa tra 20 e 100 millihertz, aprendo la via alla ricerca del fotone oscuro B-L, nell’intervallo di masse compreso tra 10-16 e 10-15 elettronvolt», sottolinea il coordinatore dell’esperimento, Enrico Calloni, dell’Università di Napoli Federico II e della Sezione Infn di Napoli. «In una sola notte di presa dati, Archimedes ha raggiunto limiti compatibili con i vincoli scientifici attuali; con una raccolta dati di qualche mese, sarebbe già in grado di raggiungere una regione di rivelazione del tutto inesplorata».
Fonte: comunicato stampa Infn
Per saperne di più:
- Leggi su The European Physical Journal Plus l’articolo ‘Thermal noise-limited beam balance as prototype of the Archimedes vacuum weight experiment and B-L dark photon search”, di Annalisa Allocca, Saverio Avino, Enrico Calloni, Sergio Caprara, Massimo Carpinelli, Andrea Contu, Luca D’Onofrio, Domenico D’Urso, Rosario De Rosa, L. Errico, Marina Esposito, Gianluca Gagliardi, Marco Grilli, Valentina Mangano, Maria Marsella, Luca Naticchioni, Antonio Pasqualetti, Gianpiero Pepe, Maurizio Perciballi, Paola Puppo, Piero Rapagnani, Fulvio Ricci, Luigi Rosa, Carlo Rovelli, Davide Rozza, Paolo Ruggi, Naurang L. Saini, Valeria Sequino, Valeria Sipala, Daniela Stornaiuolo, Francesco Tafuri e Lucia Trozzo
Guarda il video (in inglese) sull’esperimento Archimedes sul canale YouTube Razor:
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Doppio appuntamento questa settimana col Gruppo #Astrofili #Faenza 🌌🔭
Mercoledì 13 dalle 21 saremo al Parco delle Ginestre con la Binocular Classroom: lezioni di #astronomia pratica all'aperto, osservando il cielo col #binocolo. Prenotazione obbligatoria
mobilizon.it/events/1ef204e7-a…
Giovedì 14 dalle 20 saremo nel cortile delle scuole Carchidio-Strocchi per osservare il cielo con i #binocoli e i #telescopi dell'associazione
mobilizon.it/events/74749ef9-e…
Non mancare!
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Una settimana per scoprire l’Astrofisica
Dal 18 al 24 marzo, con l’arrivo della primavera, l’INAF apre in tutta Italia! Segui la diretta per le scuole dedicata al Sole lunedì 18 marzo e scopri il progr#diretta #LightinAstronomy #openday #perlescuole #settimanainaf #settimanaINAF2024
Porte aperte per scoprire l’astrofisica italiana
Osservazioni del Sole al telescopio presso una sede dell’Istituto nazionale di astrofisica. Crediti: Inaf
Ritorna la primavera e anche quest’anno ritorna la “Settimana aperta Inaf”, sette giorni nei quali l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) apre le porte dei suoi osservatori e istituti di ricerca in tutta Italia per accogliere il pubblico e condividere le meraviglie dell’universo. L’iniziativa si tiene a partire dal 18 al 24 marzo, celebrando anche l’equinozio di primavera mercoledì 20 marzo.
La “Settimana aperta Inaf” prevede spettacoli, osservazioni del Sole e del cielo notturno al telescopio, tour dei laboratori di ricerca, esperienze didattiche per scuole di ogni ordine e grado, tavole rotonde, conferenze, giochi e molto altro. Sono in programma eventi a Bologna, Catania, Firenze, Milano, Napoli, Padova, Palermo e Roma, nonché presso la sede del Telescopio nazionale Galileo a La Palma, Isole Canarie.
Per lanciare l’iniziativa, lunedì 18 marzo a partire dalle 11.15 ci sarà una diretta speciale dedicata all’osservazione del Sole al telescopio, organizzata dalla redazione di EduInaf, il magazine online di didattica e divulgazione dell’Ente. La trasmissione, dal titolo “Guarda che Sole!”, fa parte della serie di dirette “Il cielo in salotto”, questa volta eccezionalmente in orario mattutino per favorire la partecipazione delle scuole di tutta Italia.
Durante la diretta, si potrà osservare il Sole con i telescopi ottici delle sedi Inaf di Napoli e Catania, per scoprirne i diversi strati e ammirare le splendide macchie solari che caratterizzano la nostra stella specialmente in questo periodo, mentre si avvicina al picco del suo ciclo di attività lungo 11 anni. Sarà possibile vedere il Sole anche da un’altra prospettiva, quella delle onde radio, grazie alle osservazioni del radiotelescopio di Medicina, vicino a Bologna, e avere un’anteprima del passaggio solare sulla linea meridiana dalla sede Inaf di Padova. Sarà possibile porre domande in diretta alle esperte e agli esperti dell’Inaf e misurare insieme a loro il diametro e la rotazione del Sole.
«Perché una settimana aperta all’Inaf? Il termine chiave qui è aperta: rappresenta il nostro impegno a spalancare le porte, reali o metaforiche che siano, del nostro istituto al pubblico, offrendo un’opportunità di incontro reale tra persone, scienziati e non, in un uno scambio reciproco di visioni del mondo», sottolinea Caterina Boccato, responsabile nazionale della didattica e divulgazione Inaf. «Penso infatti che mettere al centro le persone sia l’unica strada per far sì che la nostra società si avvii verso un futuro migliore».
Per saperne di più:
- Consulta il programma della Settimana aperta Inaf 2024
Donne del cielo: da muse a scienziate
Ritratto di Johann Hevelius ed Elisabeth Hevelius. Fonte: Biblioteca digitale tematica del Museo Galileo
Il 7 marzo, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, è stata inaugurata la mostra “Donne del cielo: da muse a scienziate”, curata con perizia da Natacha Fabbri, del Museo Galileo, insieme a Caterina Guiducci e Simona Mammana, della Biblioteca Nazionale. Basandosi su preziosi testi e antichi strumenti, la mostra realizza un mix tra letteratura e storia dell’astronomia per tracciare l’evoluzione della figura femminile in campo astronomico, per finire con una originale interpretazione artistica del lavoro di Henrietta Swan Leavitt.
La mostra si articola su sette sezioni: “Donne di stelle. Costellazioni e divinità planetarie”; “Recondite armonie. Muse, sirene e macchine del mondo; “Dignità e pregiudizio. L’astronomia per tutti”; “Nuovi sguardi su nuovi mondi. Telescopi, satelliti ed echi galileiani”; “Viaggiatrici del cosmo. Tra sogno e scienza”; “Donne di scienza. Dall’astronomia per signore alle signore dell’astronomia”; e infine “Quando il corpo è celeste. Immagini astrali sul femminile”.
Si inizia da Urania, musa dell’astronomia che sovraintende il moto dei pianeti e delle costellazioni, per passare a Beatrice nell’Empireo, in una copia di straordinaria fattura del Paradiso. Poi è la volta delle signore curiose che guardano il cielo con i primi strumenti, come la regina Maria di Francia – lo sappiamo perché esiste, ed è in mostra, una lettera dell’ambasciatore Amedeo Balbi a Galileo, che le aveva donato il cannocchiale. Ma ci sono anche le donne che aiutano i famigliari astronomi nel loro lavoro, prima fra tutte la moglie di Johannes Hevelius, Elisabetha, ritratta intenta all’opera. Con il passare del tempo le donne iniziano a reclamare il loro posto nella scienza, fino ad allora appannaggio dei soli uomini, come Emilie de Chatelet, che tradusse e commentò i Principia di Newton per renderli più comprensibili, ma anche artiste come Maria Clara Eimmart, che fece bellissime rappresentazioni della Luna che rivaleggiano con la straordinaria carta della Luna prodotta a Parigi da Giovanni Domenico Cassini. Senza dimenticare la prima donna sulla Luna con il proto-racconto di fantascienza scritto da Ernesto Capocci, direttore dell’Osservatorio di Capodimonte.
Le grandi tele dell’artista Ilaria Margutti
A fare da contorno fisico alla mostra, appese tra una colonna e l’altra della sala circolare, sette grandi tele (70 x 280 cm) ricamate dall’artista Ilaria Margutti per onorare Henrietta Swan Leavitt. L’artista, prendendo spunto dagli studi condotti dall’attenta analizzatrice di lastre celesti, ha ricamato le coordinate delle 1777 variabili delle Nubi di Magellano registrate da Henrietta Swan Leavitt tra il 1904 e il 1908. Proprio seguendo il ritmico variare di queste stelle, Henrietta, che lavorava all’osservatorio di Harvard come calcolatrice, intuì che le variazioni non erano casuali: le stelle più brillanti avevano periodi più brevi di quelli meno brillanti. Scoprendo la proporzionalità tra periodo di variazione e luminosità intrinseca delle variabili cefeidi, Henrietta fornì a Hubble il mezzo per misurare le distanze delle galassie, un passo fondamentale per arrivare alla legge di Hubble sull’espansione dell’universo. Peccato che la legge di proporzionalità per un secolo sia stata chiamata legge periodo-luminosità. È stato necessario aspettare il 2008 perché l’American Astronomical Society iniziasse a chiamarla Leavitt Law.
Proprio in omaggio a Henrietta, il cui cognome contiene la parola Swan, cigno, le tele sono intitolate “Le variabili del Cigno. Sette tele per il cielo di Henrietta Leavitt”: una licenza poetica che crea un attimo di esitazione negli astronomi, che sanno benissimo che le Nubi di Magellano non hanno niente a che vedere con la costellazione del Cigno.
Il video dell’artista che ricama fa capire l’enorme quantità di ore di lavoro dedicate alle tele dove due braccia si protendono verso le stelle di Henrietta. Viene da chiedersi chi abbia dedicato più tempo alle stelle variabili: la calcolatrice di Harvard o la ricamatrice di Firenze?
La mostra, allestita nella splendida sala Dante della Biblioteca Nazionale, rimarrà aperta fino all’8 giugno ma è, e rimarrà, fruibile online attraverso la biblioteca digitale tematica, che presenta tutte le opere esposte.
Inoltre sono stati realizzati otto brevi bellissimi video completi di accompagnamento musicale:
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Fuga di gas nel sistema planetario T Cha
Questa illustrazione mostra come potrebbe apparire il gas che lascia il disco nascente di formazione del pianeta. Crediti: Eso/M. Kornmesser
Immaginate di dover descrivere il processo di nascita e crescita di un essere umano avendo a disposizione una serie di fotografie di persone diverse in varie fasi della loro vita; e, non solo di doverle mettere in ordine, ma di dover capire quanto tempo passa da una fase alla successiva: quanto dura l’infanzia, quando si interrompe il processo di crescita, quando comincia l’invecchiamento. Ora, al posto di una persona mettete un sistema planetario, diciamo pure il Sistema solare, e provate a pensare di ricostruirne la nascita ed evoluzione guardando cento, mille altri sistemi – diversi – e in diverse fasi evolutive. Ecco, più o meno così lavorano gli astronomi. Grazie a immagini e spettri raccolti con lo strumento Miri, il Jwst ha colto alcune caratteristiche in “rapida” evoluzione di un sistema planetario in formazione, consentendo di stimare quanto tempo passerà prima che si esaurisca il gas sul disco e acquisti sembianze simili al Sistema solare. L’articolo è stato pubblicato su The Astronomical Journal.
Proviamo a costruire la storia di formazione di un sistema planetario dall’inizio. Tutto comincia con un’enorme sfera di gas e polvere, che collassa per formare una stella al centro e un disco di gas e polvere intorno ad essa. Con il tempo, le piccole particelle di polvere si uniscono in coaguli solidi più grandi, fino a formare i nuclei dei pianeti o veri e propri pianeti rocciosi. Questi, a loro volta, risucchiano poi il gas circostante per formare l’atmosfera (come, ad esempio, la Terra) o fino a diventare pianeti giganti gassosi (come, ad esempio, Giove). Una volta formatisi, questi pianeti possono scavare dei varchi nel disco di polvere, poiché raccolgono tutte le particelle presenti sul loro cammino, o utilizzare il gas per migrare e avvicinarsi o allontanarsi dalla stella.
Il sistema planetario T Cha, nella costellazione del Camaleonte, era già stato osservato da Alma a lunghezze d’onda del millimetrico e sub-millimetrico e in infrarosso dal telescopio spaziale Spitzer. Le immagini di Alma avevano mostrato un grosso varco nel disco di polveri, a indicare il fatto che il sistema è ancora in formazione, ma in una fase già evoluta ed avanzata; le osservazioni di Spitzer, in combinazione con la spettroscopia ad alta risoluzione da terra, avevano invece identificato una presenza non trascurabile di gas Neon ionizzato, mostrando che questo si stava allontanando dal disco a una velocità di circa 10-15 km/s.
Naman Sushil Bajaj, dottorando all’università dell’Arizona e primo autore dello studio pubblicato su The Astronomical Journal
«Questi sono i motivi principali per i quali abbiamo voluto osservare T Cha con il telescopio spaziale Webb», dice a Media Inaf Naman Sushil Bajaj, dottorando di origini indiane della University of Arizona, e primo autore dello studio. «Webb per noi è fondamentale perché i suoi grandi specchi rendono facile la risoluzione delle strutture di gas; in particolare, l’emissione del Neon in lento movimento non è mai stata risolta prima perché solo questo grande telescopio spaziale è in grado di farlo. La struttura di emissione ci dice molto sulla provenienza di questo gas e su quanta massa si sta perdendo e, di conseguenza, su quanto tempo impiegherà il gas a scomparire definitivamente “congelando” anche la formazione dei pianeti».
Ricapitolando, il sistema T Cha, osservato con il telescopio spaziale Webb nel nuovo studio, ha già un grande spazio nel disco di polvere, circa 20 unità astronomiche, il che significa che probabilmente si sono formati dei pianeti. Anche il gas sta lasciando il sistema, il che significa che fra qualche tempo non ce ne sarà più a disposizione e, quindi, che i pianeti non potranno più aspirarne o usarlo per muoversi o aspirarne. Si tratta dunque dell’ultima fase della formazione di questo sistema planetario. Al termine di questa, rimarranno i pianeti e gli anelli di polvere come la fascia degli asteroidi e la fascia di Kuiper nel Sistema solare.
Rimangono due cose da chiarire, però. La prima, cosa stia spingendo via il gas. La seconda, quanto tempo resta prima che questo si esaurisca.
Per rispondere alla prima, gli scenari possibili sono due. Potrebbe trattarsi di un vento di fotoni stellari ad alta energia (una sorta di vento solare), oppure potrebbe essere il campo magnetico della stella che tesse il disco di formazione dei pianeti. In un secondo lavoro dello stesso gruppo di ricerca e che, stando a quanto riportato da Bajaj, uscirà fra una settimana circa, Andrew Sellek dell’Osservatorio di Leiden ha fatto delle simulazioni di entrambi gli scenari per confrontarle con quanto osservato nel sistema. Dalle osservazioni di Webb emerge che il gas viene lanciato da circa 1,3 unità astronomiche – circa la posizione della Terra rispetto al Sole nel disco del Sistema solare – e che la massa persa ogni anno è circa quella della Luna (circa un ottantesimo di quella della Terra). Secondo le simulazioni sarebbe un quadro compatibile con la teoria della fotoevaporazione, in cui l’energia proveniente dalla stella colpisce il gas nel disco e lo riscalda, aumentando le temperature fino a migliaia di gradi e causandone l’evaporazione nello spazio circostante. Il processo è simile a quando la luce solare colpisce l’acqua nell’oceano e l’acqua evapora nell’atmosfera, qui sulla Terra.
In quanto tempo si esaurirà, quindi, il gas?
«L’aspetto più interessante del nostro lavoro è che per la prima volta abbiamo fotografato un gas che si disperde», commenta Bajaj. «E considerando le stime della massa del gas presente nel disco, possiamo dire che tutto il gas sarà scomparso entro circa 100 mila anni. Un periodo davvero breve in termini astronomici».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “JWST MIRI MRS Observations of T Cha: Discovery of a Spatially Resolved Disk Wind“, di Naman S. Bajaj, Ilaria Pascucci, Uma Gorti, Richard Alexander, Andrew Sellek, Jane Morrison, Andras Gaspar, Cathie Clarke, Chengyan Xie, Giulia Ballabio e Dingshan Deng
Dallo spazio 80 anni di cartoline della Terra
La prima immagine della Terra scattata dalla superficie di un altro pianeta. L’immagine è stata scattata dal Rover Spirit della Nasa un’ora prima dell’alba del 63esimo giorno della sua missione. Crediti: Nasa/Jpl/Cornell/Texas AM
Oggi è la Giornata internazionale dei diritti delle donne, questo lo sappiamo tutti. Molto meno nota è invece un’altra ricorrenza: in questo giorno del 2004 è stata scattata infatti la prima immagine della Terra dalla superficie di un altro pianeta. Ottenuta dal Mars Exploration Rover Spirit dalla superficie Marte, nell’immagine il nostro pianeta appariva come niente più che una piccolo puntino luminoso.
Era il 4 gennaio 2004, poco dopo l’atterraggio nel cratere Gusev, Spirit aveva già iniziato a inviare sulla Terra foto straordinarie dei suoi dintorni. L’8 marzo, dicevamo, il rover ha rivolto la sua fotocamera verso il cielo nel tentativo di fotografare la luna marziana Deimos mentre eclissava parzialmente il Sole transitando sul suo disco. Poco prima dell’alba, ciò che appare nel campo di vista dello strumento è un piccolo puntino luminoso che agli occhi degli osservatori sulla Terra sembrava molto simile a Venere: era in realtà il nostro pianeta natale. La prima fotografia della Terra da un’altra superficie planetaria, appunto.
Questa vista ci ha fornito una nuova prospettiva sul nostro pianeta natale, una prospettiva che è stata rimodellata negli ultimi ottant’anni da manufatti umani che hanno viaggiato sempre più lontano. I razzi negli anni ’40, i satelliti in orbita attorno alla Terra all’inizio degli anni ’60. E poi le navicelle con equipaggio che hanno toccato la Luna alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70. E ancora i veicoli che hanno esplorato tutti gli angoli del nostro Sistema solare: le immagini della Terra che ci hanno inviato tutte queste missioni hanno ampliato i nostri orizzonti, mostrandoci un pallido puntino blu sempre più piccolo nella vastità dello spazio. Queste immagini, e altre scattate della Terra da punti di osservazione sempre più distanti negli ultimi ottant’anni, hanno fornito una nuova prospettiva della posizione della Terra nel Sistema solare. Ripercorriamo a ritroso questa storia passando in rassegna le più belle cartoline che questi veicoli ci hanno fornito del nostro pianeta, immagini che ci hanno fatto rendere conto di quale sia il nostro posto nell’universo.
La prima immagine della Terra presa dallo spazio nel 1946 dal razzo suborbitale V-2. Crediti: Wikipedia
Partiamo dal 1946, dieci anni prima del lancio del primo satellite artificiale, Sputnik 1. In quell’anno, il 24 ottobre, gli scienziati del White Sands Missile Range, nel New Mexico, posizionano una telecamera sopra un missile balistico tedesco, il V2. Mentre il razzo volava a un’altitudine di circa 104 chilometri – appena sopra la linea di Karman, il confine generalmente riconosciuto dello spazio esterno – la fotocamera da 35 mm a bordo del missile inizia a scattare foto ogni secondo e mezzo. Pochi minuti dopo, il missile si schianta a terra a più di 500 chilometri all’ora, ma la fotocamera sopravvive, regalandoci la prima vista in assoluto della Terra dallo spazio.
Dal 1946 facciamo un salto in avanti di vent’anni e andiamo al 1966. Più precisamente al 30 maggio 1966, la data in cui satellite sovietico per le telecomunicazioni Molniya 1-3 scatta una foto che mostra la Terra: è il primo ritratto fotografia del nostro pianeta in tutta la sua interezza. E sempre al 1966 risale un altro ritratto della Terra, che segna un’altra prima volta. Scattata dal satellite Advanced Technology Satellite-1 (Ats-1) l’11 dicembre 1966, è la prima fotografia della Terra scattata da un’orbita geostazionaria.
Come potete constatare, le immagini di cui abbiamo parlato finora sono tutte in bianco e nero. Per avere una vista a colori del nostro pianeta abbiamo dovuto attendere il 1967. Il primo luglio di quell’anno, allo scopo di condurre esperimenti da un’orbita quasi geostazionaria, è stato lanciato il satellite Dodge (Department of Defense Gravitational Experiment). Il 20 settembre 1967, la telecamera in bianco e nero con campo visivo di 22 gradi a bordo del manufatto scattò tre foto separate della Terra da una distanza di circa 35mila chilometri sopra l’equatore: una con un filtro rosso, una con un verde e la terza con un filtro blu. Le immagini combinate hanno creato la prima immagine a colori della Terra dallo spazio.
A sinistra: la prima fotografia dell’intero disco della Terra, scattata nel 1966 dal satellite per telecomunicazioni sovietico Molniya 1-3. Al centro: la prima immagine della Terra scatta dall’orbita geostazionaria, dal satellite Advanced Technology Satellite-1. A destra: la prima immagine a colori dell’intera Terra ottenuta dal satellite Dodge. Crediti: Nasa
Passiamo adesso alle immagini del nostro pianeta che ci sono giunte da distanze lunari. Siamo alla fine degli anni Sessanta, dunque in piena corsa allo spazio. La Nasa vuole battere sul tempo l’Unione Sovietica e portare l’essere umano sulla Luna. Per farlo, mise in piedi il programma Lunar Orbiter, una serie di cinque sonde lanciate tra il 1966 e il 1967 il cui compito era quello di scattare delle foto dell’intera superficie lunare per identificare i siti di atterraggio adatti per le missioni Apollo. La prima a essere lanciata, il 10 agosto 1966, fu Luna Orbiter 1. La sonda raggiunse l’orbita lunare il 14 agosto dopo novantadue ore di crociera. Il 23 agosto, mentre stava emergendo dal lato nascosto della Luna, l’orbiter ha ripreso la Terra mentre sembrava sorgesse all’orizzonte lunare: è la prima immagine del nostro pianeta natale scattata dall’orbita lunare. La prima fotografia della Terra dalla superficie lunare risale invece al 30 aprile 1967. A scattarla è stata la camera di bordo del lander Surveyor 3, successivamente visitato dagli astronauti della missione Apollo 12.
A sinistra: l’iconica Earthrise, scattata durante la prima orbita dall’equipaggio dell’Apollo 8. Al centro: la prima fotografia della Terra scattata dall’equipaggio dell’Apollo 11 dalla superficie lunare. A destra: la famosa Blue Marble, scattata dagli astronauti dell’Apollo 17 nel loro viaggio verso la Luna nel 1972. Crediti: Nasa
E a proposito di missioni Apollo, passiamo agli iconici scatti che ci ha regalato il programma Nasa, che ha permesso per la prima volta nella storia dell’umanità di esplorare un altro mondo. Dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’70 le missioni Apollo hanno restituito migliaia di immagini straordinarie e memorabili oltre che della Luna anche della Terra. Tra queste, la più iconica è probabilmente Earthrise. Scattata da Bill Anders a bordo dell’Apollo 8, la prima missione con equipaggio in orbita attorno alla Luna, questa immagine a colori mostra la Terra che fa capolino dalla superficie lunare: è la prima volta che gli astronauti vedono la Terra sorgere sopra l’orizzonte lunare. Nel luglio 1969, la prima missione a portare l’essere umano sulla Luna, l’Apollo 11, ha restituito molti scatti della Terra. Tra questi, c’è anche la prima immagine del nostro pianeta ottenuta da un astronauta sulla Luna. Altrettanto iconica quanto Eathrise, è la celebre Blue Marble, una fotografia della Terra scattata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17 (l’ultima missione del Programma Apollo) a una distanza di circa 45mila km.
A sinistra: il mosaico di due immagini separate della Terra e della Luna, scattate da Mariner 10 nel 1973 mentre si dirigeva verso Venere e Mercurio. Al centro: la prima immagine del sistema Terra-Luna in un singolo fotogramma, ottenuto dalla sonda Voyager 1 nel 1977. A destra: la prima immagine della Terra scattata da una navicella spaziale interplanetaria, la sonda Galileo. Crediti: Nasa
Vediamo ora un po’ di scatti realizzati da veicoli spaziali interplanetari che, lungo il loro viaggio, hanno rivolto lo sguardo indietro verso il nostro pianeta. Partiamo con Mariner 10, la missione Nasa lanciata con l’obiettivo di studiare Venere e Mercurio. Nel novembre del 1973, pochi giorni dopo il lancio, la sonda ha scattato due foto separate della Terra e della Luna, che i tecnici hanno combinato per ottenere una foto composita. Ma la prima immagine dei due corpi celesti visibili insieme in uno scatto risale al 18 settembre 1977, quando da una distanza di circa 1.100 chilometri, la sonda Voyager 1 diretta verso Giove cattura il sistema Terra-Luna in un unico fotogramma. L’8 dicembre del 1990, due anni dopo il suo lancio, ad immortalare la Terra è la sonda Galileo. In quella data, la navicella passa a circa 1.000 chilometri dalla Terra, utilizzando il pianeta come fionda gravitazionale per deviare la sua traiettoria verso Giove. Durante il sorvolo, la sonda scatta una fotografia: è la prima immagine della Terra ottenuta da una navicella spaziale interplanetaria.
Del 1990 è anche un’altra foto straordinaria che ritrae la Terra. Stiamo parlando del “ritratto di famiglia”, un mosaico di 60 immagini, ottenute dalla sonda Voyager 1 da una distanza di 6 miliardi di chilometri, che mostra sei pianeti del Sistema solare, incluso il “pallido punto blu”: casa nostra.
“Ritratto di famiglia” ottenuto nel 1990 dalla navicella Voyager 1 quando si trovava a circa mille chilometri dalla Terra. Crediti: Nasa
Vent’anni dopo, e da una parte molto diversa del Sistema solare, arriva un altro ritratto di famiglia dei pianeti. Da vicino all’orbita di Mercurio, il 3 e 16 novembre 2010, la navicella spaziale Messenger scatta 34 immagini, che gli ingegneri hanno poi messo insieme. Il mosaico risultante mostra sei pianeti: Venere, Terra, Giove, Marte, Mercurio, Saturno e diverse lune, tra cui la nostra e le quattro lune galileiane di Giove: Callisto, Ganimede, Europa e Io.
Un’altra spettacolare immagine che mostra la Terra è quello scattata il 19 luglio 2013 da sonda Cassini. Mentre la navicella era in orbita attorno a Saturno, da una distanza di circa un miliardo di chilometri, la fotocamera grandangolare della navicella spaziale della Nasa ha catturato gli anelli di Saturno, il nostro pianeta Terra e la sua luna nella stessa inquadratura. Lo scatto fu soprannominato “Il giorno in cui la Terra sorrise”. Il motivo? Poco prima che fosse fatto, il team della missione ha incoraggiato tutti noi a sorridere guardando il cielo. L’ultima immagine di questa carrellata di foto che vi proponiamo è più recente. Anche questo è un ritratto di famiglia. Un mini ritratto, per essere precisi. Ottenuto dalla sonda Solar Orbiter dell’Esa il 18 novembre 2020, immortala Venere, Marte e la Terra in un unico fotogramma.
Qualunque sia la destinazione, i futuri esploratori dello spazio volgeranno sempre il loro sguardo indietro verso il nostro pianeta natale. Ci attendono dunque tante altre immagini Terra e del Sistema solare, la cui bellezza al momento possiamo solo immaginarla
Webb alla scoperta dei segreti di Gn-z11
Questa immagine dallo strumento NirCam (Near-Infrared Camera) del James Webb Space Telescope mostra una porzione di cielo del campo di galassie Goods-North. In basso a destra, un estratto evidenzia la galassia Gn-z11, che è vista a solo 430 milioni di anni dopo il big bang. L’immagine rivela una componente estesa che traccia la galassia ospite Gn-z11, e una sorgente centrale compatta i cui colori sono coerenti con quelli di un disco di accrescimento che circonda un buco nero. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Brant Robertson (Uc Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Marcia Rieke (University of Arizona), Daniel Eisenstein (CfA)
Libri come Orgoglio e pregiudizio dovrebbero averci insegnato che non sempre la prima impressione su qualcosa può essere esaustiva, perché, a volte, le cose sono più complesse di quanto ci aspettiamo. Questo capita spesso nella scienza, infatti, dove non sempre è possibile spiegare tutto alla prima occhiata. Nonostante questo, però, con nuove osservazioni e strumenti, spesso è possibile carpire alcuni segreti da oggetti già osservati. È proprio il caso di Gn-z11, vista per la prima volta nel 2016 dallo Hubble Space Telescope.
La galassia è una delle più giovani e distanti mai osservate – già esisteva quando l’universo, che oggi ha 13.8 miliardi di anni, aveva solo 430 milioni di anni – e così brillante che sta sfidando gli scienziati a capirne il motivo.
Quando Gn-z11 è stata osservata da due team, guidati entrambi da Roberto Maiolino del Cavendish Laboratory e del Kavli Institute of Cosmology all’Università di Cambridge (Regno Unito), con il telescopio della Nasa James Webb Space Telescope (Jwst) sono venuti alla luce alcuni dei suoi segreti.
Uno dei due team, studiando la galassia con Jwst, ha trovato la prima chiara evidenza che essa ospita al suo interno un buco nero supermassiccio centrale che sta rapidamente accrescendo materia. La loro scoperta – della quale già vi avevamo dato notizia lo scorso gennaio, quando è stata pubblicata su Nature – fa di questo il più lontano buco nero supermassiccio attivo avvistato fino a oggi.
«Abbiamo trovato del gas estremamente denso che è comune in vicinanza di un buco nero supermassiccio che sta accrescendo gas», spiega Maiolino. «Queste sono le prime chiare evidenze che Gn-z11 sta ospitando un buco nero che sta divorando materia».
Utilizzando sempre Jwst, il team ha anche individuato segni di elementi chimici ionizzati tipicamente osservati vicino a buchi neri supermassicci in accrescimento. In aggiunta, i ricercatori hanno scoperto anche un “vento” molto potente che viene espulso dalla galassia. Questi venti ad alte velocità sono tipicamente causati da processi associati a buchi neri supermassicci in vigoroso accrescimento.
«La camera per il vicino infrarosso NirCam di Webb ha rivelato una componente estesa, tracciando la galassia ospitante, e una sorgente compatta centrale i cui colori sono consistenti con quelli di un disco di accrescimento che circonda un buco nero», dice Hannah Übler, anche lei ricercatrice al Cavendish Laboratory e al Kavli Institute.
Queste evidenze insieme mostrano che Gn-z11 ospita un buco nero supermassiccio di 2 milioni di masse solari – ovvero 2 milioni di volte la massa della nostra stella – in una fase di consumo della materia estremamente attiva, che è il motivo per cui è così luminoso.
Le due immagini (cliccare per ingrandire) mostrano la prova della presenza di un grumo di elio gassoso nell’alone che circonda la galassia Gn-z11. Nell’immagine in alto, ottenuta dallo strumento NirCam, un piccolo riquadro sull’estrema destra identifica Gn-z11 nel campo delle galassie. Il riquadro centrale mostra un’immagine ingrandita della galassia. Il riquadro a sinistra mostra una mappa del’elio nell’alone di Gn-z11, includendo il grumo che non appare nei colori infrarossi mostrati nel riquadro centrale. Il grafico in basso, ottenuto invece con NirSpec, è lo spettro con le “impronte” distintive dell’elio nell’alone. Non si nota la presenza di altri elementi nell’intero spettro, e questo suggerisce che il grumo di elio debba essere molto incontaminato, fatto di gas di idrogeno ed elio derivato direttamente dal big bang, senza contaminazione alcuna – o quasi – di elementi più pesanti prodotti dalle stelle. La teoria e le simulazioni relative a galassie particolarmente massicce di quest’epoca predicono che ci debbano essere sacche di gas incontaminato che sopravvivono nel loro alone, e queste possono collassare e formare ammassi di stelle di Popolazione III. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Ralf Crawford (Stsci)
Il secondo team, sempre guidato da Maiolino, ha usato un altro strumento di Webb, lo spettrografo per il vicino infrarosso NirSpec, per trovare un grumo di elio gassoso nell’alone che circonda Gn-z11 – scoperta riportata in un articolo di prossima pubblicazione su Astronomy & Astrophysics.
«Il fatto che non vediamo nient’altro oltre l’elio suggerisce che questo grumo debba essere abbastanza incontaminato», spiega Maiolino. «Questo è qualcosa che era atteso dalla teoria e dalle simulazioni in prossimità di galassie particolarmente massicce di quest’epoca – ovvero che ci dovrebbero essere sacche di gas incontaminato che sopravvivono nell’alone, e queste potrebbero collassare e formare ammassi stellari di Popolazione III».
Le stelle di Popolazione III di cui parla Maiolino sono la prima generazione di stelle apparse nell’universo. Formate quasi interamente di idrogeno ed elio, ci si aspetta che siano molto massicce, molto luminose e molto calde. Ma non sono mai state osservate, e trovarle è uno dei più importanti obiettivi della fisica moderna. La loro traccia attesa – vale a dire, la loro firma spettroscopica – è la presenza di elio ionizzato e l’assenza di elementi chimici più pesanti dell’elio. Riuscire a vederle rappresenterebbe una svolta, in quanto la formazione delle prime stelle e galassie marchia un fondamentale salto nella storia del cosmo, storia durante la quale l’universo evolve da oscuro e “semplice” all’ambiente altamente strutturato e complesso che vediamo oggi.
Nelle future osservazioni di Webb, Maiolino, Übler e i loro team esploreranno con maggior profondità Gn-z11: la loro speranza è di riuscire a rafforzare la tesi delle stelle di Popolazione III che potrebbero trovarsi in formazione nel suo alone.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics “JWST-JADES. Possible Population III signatures at z=10.6 in the halo of GN-z11”, di Roberto Maiolino, Hannah Uebler, Michele Perna, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Callum Witten, Nicolas Laporte, Joris Witstok, Stefano Carniani, Sandro Tacchella, William Baker, Santiago Arribas, Kimihiko Nakajima, Daniel Eisenstein, Andrew Bunker, Stephane Charlot, Giovanni Cresci, Mirko Curti, Emma Curtis-Lake, Anna de Graaff, Zhiyuan Ji, Benjamin D. Johnson, Nimisha Kumari, Tobias J. Looser, Michael Maseda, Brant Robertson, Bruno Rodriguez Del Pino, Lester Sandles, Charlotte Simmonds, Renske Smit, Fengwu Sun, Giacomo Venturi, Christina Williams e Christopher Willmer
Tre nuove lune nel Sistema solare
Immagine ottenuta dal telescopio Subaru il settembre 2021 in cui è evidenziata la nuova luna di Nettuno, S/2021 N1. Con una magnitudine di 27, è la luna più flebile mai scoperta dai telescopi terrestri. Crediti: Scott Sheppard/Carnegie Institution for Science
L’annuncio è stato dato dal Minor Planet Center il 23 febbraio scorso: nella lista dei corpi celesti conosciuti del Sistema solare si aggiungono tre nuovi membri: una luna di Urano – la prima scoperta dopo oltre vent’anni – e due lune di Nettuno, una delle quali è la più flebile mai scoperta dai telescopi terrestri.
La nuova luna di Urano si chiama S/2023 U1, completa un’orbita attorno al pianeta in 680 giorni e, con un diametro di solo otto chilometri, è probabilmente la più piccola tra le lune del gigante ghiacciato. Con la sua scoperta, il numero totale di satelliti naturali conosciuti in orbita attorno al pianeta sale a 28. Avvistata per la prima volta il 4 novembre 2023 dall’astronomo Scott Sheppard del Carnegie Institution for Science, la luna è stata successivamente confermata dallo stesso Sheppard spulciando nelle immagini d’archivio catturate dal telescopio Magellano, in Cile, e dal telescopio Subaru, alle Hawaii.
Le due new entry del sistema di Nettuno, anche queste scoperte dal gruppo di Sheppard, sono S/2021 N1 e S/2002 N5. S/2021 N1 è stata avvista nel 2021 dal telescopio Subaru e confermata grazie a osservazioni con il Very Large Telescope, in Cile, e il Gemini Telescope, alle Hawaii. Ha un diametro di circa 14 chilometri e impiega 27 anni per compiere un’orbita completa attorno al pianeta. Per quanto riguarda S/2002 N5, la luna è più grande della sorella ma ha un periodo di rivoluzione più breve. Il satellite, il più luminoso dei due, ha infatti un diametro di circa 23 chilometri e impiega quasi 9 anni per orbitare attorno al pianeta. Individuato nel 2021, la sua orbita è stata confermata nel 2022 dal telescopio Magellano. La scoperta di questi due nuovi corpi celesti porta a 16 la conta delle lune del mondo più lontano del Sistema solare.
Immagine che mostra la nuova luna di Urano, S/2023 U1. Crediti: Scott Sheppard/Carnegie Institution for Science
Per scoprire le nuove lune i ricercatori hanno effettuato decine di esposizioni di cinque minuti per diverse notti. Le esposizioni così ottenute, allineate secondo il movimento apparente di ciascun pianeta, sono state successivamente combinate, ottenendo le immagini più profonde mai ottenute di Urano e Nettuno.
«Poiché le lune si muovono in pochi minuti rispetto alle stelle e alle galassie sullo sfondo, le singole lunghe esposizioni non sono ideali per catturare immagini profonde di oggetti in movimento», sottolinea a questo proposito Sheppard. «Sovrapponendo insieme queste esposizioni multiple, le stelle e le galassie appaiono con scie sullo sfondo mentre i pianeti possono essere visti come sorgenti puntiformi, facendo emergere le lune dietro il rumore di fondo nelle immagini».
Tutte le nuove lune di Urano e Nettuno hanno orbite distanti, eccentriche e inclinate. Questo, spiegano i ricercatori, suggerisce che lune siano state catturate dalla gravità di Urano e Nettuno durante o subito dopo che i pianeti si sono formati dall’anello di polvere e detriti che circondava il nostro giovane Sole. Le osservazioni, inoltre, mostrano che le lune hanno orbite con caratteristiche simili a quelle di altre lune dei rispettivi sistemi. In particolare, S/2023 U1 ha un’orbita simile a quella di Calibano e Stefano, S/2021 N1 ha un’orbita simile a quella di Psamate e Neso, mentre S/2002 N5 ha un’orbita simile a quella di Sao e Laomedea. L’esistenza di lune con caratteristiche orbitali simili, cosa osservata anche per alcuni satelliti naturali di Giove e Saturno, indica che questi corpi celesti sono satelliti fratelli, figli di una luna madre più grande andata in frantumi per via di collisioni passate con comete o asteroidi.
Ricostruita la danza di una coppia di nane brune
A guardare l’animazione delle loro traiettorie che si incrociano reciprocamente (trovate il video qui sotto), sembra di assistere a una elegante esibizione di valzer. E la coppia di “ballerini” che la interpretano è davvero speciale: non sono stelle e nemmeno pianeti, ma una via di mezzo potremmo dire. Wise J104915.57−531906.1, al secolo noto anche come Luhman 16, è infatti un sistema binario di nane brune.
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Le nane brune sono oggetti che non hanno la massa sufficiente per raggiungere nel loro interno le condizioni di temperature e pressioni necessarie all’innesco del bruciamento dell’idrogeno. Sono in pratica stelle mancate, più grandi in massa di Giove, il cui destino è un lento e inesorabile raffreddamento che le porterà a perdere la loro residua luminosità, con un ritmo che è essenzialmente dettato da quanta della loro energia primordiale riescono a irradiare attraverso la loro fotosfera.
La loro intrinseca debolezza luminosa fa sì che anche le più vicine siano debolissime, decine migliaia di volte più deboli di quello che può vedere l’occhio umano. Caratterizzare bene le poche nane brune che vediamo significa poter dedurre quante ce ne siano nella Galassia, con che frequenza si formino e che caratteristiche abbiano, in particolare se queste ospitino nei loro sistemi dei pianeti.
Le nane brune tuttavia, sono troppo deboli per qualunque survey tradizionale per cercare pianeti basata su variabiltà nella curva di luce o nella curva di velocità radiali, i due metodi principali per la ricerca dei pianeti e grazie ai quali è stata scoperta la quasi totalità dei pianeti extrasolari.
La scelta di osservare in dettaglio Luhman 16 e i moti delle sue componenti nasce dal fatto che questa è la coppia di nane brune in assoluto più vicine alla Terra, distando 6,5 anni luce da noi, e comunque il terzo sistema più prossimo al nostro Sistema solare dopo quello di Alfa Centauri e della Stella di Barnard.
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Rappresentazione artistica del sistema binario di nane brune Luhman 16. Crediti: Pablo Carlos Budassi
Data la sua vicinanza, Luhman 16 è il laboratorio ideale per studiare questi oggetti e la presenza di eventuali pianeti con un metodo alternativo, quello dell’astrometria. La ricerca astrometrica della presenza di pianeti sfrutta il movimento delle componenti di un sistema attorno al loro centro di massa. La misura dello spostamento angolare della componente luminosa osservabile permette così la caratterizzazione del pianeta orbitante, come la sua massa e il suo periodo.
Tuttavia, le nane brune, e fra queste persino anche quelle di Luhman 16, sono così deboli che anche la missione astrometrica Gaia, che ha precisioni quasi insuperabili per sorgenti più brillanti e meno rosse, riesce a malapena a scorgere Luhman 16 e a malapena a fornire misure astrometriche molto mediocri.
Per questa ragione un team di astronomi guidati da Luigi Bedin dell’Inaf di Padova sta conducendo un programma multi-ciclo con il telescopio spaziale Hubble per “monitorare” i movimenti delle due componenti del sistema Luhman 16 con una altissima precisione. E i nuovi risultati sono stati appena pubblicati in un articolo su Astronomical Notes, la rivista astronomica professionale più antica del mondo, dove Einstein e molti altri hanno pubblicato i loro studi, fra cui Bessel con la prima parallasse stellare.
«Il nostro gruppo è leader mondiale nel fare misure astrometriche con Hubble», ricorda Bedin, «arrivando a precisioni e accuratezze di meno di 50 micro secondi d’arco. Una precisione angolare che permetterebbe di percepire dalla Terra spostamenti di 10 cm sulla superficie della Luna. Queste precisioni corrispondono, alla distanza di Luhman 16 (circa 6,5 anni luce, oltre 400mila volte la distanza Terra-Sole), a un movimento di circa 10mila km».
«Questo studio», spiega Mattia Libralato, ricercatore Inaf coinvolto nel lavoro, «ci ha consentito di escludere la presenza di candidati pianeti nel sistema ipotizzati da studi precedenti, e di porre fermi limiti alla massa e periodo di pianeti che possono o non possono essere presenti nel sistema di Luhman16, l’unico per ora accessibile dal pianeta Terra con queste tecniche in questi sistemi. Ora possiamo escludere pianeti con masse circa comparabili a quelle del pianeta Nettuno e periodi fra circa un anno e circa 15 anni».
«Un prodotto fondamentale di questa ricerca è stato di poter raffinare i parametri astrometrici e quelli del sistema, che ora sono noti con accuratezza senza precedenti», aggiunge Massimo Griggio, dottorando dell’Università di Ferrara e associato Inaf, tra gli autori dello studio. «In particolare ora conosciamo le masse di due nane brune con accuratezze migliori dell’1 per cento che avranno importanti implicazioni per i modelli di evoluzione gravo-termica di questi particolarissima classe di oggetti celesti, e di riflesso sulle loro atmosfere. Queste due nane brune saranno caratterizzate per molti decenni a seguire, e saranno probabilmente fra i primi oggetti al di fuori del Sistema solare che verranno esplorati da sonde inviate dal genere umano».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomical Notes l’articolo “HST astrometry of the closest brown dwarfs-II. Improved parameters and constraints on a third body”, di L. R. Bedin, J. Dietrich, A. J. Burgasser, D. Apai, M. Libralato, M. Griggio, C. Fontanive e D. Pourbaix
A Giusi Micela il Premio “Rose Day” per le Stem
Giusi Micela, dirigente di ricerca all’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Palermo
Fondata nel 1919 a Buffalo, negli Stati Uniti, Zonta International è la più antica organizzazione di donne, ed è oggi un’organizzazione globale di oltre 26mila persone, con più di mille club Zonta in 64 paesi. Ogni anno, in occasione della Giornata internazionale della donna, i club Zonta Palermo Triscele e Zonta Palermo Zyz, che fanno parte del distretto 28 e dell’area 03 dello Zonta International, celebrano il coraggio e la determinazione di donne che contribuiscono alla loro comunità supportando altre donne nella loro formazione e professione.
Protagoniste dell’edizione 2024 sono sei professioniste che si sono distinte nei campi dell’arte, della cultura, dell’imprenditoria, della medicina, della musica e delle Stem – le discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche. La premiazione si svolgerà domani, sabato 9 marzo, a Palermo, al Museo Palazzo Branciforte, e per la categoria Stem il riconoscimento – una rosa gialla, simbolo di Zonta e del premio – andrà all’astrofisica Giusi Micela dell’Inaf di Palermo, per “aver sostenuto le donne e le ragazze nella leadership, nel processo decisionale, negli affari e nelle discipline Stem”.
«Sono profondamente onorata di ricevere questo premio», dice Micela a Media Inaf. «Non solo per il suo significato intrinseco, ma anche per la sua connessione con l’8 marzo. Ho avuto la fortuna di dedicarmi a un lavoro che amo, affiancata da un team eccezionale. Credo fermamente nell’importanza di creare un ambiente che offra a tutte le ragazze l’opportunità di studiare e perseguire i propri sogni».
Tema della campagna per la Giornata internazionale della donna 2024 è Inspire Inclusion (ispirare l’inclusione), argomento che da anni è al centro di iniziative Inaf organizzate in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Tra queste, l’incontro che si è svolto il 9 febbraio scorso proprio a Palermo e che ha permesso all’organizzazione Zonta di conoscere il lavoro e l’impegno dell’Inaf nella promozione della cultura scientifica. Momenti di riflessione come questi permettono di comprendere e sostenere il ruolo cruciale dell’inclusione nel raggiungimento dell’uguaglianza di genere per abbattere le barriere, sfidare gli stereotipi e creare ambienti in cui tutte le donne di ogni ceto sociale, comprese quelle provenienti da comunità emarginate, siano apprezzate e rispettate.
«Mi auguro che questo riconoscimento trasmetta il messaggio che la fisica e, più in generale, le cosiddette scienze “dure”, siano discipline in cui le donne possono apportare un contributo significativo con la loro intelligenza e creatività», conclude Micela. «Spero che questo premio sia di ispirazione per tutte le ragazze e dimostrare che ogni sogno è possibile con impegno e passione».
Per saperne di più
- Scarica il comunicato stampa dell’evento, con l’elenco di tutte le donne premiate
Australia, al via l’installazione di Ska-Low
Le prime antenne Ska-Low sono state installate in Australia Occidentale. Crediti: Skao
Prende forma il telescopio Ska-Low dell’Osservatorio Ska (Skao) in Australia occidentale: è iniziata ieri, mercoledì 6 marzo, l’installazione delle prime antenne a dipolo segnando un grande passo avanti nella costruzione di Skao. Il progetto, una volta terminato, sarà il più grande radiotelescopio al mondo, con antenne a bassa frequenza (50 MHz – 350 MHz) in Australia e antenne paraboliche a media frequenza (Ska-Mid) in Sudafrica.
Le prime, dicevamo, di ben 131.072 antenne dalla curiosa forma ad “albero di Natale”, alte due metri e che comporranno, una volta dispiegate tutte, il radiotelescopio dell’Inyarrimanha Ilgari Bundara, l’Osservatorio radioastronomico Murchison (di Csiro), nel paese della comunità Wajarri. Le antenne verranno distribuite tra 512 stazioni (256 antenne per stazione), attraverso una regione di 74 chilometri e un’area di raccolta di 419mila m², il che significa che anche il segnale più debole potrà essere rilevato, combinato e potenziato in un modo mai stato possibile prima.
Sei i paesi dietro la progettazione del telescopio Ska-Low: Australia, Cina, Italia, Malta, Paesi Bassi e Regno Unito. L’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha ottimizzato l’ultimo progetto di antenna (Aavs2) in collaborazione con l’Istituto di elettronica e di ingegneria dell’informazione e delle telecomunicazioni (Cnr-Ieiit) e il partner industriale Sirio Antenne, basandosi su progetti precedenti sviluppati all’interno del consorzio internazionale. Sirio si è aggiudicata l’appalto per la produzione delle prime 77mila antenne a dipolo per il telescopio.
Le antenne prototipo del telescopio Ska-Low, Osservatorio Ska. Crediti: J. Monari/Inaf
«Il viaggio che ha portato alla progettazione, realizzazione e installazione di queste prime antenne», racconta Jader Monari, responsabile della Stazione radioastronomica di Medicina (Bo) dell’Inaf, «è stata un’esperienza fantastica, durata quasi oltre 20 anni. L’Italia è fortemente coinvolta nel progetto Ska, in particolare per le antenne Ska-Low: basti pensare che il modello di antenna installato oggi in Australia è stato creato utilizzando il prototipo ideato e realizzato da Inaf in collaborazione con il Cnr-Ieiit e l’azienda italiana Sirio Antenne – a partire da precedenti generazioni di antenne Skala progettate nel framework del consorzio “Aperture Array Design and Construction” sotto la guida olandese di Astron. Certo le sfide logistiche e pratiche legate alla distribuzione dell’array su un sito remoto dall’altra parte del pianeta sono moltissime, ma queste antenne ripagheranno di ogni fatica una volta messe in funzione».
Ska-Low consentirà agli scienziati di esplorare il primo miliardo di anni dopo la cosiddetta età oscura dell’universo. «Questi telescopi sono gli strumenti del futuro, ci permetteranno di testare le teorie di Einstein e di osservare lo spazio in modo più dettagliato», dice Phil Diamond, direttore generale di Skao. «Con queste antenne in Australia osserveremo la nascita e la morte delle prime stelle e galassie, raccogliendo preziosi indizi su come si è evoluto l’universo».
Dall’altra parte dell’Oceano Indiano, in Sudafrica, un traguardo simile è imminente per il telescopio a medie frequenze, che alla fine comprenderà 197 parabole. I componenti per le prime parabole Ska-Mid sono arrivati a Karoo a febbraio e l’assemblaggio è ora in corso.
Come crescono i buchi neri? La parola all’A.I.
Una coppia di galassie a disco nelle fasi finali di una fusione. Crediti: Nasa
Quando sono attivi, i buchi neri supermassicci svolgono un ruolo cruciale nell’evoluzione delle galassie. Finora si pensava che la loro crescita – o meglio, il loro accrescimento – fosse innescata dalla violenta collisione di due galassie seguita dalla loro fusione, ma una nuova ricerca condotta dall’Università di Bath suggerisce che le fusioni di galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare un buco nero: è necessaria anche una riserva di gas freddo al centro della galassia ospite.
Il nuovo studio, pubblicato questa settimana sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è il primo a utilizzare l’apprendimento automatico per classificare le fusioni di galassie con l’obiettivo specifico di esplorare la relazione tra fusioni di galassie, accrezione di buchi neri supermassicci e formazione stellare.
Finora, le fusioni venivano classificate (spesso in modo errato) solo attraverso l’osservazione umana. «Quando gli esseri umani cercano le fusioni di galassie, non sempre sanno cosa stanno guardando e usano molto l’intuito per decidere se è avvenuta una fusione», dice Mathilda Avirett-Mackenzie, dottoranda presso il Dipartimento di fisica dell’Università di Bath e prima autrice della ricerca. «Addestrando una macchina a classificare le fusioni, si ottiene una lettura molto più veritiera di ciò che le galassie stanno effettivamente facendo».
Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire cosa stanno cercando gli autori e perché.
I buchi neri supermassicci si trovano al centro di tutte le galassie massive (per intenderci, la Via Lattea, con circa 200 miliardi di stelle, è solo una galassia di medie dimensioni). Questi buchi neri “sovradimensionati” pesano in genere da milioni a miliardi di volte la massa del Sole. Per la maggior parte della loro vita sono quiescenti, ossia se ne stanno tranquilli mentre la materia gli orbita intorno, e hanno un impatto minimo sulla galassia nel suo complesso. Ma per brevi fasi della loro vita (brevi solo su scala astronomica e molto probabilmente della durata di milioni o centinaia di milioni di anni), sfruttano la forza gravitazionale per attirare verso di sé grandi quantità di gas (un evento, questo, noto come accrezione), dando origine a un disco luminoso che può oscurare l’intera galassia.
Sono queste brevi fasi di attività le più importanti per l’evoluzione delle galassie, poiché le massicce quantità di energia rilasciate dall’accrezione possono influire sul modo in cui si formano le stelle all’interno delle galassie stesse. È per un valido motivo, quindi, che stabilire che cosa fa muovere una galassia tra i suoi due stati – quiescenza e formazione stellare – è una delle più grandi sfide dell’astrofisica.
Per decenni, i modelli teorici hanno suggerito che i buchi neri supermassicci entrano nella fase di accrezione quando le galassie si fondono. Tuttavia, studiando la connessione tra le fusioni di galassie e la crescita dei buchi neri per molti anni, gli astrofisici hanno messo in discussione questi modelli con una semplice domanda: come possiamo identificare in modo affidabile le fusioni di galassie?
Situate a circa 65 milioni di anni luce di distanza, le Antenne – note anche come Ngc 4038 e Ngc 4039 – sono chiuse in un abbraccio mortale. Entrambe le galassie un tempo erano tranquille spirali come la Via Lattea, ma la coppia ha trascorso le ultime centinaia di milioni di anni ad avvinghiarsi l’una con l’altra. Nell’immagine è evidente come le stelle, strappate dalle loro galassie ospiti, abbiano formato un arco di flusso tra le due. Crediti: Esa, Nasa
L’ispezione visiva è stato il metodo comunemente più utilizzato. I classificatori umani – esperti o cittadini scienziati – osservano le galassie e identificano asimmetrie elevate o lunghe code mareali (regioni sottili e allungate di stelle e gas interstellare che si estendono nello spazio), entrambe associate a fusioni di galassie. Tuttavia, questo metodo osservativo richiede molto tempo e non è affidabile, poiché è facile che gli esseri umani commettano errori di classificazione. Di conseguenza, gli studi sulle fusioni danno spesso risultati contraddittori. Per il nuovo studio, i ricercatori si sono posti la sfida di migliorare il modo in cui le fusioni vengono classificate, studiando la connessione tra la crescita dei buchi neri e l’evoluzione delle galassie attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale. Hanno addestrato una rete neurale su fusioni di galassie simulate, quindi hanno applicato questo modello alle galassie osservate nel cosmo.
In questo modo sono riusciti a identificare le fusioni senza pregiudizi umani e a studiare la connessione tra le fusioni di galassie e la crescita dei buchi neri. Hanno dimostrato che la rete neurale supera i classificatori umani nell’identificazione delle fusioni, mentre i classificatori umani tendono a confondere galassie regolari con delle fusioni.
Applicando questa nuova metodologia, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che le fusioni non sono fortemente associate alla crescita dei buchi neri. Le firme di fusione sono ugualmente comuni nelle galassie con e senza buchi neri supermassicci in fase di accrescimento.
Utilizzando un campione estremamente ampio di circa 8mila sistemi di buchi neri in accrescimento – che ha permesso al team di studiare la questione in modo estremamente dettagliato – si è scoperto che le fusioni portano alla crescita di buchi neri solo in un tipo molto specifico di galassie: galassie in formazione stellare contenenti quantità significative di gas freddo. Questo dimostra che le fusioni di galassie da sole non sono sufficienti ad alimentare i buchi neri supermassicci: devono essere presenti anche grandi quantità di gas freddo per consentire la crescita del buco nero.
«Per formare le stelle, le galassie devono contenere nubi di gas freddo in grado di collassare in stelle. Processi altamente energetici come l’accrezione di buchi neri supermassicci riscaldano questo gas, rendendolo troppo energetico per collassare o facendolo uscire dalla galassia», spiega Avirett-Mackenzie, aggiungendo: «In una notte limpida, è possibile individuare questo processo in tempo reale con la Nebulosa di Orione – una grande regione di formazione stellare nella nostra galassia, la più vicina alla Terra – dove si possono vedere alcune stelle che si sono formate di recente e altre che si stanno ancora formando».
«Finora tutti studiavano le fusioni nello stesso modo, attraverso una classificazione visiva. Con questo metodo, utilizzando classificatori esperti in grado di individuare caratteristiche più sottili, eravamo in grado di esaminare solo un paio di centinaia di galassie, non di più», afferma Carolin Villforth. «L’utilizzo dell’apprendimento automatico apre invece un campo completamente nuovo e molto stimolante, in cui è possibile analizzare migliaia di galassie alla volta. Si ottengono risultati coerenti su campioni molto ampi e, in qualsiasi momento, si possono esaminare molte proprietà diverse di un buco nero».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “A post-merger enhancement only in star-forming Type 2 Seyfert galaxies: the deep learning view” di M. S. Avirett-Mackenzie, C. Villforth, M. Huertas-Company, S. Wuyts, D. M. Alexander, S. Bonoli, A. Lapi, I. E. Lopez, C. Ramos Almeida e F. Shankar
Nessuno tocchi Apophis
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Il Kitt Peak National Observatory in Arizona, da dove nel 2004 è stato scoperto Apophis. Crediti: Kpno/Noirlab/Nsf/Aura/B. Tafreshi Photo
Il 19 giugno 2004, quasi 20 anni fa, Roy Tucker, David Tholen e Fabrizio Bernardi dall’osservatorio di Kitt Peak (Arizona) scoprirono l’asteroide near-Earth 2004 MN4, ora noto come (99942) Apophis. Questo asteroide, per diversi mesi dopo la scoperta, è stato il corpo minore con la più alta probabilità di impatto con la Terra, che crollò a zero appena fu possibile disporre di un numero sufficiente di osservazioni astrometriche. Dal punto di vista dinamico l’asteroide si muove su un’orbita inclinata di pochi gradi sul piano dell’eclittica con un semiasse maggiore di 0,9227 unità astronomiche (au) e un’eccentricità di 0,1914 che viene percorsa in circa 324 giorni. Questo significa che al perielio l’asteroide arriva fino a 0,746 au dal Sole, mentre all’afelio si porta a 1,099 au. Come si vede si tratta di un asteroide su un’orbita di tipo Aten, come tale trascorre la maggior parte del tempo all’interno dell’orbita terrestre ed è per questo motivo che le osservazioni astrometriche sono difficili: per lo più l’asteroide è troppo vicino al Sole per poter essere osservato agevolmente.
Dalla meccanica celeste sappiamo che non vi è alcun rischio che Apophis possa colpire il nostro pianeta per almeno un secolo, anche se la sera del 13 aprile 2029 alle 21:46 Utc, l’asteroide passerà a circa 37400 km dal centro della Terra. Considerate le dimensioni non indifferenti, circa 350 metri di diametro, e la distanza ridotta Apophis potrà essere visto in cielo, a occhio nudo, brillante come una stella di terza grandezza e in sensibile movimento sulla sfera celeste: sarà il primo asteroide a essere chiaramente visibile a occhio nudo.
In attesa del flyby di Apophis possiamo riflettere sul fatto che la frase “Apophis non colliderà con la Terra per almeno un secolo”, vale solo nell’ipotesi – sottointesa – che non ci siano “interferenze” da parte di altri corpi minori del Sistema solare. Di solito, quando si propaga la posizione di un asteroide avanti nel tempo, si tiene conto sia della gravità del Sole, sia di quella dei pianeti e degli asteroidi maggiori e anche dell’effetto della radiazione solare, ma nelle simulazioni numeriche non si includono tutti i corpi minori noti. In effetti questi ultimi potrebbero anche collidere con il nostro asteroide e cambiarne l’orbita, com’è avvenuto a Dimorphos quando è stato colpito dalla sonda Dart della Nasa. Potrebbe succedere una cosa del genere ad Apophis? Potrebbe, la collisione con un altro asteroide, immettere Apophis su un’orbita di impatto con la Terra? Si tratta di un evento assai improbabile, ma considerate le dimensioni ragguardevoli di Apophis e la ridotta distanza del flyby con la Terra meglio esserne davvero sicuri. Tanto più che non è solo un problema di collisione diretta di Apophis con un altro asteroide: anche i passaggi ravvicinati potrebbero essere rischiosi per l’eventuale presenza di satelliti o massi, dovuti a una precedente collisione o a un’attività di superficie dell’asteroide principale.
Questa è la domanda che si è posto l’astronomo Paul Wiegert del Dipartimento di fisica e astronomia dell’Università del Western Ontario (Canada) che, insieme al collega Ben Hyatt (Università di Waterloo, Canada), ha cercato di ottenere una risposta. Il problema, in linea di principio, è apparentemente facile: si prendono tutti i corpi minori conosciuti (circa 1,3 milioni fra asteroidi e comete), e se ne propaga in avanti nel tempo l’orbita per vedere se da qui al flyby del 2029 ne esiste qualcuno che possa trovarsi a distanza ravvicinata con Apophis. Dal punto di vista pratico una cosa del genere richiederebbe tantissimo tempo computazionale, quindi bisogna prima di tutto ridurre il numero dei potenziali asteroidi che possono interferire con Apophis. Wiegert e Hyatt hanno preso in considerazione due cataloghi di corpi minori: lo Small-Body Database, mantenuto dal Jet Propulsion Laboratory della Nasa (con 1,3 milioni di asteroidi e comete) e il NeoDyS-2 database, mantenuto dalla SpaceDyS di Pisa per conto dell’Esa (con circa 32mila oggetti near-Earth). Da questi cataloghi sono stati subito eliminati asteroidi e comete che non possono intersecare l’orbita di Apophis perché hanno il perielio più grande dell’afelio del nostro o viceversa. Questa prima scrematura ha ridotto il catalogo del Jpl a circa 30mila oggetti che sono stati analizzati ulteriormente, insieme a tutti quelli di NeoDyS-2, calcolandone la Moid (Minimum Orbit Intersection Distance) con l’orbita di Apophis. Alla Moid, la distanza minima che possono raggiungere due corpi che si muovono su orbite diverse, è stato posto un limite superiore a 0,001 au: tutti i corpi minori con Moid superiore a questo limite (pari a circa 150mila km), sono stati eliminati. In questo step gli elementi orbitali di ciascun oggetto sono stati mantenuti costanti, ossia sono state trascurate le perturbazioni gravitazionali dei pianeti. Così sono rimasti 376 oggetti del catalogo Jpl e 396 del catalogo NeoDyS-2, con 322 comuni alle due liste. A questo punto sono state propagate numericamente le orbite nel futuro (stavolta tenendo conto delle perturbazioni gravitazionali planetarie, ma senza includere l’effetto Yarkowsky) usando duemila cloni per ogni asteroide generati dalla matrice di covarianza, in modo tale da tenere in dovuto conto le incertezze orbitali intrinseche per ogni asteroide. Dalle simulazioni numeriche sono stati estratti solo gli asteroidi aventi almeno un clone con una Moid inferiore a 10mila km rispetto all’orbita di Apophis e con una differenza di tempo di volo, inferiore a 12 ore. Il tempo di volo è il tempo per andare dalla posizione corrente alla Moid, quando la differenza è zero si ha la collisione.
L’unico asteroide che ha ben mille cloni che rispettano queste condizioni in entrambi i database è risultato il near-Earth (4544) Xanthus per il 25 dicembre 2026, con una Moid di 9600 km e una differenza di tempo di volo di -4 ore: Xanthus, che ha un diametro stimato di 1,3 km, passerà alla Moid 4 ore dopo Apophis e la distanza minima fra i due asteroidi sarà di oltre 500mila km. Non esistono satelliti noti per Xanthus, e anche se ci fossero sarebbero troppo vicini al corpo principale per poter collidere con Apophis. Inoltre si tratta di un asteroide che non si è mai mostrato attivo e anche la perturbazione gravitazionale che eserciterà su Apophis nel passaggio alla minima distanza avrà effetti trascurabili. Dai calcoli sono usciti altri asteroidi che rispettano i criteri di cui sopra, come 2009 JG2, 2016 FB12, 2022 KN3 o 2016 CL18, ma le probabilità di collisione sono in tutti i casi zero. Eventualmente questi asteroidi potranno essere osservati per vedere se si tratta di asteroidi attivi che possano avere disseminato l’orbita con massi di varie dimensioni che possano colpire Apophis, ma la probabilità è estremamente bassa. In sostanza, fino al 2029 possiamo stare tranquilli; Apophis non devierà dalla sua orbita per effetto di collisioni con altri corpi minori noti.
Naturalmente noi non conosciamo tutti i corpi minori del Sistema solare. Ad esempio si stima che i piccoli asteroidi near-Earth di qualche metro di diametro siano circa un paio di miliardi. Si tratta di asteroidi che colpiscono la Terra e si disintegrano in atmosfera in media ogni due settimane e che in qualche caso vengono scoperti poche ora prima di colpire il nostro pianeta, come è successo recentemente per 2023 CX1 e 2024 BX1. In effetti Apophis potrebbe collidere con un asteroide ancora sconosciuto di piccole dimensioni e questo potrebbe cambiare l’orbita quel tanto che basta per collidere con la Terra nel 2029. Quanto è probabile uno scenario del genere? Considerato che il rapporto fra la “sezione d’urto” della Terra e di Apophis è circa un miliardo possiamo aspettarci una collisione di Apophis con i piccoli asteroidi near-Earth circa una volta ogni 10 milioni di anni. Anche l’imprevisto è assai improbabile, per quanto riguarda Apophis si può stare tranquilli.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su Planetary Science Journal “Encounter circumstances of asteroid 99942 Apophis with the catalogue of known asteroids”, di Paul Wiegert e Ben Hyatt
Antenne astrometriche per onde gravitazionali
Mariateresa Crosta, ricercatrice all’Osservatorio astrofisico dell’Inaf di Torino e prima autrice dello studio sulle antenne astrometriche per onde gravitazionali pubblicato su Scientific Reports. Crediti: Federica Santucci/Inaf Torino
La recente conferma sperimentale delle onde gravitazionali con le grandi antenne lineari Ligo e Virgo ha dato grande impulso alla ricerca e caratterizzazione fisica di candidate sorgenti di onde gravitazionali, aggiungendo un tassello fondamentale all’astrofisica multi-messaggera. Nuovi esperimenti da Terra sono in procinto di unirsi agli sforzi di rivelazione e la missione Lisa implementerà modalità simili ma specializzate per lo spazio. L’obiettivo primario di tali imprese – e di quelle a venire, come l’Einstein Telescope – è la completa caratterizzazione delle onde gravitazionali, ovvero la determinazione in ampiezza e frequenza della deformazione spazio-temporale associata, insieme all’individuazione della direzione delle possibili sorgenti, al fine di scoprire la natura fisica delle stesse attraverso campagne osservative multi-lunghezza d’onda e multi-messaggere, nonché l’astrofisica di oggetti compatti e il loro ruolo nella cosmologia.
Un nuovo approccio sperimentale, illustrato in un articolo a guida Inaf pubblicato la settimana scorsa su Scientific Reports, promette ora una rivoluzione nel settore: usare le stelle – e in particolare le variazioni della loro distanza angolare indotte dalla perturbazione dello spaziotempo – come rivelatori di onde gravitazionali. Alternativo alle altre tecniche, unito all’utilizzo di configurazioni ottiche a più linee di vista “convogliate” su un piano focale comune, il rilevamento astrometrico di onde gravitazionali consentirebbe di misurare contemporaneamente all’ampiezza, e con un’accuratezza senza precedenti, anche la direzione di arrivo dei segnali gravitazionali: un’informazione, quest’ultima, fondamentale per le campagne di caratterizzazione fisica multi-frequenza e multi-messaggera. E rappresenterebbe uno strumento ad altissima efficienza: consentirebbe non solo una verifica indipendente e complementare delle altre tecniche, ma anche di rilevare onde gravitazionali a frequenze per le quali non sono attualmente previsti altri rivelatori.
«L’idea nasce da un’intuizione derivata dai modelli di relatività generale per le misure astrometriche al micro-arcosecondo del satellite Gaia», spiega la prima autrice dello studio, Mariateresa Crosta dell’Inaf di Torino. «La sua originalità sta nella sua impostazione tutta differenziale. L’antenna astrometrica da noi proposta utilizza direttamente l’angolo tra una coppia stretta (anche solo prospettica) di due sorgenti puntiformi otticamente risolte. Infatti, come formalizzato nel lavoro pubblicato, la perturbazione angolare indotta da un’onda gravitazionale risulta direttamente proporzionale alla distorsione spaziotemporale a essa associata e inversamente proporzionale all’angolo (risolto) tra la coppia di stelle, pertanto amplificata dalla risoluzione del telescopio, aumentando la quale si risolvono separazioni sempre più strette. In perfetta analogia “duale” con le antenne lineari, l’angolo della coppia di stelle materializza un braccio angolare: così come aumentando la lunghezza ‘L’ del braccio di un’antenna lineare l’effetto della perturbazione diventa più facile da misurare, è risolvendo angoli sempre più piccoli che possiamo aumentare la misurabilità dell’effetto dell’onda gravitazionale indotto su un braccio (angolare)».
Facendo ricorso a sorgenti in cielo, il principio ricorda per alcuni aspetti quello alla base del Pulsar Timing Array (Pta), grazie al quale è stato possibile rivelare per la prima volta un brusio di fondo dovuto a onde gravitazionali a bassissima frequenza. Mentre il Pulsar Timing Array misura i residui degli intervalli di tempo di arrivo del segnale nella rete di pulsar riconducibili a variazioni dello spazio-tempo indotte da un’onda gravitazionale, l’antenna astrometrica misura, in pratica, la parte spaziale del segnale. Il vantaggio della formulazione differenziale, ovvero in termini di angoli tra le sorgenti in cielo, consente di riscrivere una funzione di correlazione, di costruire una “rete” tra i vari punti del cielo, in tutto simile a quella del Pulsar Timing Array. «Difatti stiamo approntando una versione digitale di questo nostro nuovo principio di osservazione astrometrico per le onde gravitazionali in modo da sfruttare le misure astrometriche di Gaia, accumulate in dieci anni e più di osservazioni, per confrontarci, e complementarci, proprio con il Pta e vedere coincidenze per onde gravitazionali con periodi di anni», dice Crosta.
Insomma, l’idea – sostengono gli autori dello studio – promette di essere un punto di svolta nella scienza delle onde gravitazionali, che è appena agli inizi e resterà alla frontiera della ricerca scientifica per molti decenni. Certo, oggigiorno non esiste un telescopio capace di misurare variazioni angolari originate da onde gravitazionali prodotte da oggetti compatti in fase di coalescenza alle distanze extragalattiche. «Tuttavia», osserva Crosta, «una prima simulazione nel caso di buchi neri stellari massicci binari (per esempio, tra 20 e 80 masse solari) in pre-coalescenza che emettono segnali (quasi) periodici con frequenze dai centesimi ai decimi di Hz, ovvero con periodi dai 100 ai 10 secondi, indica che la variazione angolare indotta dall’onda gravitazionale potrebbe essere oltre la soglia delle decine di milionesimi di arcosecondo fino a distanze di cinquemila parsec dal Sole. E una facility come il Very Large Telescope Interferometer (Vlti) dell’Eso ha già una risoluzione angolare dell’ordine del millesimo di arcosecondo, equivalente – come riportato nel sito dell’Eso – a distinguere i due fari di un’automobile alla distanza della Luna. Stiamo di fatto valutando di testare il principio dell’antenna astrometrica gravitazionale. Va stabilito ovviamente un tempo di puntamento sufficiente a garantire la copertura di più periodi dell’onda, auspicando che oggetti così massicci esistano in numero sufficiente nella nostra galassia».
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Pinpointing gravitational waves via astrometric gravitational wave antennas”, di Mariateresa Crosta, Mario Gilberto Lattanzi, Christophe Le Poncin-Lafitte, Mario Gai, Qi Zhaoxiang e Alberto Vecchiato
Mille tonnellate d’ossigeno al giorno per Europa
Questa vista della luna ghiacciata di Giove, Europa, è stata catturata dalla JunoCam a bordo della sonda Juno della Nasa durante il sorvolo ravvicinato della missione il 29 settembre 2022. Per una vista 3d della luna cliccate qui. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/SwRI/Msss, Kevin M. Gill
Gli scienziati della missione Juno della Nasa hanno calcolato che il tasso di produzione di ossigeno sulla luna gioviana Europa è considerevolmente inferiore rispetto a quanto indicato dalla maggior parte degli studi precedenti. Pubblicati il 4 marzo su Nature Astronomy, i risultati sono stati ottenuti misurando il degassamento dell’idrogeno dalla superficie della luna ghiacciata utilizzando i dati raccolti dallo strumento Jovian Auroral Distributions Experiment (Jade).
Gli autori dell’articolo stimano che la quantità di ossigeno prodotta sia di circa 12 chilogrammi al secondo. Le stime precedenti variavano da pochi chilogrammi a oltre 1.000 chilogrammi al secondo. Quindi, anche se questi nuovi valori sono sensibilmente inferiori di quanto si pensava, la luna gioviana genera circa 1.000 tonnellate di ossigeno ogni 24 ore, sufficienti a far respirare un milione di esseri umani per un giorno.
Con un diametro equatoriale di circa 3.100 chilometri, Europa è la quarta più grande delle 95 lune conosciute di Giove e la più piccola dei quattro satelliti galileiani. Gli scienziati pensano che sotto la sua crosta ghiacciata si nasconda un vasto oceano di acqua salata e sono curiosi di sapere se sotto la superficie esistano condizioni adatte alla vita.
Non è solo l’acqua ad attirare l’attenzione degli astrobiologi: anche la posizione della luna gioviana gioca un ruolo importante in termini di potenzialità biologiche. L’orbita di Europa la colloca proprio al centro della cintura di radiazioni del gigante gassoso. Le particelle cariche, o ionizzate, provenienti da Giove bombardano la sua superficie ghiacciata, scindendo le molecole d’acqua e generando ossigeno che potrebbe finire nell’oceano della luna. Ossigeno che potrebbe costituire una fonte di energia metabolica.
«Europa è come una palla di ghiaccio che perde lentamente acqua in un flusso. Solo che, in questo caso, il flusso è costituito da un fluido di particelle ionizzate trasportate intorno a Giove dal suo straordinario campo magnetico», spiega Jamey Szalay, scienziato di Jade dell’Università di Princeton nel New Jersey. «Quando queste particelle ionizzate impattano con Europa, rompono il ghiaccio d’acqua molecola per molecola sulla superficie per produrre idrogeno e ossigeno. In un certo senso, l’intero guscio di ghiaccio viene continuamente eroso da ondate di particelle cariche che si riversano su di esso».
Questa illustrazione mostra le particelle cariche provenienti da Giove che impattano sulla superficie di Europa, scindendo le molecole di acqua congelata in molecole di ossigeno e idrogeno. Gli scienziati ritengono che parte di questo ossigeno appena creato potrebbe migrare verso l’oceano sotterraneo della luna, come illustrato nell’immagine a lato. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Pu
Mentre Juno stava orbitando a meno di 354 chilometri da Europa, alle 23:36 del 29 settembre 2022, Jade ha identificato e misurato gli ioni di idrogeno e ossigeno creati dal bombardamento di particelle cariche e poi “raccolti” dal campo magnetico di Giove mentre passava accanto alla luna. «Quando la missione Galileo della Nasa ha sorvolato Europa, ci ha aperto gli occhi sulla complessa e dinamica interazione di Europa con il suo ambiente. Juno ha portato una nuova capacità di misurare direttamente la composizione delle particelle cariche rilasciate dall’atmosfera di Europa e non vedevamo l’ora di sbirciare ulteriormente dietro il sipario di questo emozionante mondo acquatico», racconta Szalay. «Ma non avevamo capito che le osservazioni di Juno ci avrebbero dato un vincolo così stretto sulla quantità di ossigeno prodotta sulla superficie ghiacciata di Europa».
Juno trasporta ben undici strumenti scientifici all’avanguardia progettati per studiare il sistema gioviano, tra cui nove sensori di particelle cariche e di onde elettromagnetiche per studiare la magnetosfera di Giove. «La nostra capacità di volare vicino ai satelliti galileiani durante la missione estesa ci ha permesso di iniziare ad affrontare un’ampia gamma di ricerche scientifiche, tra cui alcune opportunità uniche di contribuire all’indagine sull’abitabilità di Europa», dichiara Scott Bolton del Southwest Research Institute di San Antonio, principal investigator di Juno. «E non abbiamo ancora finito. Ci aspettano altri sorvoli della luna e la prima esplorazione dell’anello vicino di Giove, nonché della sua atmosfera polare».
La produzione di ossigeno è uno dei tanti aspetti che la missione Europa Clipper della Nasa analizzerà quando arriverà su Giove, nel 2030. La missione ha un sofisticato carico utile di nove strumenti scientifici per determinare se Europa presenta condizioni che potrebbero essere adatte alla vita.
Ora Bolton e il resto del team della missione Juno stanno puntando gli occhi su un altro mondo gioviano, la luna Io, ricca di vulcani. Il 9 aprile, la sonda si avvicinerà a circa 16.500 chilometri dalla sua superficie. I dati raccolti da Juno andranno ad aggiungersi ai risultati dei precedenti sorvoli di Io, tra cui due avvicinamenti estremamente ravvicinati di circa 1.500 chilometri il 30 dicembre 2023 e il 3 febbraio 2024.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Oxygen production from dissociation of Europa’s water-ice surface” di J. R. Szalay, F. Allegrini, R. W. Ebert, F. Bagenal, S. J. Bolton, S. Fatemi, D. J. McComas, A. Pontoni, J. Saur, H. T. Smith, D. F. Strobel, S. D. Vance, A. Vorburger e R. J. Wilson
Gli Ufo? Si vedono meglio nel West
Immagine che mostra un Uap. Il fotogramma è stato estratto dal video “Tic Tac Object: Unidentified Anomalous Phenomena“. Crediti: United States Navy
Sono fenomeni avvistati in aria, in mare o nello spazio la cui natura non è immediatamente spiegabile. Vengono descritti come oggetti tipicamente di forma sferica o ovale, che viaggiano ad alte velocità senza apparenti mezzi di propulsione. Sul loro conto ci sono molti punti interrogativi, ma una cosa è certa: a oggi non ci sono prove che siano il prodotto di tecnologie aliene.
Siamo parlando dei fenomeni anomali non identificati, unidentified anomalous phenomena (Uap), in inglese. Chiamati fino al 2020 Ufo, acronimo di unidentified flying objects, cioè oggetti volanti non identificati, nel corso degli anni sono stati segnalati numerosi avvistamenti di questi misteriosi fenomeni. E tra i paesi con il maggior numero di segnalazioni ci sono gli Stati Uniti d’America, che da qualche anno a questa parte ha manifestato maggiore interesse verso la questione, soprattutto in considerazione dei potenziali rischi per la sicurezza e l’incolumità delle persone che gli Uap potrebbero rappresentare. Prova ne è l’istituzione nel 2022 dell’All-Domain Anomaly Resolution Office (Aaro), un nuovo ufficio incaricato di portare avanti gli sforzi del governo per migliorare la raccolta dei dati, standardizzare i requisiti di segnalazione e mitigare – appunto – le potenziali minacce alla sicurezza. O ancora la conversione in legge, nel 2023, del National Defense Authorization Act 2024, un testo che, tra le altre cose, ridefinisce la politica relativa a questi fenomeni anomali attraverso la costituzione di un registro unico delle segnalazioni (la Unidentified Anomalous Phenomena Records Collection), l’istituzione di un comitato di revisione dei documenti e l’esercizio, da parte del governo federale, dell’esproprio di tutte le tecnologie di origine sconosciuta e le prove biologiche di intelligenza non umana eventualmente recuperate.
Ma torniamo alla questione degli avvistamenti. Uno tra i canali non ufficiali a disposizione dei cittadini statunitensi per inviare segnalazioni relative a Uap è il National Ufo Reporting Center (Nuforc), un’organizzazione non governativa che dal 1974, anno in cui è stata fondata, riceve, registra e documenta gli avvisi di rilevamento di tali oggetti. Avvisi che riportano informazioni sull’avvistamento (data, luogo, descrizione dell’oggetto, eccetera) e che non hanno alcuna pretesa di validità, precisa il team del Reporting Center, sebbene venga fatto un lavoro di scrematura delle segnalazioni palesemente false, riservando una pagina a quelle più credibili. Dal 1994 a oggi, il sito web del Nuforc conta 180.442 segnalazioni.
Ora un team di ricercatori guidati dall’Università dello Utah, negli Usa, ha utilizzato questi rapporti per condurre un interessante lavoro di ricerca. L’obiettivo? Capire se esiste una correlazione tra queste segnalazioni e l’area geografica da cui provengono. E, in caso affermativo, comprendere quali sono i fattori locali dai quali dipende la maggiore o minore propensione all’avvistamento di Uap. I risultati della ricerca sono pubblicati alla fine dello scorso anno su Scientific Reports.
Fonte: R. M. Medina et al., Scientific Reports, 2023
Le segnalazioni oggetto dello studio sono quelle pubblicate dal Nuforc dal 2001 al 2020, per un totale di circa 98mila report. Analizzando questo set di dati, e utilizzando un indice basato sul numero di rapporti di avvistamenti per 10mila persone per contea, i ricercatori hanno costruito una mappa che mostra la distribuzione geografica degli avvistamenti di Uap. Osservando tale mappa (qualcosa di simile è stata prodotta anche in Italia sulla base di avvistamenti segnalati all’Aeronautica Militare, ne abbiamo parlato qui su Media Inaf), quello che salta immediatamente agli occhi è che esistono aree con un maggior numero di avvistamenti, quelle che gli autori chiamano “punti caldi” (hot spot), e aree dove invece vi è un basso numero di segnalazioni, i cosiddetti “punti freddi” (cold spot). Dunque sì: esiste una correlazione tra le segnalazioni di avvistamenti di Uap e l’area geografica da cui provengono. Sono punti caldi Washington, l’Oregon, il Nevada e l’Arizona, ampie porzioni del New Mexico e dello Utah. Praticamente quasi tutti gli stati occidentali – il cosiddetto West, insomma. Spostandoci nella parte opposta, più precisamente a nord-est, il New England è un altro punto caldo, con il Vermont, il New Hampshire e il Maine, che ha registrato il maggior numero di avvistamenti. Eccetto altri hot spot isolati qua e là, tutte le altre aree degli Stati Uniti sono cold spot.
Quello che si sono chiesti a questo punto i ricercatori è perché in alcune località ci sono più avvistamenti di Uap rispetto ad altre. La risposta a questa domanda è emersa dall’analisi di cinque variabili, utilizzate dai ricercatori come attributi per definire ciascuna area geografica: tre sono variabili associate all’ambiente fisico, in particolare alla copertura del cielo, due sono invece legate all’attività aerea. Le variabili sono: inquinamento luminoso, copertura nuvolosa, copertura da parte della chioma di alberi, vicinanza ad aeroporti e installazioni militari.
I risultati di questa ulteriore indagine suggeriscono che la maggior parte delle segnalazioni di avvistamenti di Uap provengono dalla parte occidentale degli Stati Uniti per via della particolare geografia di queste aree. I punti caldi sono infatti risultati perlopiù essere aree caratterizzate da molti spazi aperti e cieli tersi. In pratica, spiegano i ricercatori, le persone segnalano più avvistamenti dove hanno una visione migliore del cielo. L’analisi ha inoltre mostrato che esiste una stretta relazione tra punti caldi, presenza di traffico aereo e attività militare, il che fa supporre che in questi luoghi le persone vedano meglio il cielo, individuino oggetti reali ma probabilmente non riconoscano cosa siano.
«L’idea è che se hai la possibilità di vedere qualcosa, allora è più probabile che vedrai fenomeni inspiegabili nel cielo», dice a questo proposito Richard Medina, professore di geografia presso l’Università dello Utah e primo autore dello studio. «Il West ha un rapporto storico con gli Uap. L’Area 51 in Nevada, Roswell nel New Mexico e lo Skinwalker Ranch e la struttura militare Dugway Proving Ground dell’esercito statunitense qui nello Utah, sono alcuni esempi che lo testimoniano. Inoltre, c’è una folta comunità di amanti della vita all’aria aperta che si dedica ad attività ricreative tutto l’anno. Essendo all’esterno, le persone guardano verso il cielo».
Come dicevamo in apertura, l’istituzione dell’All-Domain Anomaly Resolution Office e la conversione in legge del National Defense Authorization Act 2024 indicano che il governo statunitense vuole comprendere meglio questi misteriosi fenomeni, soprattutto in considerazione della minaccia che essi possono rappresentare per la sicurezza. E studi come questo dimostrano che gli Uap sono sotto i riflettori anche della comunità scientifica.
«Il governo degli Stati Uniti – l’esercito, l’intelligence e le agenzie civili – deve capire cosa c’è negli ambiti operativi per garantire la sicurezza e la protezione della nazione e del suo popolo», dice a questo proposito Sean Kirkpatrick, direttore dell’All-Domain Anomaly Resolution Office, professore di fisica all’Università della Georgia e co-autore dello studio. «Le incognite sono inaccettabili in questa epoca di sensori onnipresenti e disponibilità di dati. La comunità scientifica ha la responsabilità di indagare ed educare».
«Nel nostro studio», concludono i ricercatori, «non facciamo ipotesi su ciò che le persone vedono, diciamo solo che vedranno di più quando e dove ne avranno l’opportunità. Affrontiamo la questione degli Uap con cautela, sia per la complessità dell’argomento che per la sensibilità dei dati disponibili. La posizione del governo statunitense in questo senso è che “gli Uap pongono chiaramente un problema di sicurezza del volo e possono rappresentare una sfida alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Indipendentemente da ciò che vedono le persone, siano essi piloti militari, piloti civili o semplici cittadini, esiste una potenziale minaccia, che cresce man mano che crescono le nostre incertezze. I nostri risultati ci fanno fare un passo avanti verso la comprensione di queste minacce».
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “An environmental analysis of public UAP sightings and sky view potential” di R. M. Medina, S. C. Brewer e S. M. Kirkpatrick
Jwst osserva la più antica fra le galassie morte
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Immagine Jwst in falsi colori di una piccola frazione del campo Goods South, con Jades-Gs-z7-01-Qu in evidenza. Questo tipo di galassia è estremamente rara. Crediti: Jades Collaboration
Era il 1979 quando Neil Young pubblicò Rust never sleeps, un album che si apre con un brano che ha segnato la storia del rock: My My, Hey Hey (Out Of The Blue). E di quel brano, un verso è diventato leggenda: “It’s better to burn out than to fade away”. Ecco, protagonista dello studio pubblicato oggi su Nature è una galassia che, nelle prime centinaia di milioni di anni di vita dell’universo, ha anticipato il senso del celebre verso: a differenza della maggior parte delle galassie, lei è bruciata subito… invece di spegnersi lentamente.
Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, un team internazionale di astronomi guidato dalla Università di Cambridge ha individuato la galassia “morta” quando l’universo aveva appena 700 milioni di anni. Si tratta della più antica galassia di questo tipo mai osservata. Si chiama Jades-Gs-z7-01-Qu. È vissuta intensamente ed è morta giovane: la formazione stellare al suo interno è avvenuta rapidamente e si è fermata quasi altrettanto rapidamente, il che è inaspettato per una fase così precoce dell’evoluzione dell’universo. Tuttavia, non è chiaro se il suo stato di estinzione – quenching, in inglese – sia temporaneo o permanente, e cosa l’abbia portata a smettere di formare nuove stelle.
I risultati pubblicati su Nature potrebbero essere importanti per aiutare gli astronomi a capire come e perché le galassie smettono di formare nuove stelle, e se i fattori che influenzano la formazione stellare sono cambiati nel corso di miliardi di anni.
«Le prime centinaia di milioni di anni dell’universo sono state una fase molto attiva, con molte nubi di gas che collassavano per formare nuove stelle», spiega Tobias Looser del Kavli Institute for Cosmology, primo autore del lavoro. «Le galassie hanno bisogno di una grande quantità di gas per formare nuove stelle e l’universo primordiale era come un buffet a volontà».
«Solo più tardi nell’universo cominciamo a vedere le galassie che smettono di formare stelle, a causa di un buco nero o di qualcos’altro», dice il coautore Francesco D’Eugenio, anche lui del Kavli Institute for Cosmology.
Gli astronomi ritengono che la formazione stellare possa essere rallentata o arrestata da diversi fattori, tutti in grado di privare una galassia del gas di cui ha bisogno per formare nuove stelle. Fattori interni, come un buco nero supermassiccio o il feedback della formazione stellare, possono spingere il gas fuori dalla galassia, causando un rapido arresto della formazione stellare. In alternativa, il gas può essere consumato molto rapidamente dalla formazione stellare stessa, senza essere prontamente reintegrato da gas “fresco” proveniente dai dintorni della galassia, con conseguente inedia della galassia.
«Non siamo sicuri che uno di questi scenari possa spiegare ciò che abbiamo visto con Webb», dichiara Roberto Maiolino. «Finora, per comprendere l’universo primordiale, abbiamo utilizzato modelli basati sull’universo moderno. Ma ora che possiamo vedere molto più indietro nel tempo e osservare che la formazione stellare in questa galassia si è spenta così rapidamente, i modelli basati sull’universo moderno potrebbero dover essere rivisti».
Grazie ai dati di Jades (Jwst Advanced Deep Extragalactic Survey), gli autori hanno determinato che la galassia ha vissuto un breve e intenso periodo di formazione stellare in un arco di tempo compreso tra 30 e 90 milioni di anni. Ma tra i 10 e i 20 milioni di anni prima del momento in cui è stata osservata con Webb, la formazione stellare si è improvvisamente interrotta.
«Tutto sembra accadere più velocemente e più drammaticamente nell’universo primordiale, e questo potrebbe valere anche per le galassie, che passano da una fase di formazione stellare a una fase di quiescenza o di spegnimento», osserva Looser.
Gli astronomi avevano già osservato galassie morte nell’universo primordiale, ma questa è la più antica: appena 700 milioni di anni dopo il Big Bang, più di 13 miliardi di anni fa. Questa osservazione è una delle più profonde mai effettuate con Webb.
Oltre a essere la più antica, questa galassia ha anche una massa relativamente bassa – circa la stessa della Piccola Nube di Magellano, una galassia nana vicina alla Via Lattea, sebbene quest’ultima stia ancora formando nuove stelle. Altre galassie nell’universo primordiale erano molto più massicce, ma la maggiore sensibilità di Webb permette di osservare e analizzare galassie più piccole e meno luminose.
Sebbene appaia morta al momento dell’osservazione, è possibile che nei circa 13 miliardi di anni successivi sia tornata in vita e abbia ricominciato a formare nuove stelle. «Stiamo cercando altre galassie come questa nell’universo primordiale, che ci aiuteranno a porre alcuni vincoli su come e perché le galassie smettono di formare nuove stelle», conclude D’Eugenio. «Potrebbe darsi che le galassie dell’universo primordiale “muoiano” e poi riprendano vita: avremo bisogno di altre osservazioni per capirlo».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Discovery of a quiescent galaxy at z=7.3” di Tobias J. Looser, Francesco D’Eugenio, Roberto Maiolino, Joris Witstok, Lester Sandles, Emma Curtis-Lake, Jacopo Chevallard, Sandro Tacchella, Benjamin D. Johnson, William M. Baker, Katherine A. Suess, Stefano Carniani, Pierre Ferruit, Santiago Arribas, Nina Bonaventura, Andrew J. Bunker, Alex J. Cameron, Stephane Charlot, Mirko Curti, Anna de Graaff, Michael V. Maseda, Tim Rawle, Hans-Walter Rix, Bruno Rodríguez Del Pino, Renske Smit, Hannah Übler, Chris Willott, Stacey Alberts, Eiichi Egami, Daniel J. Eisenstein, Ryan Endsley, Ryan Hausen, Marcia Rieke, Brant Robertson, Irene Shivaei, Christina C. Williams, Kristan Boyett, Zuyi Chen, Zhiyuan Ji, Gareth C. Jones, Nimisha Kumari, Erica Nelson, Michele Perna, Aayush Saxena and Jan Scholtz
Spolverata di vita sulla Terra primordiale
Un asteroide che si frantuma produce molta polvere cosmica che raggiunge la Terra. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech
Prima che la vita esistesse sulla Terra, doveva esserci già una chimica in grado di formare molecole organiche complesse partendo da semplici elementi fondamentali come azoto, zolfo, carbonio e fosforo. Non solo: affinché le necessarie reazioni chimiche si inneschino e si mantengano, questi elementi devono essere presenti in abbondanza e con un rifornimento costante. Eppure questi “ingredienti” erano scarsamente presenti sul nostro pianeta – e scarseggiano tuttora: come può quindi essersi formata la vita?
Gli stessi processi geologici, come l’erosione delle rocce causata dagli agenti atmosferici, non sarebbero stati sufficienti a garantire un approvvigionamento adeguato di elementi chimici, scarseggiando anch’essi nella crosta terrestre dell’epoca. Da qui il mistero: come è stato possibile che, nei primi 500 milioni di anni della storia della Terra, si sia sviluppata una chimica prebiotica in grado di portare alle molecole organiche complesse – Rna, Dna, acidi grassi e proteine – alla base di ogni forma di vita? Da dove sono arrivate le quantità necessarie di zolfo, fosforo, azoto e carbonio?
Gli autori di uno studio guidato dal geologo Craig Walton del Politecnico di Zurigo, pubblicato il mese scorso su Nature Astronomy, ritengono che questi elementi chimici siano arrivati sulla Terra principalmente sotto forma di polvere cosmica. Polvere che, agli albori della storia del nostro pianeta, pioveva dallo spazio in quantità pari a milioni di tonnellate all’anno, e che ancora oggi cade sulla Terra al ritmo di circa 30mila tonnellate all’anno. È una polvere ricca di azoto, carbonio, zolfo e fosforo che si produce, per esempio, quando gli asteroidi si scontrano tra loro, per poi disperdersi con grande facilità – tanto che, su larga scala, non esiste luogo del Sistema solare in cui se ne riscontrino concentrazioni più elevate che altrove.
Questi due aspetti – dispersione e scarsa concentrazione – sembrerebbero in contrasto con l’ipotesi dei ricercatori. «Ma se si tiene conto dei processi di trasporto le cose cambiano», osserva Walton. I risultati da lui ottenuti in collaborazione con esperti di sedimentazione e astrofisici dell’Università di Cambridge mostrano, infatti, che sulla Terra primitiva potevano esserci siti con una concentrazione estremamente elevata di polvere cosmica, costantemente rifornita dallo spazio. Per arrivare a queste conclusioni, gli autori dello studio hanno sviluppato un modello computerizzato in grado di simulare la quantità di polvere cosmica caduta sulla Terra nei primi 500 milioni di anni della storia del nostro pianeta e i processi di accumulo al suolo, includendo le possibili interferenze del vento, della pioggia o dei fiumi, che potrebbero aver raccolto la polvere cosmica su una vasta area depositandola in luoghi circoscritti.
Sedimenti e polvere cosmica si raccolgono nei buchi di fusione dei ghiacciai facilitando lo sviluppo della chimica prebiotica. Crediti: Kertu Liis Krigul
Ma dove andava a depositarsi la polvere cosmica se, come sostiene la maggior parte degli scienziati, la Terra è stata ricoperta da un oceano di magma per milioni di anni? «Ricerche più recenti hanno dimostrato che la superficie terrestre si è raffreddata e solidificata molto rapidamente, formando grandi calotte di ghiaccio», osserva a questo proposito Walton. Ebbene proprio queste calotte di ghiaccio, stando alle simulazioni, potrebbero essere state l’ambiente migliore per l’accumulo di polvere cosmica: i fori di fusione sulla superficie del ghiacciaio – noti come crioconiti, formazioni polverose con una combinazione di piccole particelle di roccia, fuliggine e batteri – avrebbero permesso l’accumulo non solo di sedimenti ma anche di grani di polvere provenienti dallo spazio. Ed è lì che, nel corso del tempo, gli elementi chimici sarebbero stati rilasciati dalle particelle di polvere cosmica, fino a che – raggiunto il valore soglia critico della loro concentrazione nell’acqua glaciale – sarebbero iniziate le reazioni chimiche che hanno portato alla formazione delle molecole organiche più complesse.
«Il freddo non interrompe la chimica organica, anzi: le reazioni sono più selettive e specifiche a basse temperature che ad alte temperature», nota Walton. Altri studi hanno dimostrato in laboratorio che semplici acidi ribonucleici (Rna) a forma di anello si formano spontaneamente in queste “zuppe di acqua di fusione” a temperature prossime al congelamento, e riescono a replicarsi. Rimarrebbe comunque da capire come queste reazioni avvengano, considerando che, a basse temperature, gli elementi necessari per costruire le molecole organiche si dissolvono solo molto lentamente dalle particelle di polvere.
Schema di deposizione sedimentaria di crioconite ricca di polvere cosmica. a) I depositi a cielo aperto possono esistere al di sopra della falda acquifera locale, mentre i depositi diluiti si trovano al suo interno. b) i depositi di crioconite sono racchiusi su tutti i lati da ghiaccio debolmente poroso e ghiaccio freddo impermeabile. c) i depositi di crioconite sono instabili e la maggior parte di essi sarà drenata in tempi pluriennali. Nei laghi proglaciali potrebbe verificarsi un accumulo a lungo termine di specie derivate dalla polvere. Crediti: Nature Astronomy
Per il team di ricerca, il prossimo passo sarà quello di verificare sperimentalmente la nuova teoria in laboratorio, utilizzando grandi recipienti di reazione per ricreare le condizioni iniziali su quelle che probabilmente esistevano in un buco di crioconite quattro miliardi di anni fa, e osservando se effettivamente si sviluppano reazioni chimiche come quelle che producono molecole biologicamente rilevanti.
Nell’attesa, la tesi avanzata da Walton è destinata ad avviare un dibattito nella comunità scientifica. Già infatti nel 18esimo secolo gli scienziati ritenevano che gli “elementi della vita” – riscontrati in grandi quantità nelle rocce provenienti dallo spazio, ma non in quelle terrestri – potessero arrivati sulla Terra con le meteoriti. «L’idea delle meteoriti sembra convincente, ma c’è un problema», spiega Walton, puntando il dito sul fatto che una singola meteorite fornisce queste sostanze solo in un ambiente limitato: il luogo in cui colpisce il suolo è casuale e non sono garantiti ulteriori “rifornimenti” di materiale. «Ritengo improbabile che l’origine della vita dipenda da pochi pezzi di roccia sparsi in modo casuale. La polvere cosmica arricchita, al contrario, penso sia una fonte plausibile».
Per saperne di più:
- Leggisu Nature Astronomy l’articolo “Cosmic dust fertilization of glacial prebiotic chemistry on early Earth. Nature Astronomy”, di Craig R. Walton, Jessica K. Rigley, Alexander Lipp, Robert Law, Martin D. Suttle, Maria Schönbächler, Mark Wyatt e Oliver Shorttle
Il tenero abbraccio dei gemelli
Aspetto della Luna piena del 25 marzo da immagini della sonda Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro) della Nasa
La prima Luna piena di primavera, che quest’anno cade il 25 marzo, scandendo anche la data della Pasqua, ci riserva una sorpresa piuttosto stravagante: un’eclissi parziale di penombra, piuttosto complicata e praticamente impossibile da osservare in Italia. L’eclissi di penombra accade quando la Luna entra nella penombra della nostra Terra. È questa un’eclissi poco scenografica e il calo di luminosità della Luna è piuttosto lieve. Inoltre avviene quando la Luna sta per tramontare, al mattino presto: la Luna entrerà nella penombra alle 5:51 e tramonterà poco dopo. Il massimo dell’eclissi si avrà alle 8:12 con la Luna sotto l’orizzonte, così pure l’uscita dalla penombra alle 10:32. Meglio goder della Luna piena quando è alta nella notte. Sorgerà poco prima delle sette di sera e passerà al meridiano alla mezzanotte. Chi è nottambulo può godere del suo rilassante chiaro di luna.
Facendo un passo indietro, la primavera inizierà il 20 del mese. In questo giorno l’asse di rotazione terrestre giace in un piano perpendicolare alla congiungente Terra-Sole e quindi all’equatore il Sole sarà allo zenith, e in tutto il globo il dì e la notte avranno la stessa durata. Da quel giorno in avanti, nel nostro emisfero boreale, le ore di luce supereranno quelle della notte.
Il giorno 3 e il giorno 20 la Luna sarà poi vicinissima ad Antares. L’allineamento è visibile prima dell’alba in direzione dell’orizzonte sudest a partire dalle due e mezza del mattino, quando Antares sorgerà, e visibile fino all’alba con i due astri prossimi al meridiano sud. Sarà interessante vedere Antares arancione e la Luna argentea. Un’occasione per carpire le differenze cromatiche tra la luce del Sole riflessa dalla Luna e quella della supergigante rossa dello Scorpione.
I giorni vicini alla Luna nuova sono i migliori per osservare deboli galassie e nebulose, chiamate appunto “oggetti di profondo cielo”, generalmente osservabili con l’ausilio di un telescopio e cieli bui. In effetti è il mese ideale per osservare le galassie nella costellazione del Leone e l’ammasso di galassie nella Vergine e nella Chioma di Berenice. Le tre costellazioni culminano al meridiano quando il cielo è già buio. Sono tante le galassie di Messier visibili con telescopi amatoriali. Ad esempio M51 nella costellazione dei Cani da Caccia, appena sotto il timone dell’asterismo del Grande Carro, è un ottimo bersaglio per essere osservata con un telescopio anche piccolo, prossima allo zenith. Tuttavia, chi avesse soltanto un binocolo potrebbe cercare di osservare la stella 55 Cancri, nella costellazione del Cancro. Un sistema in realtà doppio con la stella principale simile al nostro Sole, chiamata anche Copernicus, e la stella secondaria una nana rossa – entrambe distanziate circa 41 anni luce da noi. Il sistema stellare ha cinque pianeti conosciuti orbitanti intorno alla stella principale.
La costellazione dei gemelli nella notte del 18 marzo, con la luna nel mezzo del loro abbraccio.
Curioso notare che oltre ad avere un pianeta probabilmente costituito da lava (55 Cancri e), nel 2003 è stato mandato, verso questo sistema planetario, un messaggio, denominato Cosmic Call 2. Arriverà nel 2044 e speriamo che chi semmai lo riceverà non sia un vecchio imperatore arrabbiato ma una civiltà che riporti un po’ di umanità nel nostro pianeta.
Segnaliamo due panorami stellari interessanti. Il 13 marzo la Luna, con la sua falce sottile, appena dopo la Luna nuova, tramonterà vicino e in congiunzione con Giove. I due astri saranno visibili dopo il tramonto del Sole in direzione ovest e si avvicineranno sempre più all’orizzonte fino a toccarlo poco dopo le dieci di sera. Il 14 del mese, la Luna si troverà tra l’ammasso aperto delle Pleiadi e Giove. Saranno inizialmente osservabili dopo il tramonto del Sole a circa una cinquantina di gradi sopra l’orizzonte, e, attraversando l’orizzonte ovest, si avvicineranno sempre più al loro tramonto.
E in ultimo, per chi non ha confidenza con le costellazioni e non ha mai visto quella dei Gemelli, il 18 marzo è un’occasione speciale: in questo giorno la Luna sarà in mezzo alla costellazione dei Gemelli, un po’ in basso rispetto alle due stelle principali Castore e Polluce. Con un po’ di immaginazione possiamo pensare il nostro satellite proprio all’altezza del loro tenero abbraccio!
Guarda su MediaInaf Tv la videoguida al cielo del mese a cura di Fabrizio Villa:
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